Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Giacomo Leopardi II

Operette morali

1824-1832

Testi

I. Storia del genere umano
II. Dialogo di Ercole e di Atlante
III. Dialogo della Moda e della Morte
IV. Proposta di premi fatta all’Accademia dei Sillografi
V. Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
VI. Dialogo di Malambruno e di Farfarello
VII. Dialogo della Natura e di un’Anima
VIII. Dialogo della Terra e della Luna
IX. La scommessa di Prometeo
X. Dialogo di un fisico e di un metafisico
XI. Dialogo della Natura e di un Islandese
XII. Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare
XIII. Il Parini, ovvero Della Gloria
XIV. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
XV. Detti memorabili di Filippo Ottonieri
XVI. Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Guitierrez
XVII. Elogio degli uccelli
XVIII. Cantico del gallo silvestre
XIX. Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco
XX. Dialogo di Timandro e di Eleandro
XXI. Copernico
XXII. Dialogo di Plotino e Porfirio
XXIII. Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere
XXIV. Dialogo di Tristano e di un amico

 

I. STORIA DEL GENERE UMANO

Narrasi che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti bambini, e fossero nutricati dalle api, dalle capre e dalle colombe nel modo che i poeti favoleggiarono dell’educazione di Giove. E che la terra fosse molto più piccola che ora non è, quasi tutti i paesi piani, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e apparisse nel mondo molto minore varietà e magnificenza che oggi non vi si scuopre. Ma nondimeno gli uomini compiacendosi insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo e la terra, maravigliandosene sopra modo e riputando l’uno e l’altra bellissimi e, non che vasti, ma infiniti, così di grandezza come di maestà e di leggiadria; pascendosi oltre a ciò di lietissime speranze, e traendo da ciascun sentimento della loro vita incredibili diletti, crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione di felicità. Così consumata dolcissimamente la fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età più ferma, incominciarono a provare alcuna mutazione. Perciocchè le speranze, che eglino fino a quel tempo erano andati rimettendo di giorno in giorno, non si riducendo ancora ad effetto, parve loro che meritassero poca fede, e contentarsi di quello che presentemente godessero, senza promettersi verun accrescimento di bene, non pareva loro di potere, massimamente che l’aspetto delle cose naturali e ciascuna parte della vita giornaliera, o per l’assuefazione o per essere diminuita nei loro animi quella prima vivacità, non riusciva loro di gran lungo così dilettevole e grata come a principio. Andavano per la terra visitando lontanissime contrade, poichè lo potevano fare agevolmente, per essere i luoghi piani, e non divisi da mari, nè impediti da altre difficoltà; e dopo non molti anni, i più di loro si avvidero che la terra, ancorchè grande, aveva termini certi, e non così larghi che fossero incomprensibili e che tutti i luoghi di essa terra e tutti gli uomini, salvo leggerissime differenze, erano conformi gli uni agli altri. Per le quali cose cresceva la loro mala contentezza di modo che essi non erano ancora usciti dalla gioventù, che un espresso fastidio dell’esser loro gli aveva universalmente occupati. E di mano in mano nell’età virile, e maggiormente in sul declinare degli anni, convertita la sazietà in odio, alcuni vennero in sì fatta disperazione, che non sopportando la luce e lo spirito, che nel primo tempo avevano avuti in tanto amore, spontaneamente, quale in uno e quale in altro modo, se ne privarono.

Parve orrendo questo caso agli Dei, che da creature viventi la morte fosse preposta alla vita, e che questa medesima in alcun suo proprio soggetto, senza forza di necessità e senza altro concorso, fosse instrumento a disfarlo. Nè si può facilmente dire quanto si maravi-gliassero che i loro doni fossero tenuti così vili ed abbominevoli, che altri dovesse con ogni sua forza spogliarseli e rigettarli parendo loro aver posta nel mondo tanta bontà e vaghezza, e tali ordini e condizioni, che quella stanza avesse ad essere, non che tollerata, ma sommamente amata da qualsivoglia animale, e dagli uomini massimamente, il qual genere avevano formato con singolare studio a maravigliosa eccellenza. Ma nel medesimo tempo, oltre all’essere tocchi da non mediocre pietà di tanta miseria umana quanta manifestavasi dagli effetti, dubitavano eziandio che rinnovandosi e moltiplicandosi quei tristi esempi, la stirpe umana fra poca età, contro l’ordine dei fati, venisse a perire, e le cose fossero private di quella perfezione che risultava loro dal nostro genere, ed essi di quegli onori che ricevevano dagli uomini.

Deliberato per tanto Giove di migliorare, poichè parea che si richiedesse, lo stato umano, e d’indirizzarlo alla felicità con maggiori sussidi, intendeva che gli uomini si querelavano principalmente che le cose non fossero immense di grandezza, nè infinite di beltà, di perfezione e di varietà, come essi da prima avevano giudicato; anzi essere angustissime, tutte imperfette, e pressochè di una forma; e che dolendosi non solo dell’età provetta, ma della natura, e della medesima gioventù, e desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano ferventemente di essere tornati nella fanciullezza, e in quella perseverare tutta la loro vita. Della qual cosa non potea Giove soddisfarli, essendo contraria alle leggi universali della natura, ed a quegli uffici e quelle utilità che gli uomini dovevano, secondo l’intenzione e i decreti divini, esercitare e produrre. Nè anche poteva comunicare la propria infinità colle creature mortali, nè fare la materia infinita, nè infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini. Ben gli parve conveniente di propagare i termini del creato, e di maggiormente adornarlo e distinguerlo: e preso questo consiglio, ringrandì la terra d’ogn’intorno, e v’infuse il mare, acciocchè, interpo-nendosi ai luoghi abitati, diversificasse la sembianza delle cose, e impedisse che i confini loro non potessero facilmente essere conosciuti dagli uomini, interrompendo i cammini, ed anche rappresentando agli occhi una viva similitudine dell’immensità. Nel qual tempo occuparono le nuove acque la terra Atlantide, non solo essa, ma insieme altri innumerabili e distesissimi tratti, benchè di quella resti memoria speciale, sopravvissuta alla moltitudine dei secoli. Molti luoghi depresse, molti ricolmò suscitando i monti e le colline, cosperse la notte di stelle, rassottigliò e ripurgò la natura dell’aria, ed accrebbe il giorno di chiarezza e di luce, rinforzò e contemperò più diversamente che per l’addietro i colori del cielo e delle campagne, confuse le generazioni degli uomini in guisa che la vecchiezza degli uni concorresse in un medesimo tempo coll’altrui giovanezza e puerizia. E risolutosi di moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere della sostanza), e volendo favorire e pascere le coloro immaginazioni, dalla virtù delle quali principalmente comprendeva essere proceduta quella tanta beatitudine della loro fanciullezza; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare), creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli non vedeva modo a ridurre in atto, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo, se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale.

Fu per questi provvedimenti di Giove ricreato ed eretto l’animo degli uomini, e rintegrata in ciascuno di loro la grazia e la carità della vita, non altrimenti che l’opinione, il diletto e lo stupore della bellezza e dell’immensità delle cose terrene. E durò questo buono stato più lungamente che il primo, massime per la differenza del tempo introdotta da Giove nei nascimenti, sicchè gli animi freddi e stanchi per l’esperienza delle cose, erano confortati vedendo il calore e le speranze dell’età verde. Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll’estinto. All’ultimo tutti i mortali si volsero all’empietà, o che paresse loro di non essere ascoltati da Giove, o essendo propria natura delle miserie indurare e corrompere gli animi eziandio più bennati, e disamorarli dell’onesto e del retto. Perciocchè s’ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l’infelicità umana dall’iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità.

Ora poichè fu punita dagli Dei col diluvio di Deucalione la protervia dei mortali e presa vendetta delle ingiurie, i due soli scampati dal naufragio universale del nostro genere, Deucalione e Pirra, affermando seco medesimi niuna cosa potere maggiormente giovare alla stirpe umana che di essere al tutto spenta, sedevano in cima a una rupe chiamando la morte con efficacissimo desiderio, non che temessero nè deplorassero il fato comune. Non per tanto, ammoniti da Giove di riparare alla solitudine della terra; e non sostenendo, come erano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera alla generazione; tolto delle pietre della montagna, secondo che dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo le spalle, restaurarono la specie umana. Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quando meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due. L’una mescere la loro vita di mali veri; l’altra implicarla in mille negozi e fatiche, ad effetto d’intrattenere gli uomini, e divertirli quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità.

 

 

Quindi primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure: parte volendo, col variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e crescere colla opposizione dei mali il pregio de’ beni; parte acciocchè il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti esercitati in cose peggiori, molto più comportabile che non aveva fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di rompere e mansuefare la ferocia degli uomini, ammaestrarli a piegare il collo e cedere alla necessità, ridurli a potersi più facilmente appagare della propria sorte, e rintuzzare negli animi affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai travagli propri, l’acume e la veemenza del desiderio. Oltre di questo, conosceva dovere avvenire che gli uomini oppressi dai morbi e dalle calamità, fossero meno pronti che per l’addietro a volgere le mani contra se stessi, perocchè sarebbero incodarditi e prostrati di cuore, come interviene per l’uso dei patimenti. I quali sogliono anche, lasciando luogo alle speranze migliori, allacciare gli animi alla vita: imperciocchè gl’infelici hanno ferma opinione che eglino sarebbero felicissimi quando si riavessero dei propri mali; la qual cosa, come è la natura dell’uomo, non mancano mai di sperare che debba loro succedere in qualche modo. Appresso creò le tempeste dei venti e dei nembi, si armò del tuono e del fulmine, diede a Nettuno il tridente, spinse le comete in giro e ordinò le eclissi; colle quali cose e con altri segni ed effetti terribili, instituì di spaventare i mortali di tempo in tempo: sapendo che il timore e i presenti pericoli riconcilierebbero alla vita, almeno per breve ora, non tanto gl’infelici, ma quelli eziandio che l’avessero in maggiore abbominio, e che fossero più disposti a fuggirla.

 

E per escludere la passata oziosità, indusse nel genere umano il bisogno e l’appetito di nuovi cibi e di nuove bevande, le quali cose non senza molta e grave fatica si potessero provvedere, laddove insino al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciuti delle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vili e facili a procacciare, siccome usano di sostentarsi anche oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli di California. Assegnò ai diversi luoghi diverse qualità celesti, e similmente alle parti dell’anno, il quale insino a quel tempo era stato sempre e in tutta la terra benigno e piacevole in modo, che gli uomini non avevano avuto uso di vestimenti; ma di questi per l’innanzi furono costretti a fornirsi, e con molte industrie riparare alle mutazioni e inclemenze del cielo. Impose a Mercurio che fondasse le prime città, e distinguesse il genere umano in popoli, nazioni e lingue, ponendo gara e discordia tra loro; e che mostrasse agli uomini il canto e quelle altre arti, che sì per la natura e sì per l’origine, furono chiamate, e ancora si chiamano, divine. Esso medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e in ultimo volendo con un incomparabile dono beneficarle, mandò tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamente uno chiamato Amore, che in quel tempo primieramente, siccome anco gli altri, venne in terra: perciocchè innanzi all’uso dei vestimenti, non amore, ma impeto di cupidità, non dissimile negli uomini di allora da quello che fu di ogni tempo nei bruti, spingeva l’un sesso verso l’altro, nella guisa che è tratto ciascuno ai cibi e a simili oggetti i quali non si amano veramente, ma si appetiscono.

 

Fu cosa mirabile quanto frutto partorissero questi divini consigli alla vita mortale, e quanto la nuova condizione degli uomini, non ostante le fatiche, gli spaventi e i dolori, cose per l’addietro ignorate dal nostro genere, superasse di comodità e di dolcezza quelle che erano state innanzi al diluvio. E questo effetto provenne in gran parte da quelle maravigliose larve; le quali dagli uomini furono riputate ora geni ora iddii, e seguite e culte con ardore inestimabile e con vaste e portentose fatiche per lunghissima età; infiammandoli a questo dal canto loro con infinito sforzo i poeti e i nobili artefici, tanto che un grandissimo numero di mortali non dubitarono chi all’uno e chi all’altro di quei fantasmi donare e sacrificare il sangue e la vita propria. La qual cosa, non che fosse discara a Giove, anzi piacevagli sopra modo, così per altri rispetti, come che egli giudicava dovere essere gli uomini tanto meno facili a gittare volontariamente la vita, quanto più fossero pronti a spenderla per cagioni belle e gloriose. Anche di durata questi buoni ordini eccedettero grandemente i superiori, poichè quantunque venuti dopo molti secoli in manifesto abbassamento, nondimeno eziandio declinando e poscia precipitando, valsero in guisa, che fino all’entrare di un’età non molto rimota dalla presente, la vita umana, la quale per virtù di quegli ordini era stata già, massime in alcun tempo, quasi gioconda, si mantenne per beneficio loro mediocremente facile e tollerabile.

 

Le cagioni e i modi del loro alterarsi furono i molti ingegni trovati dagli uomini per provvedere agevolmente e con poco tempo ai propri bisogni; lo smisurato accrescimento della disparità di condizioni e di uffici constituita da Giove tra gli uomini quando fondò e dispose le prime repubbliche; l’oziosità e la vanità che per queste cagioni, di nuovo, dopo antichissimo esilio, occuparono la vita; l’essere, non solo per la sostanza delle cose, ma ancora da altra parte per l’estimazione degli uomini, venuta a scemarsi in essa vita la grazia della varietà, come sempre suole per la lunga consuetudine; e finalmente le altre cose più gravi, le quali per essere già descritte e dichiarate da molti, non accade ora distinguere. Certo negli uomini si rinnovellò quel fastidio delle cose loro che gli aveva travagliati avanti il diluvio, e rinfrescossi quell’amaro desiderio di felicità ignota ed aliena dalla natura dell’universo.

 

Ma il totale rivolgimento della loro fortuna e l’ultimo esito di quello stato che oggi siamo soliti di chiamare antico, venne principalmente da una cagione diversa dalle predette: e fu questa. Era tra quelle larve, tanto apprezzate dagli antichi, una chiamata nelle costoro lingue Sapienza; la quale onorata universalmente come tutte le sue compagne, e seguita in particolare da molti, aveva altresì al pari di quelle conferito per la sua parte alla prosperità dei secoli scorsi. Questa più e più volte, anzi quotidianamente, aveva promesso e giurato ai seguaci suoi di voler loro mostrare la Verità, la quale diceva ella essere un genio grandissimo, e sua propria signora, nè mai venuta in sulla terra, ma sedere cogli Dei nel cielo; donde essa prometteva che coll’autorità e grazia propria intendeva di trarla, e di ridurla per qualche spazio di tempo a peregrinare tra gli uomini: per l’uso e per la familiarità della quale, dovere il genere umano venire in sì fatti termini, che di altezza di conoscimento, eccellenza d’instituti e di costumi, e felicità di vita, per poco fosse comparabile al divino. Ma come poteva una pura ombra ed una sembianza vota mandare ad effetto le sue promesse, non che menare in terra la Verità? Sicchè gli uomini, dopo lunghissimo credere e confidare, avvedutisi della vanità di quelle profferte; e nel medesimo tempo famelici di cose nuove, massime per l’ozio in cui vivevano; e stimolati parte dall’ambizione di pareggiarsi agli Dei, parte dal desiderio di quella beatitudine che per le parole del fantasma si riputavano, conversando colla Verità, essere per conseguire; si volsero con instantissime e presuntuose voci dimandando a Giove che per alcun tempo concedesse alla terra quel nobilissimo genio, rimproverandogli che egli invidiasse alle sue creature l’utilità infinita che dalla presenza di quello riporterebbero; e insieme si rammaricavano con lui della sorte umana, rinnovando le antiche e odiose querele della piccolezza e della povertà delle cose loro. E perchè quelle speciosissime larve, principio di tanti beni alle età passate, ora si tenevano dalla maggior parte in poca stima; non che già fossero note per quelle che veramente erano, ma la comune viltà dei pensieri e l’ignavia dei costumi facevano che quasi niuno oggimai le seguiva; perciò gli uomini bestemmiando scelleratamente il maggior dono che gli eterni avessero fatto e potuto fare ai mortali, gridavano che la terra non era degnata se non dei minori geni; ed ai maggiori, ai quali la stirpe umana più condecentemente s’inchinerebbe, non essere degno nè lecito di porre il piede in questa infima parte dell’universo.

Molte cose avevano già da gran tempo alienata novamente dagli uomini la volontà di Giove; e tra le altre gl’incomparabili vizi e misfatti, i quali per numero e per tristezza si avevano di lunghissimo intervallo lasciate addietro le malvagità vendicate dal diluvio. Stomacavalo del tutto, dopo tante esperienze prese, l’inquieta, insaziabile, immoderata natura umana; alla tranquillità della quale, non che alla felicità, vedeva oramai per certo, niun provvedimento condurre, niuno stato convenire, niun luogo essere bastante; perchè quando bene egli avesse voluto in mille doppi aumentare gli spazi e i diletti della terra, e l’università delle cose, quella e queste agli uomini, parimente incapaci e cupidi dell’infinito, fra breve tempo erano per parere strette, disamene e di poco pregio. Ma in ultimo quelle stolte e superbe domande commossero talmente l’ira del dio, che egli si risolse, posta da parte ogni pietà, di punire in perpetuo la specie umana, condannandola per tutte le età future a miseria molto più grave che le passate. Per la qual cosa deliberò non solo mandare la Verità fra gli uomini a stare, come essi chiedevano, per alquanto di tempo, ma dandole eterno domicilio tra loro, ed esclusi di quaggiù quei vaghi fantasmi che egli vi avea collocati, farla perpetua moderatrice e signora della gente umana.

 

E maravigliandosi gli altri Dei di questo consiglio, come quelli ai quali pareva che egli avesse a ridondare in troppo innalzamento dello stato nostro e in pregiudizio della loro maggioranza, Giove li rimosse da questo concetto mostrando loro, oltre che non tutti i geni, eziandio grandi, sono di proprietà benefici, non essere tale l’ingegno della Verità, che ella dovesse fare gli stessi effetti negli uomini che negli Dei. Perocchè laddove agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a questo, non come opera solamente della fortuna, ma come tale che per niuno accidente e niuno rimedio non la possano campare, nè mai, vivendo, interrompere.  Ed avendo la più parte dei loro mali questa natura, che in tanto sieno mali in quanto sono creduti essere da chi li sostiene, e più o meno gravi secondo che esso gli stima; si può giudicare di quanto grandissimo nocumento sia per essere agli uomini la presenza di questo genio. Ai quali niuna cosa apparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i beni mortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni cosa fuorchè dei propri dolori. Per queste cagioni saranno eziandio privati della speranza; colla quale dal principio insino al presente, più che con altro diletto o conforto alcuno, sostentarono la vita. E nulla sperando, nè veggendo alle imprese e fatiche loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza ed abborrimento da ogni opera industriosa, non che magnanima, che la comune usanza dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei sepolti. Ma in questa disperazione e lentezza non potranno fuggire che il desiderio di un’immensa felicità, congenito agli animi loro, non li punga e cruci tanto più che in addietro, quanto sarà meno ingombro e distratto dalla varietà delle cure e dall’impeto delle azioni. E nel medesimo tempo si troveranno essere destituiti della naturale virtù immaginativa, che sola poteva per alcuna parte soddisfarli di questa felicità non possibile e non intesa, nè da me, nè da loro stessi che la sospirano. E tutte quelle somiglianze dell’infinito che io studiosamente aveva poste nel mondo, per ingannarli e pascerli, conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti e indeterminati, riusciranno insufficienti a quest’effetto per la dottrina e per gli abiti che eglino apprenderanno dalla Verità. Di maniera che la terra e le altre parti dell’universo, se per addietro parvero loro piccole, parranno da ora innanzi menome: perchè essi saranno instrutti e chiariti degli arcani della natura; e perchè quelle, contro la presente aspettazione degli uomini, appaiono tanto più strette a ciascuno quanto egli ne ha più notizia. Finalmente, perciocchè saranno stati ritolti alla terra i suoi fantasmi, e per gl’insegnamenti della Verità, per li quali gli uomini avranno piena contentezza dell’essere di quelli, mancherà dalla vita umana ogni valore, ogni rettitudine, così di pensieri come di fatti; e non pure lo studio e la carità, ma il nome stesso delle nazioni e delle patrie sarà spento per ogni dove; recandosi tutti gli uomini, secondo che essi saranno usati di dire, in una sola nazione e patria, come fu da principio, e facendo professione di amore universale verso tutta la loro specie; ma veramente dissipandosi la stirpe umana in tanti popoli quanti saranno uomini. Perciocchè non si proponendo nè patria da dovere particolarmente amare, nè strani da odiare; ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesimo. Dalla qual cosa quanti e quali incomodi sieno per nascere, sarebbe infinito a raccontare. Nè per tanta e sì disperata infelicità si ardiranno i mortali di abbandonare la luce spontaneamente: perocchè l’imperio di questo genio li farà non meno vili che miseri; ed aggiungendo oltremodo alle acerbità della loro vita, li priverà del valore di rifiutarla.

 

Per queste parole di Giove parve agli Dei che la nostra sorte fosse per essere troppo più fiera e terribile che alla divina pietà non si convenisse di consentire. Ma Giove seguitò dicendo. Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che essi chiamano Amore; il quale io sono disposto, rimovendo tutti gli altri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla Verità, quantunque potentissima e combattendolo di continuo, nè sterminarlo mai dalla terra, nè vincerlo se non di rado. Sicchè la vita degli uomini, parimente occupata nel culto di quel fantasma e di questo genio, sarà divisa in due parti; e l’uno e l’altro di quelli avranno nelle cose e negli animi dei mortali comune imperio. Tutti gli altri studi, eccetto che alcuni pochi e di picciolo conto, verranno meno nella maggior parte degli uomini. Alle età gravi il difetto delle consolazioni di Amore sarà compensato dal beneficio della loro naturale proprietà di essere quasi contenti della stessa vita, come accade negli altri generi di animali, e di curarla diligentemente per sua cagione propria, non per diletto nè per comodo che ne ritraggano.

Così rimossi dalla terra i beati fantasmi, salvo solamente Amore, il manco nobile di tutti, Giove mandò tra gli uomini la Verità, e diedele appo loro perpetua stanza e signoria. Di che seguitarono tutti quei luttuosi effetti che egli avea preveduto. E intervenne cosa di gran meraviglia; che ove quel genio prima della sua discesa, quando egli non avea potere nè ragione alcuna negli uomini, era stato da essi onorato con un grandissimo numero di templi e di sacrifici; ora venuto in sulla terra con autorità di principe, e cominciato a conoscere di presenza, al contrario di tutti gli altri immortali, che più chiaramente manifestandosi, appaiono più venerandi, contristò di modo le menti degli uomini e percossele di così fatto orrore, che eglino, se bene sforzati di ubbidirlo, ricusarono di adorarlo. E in vece che quelle larve in qualunque animo avessero maggiormente usata la loro forza, solevano essere da quello più riverite ed amate; esso genio riportò più fiere maledizioni e più grave odio da coloro in che egli ottenne maggiore imperio. Ma non potendo perciò nè sottrarsi, nè ripugnare alla sua tirannide, vivevano i mortali in quella suprema miseria che eglino sostengono insino ad ora, e sempre sosterranno.

Se non che la pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta, commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infelicità; e massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’intelletto, congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio. Avevano usato gli Dei negli antichi tempi, quando Giustizia, Virtù e gli altri fantasmi governavano le cose umane, visitare alcuna volta le proprie fatture, scendendo ora l’uno ora l’altro in terra, e qui significando la loro presenza in diversi modi: la quale era stata sempre con grandissimo beneficio o di tutti i mortali o di alcuno in particolare. Ma corrotta di nuovo la vita, e sommersa in ogni scelleratezza, sdegnarono quelli per lunghissimo tempo la conversazione umana. Ora Giove compassionando alla nostra somma infelicità, propose agl’immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a se, indegni della sciagura universale. Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, conforme di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversissimo; si offerse (come è singolare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso l’ufficio proposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli mai per l’avanti non si era tolto; non sofferendo il concilio degl’immortali, per averlo indicibilmente caro, che egli si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro commercio. Se bene di tratto in tratto molti antichi uomini, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi del fantasma chiamato collo stesso nome, si pensarono avere non dubbi segni della presenza di questo massimo iddio. Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all’imperio della Verità. Dopo il qual tempo, non suole anco scendere se non di rado, e poco si ferma; così per la generale indegnità della gente umana, come che gli Dei sopportano molestissimamente la sua lontananza. Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benchè pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perchè la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per se qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, nè potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei. E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocchè negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe; tanto è da natura magnanimo e mansueto. Oltre che gl’immortali, contenti della vendetta che prendono di tutta la stirpe, e dell’insanabile miseria che la gastiga, non curano le singolari offese degli uomini; nè d’altro in particolare sono puniti i frodolenti e gl’ingiusti e i dispregiatori degli Dei, che di essere alieni anche per proprio nome dalla grazia di quelli.

Pequeñas obras morales

Versiones 2000 y 2015

Textos

I. Historia del género humano
II. Diálogo de Hércules y de Atlas
III. Diálogo de la Moda y de la Muerte
IV. Propuesta de premios hecha por la Academia de los Silógrafos
V. Diálogo de un Duende y de un Gnomo
VI. Diálogo de Malambruno y de Trampas
VII. Diálogo de la Naturaleza y de un Alma
VIII. Diálogo de la Tierra y de la Luna
IX. La apuesta de Prometeo
X. Diálogo de un físico y de un metafísico
XI. Diálogo de la Naturaleza y de un Islandés
XII. Diálogo de Torcuato Tasso y de su Genio familiar
XIII. Parini, o De la Gloria
XIV. Diálogo de Federico Ruysch y de sus momias
XV. Dichos memorables de Filippo Ottonieri
XVI. Diálogo de Cristóbal Colón y de Pedro Gutiérrez
XVII. Elogio de los pájaros
XVIII. Cántico del gallo silvestre
XIX. Fragmento apócrifo di Estratón de Lampsaco
XX. Diálogo de Timandro e di Eleandro
XXI. Copérnico
XXII. Diálogo de Plotino y Porfirio
XXIII. Diálogo de un vendedor de almanaques y de un  transeúnte
XXIV. Diálogo di Tristán y de un amigo

 

I. HISTORIA DEL GÉNERO HUMANO [1]

Se cuenta que todos los hombres que al principio poblaron la tierra fueron creados por doquier al mismo tiempo, y todos niños, y que fueron alimentados por las abejas, por las cabras y por las palomas, tal como contaron los poetas de la crianza de Júpiter. Y que la tierra era mucho más pequeña que ahora; casi todos los países, llanos; el cielo, sin estrellas; el mar no había sido creado, y se mostraba en el mundo mucha menos variedad y magnificencia de las que hoy se aprecian. No obstante, los hombres, complaciéndose insaciablemente en mirar y considerar el cielo y la tierra, maravillándose sobremanera de ellos y considerando el uno y la otra hermosísimos y no solo vastos, sino infinitos, tanto por la grandeza como por la majestad y por la gentileza; nutriéndose, además, de alegres esperanzas, y experimentando increíbles deleites en cada uno de los sentimientos de sus vidas, crecían con mucho contento y casi confianza en su felicidad.  Así, consumida dulcemente la niñez y la primera adolescencia, y habiendo llegado a una edad más madura, comenzaron a sentir algún cambio. Pues las esperanzas, que ellos hasta entonces habían ido posponiendo día tras día, sin que aún se hicieran realidad, les parecieron que merecían poca fe, y contentarse con lo que en el presente gozaban, sin prometerse ningún crecimiento del bien, no les parecía posible, máxime cuando el aspecto de las cosas naturales y cada detalle de la vida diaria, ya por el hábito, ya porque en sus ánimos había disminuido aquella primera viveza, no les resultaba en modo alguno tan deleitable y grato como al principio.  Iban por la tierra visitando lejanísimas regiones, pues podían hacerlo con comodidad, por ser los lugares llanos y no estar separados por el mar, ni interrumpidos por otras dificultades; y no muchos años después, la mayoría se percató de que la tierra, aunque grande, tenía límites ciertos, y no tan amplios como para resultar incomprensibles, y de que todos los lugares de la tierra y todos los hombres, salvo ligerísimas diferencias, eran semejantes los unos a los otros. Por estas cosas, crecía en ellos el descontento, de modo que, aún no habían salido de la juventud, y ya sentían que un completo fastidio de sí mismos los había universalmente invadido. Y, poco a poco en la edad viril, y más con el declinar de los años, convertida la saciedad en odio, algunos llegaron a tal desesperación, que no soportando la luz y el aliento, que al principio habían amado tanto, espontáneamente, unos de un modo y otros de otro, se desprendieron de ello.

Les pareció horrendo este caso a los dioses: que criaturas que vivían prefirieran la muerte a la vida, y que esta misma, para algunos seres, sin una fuerza mayor ni ninguna razón externa, fuera un instrumento de su propia destrucción. No se puede decir fácilmente cuánto se maravillaron de que sus dones fueran tenidos por tan viles y abominables, como para que otros, con toda su fuerza, se los arrebataran y arrojaran, pues a ellos les parecía que habían puesto tanta bondad y gracia, y tales proporciones y condiciones, como para que esa estancia fuera no solo tolerada, sino sumamente amada por cualquier animal, y más por los hombres, género al que habían formado, con singular interés, con maravillosa excelencia. Pero, al mismo tiempo, además de estar conmovidos por una piedad especial ante tanta miseria humana como manifestaban sus efectos, temieron también que, si se renovaban y se multiplicaban esos tristes ejemplos, la estirpe humana, en poco tiempo, contra la disposición de los hados, perecería, y que las cosas se verían privadas de esa perfección que les otorgaba nuestro género, y ellos, de los honores que recibían de los hombres.

Habiendo deliberado Júpiter, puesto que parecía que se le reclamaba, mejorar el estado humano y encaminarlo hacia la felicidad con mayores auxilios, entendía que los hombres se quejaban principalmente de que las cosas no fueran inmensas en grandeza, ni infinitas en belleza, en perfección y en variedad, como ellos habían juzgado antes; es más, que eran angostísimas, todas imperfectas y casi de una única forma; y que, lamentándose no solo de la edad madura, sino de la naturaleza y de la misma juventud, y deseando las dulzuras de sus primeros años, rogaban fervientemente volver a la niñez, y en ella perseverar toda la vida.  En esto no podía Júpiter satisfacerlos, al ser contrario a las leyes universales de la naturaleza y a las funciones y utilidades que los hombres debían realizar y producir, según la intención y los decretos divinos. Tampoco podía comunicar su propia infinitud a las criaturas mortales, ni hacer infinita la materia, ni infinita la perfección y la felicidad de las cosas y de los hombres. Le pareció, pues, conveniente ensanchar los límites de la creación, y adornarla más y diferenciarla; y tomada esta decisión, agrandó la tierra por todo su alrededor, y generó el mar, de modo que, al interponerse este entre los lugares habitados, diversificara la apariencia de las cosas, e impidiera que sus confines pudieran ser fácilmente conocidos por los hombres, pues interrumpiría los caminos, e incluso representaría a la vista una viva similitud con la inmensidad. En este tiempo, ocuparon las nuevas aguas la tierra de Atlántida, no solo esa, sino a la vez otros innumerables y extensísimos trechos, aunque de esa quede un recuerdo especial que ha sobrevivido a la multitud de los siglos. Hundió muchos lugares, otros muchos los alzó formando montes y colinas, esparció por la noche las estrellas, dulcificó y limpió la naturaleza del aire, y aumentó la claridad y la luz del día, reforzó y matizó con mayor diversidad que antes los colores del cielo y de los campos, confundió las generaciones de los hombres, de manera que la vejez de unos coincidiera a un mismo tiempo con la juventud e infancia de otros. Y habiendo resuelto multiplicar las apariencias de ese infinito que los hombres sumamente deseaban (ya que no podía contentarlos con la sustancia), y queriendo favorecer y nutrir su imaginación, de cuya virtud principalmente comprendía que había procedido esa dicha de su niñez, entre muchos recursos llevados a cabo (como fue el del mar), creó el eco, lo escondió en los valles y en las cuevas, y puso en las selvas un estrépito sordo y profundo, con un vasto ondear en sus cimas. Creó, del mismo modo, el pueblo de los sueños, y les ordenó a estos que, engañando bajo diversas formas el pensamiento de los hombres, les representara esa plenitud de ininteligible felicidad que él no veía modo de hacer realidad, y esas imágenes indefinidas e indeterminadas de las que él mismo, aunque hubiera querido hacerlo y los hombres suspiraran por ello ardientemente, no podía producir ningún ejemplo real.

Fue con estas medidas de Júpiter como el ánimo de las gentes se levantó y resurgió, y a cada uno le volvió la gracia y el amor de la vida, al igual que la confianza, el deleite y el asombro ante la belleza y la inmensidad de las cosas terrenas. Y duró este buen estado más que el primero, máxime por la diferencia del tiempo introducida por Júpiter entre los nacimientos, de modo que los ánimos fríos y cansados por la experiencia de las cosas eran confortados al ver el calor y las esperanzas de la juventud. Pero, con el paso del tiempo, al volver a faltar de hecho la novedad, al resurgir y confirmarse el tedio y el odio a la vida, los hombres sucumbieron a tal abatimiento, que nació entonces, como se cree, la costumbre, referida en las historias,[2] practicada por algunos pueblos antiguos que la mantuvieron: que al nacer alguien, los familiares y amigos se reunían para llorarlo; y al morir, se celebraba ese día con fiestas y palabras con que congratulaban al muerto. Al final, todos los mortales cayeron en la impiedad, ya porque les pareciera que no eran escuchados por Júpiter, ya porque la propia naturaleza de las miserias fuera la de endurecer y corromper los ánimos incluso más gentiles, y desenamorarlos de lo honesto y de lo recto. Por ello, se engañan del todo quienes estiman que la infelicidad humana nació antes que la iniquidad y que los actos perpetrados contra los Dioses; cuando, por el contrario, la maldad de los hombres no tuvo otro principio que su calamidad.

Así, dado que la obstinación de los hombres fue castigada por los Dioses con el diluvio de Deucalión, y vengadas sus injurias, las dos únicas personas salvadas del naufragio universal, Deucalión y Pirra, afirmando que nada podía beneficiar más a la estirpe humana que ser del todo destruida, se sentaron encima de una roca llamando a la muerte con intensísimo deseo, sin temer ni deplorar la suerte común. No obstante, amonestados por Júpiter para que remediaran la soledad de la tierra, y no soportando, porque estaban desconsolados y desdeñaban la vida, dar obra a la generación, cogiendo piedras de la montaña, tal como les indicaron los Dioses, y arrojándolas hacia atrás de los hombros, restauraron la especie humana. Pero Júpiter, advertido por las cosas pasadas de la propia naturaleza de los hombres, y de que no puede bastarles, como a los demás animales, vivir y estar libres de todo dolor y molestia del cuerpo, sino que, anhelando siempre y en cualquier estado lo imposible, tanto más se atormentan con este deseo por sí mismos, cuanto menos afligidos están por otros males, deliberó servirse de nuevas artes para conservar este miserable género, las cuales fueron principalmente dos. Una, verter en sus vidas males verdaderos; otra, confundirlas en mil negocios y fatigas, con el fin de entretener a los hombres y alejarlos, cuanto fuera posible, de la ocasión de hablar con su propia alma o, al menos, con el deseo de esa desconocida y vana felicidad suya.

Así, primero difundió entre ellos una variada multitud de enfermedades y un infinito género de desventuras: en parte, con la intención de que, al variar las condiciones y las suertes de la vida mortal, se evitara la saciedad y creciera el valor del bien con la oposición del mal; en parte, para que la falta de goces les resultara a los espíritus, ya ejercitados en cosas peores, más soportable de lo que les había resultado en el pasado, y en parte, incluso con el fin de romper y amansar la ferocidad de los hombres, de enseñarles a que humillaran la frente y cedieran a la necesidad, de obligarlos a que se contentaran con su propia suerte, y de frenar en los ánimos debilitados, no menos por las enfermedades del cuerpo que por los tormentos propios, la intensidad y la vehemencia del deseo. Además de esto, sabía que los hombres, oprimidos por las enfermedades y por las calamidades, estarían menos dispuestos que antes a volver sus manos contra sí mismos, pues estarían abatidos y postrados de ánimo, como sucede con la experiencia de los sufrimientos. Estos suelen, dando lugar a las mejores esperanzas, incluso reconciliar a los ánimos con la vida: por ello, los infelices confían firmemente que serán felicísimos cuando se repongan de sus propios males, pues, como es natural en el hombre, nunca se deja de esperar que esto ha de suceder de algún modo. Después creó las tempestades de los vientos y de las nubes, se armó del trueno y del rayo, dio a Neptuno el tridente, hizo que los cometas giraran y ordenó los eclipses; con estas cosas y con otras señales y efectos terribles, estableció asustar a los mortales de vez en cuando, pues sabía que el temor y los peligros presentes reconciliarían con la vida, al menos por algún tiempo, no tanto a los infelices, como incluso a los que más abominaban de ella y más dispuestos estaban a quitársela.

Y, para excluir la pasada ociosidad, llevó al género humano la necesidad y el apetito de nuevas comidas y de nuevas bebidas, de las cuales no podrían proveerse sino con mucho y grave trabajo, mientras que, hasta el diluvio, los hombres habían apagado su sed solo con agua, y se habían nutrido de las hierbas y de las frutas que la tierra y los árboles les suministraban espontáneamente, y de otros frutos viles y fáciles de conseguir, como suelen sustentarse incluso hoy algunos pueblos y, particularmente, los de California. Asignó a los diferentes lugares diferentes cualidades climáticas, y lo mismo hizo con las partes del año, el cual hasta ese momento había sido siempre y en toda la tierra benigno y agradable,  de modo que los hombres no habían usado vestimentas; pero, de ahora en adelante, estuvieron obligados a proveerse de ellas y a protegerse con mucha industria de los cambios y de las inclemencias del cielo. Ordenó a Mercurio que fundara las primeras ciudades y dividiera al género humano en pueblos, naciones y lenguas, sembrando la rivalidad y la discordia entre ellos, y que mostrara a los hombres el canto y esas otras artes que, tanto por la naturaleza como por el origen, se llamaron y aún se llaman divinas. Él mismo dictó leyes, estados y normas civiles a las nuevas generaciones, y por último, queriendo beneficiarlas con un bien incomparable, mandó entre ellos a algunos fantasmas[3] de semblantes excelentísimos y sobrehumanos, a los que les permitió, en grandísima parte, el gobierno y el poder sobre ellas; y fueron llamados Justicia, Virtud, Gloria, Amor a la patria, y con otros nombres parecidos. Entre ellos, hubo igualmente uno llamado Amor, que llegó con los otros a la tierra en ese tiempo por primera vez; pues, antes del uso de las vestimentas, no el amor, sino el ímpetu de la sexualidad, no diferente en los hombres de entonces al de los animales de cualquier tiempo, empujaba un sexo hacia el otro, tal como cada uno es llevado a las comidas y cosas parecidas, las cuales no se aman verdaderamente, sino que se apetecen.

Fue cosa maravillosa cuánto fruto dieron estas divinas disposiciones en la vida mortal, y cómo la nueva condición de los hombres, a pesar de las fatigas, los temores y los dolores, cosas ignoradas antes por nuestro género, superaba en comodidad y dulzura a las que existieron antes del diluvio. Y este efecto provino, en gran parte, de esas maravillosas larvas,[4] a las que los hombres reputaron ya genios, ya dioses, seguidas y adoradas con ardor inestimable y con enormes y portentosas fatigas durante largo tiempo; por su parte, los poetas y los nobles artistas, con infinito esfuerzo, hacían que se entusiasmaran por ello, tanto, que un grandísimo número de mortales no dudó en ofrecer y sacrificar su sangre y su vida, ya a uno, ya a otro de esos fantasmas. Esto no le disgustaba a Júpiter, es más, le placía sobremanera, además de por otros motivos, porque juzgaba que a los hombres les resultaría tanto menos fácil quitarse voluntariamente la vida, cuanto más dispuestos estuvieran a consumirla en razones hermosas y gloriosas. Incluso en duración, estas buenas disposiciones superaron a las precedentes, pues, aunque llegaron tras muchos siglos a una manifiesta decadencia, e incluso continuaron declinando y finalmente se precipitaron, sirvieron de tal modo que, hasta la entrada de una edad no muy lejana a la nuestra, la vida humana, que por virtud de esas disposiciones había sido ya, máxime en algún tiempo, casi alegre, se mantuvo gracias a su beneficio medianamente fácil y tolerable.

Las causas y las formas del cambio consistieron en que los hombres encontraron muchos ingenios para satisfacer, con comodidad y en poco tiempo, sus propias necesidades; el desmesurado crecimiento de la disparidad de condiciones y deberes establecida por Júpiter entre los hombres cuando fundó y dispuso las primeras repúblicas; la ociosidad y la vanidad que, con estas razones, de nuevo, después de larguísimo exilio, ocuparon la vida; el haber llegado a destruirse en la vida, no solo por la sustancia de las cosas, sino también por otro lado, por la estimación de los hombres de que había disminuido en esa vida la gracia de la variedad, como siempre suele suceder tras larga práctica, y, finalmente, otras cosas más graves, que, al haber sido ya descritas y explicadas por muchos, no es necesario ahora distinguir. Ciertamente entre los hombres se renovó ese fastidio por sus cosas que los había atormentado antes del diluvio, y se reanudó ese amargo deseo de felicidad desconocida y ajena a la naturaleza del universo.

Pero el cambio completo de su fortuna y el último resultado de ese estado que hoy solemos llamar antiguo vinieron de una causa diferente a las mencionadas, y fue esta: entre esas larvas tan apreciadas por los antiguos, había una llamada en sus lenguas Sabiduría, la cual, honrada universalmente, como todas sus compañeras, y seguida en particular por muchos, había contribuido asimismo, a la par que las demás, a la prosperidad de los siglos pasados. Esta, muchas veces, es más, a diario, les había prometido y jurado a sus seguidores que quería mostrarles la Verdad, de la que decía que era un genio grandísimo y su propia señora, y que nunca había venido a la tierra sino que moraba con los Dioses en el cielo, de donde ella prometía que, con su autoridad y con su gracia, intentaría traerla y obligarla por algún tiempo a peregrinar entre los hombres, con cuya usanza y compañía, el género humano llegaría a tales términos, que, en cuanto a elevación de conocimiento, excelencia de instituciones y de costumbres y felicidad de vida, sería casi comparable al divino. Pero ¿cómo podía una vana sombra y una apariencia vacía llevar a efecto sus promesas, cuanto más traer la Verdad a la tierra? Por tanto, los hombres, después de haber creído y confiado largo tiempo, dándose cuenta de la vanidad de esas promesas, y al mismo tiempo hambrientos de novedades, máxime por el ocio en que vivían, y estimulados en parte por la ambición de compararse con los Dioses, en parte por el deseo de esa dicha que reputaban, según las palabras del fantasma, que conseguirían conversando con la Verdad, se dirigieron a Júpiter con insistentes y presuntuosas palabras, para pedirle que por algún tiempo le concediera a la tierra ese nobilísimo genio; y le reprocharon que les negara a sus criaturas la utilidad infinita que con la presencia de ese lograrían; y además, se lamentaron con él de la suerte humana, reanudando las antiguas y odiosas quejas sobre la pequeñez y pobreza de sus cosas. Y, como esas hermosísimas larvas, principio de tantos bienes en el pasado, eran tenidas ahora en poca estima por la mayor parte, no porque ya fuera conocido quiénes eran verdaderamente, sino porque la común corrupción de los pensamientos y la indolencia de las costumbres hacían que casi nadie las siguiera ya; por ello los hombres, maldiciendo con iniquidad el mayor don que los Dioses habían concedido y habían podido conceder a los mortales, gritaban que la tierra no era digna sino de los genios menores, y que a los mayores, a los que la estirpe humana se plegaría más convenientemente, no les era ni digno ni lícito poner el pie en esta ínfima parte del universo.

Muchas cosas habían apartado ya desde hacía tiempo la voluntad de Júpiter de los hombres, y entre ellas los incomparables vicios y crímenes, que en número y en maldad habían superado ampliamente a las maldades castigadas con el diluvio. Le repugnaba totalmente, después de tantas experiencias vividas, la inquieta, insaciable, inmoderada naturaleza humana, a cuya tranquilidad, además de la felicidad, ya no veía ciertamente que llevara ningún camino, ni que ningún estado  conviniera, ni que ningún lugar fuera suficiente, porque, aunque él hubiera querido aumentar de mil maneras los espacios y los deleites de la tierra y la universalidad de las cosas, aquella y estas a los hombres, tan incapaces como ansiosos de lo infinito, en poco tiempo les parecerían estrechas, ingratas y de poco valor. Pero, al final, esas estúpidas y soberbias peticiones despertaron de tal modo la ira del dios, que este resolvió, lejos ya de toda piedad, castigar a la especie humana perpetuamente, condenándola para todo el tiempo futuro a miserias mucho más graves que las anteriores. Por ello, deliberó enviar a la Verdad, para que estuviera entre los hombres no solo durante algún tiempo, como estos pidieron, sino para que tuviera eterna morada entre ellos, y para que, desterrados esos hermosos fantasmas que él había colocado, fuera la moderadora perpetua y la señora del género humano.

Y maravillándose los demás dioses de esta decisión, pues les parecía que redundaría en un ensalzamiento demasiado grande de nuestro estado y en perjuicio de la superioridad de ellos, Júpiter los sacó de esta idea, al mostrarles que, además de que no todos los genios, aunque grandes, son verdaderamente benéficos, la índole de la Verdad no era tal que tuviera que causar los mismos efectos entre los hombres que entre los Dioses. Pues mientras que a los inmortales ella les mostraba su dicha, a los hombres les revelaría y les pondría continuamente ante sus ojos su infelicidad, representándosela, además, no solo como fruto de la fortuna, sino como algo que ninguna contingencia, ni ningún remedio puede apartar, ni nunca, mientras se está vivo, interrumpir. Y teniendo la mayor parte de sus males esta naturaleza, que son males en la medida en que quien los sobrelleva cree que existen, y que son más o menos graves dependiendo de cómo este los estime, se puede juzgar cuán grandísimo perjuicio será para los hombres la presencia de este genio, pues ninguna cosa les parecerá más cierta que la falsedad de todos los bienes mortales, y ninguna más sólida que la vanidad de todo, excepto sus propios dolores. Por estas razones, les será negada incluso la esperanza, con la cual, más que con cualquier otro deleite o consuelo alguno, soportaron la vida desde el principio hasta el presente. Y al no esperar nada ni ver en sus tareas y fatigas ningún fin digno, llegarán a tal abandono y aborrecimiento de toda obra industriosa, no ya magnánima, que los hábitos comunes de los vivos serán poco diferentes a los de los muertos. Pero en esta desesperación y apagamiento no podrán evitar que el deseo de una inmensa felicidad, congénito en sus almas, los hiera y atormente como antes, tanto más cuanto menos ocupados y distraídos estén con la variedad de sus obligaciones y con el ímpetu de las acciones. Y al mismo tiempo se encontrarán despojados de la fuerza natural de la imaginación, que era la única que podía otorgarles, en parte, esta felicidad imposible e incomprensible tanto para mí como para ellos mismos, aunque por ella suspiran. Y todas esas semejanzas de lo infinito, que yo cuidadosamente había colocado en el mundo para engañarlos y nutrirlos, de acuerdo con sus apetencias de pensamientos vastos e indeterminados, resultarán insuficientes a causa de la doctrina y de las prácticas que ellos aprenderán de la Verdad. De este modo, la tierra y las demás partes del universo, si antes les parecieron pequeñas, de ahora en adelante les parecerán aún menores, porque serán instruidos e ilustrados en los arcanos de la naturaleza, y porque esas, contra toda la expectativa de los hombres, se muestran tanto más estrechas, cuanto más se conocen. Finalmente, dado que de la tierra se retirarán sus fantasmas, debido a las enseñanzas de la Verdad, por las que los hombres se darán cuenta plenamente de la esencia de aquellos, faltará en la vida humana todo valor, toda rectitud, tanto en pensamientos como en actos; y no solo el cuidado y el amor, sino el mismo nombre de las naciones y de las patrias se apagarán por todas partes, y no porque se vayan a reunir, como acostumbrarán a decir, en una única nación y patria, como lo fue al principio, y a practicar el amor universal hacia toda su especie, sino porque verdaderamente dividirán la estirpe humana en tantos pueblos como hombres habrá. Por ello, al no proponerse amar en particular una patria ni odiar a los extranjeros, cada uno odiará a todos los demás y se amará solo a sí mismo, entre todo su género, hecho del que nacerán tantos y tales inconvenientes, que sería imposible contarlos. Y no por tanta infelicidad desesperada se atreverán los mortales a huir de la luz espontáneamente, pues el poder de este genio los hará no menos viles que miserables, y sumándose desmedidamente a la amargura de sus vidas, los privará del valor de quitársela.

Con estas palabras de Júpiter, les pareció a los Dioses que nuestra suerte estaba a punto de volverse más cruel y terrible de lo que conviene que consienta la piedad divina. Pero Júpiter siguió hablando: “Tendrán, sin embargo, un pequeño consuelo con ese fantasma que ellos llaman Amor, pues estoy dispuesto, cuando aleje a todos los demás, a dejarlo en la compañía de los hombres. Y no se le consentirá a la Verdad, a pesar de su gran fuerza y de la lucha que entablará con él continuamente, ni que lo expulse de la tierra, ni que lo derrote, a no ser raramente. Por ello, la vida de los hombres, ocupada por igual en el culto de este fantasma y de este genio, se dividirá en dos tipos, pues uno y otro tendrán en las cosas y en las almas de los mortales idéntico poder. Las demás ocupaciones, excepto unas pocas y de pequeña importancia, serán despreciadas por la mayor parte de los hombres. En las edades avanzadas, la falta de los consuelos del Amor será compensada con el beneficio de su natural tendencia a estar satisfechos con la vida misma, tal como sucede en los demás géneros de animales, y a ocuparse de ella diligentemente por su propia razón, no por el deleite ni por el bienestar que de ello reciban.”

Así, apartados de la tierra los felices fantasmas, excepto Amor, el menos noble de todos, Júpiter mandó entre los hombres a la Verdad y le dio entre ellos perpetua morada y señorío, a lo que siguieron todos esos luctuosos efectos que él había previsto. Pero sucedió algo muy maravilloso, que, mientras que ese genio, antes de descender, cuando no tenía poder ni razón entre los hombres, había sido honrado por ellos con un grandísimo número de templos y de sacrificios, ahora, al venir a la tierra con la autoridad de un príncipe, y al comenzar a ser conocido directamente, al contrario de los demás inmortales, que, con cuanta mayor claridad se manifiestan, tanto más venerables parecen, él afligió de tal modo las mentes de los hombres y las sacudió con tanto horror, que estos, aunque obligados a obedecerlo, se negaron a adorarlo. Y al contrario de esas larvas que con cuanta mayor fuerza intervenían en cualquier alma, tanto más respetadas y amadas por esta solían ser, este genio, en cambio, se ganó las más feroces maldiciones y el más grave odio entre quienes mayor dominio obtuvo. Pero, al no poder los mortales sustraerse de su tiranía, ni combatirla, vivían en esa suprema miseria que soportan hasta hoy, y siempre soportarán.

Sin embargo, la piedad, que nunca se apaga en los ánimos celestes, conmovió, no hace mucho, la voluntad de Júpiter ante esta gran infelicidad, y sobre todo de la de algunos hombres singulares por la finura de su intelecto y la nobleza de las costumbres y la integridad de la vida, a los que veía comúnmente más oprimidos y afligidos que ningún otro por el poder y por el duro dominio de ese genio. Habían acostumbrado los Dioses en los tiempos antiguos, cuando Justicia, Virtud y los demás fantasmas gobernaban los asuntos humanos, a visitar alguna vez sus propias empresas, bajando a la tierra ahora uno, ahora otro, y mostrando de diversos modos su presencia, la cual siempre resultó beneficiosa, o para todos los mortales o para alguno en particular. Pero corrompida de nuevo la vida, y hundida en todo tipo de maldad, ellos desdeñaron durante muchísimo tiempo la compañía humana. Ahora, compadeciéndose Júpiter de nuestra suma infelicidad, propuso a los inmortales si alguno de ellos se animaba a visitar a su progenie, como habían acostumbrado en la antigüedad, y consolarla de tanto tormento, y particularmente a los que mostraban ser, por sí mismos, indignos del dolor universal. Ante el silencio de todos, Amor, hijo de Venus Celeste, de idéntico nombre que el fantasma así llamado, pero muy diferente en naturaleza, virtud y obras, se ofreció (pues es singular su piedad entre todos los Dioses) a hacer el trabajo propuesto por Júpiter, y a bajar del cielo, de donde no se había alejado antes, porque la asamblea de los inmortales no podía soportar, pues lo apreciaba indeciblemente, que él dejara su compañía, ni siquiera por un breve espacio de tiempo. A pesar de que de vez en cuando muchos hombres antiguos, embaucados por las transformaciones y por diferentes engaños del fantasma llamado con el mismo nombre, creyeron que gozaban de señales verdaderas de la presencia de este gran Dios. Pero este no visitó a los mortales antes de que estuvieran sometidos al poder de la Verdad. Después de ese tiempo, no suele bajar sino raramente y permanecer poco tiempo, tanto por la general indignidad de las personas, como por el hecho de que los Dioses soportan con mucha molestia su lejanía. Cuando viene a la tierra, escoge los corazones más tiernos y más gentiles de las personas más generosas y magnánimas, y aquí se queda breve espacio, infundiéndoles una suavidad tan peregrina y admirable, y llenándolas de sentimientos tan nobles, y de tanta virtud y fuerza, que estas sienten, cosa totalmente desconocida por el género humano, una dicha más verdadera que aparente. Rarísimamente une dos corazones, abrazando el uno al otro a un mismo tiempo, y suscitando en ambos una pasión y un deseo mutuos, aunque todos aquellos en los que se alberga le ruegan esto encarecidamente: pero Júpiter no le permite que complazca sino a unos pocos, pues a la felicidad que nace de este beneficio poco la supera la divina. De todos modos, estar lleno de su numen supera por sí mismo la más afortunada condición que haya en ningún hombre en los mejores tiempos. Allí, alrededor de donde él se posa, invisibles para todos los demás, giran las maravillosas larvas, ya separados de la familiaridad de los hombres, pues este Dios las vuelve a traer para tal efecto a la tierra, al permitirlo Júpiter, y al no poder ser vetado por la Verdad, a pesar de que esta es muy enemiga de esos fantasmas y se siente muy ofendida con el regreso de estos. Pero no es dado a la naturaleza de los genios que se opongan a los Dioses. Y, como los hados dotaron a este Dios de niñez eterna, por tanto, este, de acuerdo con su naturaleza, colma de algún modo ese primer ruego de los hombres, el de volver a la condición de la infancia. Por ello, en los ánimos en los que él elige habitar, suscita y reaviva, durante todo el tiempo que permanece, la infinita esperanza y las hermosas y queridas imaginaciones de los tiernos años. Muchos mortales, inexpertos e incapaces de sus deleites, lo escarnecen y critican en todo momento, estando él ausente o presente, con desenfrenada audacia, pero él no escucha sus oprobios. Y si los escuchara, ningún suplicio sentiría, tan magnánima y dócil es su naturaleza. Además, los inmortales, contentos con la venganza que se toman de la estirpe humana y con la incurable miseria que la fustiga, no se preocupan de las singulares ofensas de los hombres. Y no a otra cosa, particularmente, sino a estar privados de la gracia de los Dioses, es a lo que están condenados, incluso por sí mismos, los fraudulentos y los injustos y los calumniadores de aquellos.

 

[1]  Compuesta en Recanati, entre el 19 de enero y el 7 de febrero de 1824.

[2] “Heródoto, lib. 5, cap. 4. Estrabón, lib. 11, edit. Casaub. P. 519. Mela, lib. 2, cap. 2. Antología griega, ed. H. Steph, p. 16.  Coricio sofista, Orat. fun. in Procop. gaz. cap. 35, ap. Fabric.. Bibl. Graec. ed. vet. vol. 8, p.859.” (N. del A.)

[3]  Los fantasmas y posteriormente las larvas son las ilusiones, frutos de la imaginación. En la jerarquía de los seres mitológicos que aparecen en esta narración, a los fantasmas o larvas (genios menores) les corresponde el último lugar, después de los genios mayores (de los cuales solo aparece la Verdad) y los Dioses.

[4] Cfr. Cantos, IV: En las nupcias de su hermana Paolina, vv. 1-6, versos en los que también se usa la palabra «larvas» («error», «don celeste») y su relación, como ilusiones que son, con la felicidad y la infancia: «Cuando del patrio nido / los silencios dejando, y las felices / larvas y error antiguo, don celeste / que a tu vista embellece este desierto, / al polvo de la vida y al tumulto / el destino te arrastra.»

II. DIALOGO D’ERCOLE E DI ATLANTE

ERCOLE.  Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono, tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco.

ATLANTE. Ti ringrazio, caro Ercolino, e mi chiamo anche obbligato alla maestà di Giove. Ma il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più; e se non fosse che la volontà di Giove mi sforza di stare qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la porterei sotto l’ascella o in tasca, o me l’attaccherei ciondolone a un pelo della barba, e me n’andrei per le mie faccende.

ERCOLE. Come può stare che sia tanto alleggerita? Mi accorgo bene che ha mutato figura, e che è diventata a uso delle pagnotte, e non è più tonda, come era al tempo che io studiai la cosmografia per fare quella grandissima navigazione cogli Argonauti: ma con tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.

ATLANTE. Della causa non so. Ma della leggerezza ch’io dico te ne puoi certificare adesso adesso, solo che tu voglia torre questa sulla mano per un momento, e provare il peso.

ERCOLE. In fe d’Ercole, se io non avessi provato, io non poteva mai credere. Ma che è quest’altra novità che vi scuopro? L’altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto.

ATLANTE. Anche di questo non ti so dire altro, se non ch’egli è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile: e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre. Ma poi veduto che non marciva, mi risolsi che di animale che prima era, si fosse convertito in pianta, come Dafne e tanti altri; e che da questo nascesse che non si muoveva e non fiatava: e ancora dubito che fra poco non mi gitti le radici per le spalle, e non vi si abbarbichi.

ERCOLE.  Io piuttosto credo che dorma, e che questo sonno sia della qualità di quello di Epimenide, che durò un mezzo secolo e più: o come si dice di Ermotimo, che l’anima gli usciva dal corpo ogni volta che voleva, e stava fuori molti anni, andando a diporto per diversi paesi, e poi tornava, finchè gli amici per finire questa canzona, abbruciarono il corpo; e così lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era disfatta, e che se voleva alloggiare al coperto, gliene conveniva pigliare un’altra a pigione, o andare all’osteria. Ma per fare che il mondo non dorma in eterno, e che qualche amico o benefattore, pensando che egli sia morto, non gli dia fuoco, io voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.

ATLANTE. Bene, ma che modo?

ERCOLE. Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e che io non ne facessi una cialda, o che la crosta, atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in un tratto. Il meglio sarà ch’io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa sferuzza. Mi dispiace ch’io non ho recato i bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell’orto: ma le pugna basteranno.

ATLANTE. Appunto; acciocchè tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia di entrare in terzo, colla sua palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come Fetonte nel Po.

ERCOLE. Vero, se io fossi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo figliuolo proprio; e non fossi anche tale, che se i poeti popolarono le città col suono della lira, a me basta l’animo di spopolare il cielo e la terra a suono di clava. E la sua palla, con un calcio che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino all’ultima soffitta del cielo empireo. Ma sta sicuro che quando anche mi venisse fantasia di sconficcare cinque o sei stelle per fare alle castelline, o di trarre al bersaglio con una cometa, come con una fromba, pigliandola per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco del disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la nostra intenzione con questo giuoco è di far bene al mondo, e non come quella di Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio quando salì sul carro e di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e colle altre belle costellazioni, alle quali è voce che nel passare venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline di luce confettate; e di fare una bella mostra di sè tra gli Dei del cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa. Insomma, della collera di mio padre non te ne dare altro pensiero, che io m’obbligo, in ogni caso, a rifarti i danni; e senza più cavati il cappotto e manda la palla.

ATLANTE. O per grado o per forza, mi converrà fare a tuo modo; perchè tu sei gagliardo e coll’arme, e io disarmato e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere, che non se le aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si schiantò dall’Italia e l’Affrica dalla Spagna; o non ne saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno, tanto che ne nascesse una guerra.

ERCOLE. Per la parte mia non dubitare.

ATLANTE. A te la palla. Vedi che ella zoppica, perchè l’è guasta la figura.

ERCOLE. Via dàlle un po’ più sodo, chè le tue non arrivano.

ATLANTE. Qui la botta non vale, perchè ci tira garbino al solito, e la palla piglia vento, perch’è leggera.

ERCOLE. Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento.

ATLANTE. In verità non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non balza d’in sul pugno più che un popone.

ERCOLE. Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un capriolo.

ATLANTE. Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch’ella cade: mal abbia il momento che tu ci sei venuto.

ERCOLE. Così falsa e terra terra me l’hai rimessa, che io non poteva essere a tempo se m’avessi voluto fiaccare il collo. Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s’ode un fiato e non si vede muovere un’anima, e mostra che tutti dormano come prima.

ATLANTE. Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’è seguito per tua cagione.

ERCOLE. Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l’altre una dove dice che l’uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perchè il mondo è caduto, e niuno s’è mosso.

ATLANTE. Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto a scolparmi con tuo padre, chè io m’aspetto di momento in momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.

II. DIÁLOGO DE HÉRCULES Y DE ATLAS [5]

HÉRCULES. Padre Atlas, Júpiter me manda, y quiere que te salude de su parte, y en el caso en que estés rendido por este peso, me lo eche yo encima durante algunas horas, como hice no recuerdo cuántos siglos hace, de modo que tú respires y descanses un poco.

ATLAS. Te lo agradezco, querido Herculino, y me considero obligado a la majestad de Júpiter. Pero el mundo[6] se ha aligerado tanto, que este abrigo que llevo para protegerme de la nieve pesa más que él; y, si no fuera porque la voluntad de Júpiter me obliga a estar aquí quieto y a sostener esta bolita sobre la espalda, yo me la pondría debajo del brazo o en el bolsillo, o me la pondría colgando de un pelo de la barba, y me iría por ahí a mis asuntos.

HÉRCULES. ¿Cómo es que se ha aligerado tanto? Me doy cuenta de que ha cambiado de forma, que se ha vuelto como un panecillo, y ya no es redonda, como era cuando yo estudié cosmografía para realizar aquella grandísima navegación con los Argonautas. Aun así, no puedo comprender cómo puede pesar ahora menos.

ATLAS. La causa no la conozco yo. Pero de la ligereza de la que hablo, tú mismo puedes darte cuenta ahora mismo, basta con que quieras cogerla un momento en la mano y tantear su peso.

HÉRCULES. Por Hércules, si yo no lo hubiera comprobado, no podría creerlo nunca. Pero ¿qué es esta otra novedad que descubro? La otra vez que yo la sostuve, palpitaba fuerte sobre mi espalda, como el corazón de los animales; y emitía cierto zumbido continuo, que parecía un avispero. Pero, ahora, en cuanto a la palpitación, parece un reloj con la ruedecilla rota; y en cuanto al zumbido, no oigo ni un susurro.

ATLAS. Tampoco de esto puedo decirte nada, sino que hace bastante tiempo que el mundo dejó de hacer cualquier movimiento o rumor sensible;  y yo tuve una grandísima sospecha de que se había muerto, y esperaba día tras día que me infectase con su  hedor; y pensaba cómo y dónde podía enterrarlo, y el epitafio que debía ponerle. Pero después, visto que no se pudría, concluí que de animal, como era antes, se había convertido en planta, como Dafne y tantos otros; y que por ello, ni se movía ni murmuraba. Y todavía temo que dentro de poco me eche las raíces por los hombros y que arraigue en ellos.

HÉRCULES. Pues yo creo más que está durmiendo, y que este sueño es como el de Epiménides, [7] que duró medio siglo o más, o como el que se cuenta de Hermótimo, [8]  cuya alma salía de su cuerpo cada vez que quería y estaba fuera muchos años, paseando por diversos países, y luego regresaba, hasta que los amigos, para acabar con esta canción, le quemaron el cuerpo; y así, cuando volvió el alma para entrar, encontró que su casa estaba destruida y que, si quería alojarse a cubierto, debía tomar otra en alquiler o ir a un albergue. Pero, para hacer que el mundo no duerma eternamente, y para que no lo queme algún amigo o benefactor que piense que se ha muerto, quiero que probemos alguna forma de despertarlo.

ATLAS. Bien, pero ¿de qué forma?

HÉRCULES. Yo le daría una buena zurra con esta maza, pero me temo que acabaría de aplastarlo y que no haría de él ni una oblea, o que la corteza, dado que él se ha vuelto tan sutil, no haya adelgazado tanto, que estalle con el golpe como un huevo. Y además no estoy seguro de que los hombres, que en mi tiempo luchaban con los leones cuerpo a cuerpo y ahora con las pulgas, no desfallezcan todos de pronto, con la sacudida. Lo mejor será que yo deje la maza y tú, el abrigo, y que juguemos a la pelota con esta esferucha. Lamento no haber traído los brazales y las raquetas que usamos Mercurio y yo para jugar en casa de Júpiter o en el huerto, pero con los puños bastará.

ATLAS. Justo, para que tu padre, al ver nuestro juego y al tener ganas de jugar también, con su pelota de fuego nos precipite a los dos no sé dónde, como a Faetonte en el Po.

HÉRCULES. Cierto, si yo fuera, como Faetonte, hijo de un poeta, y no su propio hijo; y si yo no fuera tal, si los poetas poblaron las ciudades con el sonido de la lira, a mí me basta la voluntad de despoblar el cielo y la tierra con el sonido de la maza. Y su pelota, tan solo con darle un puntapié, la enviaría desde aquí hasta el último desván del cielo empíreo. Pero estáte seguro de que incluso cuando a mí me apeteciera desenclavar cinco o seis estrellas para jugar a las canicas, o tirar al blanco con un cometa, como con una honda, agarrándolo por la cola, o incluso utilizar el sol para jugar al lanzamiento de disco, mi padre haría como el que no ve. Además, nuestra intención en este juego es la de hacerle un bien al mundo, y no  la de Faetonte, que fue mostrarse ágil ante las Horas, quienes le sostuvieron el estribo cuando subió al carro; y ganar fama de buen cochero entre Andrómeda, Calisto y las demás hermosas constelaciones, a las cuales, mientras pasaba, se dice, les lanzaba ramitos de rayos y bolitas de luz confitadas; y lucirse entre los Dioses del cielo con el paseo de aquel día, que era festivo. En suma, no te preocupes por la cólera de mi padre, pues yo me comprometo, en todo caso, a compensarte de los daños. Y sin más dilaciones, quítate el abrigo y tírame la pelota.

ATLAS. De mal grado o de buen grado me conviene hacer lo que propones, porque eres gallardo y estás armado, y yo estoy desarmado y viejo. Pero procura, al menos, que no se caiga, para que no le salgan más chichones, ni se le aplaste o reviente ninguna parte, como le sucedió cuando Sicilia se separó de Italia, y África de España, ni se le desgaje una astilla, es decir, una provincia o un reino, no sea que se desencadene una guerra.

HÉRCULES. Por mí, no lo dudes.

ATLAS. Para ti la pelota. Mira que cojea, porque se ha deformado.

HÉRCULES. Vamos, dale un poco más fuerte, que así no llega.

ATLAS. Aquí de nada sirve golpear, pues sopla el garbino, como siempre, y la pelota vuela, pues no pesa.

HÉRCULES. Ese es su viejo vicio, ir a la caza del viento.

ATLAS. Verdaderamente no estaría mal que la hincháramos, pues veo que no bota sobre el puño más que un melón.  

HÉRCULES. Este defecto es nuevo, pues en la antigüedad brincaba y saltaba como un gamo.

ATLAS. Corre ligero hacia allá, rápido te digo, mira por Dios que se cae. Maldito sea el momento en que has venido.

HÉRCULES. Me la has lanzado tan engañosamente y tan a ras del suelo, que no habría podido llegar a tiempo ni siquiera si me hubieras querido romper el cuello. ¡Ay de mí, pobrecita!, ¿cómo estás?, ¿sientes dolor en alguna parte? No se oye ni la respiración y no se ve alma que se mueva, y parece que todos duermen como antes.

ATLAS. Dámela por todos los cuernos de la Estigia, que me la acomode en los hombros. Y tú, coge la maza y vuelve rápido al cielo para excusarme con Júpiter de este caso que ha sucedido por tu causa.

HÉRCULES. Así lo haré. Hace muchos siglos que está en casa de mi padre un poeta que se llama Horacio, admitido como poeta de corte gracias a Augusto, que había sido deificado por Júpiter por ciertas consideraciones que se tuvieron que tener con el poder de los romanos. Este poeta va canturreando ciertas canciones suyas, y entre ellas hay una que dice que el hombre justo no se mueve aunque caiga el mundo. Creo que hoy todos los hombres son justos, pues el mundo ha caído, y ninguno se ha movido.

ATLAS. ¿Quién duda de la justicia de los hombres? Pero tú no pierdas más tiempo, y corre ligero a disculparme con tu padre, pues temo que, de un momento a otro, un rayo me transformará de Atlas en Etna.

 

[5]  Compuesto en Recanati, entre el 10 y el 13 de febrero de 1824.

[6]  «A pesar de que la mayor parte de las veces se ha dicho que Atlas sostenía el cielo, véase en cambio en el primer libro de la Odisea, v. 52 y ss., y en el Prometeo de Esquilo, v. 347 y ss., que los antiguos también creían que sostenía la tierra.» (N. del A.)

[7] Pastor legendario que fue a buscar una oveja perdida del rebaño de su padre y se quedó dormido en una gruta durante cincuenta y siete años. “Plinio, lib. 7, cap. 52. Diógenes Laercio, lib. 1, segm. 109. Apolonio, Hist. commentit., cap 1. Varrón, de Lingua lat., lib. 7. Plutarco, an seni gerenda sit respub. opp. ed. Francof. 1620, tom. 2, p. 784. Tertuliano, de Anima, cap. 44. Pausanias, lib. 1, cap. 10. Apéndice vaticano de proverbios, centur. 3, proverb. 97. Suidas, voz ; Luciano, Timon. opp. ed. Amstel. 1687, tom. 1, p.69” (N. del A.)

[8] Personaje legendario cuya alma transmigraba, en vida, desde su cuerpo. “Apolonio, Hist. commentit., cap. 3. Plinio, lib. 7, cap. 52. Tertuliano, de Anima cap. 44. Luciano, Encom. Musc. opp. tom. 2,p. 376. Orígenes, contra Cels.  lib. 3, cap. 32.” (N. del A.)

III. DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE

MODA. Madama Morte, madama Morte.

MORTE. Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami.

MODA. Madama Morte.

MORTE. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai.

MODA. Come se io non fossi immortale.

MORTE. Immortale?
                                         Passato è già più che ‘l millesim’anno
che sono finiti i tempi degl’immortali.

MODA. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell’ottocento?

MORTE. Ho care le rime del Petrarca, perchè vi trovo il mio Trionfo, e perchè parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d’attorno.

MODA. Via, per l’amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e guardami.

MORTE. Ti guardo.

MODA. Non mi conosci?

MORTE. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perchè gl’Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl’incavalcassi.

MODA. Io sono la Moda, tua sorella.

MORTE. Mia sorella?

MODA. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?

MORTE. Che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.

MODA. Ma io me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benchè tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra.

MORTE. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce e scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra’ denti con quella vocina da ragnatelo, io t’intenderò domani, perchè l’udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista.

.
.

MODA. Benchè sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perchè siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorchè sia con loro danno.

.
.

MORTE. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l’ho per più certo della morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano. Ma stando così ferma, io svengo; e però, se ti dà l’animo di corrermi allato, fa di non vi crepare, perch’io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti col buon anno.

MODA. Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova, perchè se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu ne svieni, io me ne struggo. Sicchè ripigliamo a correre, e correndo, come tu dici, parleremo dei casi nostri.

MORTE. Sia con buon’ora. Dunque poichè tu sei nata dal corpo di mia madre, saria conveniente che tu mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.

MODA. Io l’ho fatto già per l’addietro più che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo.

MORTE. Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!

MODA. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.

MORTE. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta l’usanza che non si muoia. Ma in questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m’aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto che non ho fatto finora.

MODA. Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie per comparazione a queste che io ti vo’ dire. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co’ loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorchè tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di più, dove per l’addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch’io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perchè una buona parte di se non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell’umidità della sepoltura; a ogni modo intendendo che questo negozio degl’immortali ti scottava, perchè parea che ti scemasse l’onore e la riputazione, ho levata via quest’usanza di cercare l’immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non sono poche nè piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato nella terra, com’è seguito. E per quest’effetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l’avanti non ci partiamo dal fianco l’una dell’altra, perchè stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.

MORTE. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.

III. DIÁLOGO DE LA MODA Y DE LA MUERTE [9]

MODA. Madama Muerte, madama Muerte.

MUERTE. Espera que sea la hora, e iré sin que me llames.

MODA. Madama Muerte.

MUERTE. ¡Con mil diablos! Iré cuando tú no quieras.

MODA. Como si yo no fuera inmortal.

MUERTE. ¿Inmortal?
                        Ya pasaron más de mil años[10]  
desde que acabaron los tiempos de los inmortales.

MODA. ¿También Madama petrarquea como si fuera un lírico italiano del siglo XVI o del XIX?

MUERTE. Amo las rimas de Petrarca, porque en ellas encuentro mi Triunfo [11], y porque hablan de mí casi continuamente. Pero, en fin, quítate de mi lado.

MODA. Vamos, por el amor que sientes por los siete pecados capitales, párate un poco y mírame.

MUERTE. Te miro.

MODA. ¿No me conoces?

MUERTE. Deberías saber que tengo mala vista y que no puedo usar gafas, porque los ingleses no hacen ningunas que me sirvan; y, si las hicieran, yo no tendría dónde colocármelas.

MODA. Soy la Moda, tu hermana.

MUERTE. ¿Mi hermana?

MODA. Sí, ¿no recuerdas que las dos nacimos de la Caducidad?

MUERTE. ¿Cómo me voy a acordar yo, que soy enemiga capital de la memoria?

MODA. Pero yo me acuerdo bien, y sé que las dos intentamos por igual deshacer y remover continuamente las cosas de aquí abajo, aunque tú lo intentes por un camino, y yo por otro.

MUERTE. Si no estás hablando con tu mismo pensamiento o con alguien que tengas dentro del gaznate, alza más la voz y pronuncia mejor las palabras, pues, si sigues murmurando entre dientes con esa vocecilla de telaraña, yo me enteraré mañana, porque el oído, si no lo sabes, no lo tengo mejor que la vista.

MODA. Aunque sea contrario a la educación, y aunque en Francia no se hable para ser oído, justo porque somos hermanas y porque entre nosotras podemos dejarnos de tantas consideraciones, hablaré como quieres. Digo que nuestra naturaleza y costumbre común es la de renovar continuamente el mundo, pero tú desde el principio te lanzaste a las personas y a la sangre; yo, en cambio, me contento con las barbas, con los cabellos, con los vestidos, con los muebles, con los edificios y cosas así. Verdad es, sin embargo, que yo no me he quedado ni me quedo atrás a la hora de hacer juegos comparables a los tuyos, como verbigracia horadar ya las orejas, ya los labios y la nariz, o rasgarlos con las bagatelas que coloco en los agujeros; quemar la carne de los hombres con tatuajes ardientes que yo hago que ellos se impriman por belleza; deformar las cabezas de los niños con vendas y otros ingenios, acostumbrando a todos los hombres del país a tener la cabeza de una forma, como he hecho en América y en Asia;[12] deformarles los pies con los calzados estrechos; cortarles la respiración y hacer que los ojos les estallen con la estrechez de los corsés, y otras cien cosas de este tipo. Incluso cuando hablo en general, induzco y obligo a todos los hombres gentiles a que soporten cada día mil fatigas e incomodidades y, a menudo, dolores y tormentos, y a alguno a que muera gloriosamente, solo por el amor que por mí sienten. No voy a hablar de los dolores de cabeza, de los enfriamientos, de las congestiones de todo tipo, de las fiebres cotidianas, tercianas y cuartanas que los hombres se buscan al obedecerme, consintiendo temblar de frío o ahogarse de calor, de acuerdo con lo que yo quiera, abrigarse los hombros con tejidos de lana y el pecho con los de tela y hacerlo todo como yo dicto, aunque sea para su daño.

MUERTE. En conclusión, yo creo que eres mi hermana y, si quieres, lo considero más seguro que la muerte, sin que tengas que mostrarme la partida de nacimiento. Mira, si nos quedamos así, quietas, yo me desmayo; pero, si te apetece venir conmigo corriendo, ten cuidado de no reventar, porque yo vuelo, y, mientras corremos, podrás decirme lo que necesitas; si no, teniendo en cuenta nuestro parentesco, prometo dejarte todo lo que tengo cuando muera, y quédate con  buen año.

MODA. Si nosotras tuviéramos que correr juntas el palio, no sé quién vencería en la prueba, pues si tú corres, yo voy más que a galope; y si tú te desmayas al quedarte quieta, yo me consumo. Así que echémonos a correr y, mientras corremos, como tú dices, hablaremos de nuestros asuntos.

MUERTE. Ya era hora. Así, visto que has nacido del cuerpo de mi madre, sería conveniente que tú me ayudaras de algún modo a hacer mis cosas.

MODA. Yo lo he hecho en el pasado más de lo que crees. En primer lugar, yo, que anulo y confundo continuamente todas las demás costumbres, nunca permití que en ningún sitio se dejara de morir, y por ello puedes ver que la muerte dura universalmente hasta hoy, desde el principio del mundo.              

MUERTE. ¡Gran milagro, que no hayas hecho lo que no puedes hacer!

MODA. ¿Cómo que no he podido? Parece que no te das cuenta del poder de la moda.

MUERTE. Bueno, bueno. De esto podremos hablar en otro momento, cuando llegue la costumbre de no morir. Pero, entretanto, yo quisiera que tú, como una buena hermana, me ayudaras a obtener lo contrario con más facilidad y más rapidez de como lo he logrado hasta ahora.

MODA. Ya te he contado algunas obras mías que te benefician mucho. Pero esas son una estupidez si las comparamos con las que te voy a contar ahora. De vez en cuando, pero sobre todo en estos últimos tiempos, para favorecerte, he hecho que se abandonen y se olviden las fatigas y los ejercicios que favorecen el bienestar corporal, y he introducido y puesto en buena estima otros muchos que perjudican al cuerpo de mil modos y acortan la vida. Además de esto, he puesto en el mundo tales normas y tales costumbres, que la vida misma, tanto por lo que se refiere al cuerpo como al alma, está más muerta que viva: tanto que este siglo se puede decir que es verdaderamente el siglo de la muerte. Pues, si antiguamente tú no tenías más haciendas que fosas y cavernas, en las que a oscuras sembrabas osamentas y polvo, que son semillas que no fructifican, ahora tienes terrenos al sol; y personas que se mueven y van de aquí para allá con sus propios pies están totalmente en tus manos antes de que tú las hayas segado, mejor dicho, desde que nacieron. Además, allí donde antes solías ser odiada y vituperada, ahora, gracias a mí, las cosas han cambiado de tal modo, que cualquiera con inteligencia te estima y te alaba, anteponiéndote a la vida, y te quiere tanto, que siempre te llama y vuelve hacia ti los ojos, como a su mayor esperanza. Finalmente, como veía que muchos se enorgullecían de querer ser inmortales, es decir, de no morir totalmente, pues una parte de ellos no habría de llegar a tus manos, yo, aunque sabía que estas cosas eran  habladurías y que, cuando estos u otros vivieran en la memoria de los hombres, vivirían, por decirlo de algún modo, de burla, y que no gozarían de su fama más de lo que se sufre la humedad de la sepultura, sin embargo, al entender que este negocio de los inmortales te irritaba, pues parecía cercenarte el honor y la reputación, he quitado la costumbre de buscar la inmortalidad e incluso la de concederla, en el caso de que alguien la mereciera. De modo que, en el presente, del que se muere, estáte segura de que no queda ni una pizca que no haya muerto, por lo que le conviene irse pronto bajo tierra entero, como un pececillo que es engullido de un bocado, con la cabeza y con las espinas. Estas cosas, que no son ni pocas ni pequeñas, he hecho hasta ahora por tu amor, queriendo acrecentar tu poder en la tierra, como ha sucedido. Y, para esto, estoy dispuesta a hacer cada día lo mismo y más; y con esta intención te he estado buscando, pues me parece oportuno que, de ahora en adelante, no nos separemos la una de la otra, pues, estando en compañía, podremos consultarnos mutuamente, según los casos, y tomar mejores decisiones que antes, así como llevarlas a cabo mejor.

MUERTE. Dices la verdad, y así quiero que lo hagamos.

 

[9] Compuesto en Recanati, entre el 10 y el 13 de febrero de 1824.

[10] Petrarca, Rimas, LIII, v. 77.

[11] El tercer Triunfo de Petrarca, Triunfo de la muerte.

[12] «A propósito de esta costumbre, que es común a muchos pueblos bárbaros, de cambiar la forma de las cabezas de modo violento, es notable un pasaje de Hipócrates, Tratado de los aires, las aguas y los lugares (…), sobre un pueblo del Ponto, llamado de los Macrocéfalos, es decir, de cabezas grandes, los cuales tenían la costumbre de oprimir las cabezas de los niños para que se les alargaran cuanto fuera posible; pero, abandonada esta costumbre, los niños nacían con la cabeza alargada, porque, dice Hipócrates, así las tenían sus padres.» (N. del A.)

IV. PROPOSTA DI PREMI FATTA DALL’ACCADEMIA DEI SILLOGRAFI

L’Accademia dei Sillografi attendendo di continuo, secondo il suo principale instituto, a procurare con ogni suo sforzo l’utilità comune, e stimando niuna cosa essere più conforme a questo proposito che aiutare e promuovere gli andamenti e le inclinazioni

Del fortunato secolo in cui siamo,

come dice un poeta illustre; ha tolto a considerare diligentemente le qualità e l’indole del nostro tempo, e dopo lungo e maturo esame si è risolta di poterlo chiamare l’età delle macchine, non solo perchè gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno tutto giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita. Del che la detta Accademia prende sommo piacere, non tanto per le comodità manifeste che ne risultano, quanto per due considerazioni che ella giudica essere importantissime, quantunque comunemente non avvertite. L’una si è che ella confida dovere in successo di tempo gli uffici e gli usi delle macchine venire a comprendere oltre che le cose materiali, anche le spirituali; onde nella guisa che per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini, e da molti simili mali e spaventi, così di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e facciasi grazia alla novità dei nomi), qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o altro ingegno che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl’insensati, de’ ribaldi e de’ vili, dall’universale noncuranza e dalla miseria de’ saggi, de’ costumati e de’ magnanimi, e dagli altri sì fatti incomodi, i quali da parecchi secoli in qua sono meno possibili a distornare che già non furono gli effetti dei fulmini e delle grandini. L’altra cagione e la principale si è che disperando la miglior parte dei filosofi di potersi mai curare i difetti del genere umano, i quali, come si crede, sono assai maggiori e in più numero che le virtù; e tenendosi per certo che sia piuttosto possibile di rifarlo del tutto in una nuova stampa, o di sostituire in suo luogo un altro, che di emendarlo; perciò l’Accademia dei Sillografi reputa essere espedientissimo che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio. E deliberata di concorrere con ogni suo potere al progresso di questo nuovo ordine delle cose, propone per ora tre premi a quelli che troveranno le tre macchine infrascritte.

 

L’intento della prima sarà di fare le parti e la persona di un amico, il quale non biasimi e non motteggi l’amico assente; non lasci di sostenerlo quando l’oda riprendere o porre in giuoco; non anteponga la fama di acuto e di mordace, e l’ottenere il riso degli uomini, al debito dell’amicizia; non divulghi, o per altro effetto o per aver materia da favellare o da ostentarsi, il segreto commessogli; non si prevalga della familiarità e della confidenza dell’amico a soppiantarlo e soprammontarlo più facilmente; non porti invidia ai vantaggi di quello; abbia cura del suo bene e di ovviare o di riparare a’ suoi danni, e sia pronto alle sue domande e a’ suoi bisogni, altrimenti che in parole. Circa le altre cose nel comporre questo automato si avrà l’occhio ai trattati di Cicerone e della Marchesa di Lambert sopra l’amicizia. L’Accademia pensa che l’invenzione di questa così fatta macchina non debba essere giudicata nè impossibile, nè anche oltre modo difficile,  atteso che, lasciando da parte gli automati del Regiomontano, del Vaucanson e di altri, e quello che in Londra disegnava figure e ritratti, e scriveva quanto gli era dettato da chiunque si fosse; più d’una macchina si è veduta che giocava agli scacchi per se medesima. Ora a giudizio di molti savi, la vita umana è un giuoco, ed alcuni affermano che ella è cosa ancora più lieve, e che tra le altre, la forma del giuoco degli scacchi è più secondo ragione, e i casi più prudentemente ordinati che non sono quelli di essa vita. La quale oltre a ciò, per detto di Pindaro, non essendo cosa di più sostanza che un sogno di un’ombra, ben debbe esserne capace la veglia di un automato. Quanto alla favella, pare che non si possa volgere in dubbio che gli uomini abbiano facoltà di comunicarla alle macchine che essi formano, conoscendosi questa cosa da vari esempi, e in particolare da ciò che si legge della statua di Mennone e della testa fabbricata da Alberto Magno, la quale era sì loquace, che perciò san Tommaso di Aquino, venutagli in odio, la ruppe. E se il pappagallo di Nevers, con tutto che fosse una bestiolina, sapeva rispondere e favellare a proposito, quanto maggiormente è da credere che possa fare questi medesimi effetti una macchina immaginata dalla mente dell’uomo e construtta dalle sue mani; la quale già non debbe essere così linguacciuta come il pappagallo di Nevers ed altri simili che si veggono e odono tutto giorno, nè come la testa fatta da Alberto magno, non le convenendo infastidire l’amico e muoverlo a fracassarla. L’inventore di questa macchina riporterà in premio una medaglia d’oro di quattrocento zecchini di peso, la quale da una banda rappresenterà le immagini di Pilade e di Oreste, dall’altra il nome del premiato col titolo: PRIMO VERIFICATORE DELLE FAVOLE ANTICHE.

La seconda macchina vuol essere un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime. L’Accademia reputa che i vapori, poichè altro mezzo non pare che vi si trovi, debbano essere di profitto a infervorare un semovente e indirizzarlo agli esercizi della virtù e della gloria.Quegli che intraprenderà di fare questa macchina, vegga i poemi e i romanzi, secondo i quali si dovrà governare circa le qualità e le operazioni che si richieggono a questo automato. Il premio sarà una medaglia d’oro di quattrocento cinquanta zecchini di peso, stampatavi in sul ritto qualche immaginazione significativa della età d’oro e in sul rovescio il nome dell’inventore della macchina con questo titolo ricavato dalla quarta egloga di Virgilio, QVO FERREA PRIMVM DESINET AC TOTO SVRGET GENS AVREA MVNDO .

La terza macchina debbe essere disposta a fare gli uffici di una donna conforme a quella immaginata, parte dal conte Baldassar Castiglione, il quale descrisse il suo concetto nel libro del Cortegiano, parte da altri, i quali ne ragionarono in vari scritti che si troveranno senza fatica, e si avranno a consultare e seguire, come eziandio quello del Conte. Nè anche l’invenzione di questa macchina dovrà parere impossibile agli uomini dei nostri tempi, quando pensino che Pigmalione in tempi antichissimi ed alieni dalle scienze si potè fabbricare la sposa colle proprie mani, la quale si tiene che fosse la miglior donna che sia stata insino al presente. Assegnasi all’autore di questa macchina una medaglia d’oro in peso di cinquecento zecchini, in sulla quale sarà figurata da una faccia l’araba fenice del Metastasio posata sopra una pianta di specie europea, dall’altra parte sarà scritto il nome del premiato col titolo: INVENTORE DELLE DONNE FEDELI E DELLA FELICITÀ CONIUGALE.

L’Accademia ha decretato che alle spese che occorreranno per questi premi, suppliscasi con quanto fu ritrovato nella sacchetta di Diogene, stato segretario di essa Accademia, o con uno dei tre asini d’oro che furono di tre Accademici sillografi, cioè a dire di Apuleio, del Firenzuola e del Macchiavelli; tutte le quali robe pervennero ai Sillografi per testamento dei suddetti, come si legge nella storia dell’Accademia.

IV. PROPUESTA DE PREMIOS HECHA POR LA ACADEMIA DE LOS SILÓGRAFOS [13]

La Academia de los silógrafos,[14] pendiente continuamente, de acuerdo con su principal propósito, de procurar con todo su esfuerzo la utilidad común, y pensando que ninguna se adecuaría más a este que ayudar a promover las andanzas y las inclinaciones

                         Del afortunado siglo en que estamos,

como dice un poeta ilustre,[15] ha comenzado a considerar diligentemente las cualidades y la índole de nuestro tiempo y, después de largo y maduro examen, ha resuelto que puede llamarlo la edad de las máquinas, no solo porque los hombres de hoy día se comportan y viven quizás de un modo más mecánico que todos sus precedentes, sino incluso por respeto al grandísimo número de máquinas inventadas y fabricadas hace poco o que cada día se encuentran y se fabrican para tantas y tan variadas actividades, de modo que, ahora, se puede decir, son las máquinas y no los hombres las que se ocupan de las cosas humanas y hacen los trabajos de la vida. De ello, la nombrada Academia recibe sumo placer, no tanto por las comodidades manifiestas que se derivan, como por dos consideraciones que encuentra importantísimas, aunque comúnmente no sean advertidas. Una es que confía en que, conforme transcurra el tiempo, las aplicaciones y los usos de las máquinas deberán llegar a englobar además de las cosas materiales, las espirituales, por lo cual, del mismo modo que por virtud de esas máquinas ya nos liberamos y nos aseguramos de las ofensas de los rayos y de los granizos, y de muchos males y temores semejantes, poco a poco se inventará, a modo de ejemplo (y nótese la novedad de los términos), algún paraenvidia, algún paracalumnias o paraperfidia o parafraudes, algún hilo de salud u otro artificio que nos libere del egoísmo, del predominio de la mediocridad, de la próspera fortuna de insensatos, sinvergüenzas y viles; del universal desamparo y de la miseria de los sabios, los bien educados y los magnánimos, y de los demás fastidios que, desde hace bastantes siglos, son más inevitables de lo que lo fueran, en otro tiempo, los efectos de rayos y granizos. La otra y principal razón es que, ante la desesperación de los mejores filósofos, que no pueden remediar los defectos del género humano, pues son, como se cree, más y mayores que las virtudes, y ante su convicción de que es más fácil rehacerlo por completo de acuerdo con un nuevo modelo o sustituirlo por otro, antes que enmendarlo, la Academia de los Silógrafos piensa que es oportunísimo que los hombres se aparten de los negocios de la vida cuanto sea posible y que, poco a poco, den entrada y cedan su lugar a las máquinas. Y, tras haber deliberado que contribuiría con todo su poder al progreso de este nuevo orden de cosas, propone, por ahora, tres premios para los que inventen las tres máquinas abajo descritas.

El objetivo de la primera será que haga las veces y la persona de un amigo, que no critique ni escarnezca al amigo ausente, que no deje de defenderlo cuando oiga que lo reprenden o que se ríen de él, que no anteponga su fama de agudo y de mordaz y el deseo de obtener la risa de los hombres al deber de la amistad, que no divulgue el secreto que se le ha confiado[16] por tener materia de la que hablar o de la que presumir o por cualquier otra razón, que no se valga de la familiaridad y de la confianza del amigo para suplantarlo o sustituirlo con más facilidad, que no envidie las ventajas de aquel, que se preocupe de su bien y de reducir y reparar sus daños, que esté dispuesto a responder a sus peticiones y a sus necesidades con algo más que palabras. Con respecto a las demás cosas que se deben tener en cuenta para componer este autómata, se atenderá a los tratados de Cicerón y de la marquesa de Lambert[17] sobre la amistad. La Academia cree que la invención de esta máquina no debe ser considerada ni imposible ni muy difícil, dado que, dejando aparte los autómatas de Regiomontano, de Vaucanson[18] y de otros, y el que en Londres dibujaba figuras y retratos, y escribía lo que cualquiera le dictaba, se ha visto a más de una máquina jugar al ajedrez por sí misma. Además, a juicio de muchos sabios, la vida humana es un juego, y algunos afirman que es incluso más leve y que, comparado con los demás, el juego del ajedrez es más razonable y que los azares que lo rigen están ordenados de modo más prudente que los de la vida. Y si, además de eso, esta no es, según un dicho de Píndaro,[19] algo más sustancial que el sueño de una sombra, bien puede realizar esto un autómata. En cuanto al habla, parece que no se puede poner en duda que los hombres tienen la facultad de dársela a las máquinas que fabrican, pues esto lo conocemos por varios ejemplos y, en particular, por lo que se lee de la estatua de Menón[20] y de la cabeza fabricada por Alberto Magno,[21]  que era tan locuaz que Santo Tomás, habiendo llegado a odiarla, la rompió. Y si el papagayo de Nevers,[22] a pesar de ser un animalillo, sabía responder y hablar con coherencia, cuánto más no se va a creer que pueda hacer esto mismo una máquina ideada por la mente del hombre y construida con sus manos, la cual ya no será tan parlanchina como el papagayo de Nevers y otros similares que se ven y oyen todo el día, ni como la cabeza hecha por Alberto Magno, pues no le conviene fastidiar al amigo e impulsarlo a que la destroce. El inventor de esta máquina recibirá como premio una medalla de oro de cuatrocientos cequíes de peso que, por un lado, presentará las imágenes de Pílades y de Orestes[23] y, por el otro, el nombre del premiado con el lema PRIMER VERIFICADOR DE LAS FÁBULAS ANTIGUAS.

La segunda máquina será un hombre artificial de vapor, preparado y ordenado para que realice empresas virtuosas y magnánimas. La Academia piensa que los vapores, pues no parece que se encuentre otro medio, deben servir para estimular a un autómata y para guiarlo a la práctica de la virtud y de la gloria. El que emprenda el diseño de esta máquina, que vea los poemas y cantares épicos, con los cuales se deberá aleccionar para saber las cualidades y trabajos que se requieren de este autómata. El premio consistirá en una medalla de oro de cuatrocientos cincuenta cequíes de peso, en una de cuyas caras se representará alguna imagen significativa de la edad de oro y, en el envés, el nombre del inventor de la máquina con este lema sacado de la cuarta égloga de Virgilio, QUO FERREA PRIMUM DESINET AC TOTO SURGET GENS AUREA MUNDO. [24]

La tercera máquina debe estar preparada para hacer los trabajos de una mujer que sea conforme a la imaginada, en parte, por el conde Baldassar Castiglione, quien describió su concepto en el libro de El Cortesano, en parte, por otros que trataron de ello en varios escritos que se encontraránn sin dificultad y que tendrán que ser consultados y respetados, lo mismo que el del Conde. Tampoco la invención de esta máquina debe parecerles imposible a los hombres de nuestro tiempo, si piensan que Pigmalión,[25] en tiempos antiquísimos y desconocedores de las ciencias, pudo fabricarse a su esposa con sus propias manos, de la que se piensa que fue la mejor mujer que haya existido hasta el presente. Se asignará al autor de esta máquina una medalla de oro del peso de quinientos cequíes, en una de cuyas caras figurará el árabe ave fénix de Metastasio[26] sobre una especie de planta europea y, en la otra, se escribirá el nombre del premiado con el lema INVENTOR DE LAS MUJERES FIELES Y DE LA FELICIDAD CONYUGAL.

La Academia ha decretado que los gastos que ocasionarán estos premios se suplan con lo que se encontró en el saquillo de Diógenes,[27] quien fue secretario de esta Academia, o con uno de los tres asnos de oro que poseyeron tres académicos silógrafos, a saber, Apuleyo, Firenzuola y Maquiavelo,[28] cosas que heredaron los silógrafos por testamento de los mismos, como puede leerse en la historia de la Academia. 

 

[13] Compuesta en Recanati, entre el 22 y el 25 de febrero de 1824.

[14] Los silógrafos son escritores de «silloi», composiciones satíricas griegas. Esta academia no existió nunca, es una metáfora irónica de la sociedad del progreso.

 [15] Casti, Animales hablantes, XVIII, 106: «de los afortunados siglos en que estamos».

[16] El retrato del amigo fiel es un calco de Horacio, Sátiras, I, 4, vv. 81-86

[17]  Laelio o sobre la amistad de Cicerón y Tratado de la amistad de Anne de Lambert.

[18] Johann Müller (1436-1476), conocido como Regiomontano, y Jacques de Vaucanson (1709-1782) fueron famosos constructores de autómatas.                 

[19]  Píticas, VIII, vv. 135-136: «¡Seres de un día! ¿Qué es uno? ¿Qué no es? El hombre es / El sueño de una sombra.»

[20] A Menón, rey de Etiopía, hijo de la Aurora, se le erigieron grandes estatuas que, cuando eran golpeadas por los rayos, emitían un sonido, según Estrabón.

[21] Filósofo alemán (s. XIII), maestro de Santo Tomás, que inventó algunos autómatas.

[22] “Véase el Vert-Vert de Gresset “. (N. del A.)

[23] Orestes, hijo de Agamenón, y su amigo y primo Pílades vengaron la muerte de Agamenón. La amistad de ambos fue ejemplar, de ahí que se acompañaran y ayudaran en multitud de empresas.

[24] Bucólicas, IV, vv 8-9: «con quien la raza de hierro / comenzará a declinar, mientras surge la de oro doquiera» (Virgilio, Bucólicas, trad. de Vicente Cristóbal, Cátedra, Madrid, 1996, p. 141).

[25] Rey mitológico de Chipre y escultor insigne. Rechazó el amor para consagrarse a su arte, pero se enamoró de una de sus estatuas, a la que, Afrodita, compadecida de tanto amor, le dio vida.

[26] Cfr. Metastasio, Demetrio, acto II, escena 3: «Es la fe de los amantes / tal el árabe ave fénix; / que existe, todos lo dicen; / dónde está, nadie lo sabe.»

[27] Alusión jocosa a la absoluta pobreza de Diógenes, filósofo cínico del s. IV a. C.

[28] Apuleyo escribió una obra con dicho título, El asno de oro; Firenzuola, una versión de la misma; Maquiavelo, el poema satírico Del asno de oro.

V. DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO

FOLLETTO. Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?

GNOMO. Mio padre m’ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perchè ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.

FOLLETTO. Voi gli aspettate invan: son tutti morti,
diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.

GNOMO. Che vuoi tu inferire?

FOLLETTO. Voglio inferire che gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.

GNOMO. Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.

FOLLETTO. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?

GNOMO. Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?

     

FOLLETTO. Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perchè, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni nè imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perchè sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.

GNOMO. Nè anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perchè non si stamperanno più lunari.

FOLLETTO. Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.

GNOMO. E i giorni della settimana non avranno più nome.

FOLLETTO. Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poichè sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?

GNOMO. E non si potrà tenere il conto degli anni.

FOLLETTO. Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo, e non misurando l’età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.

GNOMO. Ma come sono andati a mancare quei monelli?

FOLLETTO. Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.

GNOMO. A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.

FOLLETTO. Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.

GNOMO. Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benchè sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.

FOLLETTO. E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.

GNOMO. Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.

FOLLETTO. Perchè? io parlo bene sul sodo.

GNOMO. Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?

FOLLETTO. Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, il mare, le campagne?

GNOMO. Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?

FOLLETTO. Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.

GNOMO. Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a quello, s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.

FOLLETTO. Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagatella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo e le storie delle loro genti, storie del mondo, benchè si potevano numerare, anche dentro ai termini nella terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.

GNOMO. Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?

FOLLETTO. Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza come essi dicevano.

GNOMO. In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.

FOLLETTO. Ma i porci, secondo Crisippo, erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocchè non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.

GNOMO. Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.

FOLLETTO. E anche quest’altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste nè conosciute dagli uomini loro padroni; o perchè elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimenti di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perchè s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.

GNOMO. Sicchè, in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l’aria avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.

FOLLETTO. Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorchè non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.

GNOMO. E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.

FOLLETTO. E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.

V. DIÁLOGO DE UN DUENDE Y DE UN GNOMO [29]

DUENDE. ¿Oh, aquí estás tú, hijo de Sabacio? [30] ¿Adónde vamos?

GNOMO. Mi padre me ha enviado a indagar qué diablo están maquinando estos truhanes de los hombres; porque está muy preocupado, pues desde hace tiempo ni nos molestan, ni se ve a uno de ellos en todo su reino. Teme que estén preparando algo en su contra, a no ser que hayan vuelto a vender y a comprar con ovejas, y no con oro y plata, o que los pueblos civilizados se contenten con billetitos en lugar de monedas, como han hecho otras veces, o con cuentas de vidrio, como hacen los bárbaros, o que hayan sido restauradas las leyes de Licurgo, lo que le parece menos verosímil.

DUENDE. Los esperáis en vano; han muerto todos, decía el final de una tragedia en la que morían todos los personajes.

GNOMO. ¿Qué quieres decir?

DUENDE. Quiero decir que todos los hombres han muerto, que se ha perdido su especie.

GNOMO. Oh, esto es cosa de gacetas. Pero, hasta ahora, no se ha visto que hablen de ello.

DUENDE. Estúpido, ¿no te das cuenta de que, muertos los hombres, ya no se imprimen gacetas?

GNOMO. Es verdad.  Y ahora, ¿cómo haremos para saber las nuevas del mundo?

DUENDE. ¿Qué nuevas?, ¿que el sol ha salido o se ha puesto, que hace frío o calor, que aquí o allí ha llovido o ha nevado o ha azotado el viento? Porque, al faltar los hombres, la fortuna se ha quitado la venda y, con las gafas puestas y con la rueca colgada de un clavo, está con las manos en cruz, sentada, mirando las cosas del mundo sin meter más las manos. Ya no se encuentran ni reinos ni imperios que se inflen y estallen como burbujas, pues todos se han perdido, no hay guerras y todos los años se parecen los unos a los otros como un huevo a otro huevo.

GNOMO. Ni siquiera se podrá saber a cuánto estamos de mes, porque ya no se editarán lunarios.

DUENDE. Eso no será una desgracia, pues la luna no va a equivocarse de camino por eso.

GNOMO. Y los días de la semana ya no tendrán nombres.

DUENDE. ¿Y qué?, ¿tienes miedo de que no vengan si no los llamas por sus nombres?, ¿o quizás crees que, una vez que hayan pasado, van a volver si tú los llamas?

GNOMO. Y no se podrá llevar la cuenta de los años.

DUENDE. Así nos haremos pasar por jóvenes incluso si pasa el tiempo; y, al no contar el tiempo pasado, nos preocuparemos menos de él; y, cuando seamos viejísimos, no nos quedaremos esperando la muerte día tras día.

GNOMO. Pero ¿cómo han desaparecido esos granujas?

DUENDE. Una parte, haciéndose la guerra; otra, navegando; otra, comiéndose el uno al otro; otra, que no estaba formada por pocos, matándose con sus propias manos; otra, empapándose de ocio; otra, exprimiéndose el cerebro con los libros; otra, estando de francachela y enredando en mil cosas, y otra, finalmente, estudiando todas las maneras para atentar contra su propia naturaleza y acabar mal.

GNOMO. De todos modos, yo no logro entender cómo toda una especie de animales se puede perder de raíz, como tú dices.

DUENDE. Tú, que eres maestro en geología, deberías saber que el caso no es nuevo, y que varias clases de animales que existieron antes ya no existen, excepto unas pocas osamentas petrificadas. Y cierto es que aquellas pobres criaturas, tal como te decía antes, no se sirvieron de tantos artificios como los hombres para buscar su perdición.

GNOMO. Será como dices. Desearía que uno o dos de esa chusma resucitaran para saber lo que pensarían cuando vieran que las demás cosas, aunque el género humano haya desaparecido, aún viven y se comportan como antes, mientras que ellos creían que todo el mundo había sido hecho y mantenido para ellos solos.

DUENDE. Y no querían entender que está hecho y mantenido para los duendes.

GNOMO. Tú desvarías verdaderamente, si hablas en serio.

DUENDE. ¿Por qué?, hablo muy en serio.

GNOMO. Vamos, bufoncillo, vamos. ¿Quién no sabe que el mundo está hecho para los gnomos?

DUENDE. ¿Para los gnomos, que están siempre bajo tierra? ¡Oh, oír esto sí que es bueno! ¿Qué tienen que ver con los gnomos el sol, la luna, el aire, el mar y los campos?

GNOMO. ¿Qué tienen que ver con los duendes las cuevas de oro y de plata y todo el interior de la tierra, a no ser la primera piel?

DUENDE. Bueno, bueno, tengan o no que ver, dejemos esta disputa, que yo estoy seguro de que incluso las lagartijas y los mosquitos se creen que todo el mundo se ha hecho aposta para que se sirvan de él sus propias especies. Así que cada uno se quede con su opinión, pues nadie se la quitaría de la cabeza; y, por mi parte, te digo solo esto, que, si yo no hubiera nacido duende, me desesperaría.

GNOMO. Lo mismo me sucedería a mí, si no hubiera nacido gnomo. Me gustaría saber lo que dirían los hombres de su presunción, por la cual, entre otras cosas que le hacían a este o a aquel, penetraban a mil brazas bajo tierra y nos robaban, a la fuerza, nuestras cosas, diciendo que le pertenecían al género humano y que la naturaleza se las había escondido y sepultado allá abajo para burlarse, queriendo saber si las encontrarían y las subirían hasta fuera.

DUENDE. No hay que maravillarse de esto. No solo se persuadían de que las cosas del mundo tenían el único objeto de estar a su servicio, sino que consideraban que todo junto, comparado con el género humano, era una bagatela. Y, por ello, a sus propias experiencias las llamaban revoluciones del mundo, a las historias de su gente, historias del mundo, aunque se podrían contar, aun dentro de los límites de la tierra, quizás tantas otras especies, no digo de criaturas, sino solo de animales, como de cabezas de hombres vivos, animales que, hechos expresamente para uso de ellos, no se daban cuenta nunca, sin embargo, de que el mundo se revolviera.

GNOMO. ¿También los mosquitos y las pulgas estaban hechos para beneficio de los hombres?

DUENDE. También.  Para ejercitarse en la paciencia, decían ellos.

GNOMO. Verdaderamente les faltaba ocasión de ejercitar la paciencia, a no ser por las pulgas.

DUENDE.  Y los cerdos, según Crisipo,[31] eran pedazos de carne preparados por la naturaleza justo para ser cocinados y almacenados por los hombres; y para que no se pudrieran, condimentados con la vida, en lugar de sal.

GNOMO. Pues yo, por el contrario, creo que si Crisipo hubiera tenido en el cerebro un poco de sal, en lugar de vida, no habría creído tal despropósito.

DUENDE.  También esta es graciosa: infinitas especies de animales nunca fueron vistas ni conocidas por sus dueños los hombres, bien porque viven en lugares en los que estos no pusieron nunca el pie, bien porque son tan pequeñas, que ellos no llegaron de ningún modo a descubrirlas. Y de muchísimas otras especies no se dieron cuenta hasta casi el final. Algo parecido se puede decir de las plantas y de otras mil cosas. De igual modo, de vez en cuando, gracias a sus catalejos, se percataban de alguna estrella o algún planeta que, hasta entonces, durante miles y miles de años no habían sabido que existieran, y, de pronto, los anotaban entre sus pertenencias, porque imaginaban que las estrellas y los planetas eran, por así decirlo, velillas plantadas allí en lo alto para iluminar a sus señorías cuando, por las noches, tenían gran faena.

GNOMO. De tal modo que, cuando durante el verano veían caer del cielo aquellas llamitas que algunas noches suelen caer por el aire, habrán dicho que algún espíritu iba quitándoles el moco a las estrellas para hacerles un servicio a los hombres.

DUENDE. Pero, ahora que han desaparecido todos, la tierra no siente que le falte nada, y los ríos no están cansados de correr y, aunque ya no sirva para la navegación ni el tráfico, no vemos que el mar se seque.

GNOMO. Y las estrellas y los planetas no han dejado de salir y ponerse, ni se han vestido de luto.

DUENDE. Ni el sol se ha enlucido la cara con orín, como hizo, según Virgilio, [32] por la muerte de César, de la cual, creo yo, se preocupó tanto como la estatua de Pompeyo. [33]

 

[29] Compuesto en Recanati, entre el 2 y el 6 de marzo de 1824. Entre 1820 y 1822, Leopardi redactó dos esbozos – Diálogo entre dos animales. P.E. un caballo y un toro y Diálogo entre un caballo y un buey – que son el precedente de esta obra.

[30] Dios frigio-tracio, identificado con Dionisio debido a los ritos de carácter orgiástico con que era venerado.

[31] “ ´Sus vero quid habet praeter escam? cui quidem, ne putisceret, animam ipsam, pro sale, datam dicit esse Chrisippus.` Cicerón, De natura deorum, lib. 2, cap. 64.” (N. del A.)

[32] Geórgicas, I, 466-467: » Él, también, se compadeció de Roma, cuando, tras haber sido asesinado César, cubrió de oscura herrumbre su límpida faz» (Bucólicas. Geórgicas, trad. de Alfonso Cuatrecasas, Planeta, Barcelona, 1988, pág. 83)

[33] El sol sintió por la muerte de César, tanta indiferencia como sintió la estatua de Pompeyo, junto a la cual fue asesinado; y siente, por la desaparición del género humano, la misma indiferencia que sienten los demás elementos del universo.

VI. DIALOGO DI MALAMBRUNO E FARFARELLO

MALAMBRUNO. Spiriti d’abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte, Alichino, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù, e vi comando per la virtù dell’arte mia, che può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il cielo: venga uno di voi con libero comando del vostro principe e piena potestà di usare tutte le forze dell’inferno in mio servigio.

FARFARELLO. Eccomi.

MALAMBRUNO. Chi sei?

FARFARELLO. Farfarello, a’ tuoi comandi.

MALAMBRUNO. Rechi il mandato di Belzebù?

FARFARELLO. Sì recolo; e posso fare in tuo servigio tutto quello che potrebbe il Re proprio, e più che non potrebbero tutte l’altre creature insieme.

MALAMBRUNO. Sta bene. Tu m’hai da contentare d’un desiderio.

FARFARELLO. Sarai servito. Che vuoi? nobiltà maggiore di quella degli Atridi?

MALAMBRUNO. No.

FARFARELLO. Più ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa quando sarà scoperta?

MALAMBRUNO. No.

FARFARELLO. Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?

MALAMBRUNO. No.

FARFARELLO. Recare alle tue voglie una donna più salvatica di Penelope?

MALAMBRUNO. No. Ti par egli che a cotesto ci bisognasse il diavolo?

FARFARELLO. Onori e buona fortuna così ribaldo come sei?

MALAMBRUNO. Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo se volessi il contrario.

FARFARELLO. In fine, che mi comandi?

MALAMBRUNO. Fammi felice per un momento di tempo.

FARFARELLO. Non posso.

MALAMBRUNO. Come non puoi?

FARFARELLO. Ti giuro in coscienza che non posso.

MALAMBRUNO. In coscienza di demonio da bene.

FARFARELLO. Sì certo. Fa conto che vi sia de’ diavoli da bene come v’è degli uomini.

MALAMBRUNO. Ma tu fa conto che io t’appicco qui per la coda a una di queste travi, se tu non mi ubbidisci subito senza più parole.

FARFARELLO. Tu mi puoi meglio ammazzare, che non io contentarti di quello che tu domandi.

MALAMBRUNO. Dunque ritorna tu col mal anno, e venga Belzebù in persona.

FARFARELLO. Se anco viene Belzebù con tutta la Giudecca e tutte le Bolge, non potrà farti felice nè te nè altri della tua specie, più che abbia potuto io.

MALAMBRUNO. Nè anche per un momento solo?

FARFARELLO. Tanto è possibile per un momento, anzi per la metà di un momento, e per la millesima parte; quanto per tutta la vita.

MALAMBRUNO. Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l’animo almeno di liberarmi dall’infelicità?

FARFARELLO. Se tu puoi fare di non amarti supremamente.

MALAMBRUNO. Cotesto lo potrò dopo morto.

FARFARELLO. Ma in vita non lo può nessun animale: perchè la vostra natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa.

MALAMBRUNO. Così è.

FARFARELLO. Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere infelice.

MALAMBRUNO. Nè anco nei tempi che io proverò qualche diletto; perchè nessun diletto mi farà nè felice nè pago.

FARFARELLO. Nessuno veramente.

MALAMBRUNO. E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell’animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di essere infelice.

FARFARELLO. Non lascerai: perchè negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa.

MALAMBRUNO. Tanto che dalla nascita insino alla morte, l’infelicità nostra non può cessare per ispazio, non che altro, di un solo istante.

FARFARELLO. Sì: cessa, sempre che dormite senza sognare, o che vi coglie uno sfinimento o altro che v’interrompa l’uso dei sensi.

MALAMBRUNO. Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria vita.

FARFARELLO. Non mai.

MALAMBRUNO. Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere.

FARFARELLO.  Se la privazione dell’infelicità è semplicemente meglio dell’infelicità.

MALAMBRUNO. Dunque?

FARFARELLO. Dunque se ti pare di darmi l’anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela.

VI. DIÁLOGO DE MALAMBRUNO Y DE TRAMPAS [34]

MALAMBRUNO.[35] Espíritus del abismo, Trampas, Colmilludo, Gusanonegro, Astasrotas, Alituerto, [36] y como quiera que seáis llamados, os conjuro en el nombre de Belcebú, y os ordeno, por virtud de mi arte, que puede desvencijar a la luna y clavar al sol en medio del cielo, que venga uno de vosotros con libre disposición de vuestro príncipe y plena potestad para usar todas las fuerzas del infierno a mi servicio.

TRAMPAS. Aquí estoy.

MALAMBRUNO. ¿Quién eres?

TRAMPAS. Trampas, a tus órdenes.

MALAMBRUNO. ¿Traes la autorización de Belcebú?

TRAMPAS. Sí, la traigo; y puedo hacer a tu servicio todo lo que podría hacer el mismo Rey, y más de lo que podrían hacer todas las demás criaturas juntas.

MALAMBRUNO. Está bien. Tienes que satisfacerme un deseo.

TRAMPAS. Serás servido. ¿Qué quieres?, ¿una nobleza mayor que la de los Atridas? [37]

MALAMBRUNO. No.

TRAMPAS. ¿Más riquezas que las que se encontrarán en la ciudad de Manoa, [38]  cuando se descubra?

MALAMBRUNO. No.

TRAMPAS. ¿Un imperio tan grande como el que dicen que una noche soñó Carlos V?

MALAMBRUNO. No.

TRAMPAS. ¿Que se rinda a tus deseos una mujer más salvaje que Penélope?

MALAMBRUNO. No. ¿Te parece que para eso es necesario el diablo?

TRAMPAS. ¿Honores y buena fortuna, tan granuja como eres?

MALAMBRUNO.  En todo caso, necesitaría al diablo si quisiera lo contrario.

TRAMPAS. En fin, ¿qué quieres?

MALAMBRUNO. Que me hagas feliz un momento.

TRAMPAS. No puedo.

MALAMBRUNO. ¿Cómo que no puedes?

TRAMPAS. Te juro en conciencia que no puedo.

MALAMBRUNO. En conciencia de diablo honrado.

TRAMPAS. Ciertamente. Hazte cuenta de que hay diablos honrados, como hay hombres.

MALAMBRUNO. Pues tú hazte cuenta de que te cuelgo aquí por la cola de una de estas vigas, si no me obedeces en seguida y sin más discursos.

TRAMPAS. Es más fácil que tú me mates, que no que yo te contente con lo que me pides.

MALAMBRUNO. Entonces, vete ya, maldito, y que venga Belcebú en persona.

TRAMPAS. Ni siquiera si viene Belcebú, con toda la Judesca y todas las Bolsas,[39] podrá hacerte feliz, ni a ti ni a ninguno de tu especie, más de lo que haya podido yo.

MALAMBRUNO. ¿Ni siquiera un momento solo?

TRAMPAS. Tan posible es un momento, e incluso la mitad de un momento, o la milésima parte, como toda la vida.

MALAMBRUNO. Pero, si no puedes hacerme feliz de ningún modo, ¿puedes al menos librarme de la infelicidad?

TRAMPAS. Si tú puedes dejar de quererte de manera suprema.

MALAMBRUNO. Eso podré hacerlo después de muerto.

TRAMPAS. En vida no lo puede hacer ningún animal, pues vuestra naturaleza os permitiría cualquier otra cosa antes que eso.

 MALAMBRUNO. Así es.

TRAMPAS. Así, al quererte necesariamente con el mayor amor del que eres capaz, necesariamente deseas del mayor modo tu propia felicidad y, al no poder nunca ni en modo alguno ser satisfecho este deseo, que es supremo, se infiere que tú no puedes evitar de ningún modo ser infeliz.

MALAMBRUNO. Ni siquiera cuando siento algún deleite, pues ningún deleite me hace feliz ni me satisface.

TRAMPAS. Ninguno, verdaderamente.

MALAMBRUNO. Y, por ello, al no corresponderse con el deseo natural de felicidad que está grabado en mi alma, no será verdadero deleite; y, durante el mismo tiempo que alguno dure, no dejaré de sentirme infeliz.

TRAMPAS. No dejarás de sentirlo, porque, en los hombres y en los demás seres vivos, la privación de la felicidad, aun sin dolor y sin desdicha alguna, incluso en el tiempo de lo que llamáis placeres, es infelicidad expresa.

MALAMBRUNO. Tanto que, desde el nacimiento hasta la muerte, nuestra infelicidad no puede cesar ni siquiera un instante.

TRAMPAS. Sí, cesa siempre que dormís sin soñar, o cuando desfallecéis, o cuando perdéis el sentido.

MALAMBRUNO. Pero nunca mientras sentimos nuestra propia vida.

TRAMPAS. Nunca.

MALAMBRUNO. De tal modo que, hablando de modo absoluto, no vivir es siempre mejor que vivir.

TRAMPAS. Si la privación de la infelicidad es simplemente mejor que la infelicidad.

MALAMBRUNO. ¿Entonces?

TRAMPAS. Entonces, si te apetece entregarme el alma antes de tiempo, aquí estoy dispuesto a llevármela.     

       

[34] Compuesto en Recanati, entre el 1 y el 3 de abril de 1824.

[35] El nombre de este mago es el de un caballero del ciclo legendario de Ogier el Danés. En Miguel de Cervantes, Don Quijote, II, 39-44, el gigante y encantador Malambruno reserva para don Quijote la aventura de Clavileño.

[36] Así han sido traducidos respectivamente los nombres de los diablejos Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte y Alichino. Según Ruffilli y Sanguineti, la procedencia de estos diablejos es la siguiente: Baconero aparece en la obra de Lippi  Malmantel  recuperado; Astarotte en el Morgante de Pulci; los demás (para los que se ha adoptado la traducción de Abilio Echeverría, Divina comedia, Alianza Editorial, Madrid, 1995) en los cantos XXI y XXII del Infierno de Dante Alighieri.

[37] Agamenón y Menelao, hijos de Atreo, se vanagloriaban de descender de Zeus.

[38] «Ciudad legendaria, llamada también El Dorado, imaginada por los españoles y situada por ellos en la América meridional, entre el río Orinoco y el Amazonas.» (N. del  A.)

[39] La Judesca y las Bolsas son espacios del Infierno de Dante Alighieri. La Judesca es el cuarto recinto del IX círculo del infierno, recibe el nombre de Judas, traidor de Cristo, y acoge a los traidores de sus benefactores, entre ellos, al mismo Judas (Infierno, canto XXXIV). Las Bolsas son los diez valles del VIII círculo del infierno, en el que penan sus culpas los fraudulentos (Infierno, cantos XVIII-XXXI).

VII.  DIALOGO DELLA NATURA E DI UN’ANIMA

NATURA. Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.

ANIMA. Che male ho io commesso prima di vivere, che tu mi condanni a cotesta pena?

NATURA. Che pena, figliuola mia?

ANIMA. Non mi prescrivi tu di essere infelice?

NATURA. Ma in quanto che io voglio che tu sii grande, e non si può questo senza quello. Oltre che tu sei destinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici.

ANIMA. Ma in contrario saria di ragione che tu provvedessi in modo, che eglino fossero felici per necessità; o non potendo far questo, ti si converrebbe astenere da porli al mondo.

NATURA. Nè l’una nè l’altra cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque se ne sia la cagione; che nè tu nè io non la possiamo intendere. Ora, come tu sei stata creata e disposta a informare una persona umana, già qualsivoglia forza, nè mia nè d’altri, non è potente a scamparti dall’infelicità comune degli uomini. Ma oltre di questa, te ne bisognerà sostenere una propria, e maggiore assai, per l’eccellenza della quale io t’ho fornita.

ANIMA. Io non ho ancora appreso nulla; cominciando a vivere in questo punto: e da ciò dee provenire ch’io non t’intendo. Ma dimmi, eccellenza e infelicità straordinaria sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l’una dall’altra?

NATURA. Nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perchè l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell’infelicità propria; che è come se io dicessi maggiore infelicità. Similmente la maggior vita degli animi inchiude maggiore efficacia di amor proprio, dovunque esso s’inclini, e sotto qualunque volto si manifesti: la qual maggioranza di amor proprio importa maggior desiderio di beatitudine, e però maggiore scontento e affanno di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che sopravvengono. Tutto questo è contenuto nell’ordine primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non posso alterare. Oltre di ciò, la finezza del tuo proprio intelletto, e la vivacità dell’immaginazione, ti escluderanno da una grandissima parte della signoria di te stessa. Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dall’immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti o meno usati a ponderare e considerare seco medesimi, sono i più pronti al risolversi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiacciono il più del tempo all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è l’uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che mentre per l’eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo, quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre o impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in se, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo. Queste ed altre infinite difficoltà e miserie occupano e circondano gli animi grandi. Ma elle sono ricompensate abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza che essi lasciano di se ai loro posteri.

.
.

ANIMA. Ma coteste lodi e cotesti onori che tu dici, gli avrò io dal cielo, o da te, o da chi altro?

NATURA. Dagli uomini: perchè altri che essi non li può dare.

ANIMA. Ora vedi, io mi pensava che non sapendo fare quello che è necessarissimo, come tu dici, al commercio cogli altri uomini, e che riesce anche facile insino ai più poveri ingegni; io fossi per essere vilipesa e fuggita, non che lodata, dai medesimi uomini; o certo fossi per vivere sconosciuta a quasi tutti loro, come inetta al consorzio umano.

NATURA. A me non è dato prevedere il futuro, nè quindi anche prenunziarti infallibilmente quello che gli uomini sieno per fare e pensare verso di te mentre sarai sulla terra. Ben è vero che dall’esperienza del passato io ritraggo per lo più verisimile, che essi ti debbano perseguitare coll’invidia; la quale è un’altra calamità solita di farsi incontro alle anime eccelse; ovvero ti sieno per opprimere col dispregio e la noncuranza. Oltre che la stessa fortuna, e il caso medesimo, sogliono essere inimici delle tue simili. Ma subito dopo la morte, come avvenne ad uno chiamato Camoens, o al più di quivi ad alcuni anni, come accadde a un altro chiamato Milton, tu sarai celebrata e levata al cielo, non dirò da tutti, ma, se non altro, dal piccolo numero degli uomini di buon giudizio. E forse le ceneri della persona nella quale tu sarai dimorata, riposeranno in sepoltura magnifica; e le sue fattezze, imitate in diverse guise, andranno per le mani degli uomini; e saranno descritti da molti, e da altri mandati a memoria con grande studio, gli accidenti della sua vita; e in ultimo tutto il mondo civile sarà pieno del nome suo.  Eccetto se dalla malignità della fortuna, o dalla soprabbondanza medesima delle tue facoltà, non sarai stata perpetuamente impedita di mostrare agli uomini alcun proporzionato segno del tuo valore: di che non sono mancati per verità molti esempi, noti a me sola ed al fato.

ANIMA. Madre mia, non ostante l’essere ancora priva delle altre cognizioni, io sento tuttavia che il maggiore, anzi il solo desiderio che tu mi hai dato, è quello della felicità. E posto che io sia capace di quel della gloria, certo non altrimenti posso appetire questo non so se io mi dica bene o male, se non solamente come felicità, o come utile ad acquistarla. Ora, secondo le tue parole, l’eccellenza della quale tu m’hai dotata, ben potrà essere o di bisogno o di profitto al conseguimento della gloria; ma non però mena alla beatitudine, anzi tira violentemente all’infelicità. Nè pure alla stessa gloria è credibile che mi conduca innanzi alla morte: sopraggiunta la quale, che utile o che diletto mi potrà pervenire dai maggiori beni del mondo? E per ultimo, può facilmente accadere, come tu dici, che questa sì ritrosa gloria, prezzo di tanta infelicità, non mi venga ottenuta in maniera alcuna, eziandio dopo la morte. Di modo che dalle tue stesse parole io conchiudo che tu, in luogo di amarmi singolarmente, come affermavi a principio, mi abbi piuttosto in ira e malevolenza maggiore che non mi avranno gli uomini e la fortuna mentre sarò nel mondo; poichè non hai dubitato di farmi così calamitoso dono come è cotesta eccellenza che tu mi vanti. La quale sarà l’uno dei principali ostacoli che mi vieteranno di giungere al mio solo intento, cioè alla beatitudine.

NATURA. Figliuola mia; tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnate in preda all’infelicità, senza mia colpa. Ma nell’universale miseria della condizione umana, e nell’infinita vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la gloria è giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e il più degno oggetto che questi possano proporre alle cure e alle azioni loro. Onde, non per odio, ma per vera e speciale benevolenza che ti avea posta, io deliberai di prestarti al conseguimento di questo fine tutti i sussidi che erano in mio potere.

ANIMA. Dimmi: degli animali bruti, che tu menzionavi, è per avventura alcuno fornito di minore vitalità e sentimento che gli uomini?

NATURA. Cominciando da quelli che tengono della pianta, tutti sono in cotesto, gli uni più, gli altri meno, inferiori all’uomo; il quale ha maggior copia di vita, e maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il più perfetto.

ANIMA. Dunque alluogami, se tu m’ami, nel più imperfetto: o se questo non puoi, spogliata delle funeste doti che mi nobilitano, fammi conforme al più stupido e insensato spirito umano che tu producessi in alcun tempo.

NATURA. Di cotesta ultima cosa io ti posso compiacere; e sono per farlo; poichè tu rifiuti l’immortalità, verso la quale io t’aveva indirizzata.

ANIMA. E in cambio dell’immortalità, pregoti di accelerarmi la morte il più che si possa.

NATURA. Di codesto conferirò col destino.

VII. DIÁLOGO DE LA NATURALEZA Y DE UN ALMA[40]

NATURALEZA. Vamos, hijita mía predilecta, pues así serás considerada y llamada a lo largo de los siglos. Vive y sé grande e infeliz.

ALMA. ¿Qué mal he cometido antes de vivir, para que tú me condenes a esta pena?

NATURALEZA. ¿Qué pena, hijita mía?

ALMA. ¿No me destinas a ser infeliz?

NATURALEZA. Pero en la medida en que quiero que seas grande, y no se puede ser esto sin aquello. Además de que estás destinada a vivificar un cuerpo humano, y todos los hombres, necesariamente, nacen y viven infelices.

ALMA. Pero lo razonable, por el contrario, sería que tú dispusieras de modo que fueran necesariamente felices; o, si no puedes hacer esto, te convendría abstenerte de ponerlos en el mundo.

NATURALEZA. Ni una cosa ni la otra están en mis manos, pues estoy sometida al hado, el cual ordena otra cosa, cualquiera que sea la razón, que ni tú ni yo podemos entender. Ahora, dado que has sido creada y dispuesta para darle forma a una persona, ninguna fuerza, cualquiera que sea, o mía o de otros, puede librarte de la infelicidad común de los hombres. Pero, además de esta, tendrás que soportar otra, y mucho mayor, debido a la excelencia que te he proporcionado.

ALMA. Aún no he aprendido nada, pues apenas he comenzado a vivir en este momento, y de ello debe provenir que yo no te entienda. Pero dime, ¿excelencia e infelicidad extraordinaria son sustancialmente una misma cosa?; y si son dos cosas, ¿no podrías separar la una de la otra?

NATURALEZA. En las almas de los hombres, y proporcionalmente en aquéllas de todos los géneros de animales, puede decirse que la una y la otra son lo mismo, porque la excelencia de las almas comporta mayor intensidad en sus vidas, lo que conlleva mayor conciencia de la propia infelicidad, que es como si dijera mayor infelicidad. De igual modo, la mayor vitalidad de los ánimos encierra mayor eficacia del amor propio, adondequiera que se incline y bajo cualquier aspecto que se manifieste, y esa mayor parte de amor propio comporta mayor deseo de dicha, y por ello, mayor descontento y preocupación por estar privado de ella, y mayor dolor frente a las adversidades que sobrevienen. Todo esto está previsto en el orden primigenio y perpetuo de la creación, cosa que yo no puedo alterar. Además de eso, la finura de tu propio intelecto y la vivacidad de tu imaginación te negarán gran parte del poder sobre ti misma. Los animales brutos usan fácilmente para los fines que se proponen todas sus facultades y fuerzas. Pero los hombres escasísimas veces son dueños de su propio poder, impedidos como están por la razón y por la imaginación, facultades que les crean mil dudas para decidirse, y mil miramientos para obrar. Los menos aptos y menos acostumbrados a ponderar y considerar las cosas consigo mismos son los más rápidos en resolverse, y los más eficaces al obrar. Pero tus semejantes, enredadas continuamente consigo mismas y como vencidas por la grandeza de sus propias facultades y, por tanto, impotentes ante sí mismas, sucumben la mayoría de las veces a la irresolución, tanto al deliberar, como al obrar, lo cual es uno de los mayores tormentos que afligen la vida humana. Añade que, mientras que por la excelencia de tus disposiciones sobrepasarás fácilmente y en poco tiempo a casi todas las demás criaturas de tu especie en los conocimientos más graves y en las disciplinas incluso más difíciles, sin embargo, siempre te resultará o imposible o sumamente complicado aprender y poner en práctica muchísimas cosas insustanciales en sí mismas, pero importantísimas para vivir con los hombres; al mismo tiempo, verás que tales cosas son ejecutadas y aprendidas perfectamente y sin fatiga por mil ingenios no solo inferiores a ti, sino despreciables de cualquier modo.  Estas y otras infinitas dificultades y miserias ocupan y cercan a las almas grandes. Pero ellas son recompensadas, con abundancia, por la fama, por las alabanzas y por los honores que otorgan a los espíritus egregios su grandeza y la duración del recuerdo que dejan a la posteridad.

ALMA. Pero estas alabanzas y estos honores de los que hablas, ¿los recibiré del cielo, de ti o de quién?

NATURALEZA. De los hombres, pues solo ellos pueden darlos.

ALMA. En cambio, mira, yo creía que, al no saber hacer lo que es muy necesario, como tú dices, para vivir con los hombres y lo que le resulta fácil incluso al más pobre de ingenio, yo sería vilipendiada y rechazada por ellos, y no alabada, o que viviría ignorada por casi todos, como quien es un inepto para la compañía humana.

NATURALEZA. Yo no puedo prever el futuro ni, por tanto, revelarte infaliblemente lo que los hombres van a hacer o pensar con respecto a ti mientras permanezcas en la tierra. Bien es verdad que de la experiencia del pasado deduzco verosímilmente que ellos te perseguirán con la envidia, que es otra de las habituales calamidades con las que tropiezan las almas excelsas; o bien que te oprimirán con el desprecio y el abandono. Por lo demás, la misma fortuna y el mismo hado suelen ser enemigos de tus semejantes. Pero, justo después de la muerte, como le sucedió a uno que se llamó Camões y, muchos años después, a otro que se llamó Milton, tú serás celebrada y elevada al cielo, no diré por todos, sino, al menos, por el reducido número de hombres de buen juicio. Y quizás las cenizas de la persona en la que tú hayas vivido descansarán en una sepultura magnífica; y sus rasgos, imitados de varios modos, se propagarán entre los hombres; y serán descritos por muchos y, por otros, legados a la posteridad con gran estudio, las vicisitudes de su vida, y, finalmente, todo el mundo civil se llenará con su nombre. A no ser que, por la malicia de la fortuna o por la misma excelsitud de tus facultades, no te impidan perpetuamente mostrarles a los hombres algún rasgo proporcionado de tu valor, cosa de la que, en verdad, no faltan muchos ejemplos, conocidos por el hado y por mí.

ALMA. Madre mía, a pesar de estar aún privada de los demás conocimientos, siento, sin embargo, que el mayor e incluso el único deseo que me has dado es el de la felicidad.  Y, supuesto que yo sea capaz de esa gloria, cierto es que yo no puedo desear este bien o mal, que no sé cómo llamarlo, si no implica felicidad, o si no sirve para alcanzarla. Mas, según tus palabras, la excelencia de la que me has dotado bien puede ser o necesaria o provechosa para alcanzar la gloria, pero no lleva a la dicha, sino que conduce violentamente a la infelicidad. Ni siquiera a la misma gloria es creíble que me lleve antes que a la muerte, llegada la cual, ¿qué utilidad o qué deleite me procurarán los mayores bienes del mundo? Y por último, fácilmente puede suceder, como tú dices, que esta tan adversa gloria, fruto de tanta infelicidad, no me llegue de ninguna manera, ni después de la muerte. Así, de tus mismas palabras concluyo que tú, en lugar de amarme de modo singular, como afirmabas al principio, me execras y me detestas más de lo que me execrarán y detestarán los hombres y la fortuna mientras esté en el mundo, puesto que no has dudado en darme tan calamitoso don como es esta excelencia de la que te jactas, la cual será uno de los principales obstáculos que me impedirán alcanzar mi única finalidad, es decir, la dicha.

NATURALEZA. Hijita mía, todas las almas de los hombres, como te decía, están sometidas a la infelicidad, y no es mi culpa. Pero, en la universal miseria de la condición humana y en la infinita vanidad de su deleite y de sus logros, la gloria es considerada por la mejor parte de los hombres como el mayor bien que se les haya concedido a los mortales y el más digno sentido que ellos puedan encontrarles a sus preocupaciones y a sus actos. Por tanto, no por odio, sino por verdadera y especial benevolencia que por ti sentía, deliberé prestarte, para que consiguieras este fin, toda la ayuda que estuviera en mis manos.

ALMA. Dime, entre los animales brutos que tú mencionaste, ¿hay alguno, por casualidad, provisto de menos vitalidad y sensibilidad que los hombres?

NATURALEZA.  Comenzando por los que pertenecen a las plantas, todos son, unos más y otros menos, inferiores al hombre, el cual tiene una vida más rica y más sensibilidad que cualquier otro animal, por ser, entre todos los seres vivos, el más perfecto.

ALMA. Entonces, alójame, si me amas, en el más imperfecto; y si no puedes hacer esto, despójame de las funestas dotes con las que me has ennoblecido, y hazme conforme al más estúpido e insensato espíritu humano que tú hayas producido en cualquier tiempo.

NATURALEZA. Puedo complacerte con esto último, y estoy dispuesta a hacerlo, pues renuncias a la inmortalidad a la que te había destinado.

ALMA. Y a cambio de la inmortalidad, te ruego que me acerques la muerte cuanto sea posible.

NATURALEZA. De esto hablaré con el destino.

 

[40] Compuesto en Recanati, entre el 9 y el 14 de abril de 1824.

VIII. DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA

TERRA. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona; secondo che ho inteso molte volte da’ poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell’età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono nè più nè meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli: sicchè non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perchè le faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire che vanno co’ loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua molestia.

LUNA. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t’ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.

TERRA. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?

LUNA. A dirti il vero, io non sento nulla.

TERRA. Nè pur io sento nulla, fuorchè lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo.

LUNA. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda.

TERRA. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole.

LUNA. Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.

TERRA. Di che colore sono cotesti uomini?

LUNA. Che uomini?

TERRA. Quelli che tu contieni. Non dici tu d’essere abitata?

LUNA. Sì: e per questo?

TERRA. E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.

LUNA. Nè bestie nè uomini; che io non so che razze di creature si sieno nè gli uni nè l’altre. E già di parecchie cose che tu mi sei venuta accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non ho compreso un’acca.

TERRA. Ma che sorte di popoli sono coteste?

LUNA. Moltissime e diversissime, che tu non conosci, come io non conosco le tue.

TERRA. Cotesto mi riesce strano in modo, che se io non l’udissi da te medesima, io non lo crederei per nessuna cosa del mondo. Fosti tu mai conquistata da niuno de’ tuoi?

LUNA. No, che io sappia. E come? e perchè?

TERRA. Per ambizione, per cupidigia dell’altrui, colle arti politiche, colle armi.

LUNA. Io non so che voglia dire armi, ambizione, arti politiche, in somma niente di quel che tu dici.

TERRA. Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perchè, poco dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co’ suoi bastioni diritti, che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e le battaglie murali.

LUNA. Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli: che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia.

TERRA. Dunque non sarà nè anche vero che le tue province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu sei coltivata: cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiara-mente.

LUNA. Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le veggo.

TERRA. Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che gli uomini m’ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza pericolo: perchè in diversi tempi, molte persone di quaggiù si posero in animo di conquistarti esse, e a quest’effetto fecero molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e levandosi sulle punte de’ piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare. Oltre a questo, già da non pochi anni, io veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de’ tuoi paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de’ quali sappiamo anche i nomi. Queste cose, per la buona volontà ch’io ti porto, mi è paruto bene di avvisartele, acciò che tu non manchi di provvederti per ogni caso. Ora, venendo ad altro, come sei molestata da’ cani che ti abbaiano contro? Che pensi di quelli che ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perchè anticamente ne fu varia opinione. È vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te? che le tue donne, o altrimenti che io le debba chiamare, sono ovipare; e che uno delle loro uova cadde quaggiù non so quando? che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno? che sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di cacio fresco? che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per mezzo, come un cocomero; e che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica? Come stai volentieri in cima dei minareti? Che ti pare della festa del bairam?

.

LUNA. Va pure avanti; che mentre seguiti così, non ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito. Se hai caro d’intrattenerti in ciance, e non trovi altre materie che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla tua maniera. Tu non sai parlare altro che d’uomini e di cani e di cose simili, delle quali ho tanta notizia, quanta di quel sole grande grande, intorno al quale odo che giri il nostro sole.

TERRA. Veramente, più che io propongo, nel favellarti, di astenermi da toccare le cose proprie, meno mi vien fatto. Ma da ora innanzi ci avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti pigli spasso a tirarmi l’acqua del mare in alto, e poi lasciarla cadere?

LUNA. Può essere. Ma posto che io ti faccia cotesto o qualunque altro effetto, io non mi avveggo di fartelo: come tu similmente, per quello che io penso, non ti accorgi di molti effetti che fai qui; che debbono essere tanto maggiori de’ miei, quanto tu mi vinci di grandezza e di forza.

TERRA. Di cotesti effetti veramente io non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole, e a me la tua; come ancora, che io ti fo gran lume nelle tue notti, che in parte lo veggo alcune volte. Ma io mi dimenticava una cosa che importa più d’ogni altra. Io vorrei sapere se veramente, secondo che scrive l’Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le fatiche e spese che si mettono nei buoni studi per essere onorati dagli altri, nell’indirizzare i fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere le instituzioni utili; tutto sale e si raguna costà: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori della pazzia, che non si parte dagli uomini. In caso che questo sia vero, io fo conto che tu debba essere così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine), non già solo in parte, e l’uno o l’altro di loro, come per l’addietro, ma tutti e interamente. E certo che se elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro luogo. Però vorrei che noi facessimo insieme una convenzione, per la quale tu mi rendessi di presente, e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io penso che tu medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio, ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di danari.

LUNA. Tu ritorni agli uomini; e, con tutto che la pazzia, come affermi, non si parta da’ tuoi confini, vuoi farmi impazzire a ogni modo, e levare il giudizio a me, cercando quello di coloro; il quale io non so dove si sia, nè se vada o resti in nessuna parte del mondo; so bene che qui non si trova; come non ci si trovano le altre cose che tu chiedi.

TERRA. Almeno mi saprai tu dire se costì sono in uso i vizi, i misfatti, gl’infortuni, i dolori, la vecchiezza, in conclusione i mali? intendi tu questi nomi?

LUNA. Oh cotesti sì che gl’intendo; e non solo i nomi, ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perchè ne sono tutta piena, in vece di quelle altre che tu credevi.

TERRA. Quali prevalgono ne’ tuoi popoli, i pregi o i difetti?

LUNA. I difetti di gran lunga.

TERRA. Di quali hai maggior copia, di beni o di mali?

LUNA. Di mali senza comparazione.

TERRA. E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici?

LUNA. Tanto infelici, che io non mi scambierei col più fortunato di loro.

TERRA. Il medesimo è qui. Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose, in questa mi sei conforme.

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LUNA. Anche nella figura e nell’aggirarmi, e nell’essere illustrata dal sole io ti sono conforme; e non è maggior maraviglia quella che questa: perchè il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo, o almeno di questo mondo solare, come la rotondità e le altre condizioni che ho detto, nè più nè meno. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del nostro mondo; e gl’interrogassi se in loro abbia luogo l’infelicità, e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna stella risponderebbero altrettanto.

TERRA. Con tutto cotesto io spero bene: e oggi massimamente, gli uomini mi promettono per l’avvenire molte felicità.

LUNA. Spera a tuo senno: e io ti prometto che potrai sperare in eterno.

TERRA. Sai che è? questi uomini e queste bestie si mettono a romore: perchè dalla parte dalla quale io ti favello, è notte, come tu vedi, o piuttosto non vedi; sicchè tutti dormivano; e allo strepito che noi facciamo parlando, si destano con gran paura.

LUNA. Ma qui da questa parte, come tu vedi, è giorno.

TERRA. Ora io non voglio essere causa di spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo. Addio dunque; buon giorno.

LUNA. Addio; buona notte.

VIII. DIÁLOGO DE LA TIERRA Y DE LA LUNA [41]

TIERRA. Querida Luna, sé que puedes hablar y responder, pues eres una persona, según les he oído muchas veces a los poetas, además de que nuestros niños dicen que tú tienes verdaderamente boca, nariz y ojos, como cada uno de ellos, y que lo ven con sus propios ojos, que, a esa edad, razonablemente deben de ser agudísimos. En cuanto a mí, no dudo que tú sabes que yo soy, nada más y nada menos, que una persona, tanto que, cuando era más joven, tuve muchos hijos, así que no te maravillará oírme hablar. Por tanto, Luna mía hermosa, a pesar de que he sido tu vecina durante tantos siglos, tantos que no sé ni el número, no te he hablado hasta ahora porque mis asuntos me han tenido ocupada de tal modo que no me quedaba tiempo para charlar. Pero hoy que mis negocios se han reducido a poca cosa, e incluso podría decir, que caminan con sus propios pies, no sé qué hacer y reviento de aburrimiento. Por ello, hazte cuenta de que, en el futuro, te hablaré a menudo y me preocuparé de tus asuntos, siempre que no te moleste.

LUNA. Eso no lo pienses. Así la fortuna me libre de toda otra incomodidad, como estoy segura de que no me molestarás. Si quieres hablarme, háblame a tu placer, pues, aunque soy amiga del silencio, como creo que sabes, te escucharé y te responderé con gusto, para servirte.

TIERRA. ¿Tú oyes este sonido agradabilísimo que emiten los cuerpos celestes con sus movimientos?

LUNA. Para decirte la verdad, no oigo nada.

TIERRA. Tampoco yo oigo nada, salvo el estrépito del viento que va de mis polos al ecuador, y del ecuador a mis polos, y que no da muestras de saber nada de música. Pero Pitágoras dice que las esferas celestes emiten un sonido tan dulce, que es una maravilla, y que incluso tú tienes ahí tu parte, pues eres la octava cuerda de esta lira universal. Pero me ha ensordecido ese mismo sonido, y por eso no lo escucho.

LUNA. También yo, sin duda alguna, estoy ensordecida, y, como te he dicho, no lo oigo. Y no sabía que fuera una cuerda.

TIERRA. Entonces, cambiemos de tema. Dime, ¿estás poblada de verdad, como afirman y juran mil filósofos antiguos y modernos, desde Orfeo hasta De la Lande?[42] Mas yo, por mucho que me esfuerce en alargar estos cuernos míos, a los que los hombres llaman montes y picos, con la punta de los cuales te estoy mirando, como un caracol, no llego a descubrir en ti ningún habitante. Aunque sé bien que un tal David Fabricius,[43]  que veía mejor que Linceo,[44] descubrió ahí a algunos que tendían las ropas al sol.

LUNA. De tus cuernos no sé qué decir. El hecho es que estoy habitada.

TIERRA. ¿De qué color son tus hombres?

LUNA. ¿Qué hombres?

TIERRA. Los que hay en ti. ¿No dices que estás habitada?

LUNA. Sí, ¿y con ello?

TIERRA. No serán bestias todos tus habitantes.

LUNA. Ni bestias ni hombres, pues no sé qué tipo de criaturas son ni los unos ni los otros. Además, no he comprendido ni una jota de bastantes cosas que me has insinuado, creo que a propósito de los hombres.

TIERRA. Pero ¿qué tipo de pueblos son los tuyos?

LUNA. Muchísimos y diversísimos, que tú no conoces, como yo no conozco a los tuyos.

TIERRA. Esto me resulta tan extraño, que si no lo oyera de ti misma, no lo creería por ninguna cosa del mundo. ¿Has sido conquistada alguna vez por uno de los tuyos?

LUNA. No, que yo sepa. ¿Cómo?, ¿por qué?

TIERRA. Por ambición, por codicia de lo ajeno, con las artes políticas, con las armas.

LUNA. Yo no sé qué quiere decir armas, ambición, artes políticas, en definitiva, nada de lo que dices.

TIERRA. Pero es cierto que, si tú no conoces las armas, al menos conoces la guerra, porque, hace poco, un físico de aquí, a través de ciertos catalejos, que son instrumentos hechos para ver muy lejos, ha descubierto en ti una hermosa fortaleza, con sus bastiones erguidos, lo que significa que tus gentes se sirven, al menos, de los asedios y de las batallas campales.

LUNA. Perdona, señora Tierra, si te respondo con más libertad de lo que quizás convenga a una súbdita o sirvienta tuya, como soy yo. Pero, verdaderamente, tú me resultas más que vanidosilla si crees que todas las cosas de cualquier parte del mundo tienen que ser conformes a las tuyas, como si la naturaleza no hubiera tenido otra intención que copiarte exactamente por todos lados. Digo que estoy habitada, y tú deduces que mis habitantes tienen que ser hombres. Te advierto que no lo son, y tú, a pesar de admitir que son otras criaturas, no dudas en que tienen las mismas cualidades y las mismas suertes que los tuyos, y me alegas los catalejos de no sé qué físico. Pero, si estos catalejos no ven mejor otras cosas, creeré que tienen la vista tan buena como tus niños, que descubren en mí ojos, boca y nariz, cuando ni yo sé dónde los tengo.

TIERRA. Entonces, tampoco será verdad que tus provincias estén provistas de calles largas y limpias, y que estés cultivada, cosas que desde Alemania, cogiendo un catalejo, se ven claramente.[45]

LUNA. Si estoy cultivada, no me doy cuenta, y mis calles no las veo.

TIERRA. Querida Luna, tú tienes que saber que soy de pasta burda y tengo la cabeza de chorlito, y no es una maravilla que los hombres me engañen con facilidad. Pero puedo decirte que, si los tuyos no se preocupan por conquistarte, no siempre, sin embargo, estuviste libre de peligros, porque en diversos tiempos muchas personas de aquí tuvieron la intención de conquistarte y, para ello, hicieron muchas preparaciones. Sin embargo, subidas a lugares altísimos y alzadas sobre las puntas de los pies, y extendiendo los brazos, no pudieron llegar hasta ti. Además de esto, desde hace no pocos años, veo que espían minuciosamente todas tus partes, que trazan mapas de tus países, que miden las alturas de tus montes, de los que sabemos hasta los nombres. De estas cosas, por la buena voluntad que te tengo, me ha parecido conveniente avisarte, para que tú no dejes de proveerte ante cualquier eventualidad. Ahora, pasando a otro asunto, ¿te molestan los perros que te ladran? ¿Qué piensas de los que dejan a los demás a la luna de Valencia?[46]  ¿Eres hembra o macho?, pues antiguamente hubo opiniones diversas.[47] ¿Es verdad que los árcades existieron antes que tú?,[48] ¿que tus mujeres, o como yo las deba llamar, son ovíparas, y que uno de sus huevos cayó aquí no sé cuándo?,[49] ¿estás horadada como las cuentas de los rosarios, como cree un físico moderno?, ¿estás hecha, como afirman algunos ingleses, de queso fresco?,[50] ¿es verdad que Mahoma,[51] un día o una noche, te partió por la mitad, como una sandía, y que un buen pedazo le resbaló dentro de la manga? ¿Cómo puedes estar a gusto encima de los alminares? ¿Qué te parece la fiesta del bairam? [52]

LUNA. Sigue así, que mientras tú sigas así, no tendré por qué responderte ni abandonar mi acostumbrado silencio. Si te apetece entretenerte con habladurías y no encuentras más materias que estas, en lugar de dirigirte a mí, que no puedo entenderte, será mejor que los hombres te fabriquen otro planeta que dé vueltas a tu alrededor y que esté compuesto y habitado como tú. Tú no sabes hablar más que de hombres y de perros y de cosas similares, de lo que yo sé tanto como de ese sol grandísimo, alrededor del cual oigo que gira el nuestro.

TIERRA. Verdaderamente, cuanto más me propongo, mientras te hablo, abstenerme de referirme a mis propias cosas, menos lo logro. Pero, de ahora en adelante, tendré más cuidado. Dime, ¿eres tú quien se divierte llevándote hacia arriba agua del mar, para luego dejarla caer?

LUNA. Puede ser. Pero si yo te causo esto u otra cosa, no me doy cuenta; del mismo modo que tú, según creo, no te das cuenta de las cosas que ocasionas aquí, y que deben de ser tanto más grandes, cuanto mayores son la grandeza y la fuerza con que me superas.

TIERRA. De lo que te ocasiono no sé sino que, de vez en cuando, te quito la luz del sol y a mí me quito la que tú me das, y además, que te doy mucha luz en tus noches, pues a veces la veo en parte.[53] Pero me olvidaba de una cosa que importa más que las demás. Quisiera saber si verdaderamente, como escribe Ariosto, todo lo que cada hombre va perdiendo, como la juventud, la belleza, la salud, las fatigas y los gastos que se acarrean con los estudios para ser honrados por los demás, para conducir a los niños a las buenas costumbres, para hacer o promover instituciones útiles, todo sube hasta ti y ahí se recoge, de modo tal que ahí se encuentran todas las cosas humanas, excepto la locura, que no se separa de los hombres.[54] En el caso de que esto sea verdad, me imagino que tú estarás tan llena, que ya no te quedará lugar libre, especialmente, si tenemos en cuenta que, en los últimos tiempos, los hombres han perdido muchísimas cosas (verbigracia, el amor a la patria, la virtud, la magnanimidad, la rectitud) y no solo en parte, o algunos de ellos, como en el pasado, sino todos y por completo. Pues ciertamente, si no están ahí, no creo que se puedan encontrar en otra parte. Por ello, quisiera que hiciéramos entre las dos un pacto, por el cual tú me devuelves ahora, y luego poco a poco, todas estas cosas; de las cuales, pienso, a ti misma te alegraría verte despejada, máxime de la cordura, que creo que ocupa ahí un grandísimo espacio, [55] y yo haré que los hombres te paguen todos los años una buena suma de dinero.

LUNA. Otra vez con los hombres; y a pesar de que la locura no se aparta de tus confines, como afirmas, quieres enloquecerme a toda costa y hacerme perder el juicio, mientras buscas el de aquellos, el cual yo no sé dónde está, ni si se ha ido o se ha quedado en alguna parte del mundo; sé bien que aquí no se encuentra, como tampoco se encuentran las demás cosas que pides.

TIERRA. ¿Al menos sabrás decirme si ahí se estilan los vicios, los crímenes, los infortunios, los dolores, la vejez, en definitiva, los males?, ¿entiendes estas palabras?

LUNA. Oh, estas sí que las entiendo; y no solo las palabras, sino también sus significados, los conozco de maravilla, porque estoy completamente llena de ellas, y no de las que tú creías.

TIERRA. ¿Qué prevalecen en tus pueblos, las virtudes o los defectos?

LUNA. Los defectos, con gran diferencia.

TIERRA. ¿De qué tienes más abundancia, de bienes o de males?

LUNA. De males, sin comparación.

TIERRA. Y, generalmente, tus habitantes ¿son felices o infelices?

LUNA. Tan infelices, que yo no me cambiaría ni por el más afortunado de ellos.

TIERRA. Lo mismo sucede aquí. Así, yo me maravillo de que siendo tan diferente a mí en las demás cosas, en esta seas igual.

LUNA. También en la figura y en el modo de girar y en el hecho de estar iluminada por el sol soy igual que tú, y no es mayor maravilla esta que aquella, porque el mal es cosa común a todos los planetas del universo, o al menos a los de este sistema solar, como la redondez y las demás condiciones que he nombrado, ni más, ni menos. Y si tú pudieras alzar tanto la voz, como para ser oída por Urano o por Saturno, o por cualquier otro planeta de nuestro sistema, y les preguntaras si en ellos existe la infelicidad, y si los bienes superan o ceden a los males, cada uno de ellos te respondería como he hecho yo. Digo esto porque les he preguntado lo mismo a Venus y a Mercurio, planetas de los que estoy, a veces, más cerca que de ti, del mismo modo que se lo he preguntado a algunos cometas que han pasado por mi lado, y todos me han respondido como he dicho. Y pienso que el mismo sol y cada una de las estrellas responderían lo mismo.

TIERRA. A pesar de todo ello, yo tengo mucha esperanza, y máxime hoy que los hombres me prometen mucha felicidad para el futuro.                 

LUNA. Espera cuanto gustes, y yo te prometo que podrás esperar eternamente.

TIERRA. ¿Sabes qué pasa?, estos hombres y estas bestias hacen ruido, porque en esta parte desde la que te hablo es de noche, como ves, o quizás no lo veas, de modo que ellos estaban durmiendo; y con el estrépito que formamos al hablar, se despiertan con mucho miedo.

LUNA. Pero, aquí, en esta parte, como tú ves, es de día.

TIERRA. Ahora yo no quiero ser quien cause el temor de mis gentes, ni quiero romperles el sueño, que es el mayor bien que tienen. Ya hablaremos otro día. Adiós, pues, buenos días.

LUNA. Adiós. Buenas noches.

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[41] Compuesto en Recanati, entre el 24 y el 28 de abril de 1824.

[42] Astrónomo francés (1732-1807), que publicó un catálogo en 1801, Historia celeste, que contenía detalles de casi 50.000 estrellas, y que redactó los artículos de astronomía de la Enciclopedia. Leopardi comentó dicho catálogo en Hist., II.

[43] Astrónomo holandés (1564-1617). Ib.: «La cuestión de la pluralidad de los mundos puede considerarse la más famosa y la más insoluble de todas las cuestiones, aunque el loco de David Fabricius advirtió que ya la había resuelto, al decir, como refiere Vitali, haber visto con sus propios ojos a los habitantes de la luna.»

[44] Famoso argonauta por su vista penetrante.

[45] “Véanse, en las gacetas del mes de marzo de 1824, los descubrimientos atribuidos al Sr. Gruthuisen.” (N. del A.) Y en una anotación: «Gaceta universal, Baviera, Munich, 18 de marzo de 1824: El prof. Gruthuisen, de esta ciudad, y cuyas investigaciones selenográficas son conocidas […], ha hablado, en los referidos anales y posteriormente, del descubrimiento hecho por él, gracias a unos telescopios de Fraunhofer, de un edificio colosal similar a una fortaleza, situado casi en el ecuador de la luna, con los bastiones erguidos […]. Además se ha sabido que ha descubierto también muchísimas calles muy bien construidas, signo evidentísimo de una cultura en la superficie de la tierra […]»

[46] Leopardi alude al dicho «fare vedere la luna nel pozzo» (hacerle ver a alguien la luna en el pozo), cuyo significado es ilusionar, engañar.

[47] “Macrobio, Saturnal. lib. 3, cap. 8. Tertuliano, Apologet. cap. 15. Era venerada la luna incluso con nombre masculino, es decir, del dios Luno. Sparziano, Caracall. cap. 6 y 7. E incluso hoy, en las lenguas teutónicas, el nombre de la luna es de género masculino.” (N. del A.)

[48] “Menandro retórico, lib. 1, cap. 15 en Rhetor, graec. Veter. A. Manut. Vol 1, pág. 604. Meursio, ad Lycophron. Alexandr. opp. ed. Lamii, vol. 5, col. 951.” (N. del A.)

[49]  “Ateneo, lib. 2, ed. Casaub. p. 57.” (N. del A.)

[50] «That the moon is made of green cheese.  Proverbio que se aplica a los que dan a entender cosas increíbles.” (N. del A.)

[51]  “Antonio de Ulloa [científico español, 1716-1795]. Véase Carli, Cartas americanas, par. 4, to. 14, p. 313 y siguientes, y las Memor. encicloped. del año 1781, reunidas por la Sociedad literar. de Bolonia, p. 6 y siguientes.” (N. del A.)

[52] Fiesta que se celebra al final del Ramadhan, en honor de la luna nueva.

[53] “Véanse los astrónomos que hablan de esa luz, llamada opaca o cenicienta, que se ve en la parte oscura del disco lunar cuando es luna nueva». (N. del A.)

[54] Cfr. Orlando furioso, XXXIV, octava 73, » El paladín no se quedó a recuperarlo todo / pues no había subido a tal efecto. / Fue conducido por el santo apóstol / a un valle, entre dos montañas, / en el que maravillosamente se guardaba / lo que perdemos, ya por nuestra culpa, / ya con el tiempo o la fortuna: / lo que se pierde aquí, allí se junta.»

[55] Ib., octava 82, vv. 5-8: «Luego llegó a lo que creemos tener, / pues nunca hicimos voto a Dios para obtenerlo; / me refiero a la cordura, y de ella había un monte, / él solo bastante más grande que las demás cosas referidas.»

IX. LA SCOMMESSA DI PROMETEO

L’anno ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove, il collegio delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblici della città e dei sobborghi d’Ipernèfelo, diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori e minori, e gli altri abitanti della detta città, che recentemente o in antico avessero fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente o in figura o per iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. E scusandosi che per la sua nota povertà non si poteva dimostrare così liberale come avrebbe voluto, prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato più bello o più fruttuoso, una corona di lauro, con privilegio di poterla portare in capo il dì e la notte, privatamente e pubblicamente, in città e fuori; e poter essere dipinto, scolpito, inciso, gittato, figurato in qualunque modo e materia, col segno di quella corona dintorno al capo.

 

Concorsero a questo premio non pochi dei celesti per passatempo; cosa non meno necessaria agli abitatori d’Ipernèfelo, che a quelli di altre città; senza alcun desiderio di quella corona; la quale in se non valeva il pregio di una berretta di stoppa; e in quanto alla gloria, se gli uomini, da poi che sono fatti filosofi, la disprezzano, si può congetturare che stima ne facciano gli Dei, tanto più sapienti degli uomini, anzi soli sapienti secondo Pitagora e Platone. Per tanto, con esempio unico e fino allora inaudito in simili casi di ricompense proposte ai più meritevoli, fu aggiudicato questo premio, senza intervento di sollecitazioni nè di favori nè di promesse occulte nè di artifizi: e tre furono gli anteposti: cioè Bacco per l’invenzione del vino; Minerva per quella dell’olio, necessario alle unzioni delle quali gli Dei fanno quotidianamente uso dopo il bagno;  e Vulcano per aver trovato una pentola di rame, detta economica, che serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente. Così, dovendosi fare il premio in tre parti, restava a ciascuno un ramuscello di lauro: ma tutti e tre ricusarono così la parte come il tutto; perchè Vulcano allegò che stando il più del tempo al fuoco della fucina con gran fatica e sudore, gli sarebbe importunissimo quell’ingombro alla fronte; oltre che lo porrebbe in pericolo di essere abbrustolato o riarso, se per avventura qualche scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vi mettesse il fuoco. Minerva disse che avendo a sostenere in sul capo un elmo bastante, come scrive Omero, a coprirsene tutti insieme gli eserciti di cento città, non le conveniva aumentarsi questo peso in alcun modo. Bacco non volle mutare la sua mitra, e la sua corona di pampini, con quella di lauro: benchè l’avrebbe accettata volentieri se gli fosse stato lecito di metterla per insegna fuori della sua taverna; ma le Muse non consentirono di dargliela per questo effetto: di modo che ella si rimase nel loro comune erario.

Niuno dei competitori di questo premio ebbe invidia ai tre Dei che l’avevano conseguito e rifiutato, nè si dolse dei giudici, nè biasimò la sentenza; salvo solamente uno, che fu Prometeo, venuto a parte del concorso con mandarvi il modello di terra che aveva fatto e adoperato a formare i primi uomini, aggiuntavi una scrittura che dichiarava le qualità e gli uffici del genere umano, stato trovato da esso. Muove non poca maraviglia il rincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale, che da tutti gli altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuoco: perciò investigandone la cagione, si è conosciuto che quegli desiderava efficacemente, non già l’onore, ma bene il privilegio che gli sarebbe pervenuto colla vittoria. Alcuni pensano che intendesse di prevalersi del lauro per difesa del capo contro alle tempeste, secondo si narra di Tiberio, che sempre che udiva tonare, si ponea la corona; stimandosi che l’alloro non sia percosso dai fulmini. Ma nella città d’Ipernèfelo non cade fulmine e non tuona. Altri più probabilmente affermano che Prometeo, per difetto degli anni, comincia a gittare i capelli; la quale sventura sopportando, come accade a molti, di malissima voglia, e non avendo letto le lodi della calvizie scritte da Sinesio, o non essendone persuaso, che è più credibile, voleva sotto il diadema nascondere, come Cesare dittatore, la nudità del capo.

   

Ma per tornare al fatto, un giorno tra gli altri ragionando Prometeo con Momo, si querelava aspramente che il vino, l’olio e le pentole fossero stati anteposti al genere umano, il quale diceva essere la migliore opera degl’immortali che apparisse nel mondo. E parendogli non persuaderlo bastantemente a Momo, il quale adduceva non so che ragioni in contrario, gli propose di scendere tutti e due congiuntamente verso la terra, e posarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna delle cinque parti di quella scoprissero abitato dagli uomini; fatta prima reciprocamente questa scommessa: se in tutti cinque i luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no manifesti argomenti che l’uomo sia la più perfetta creatura dell’universo. Il che accettato da Momo, e convenuti del prezzo della scommessa, incominciarono senza indugio a scendere verso la terra; indirizzandosi primieramente al nuovo mondo; come quello che pel nome stesso, e per non avervi posto piede insino allora niuno degl’immortali, stimolava maggiormente la curiosità. Fermarono il volo nel paese di Popaian, dal lato settentrionale, poco lungi dal fiume Cauca, in un luogo dove apparivano molti segni di abitazione umana: vestigi di cultura per la campagna; parecchi sentieri, ancorchè tronchi in molti luoghi, e nella maggior parte ingombri; alberi tagliati e distesi; e particolarmente alcune che parevano sepolture, e qualche ossa d’uomini di tratto in tratto. Ma non perciò poterono i due celesti, porgendo gli orecchi, e distendendo la vista per ogn’intorno, udire una voce nè scoprire un’ombra d’uomo vivo. Andarono, parte camminando parte volando, per ispazio di molte miglia; passando monti e fiumi; e trovando da per tutto i medesimi segni e la medesima solitudine. Come sono ora deserti questi paesi, diceva Momo a Prometeo, che mostrano pure evidentemente di essere stati abitati? Prometeo ricordava le inondazioni del mare, i tremuoti, i temporali, le piogge strabocchevoli, che sapeva essere ordinarie nelle regioni calde: e veramente in quel medesimo tempo udivano, da tutte le boscaglie vicine, i rami degli alberi che, agitati dall’aria, stillavano continuamente acqua. Se non che Momo non sapeva comprendere come potesse quella parte essere sottoposta alle inondazioni del mare, così lontano di là, che non appariva da alcun lato; e meno intendeva per qual destino i tremuoti, i temporali e le piogge avessero avuto a disfare tutti gli uomini del paese, perdonando agli sciaguari, alle scimmie, a’ formichieri, a’ cerigoni, alle aquile, a’ pappagalli, e a cento altre qualità di animali terrestri e volatili, che andavano per quei dintorni. In fine, scendendo a una valle immensa, scoprirono, come a dire, un piccolo mucchio di case o capanne di legno, coperte di foglie di palma, e circondata ognuna da un chiuso a maniera di steccato: dinanzi a una delle quali stavano molte persone, parte in piedi, parte sedute, dintorno a un vaso di terra posto a un gran fuoco. Si accostarono i due celesti, presa forma umana; e Prometeo, salutati tutti cortesemente, volgendosi a uno che accennava di essere il principale, interrogollo: che si fa?

     

SELVAGGIO. Si mangia, come vedi.

PROMETEO. Che buone vivande avete?

SELVAGGIO. Questo poco di carne.

PROMETEO. Carne domestica o salvatica?

SELVAGGIO. Domestica, anzi del mio figliuolo.

PROMETEO. Hai tu per figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae?

SELVAGGIO. Non un vitello, ma un uomo, come ebbero tutti gli altri.

PROMETEO. Dici tu da senno? mangi tu la tua carne propria?

SELVAGGIO. La mia propria no, ma ben quella di costui: che per questo solo uso io l’ho messo al mondo, e preso cura di nutrirlo.

PROMETEO. Per uso di mangiartelo?

SELVAGGIO. Che maraviglia? E la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare altri figliuoli, penso di mangiarla presto.

MOMO. Come si mangia la gallina dopo mangiate le uova.

ELVAGGIO. E l’altre donne che io tengo, come sieno fatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questi miei schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se non fosse per avere di quando in quando de’ loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li mangerò anche loro a uno a uno, se io campo.

PROMETEO. Dimmi: cotesti schiavi sono della tua nazione medesima, o di qualche altra?

SELVAGGIO. D’un’altra.

PROMETEO. Molto lontana di qua?

SELVAGGIO. Lontanissima: tanto che tra le loro case e le nostre, ci correva un rigagnolo.

E additando un collicello, soggiunse: ecco là il sito dov’ella era; ma i nostri l’hanno distrutta. In questo parve a Prometeo che non so quanti di coloro lo stessero mirando con una cotal guardatura amorevole, come è quella che fa il gatto al topo: sicchè, per non essere mangiato dalle sue proprie fatture, si levò subito a volo; e seco similmente Momo:  e fu tanto il timore che ebbero l’uno e l’altro, che nel partirsi, corruppero i cibi dei barbari con quella sorta d’immondizia che le arpie sgorgarono per invidia sulle mense troiane. Ma coloro, più famelici e meno schivi de’ compagni di Enea, seguitarono il loro pasto; e Prometeo, malissimo soddisfatto del mondo nuovo, si volse incontanente al più vecchio, voglio dire all’Asia: e trascorso quasi in un subito l’intervallo che è tra le nuove e le antiche Indie, scesero ambedue presso ad Agra in un campo pieno d’infinito popolo, adunato intorno a una fossa colma di legne: sull’orlo della quale, da un lato, si vedevano alcuni con torchi accesi, in procinto di porle il fuoco; e da altro lato, sopra un palco, una donna giovane, coperta di vesti suntuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici, la quale danzando e vociferando, faceva segno di grandissima allegrezza. Prometeo vedendo questo, immaginava seco stesso una nuova Lucrezia o nuova Virginia, o qualche emulatrice delle figliuole di Eretteo, delle Ifigenie, de’ Codri, de’ Menecei, dei Curzi e dei Deci, che seguitando la fede di qualche oracolo, s’immolasse volontariamente per la sua patria. Intendendo poi che la cagione del sacrificio della donna era la morte del marito, pensò che quella, poco dissimile da Alceste, volesse col prezzo di se medesima, ricomperare lo spirito di colui. Ma saputo che ella non s’induceva ad abbruciarsi se non perchè questo si usava di fare dalle donne vedove della sua setta, e che aveva sempre portato odio al marito, e che era ubbriaca, e che il morto, in cambio di risuscitare, aveva a essere arso in quel medesimo fuoco; voltato subito il dosso a quello spettacolo, prese la via dell’Europa; dove intanto che andavano, ebbe col suo compagno questo colloquio.

MOMO. Avresti tu pensato quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?

PROMETEO. No per certo. Ma considera, caro Momo, che quelli che fino a ora abbiamo veduto, sono barbari: e dai barbari non si dee far giudizio della natura degli uomini; ma bene dagl’inciviliti: ai quali andiamo al presente: e ho ferma opinione che tra loro vedremo e udremo cose e parole che ti parranno degne, non solamente di lode, ma di stupore.

MOMO. Io per me non veggo, se gli uomini sono il più perfetto genere dell’universo, come faccia di bisogno che sieno inciviliti perchè non si abbrucino da se stessi, e non mangino i figliuoli propri: quando che gli altri animali sono tutti barbari, e ciò non ostante, nessuno si abbrucia a bello studio, fuorchè la fenice, che non si trova; rarissimi si mangiano alcun loro simile; e molto più rari si cibano dei loro figliuoli, per qualche accidente insolito, e non per averli generati a quest’uso. Avverti eziandio, che delle cinque parti del mondo una sola, nè tutta intera, e questa non paragonabile per grandezza a veruna delle altre quattro, è dotata della civiltà che tu lodi; aggiunte alcune piccole porzioncelle di un’altra parte del mondo. E già tu medesimo non vorrai dire che questa civiltà sia compiuta, in modo che oggidì gli uomini di Parigi o di Filadelfia abbiano generalmente tutta la perfezione che può convenire alla loro specie. Ora, per condursi al presente stato di civiltà non ancora perfetta, quanto tempo hanno dovuto penare questi tali popoli? Tanti anni quanti si possono numerare dall’origine dell’uomo insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le invenzioni che erano o di maggiore necessità o di maggior profitto al conseguimento dello stato civile, hanno avuto origine, non da ragione, ma da casi fortuiti: di modo che la civiltà umana è opera della sorte più che della natura: e dove questi tali casi non sono occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con tutto che abbiano altrettanta età quanta i popoli civili. Dico io dunque: se l’uomo barbaro mostra di essere inferiore per molti capi a qualunque altro animale; se la civiltà, che è l’opposto della barbarie, non è posseduta nè anche oggi se non da una piccola parte del genere umano; se oltre di ciò, questa parte non è potuta altrimenti pervenire al presente stato civile, se non dopo una quantità innumerabile di secoli, e per beneficio massimamente del caso, piuttosto che di alcun’altra cagione; all’ultimo, se il detto stato civile non è per anche perfetto; considera un poco se forse la tua sentenza circa il genere umano fosse più vera acconciandola in questa forma: cioè dicendo che esso è veramente sommo tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell’imperfezione, piuttosto che nella perfezione; quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare, scambino continuamente l’una coll’altra; argomentando da certi cotali presupposti che si hanno fatto essi, e tengonli per verità palpabili. Certo che gli altri generi di creature fino nel principio furono perfettissimi ciascheduno in se stesso. E quando eziandio non fosse chiaro che l’uomo barbaro, considerato in rispetto agli altri animali, è meno buono di tutti; io non mi persuado che l’essere naturalmente imperfettissimo nel proprio genere, come pare che sia l’uomo, s’abbia a tenere in conto di perfezione maggiore di tutte l’altre. Aggiungi che la civiltà umana, così difficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre a compimento, non è anco stabile in modo, che ella non possa cadere: come in effetto si trova essere avvenuto più volte, e in di versi popoli, che ne avevano acquistato una buona parte. In somma io conchiudo che se tuo fratello Epimeteo recava ai giudici il modello che debbe avere adoperato quando formò il primo asino o la prima rana, forse ne riportava il premio che tu non hai conseguito. Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che l’uomo sia perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che la sua perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e perfetto assolutamente; ma perchè il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in se, tra le altre cose, anco tutti i mali possibili: però in fatti si trova in lui tanto male, quanto vi può capire. E in questo rispetto forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili.

   

Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine una risposta in forma distinta, precisa e dialettica a tutte queste ragioni; ma è parimente certo che non la diede: perchè in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di Londra: dove scesi, e veduto gran moltitudine di gente concorrere alla porta di una casa privata, messisi tra la folla, entrarono nella casa: e trovarono sopra un letto un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale scriveva.

PROMETEO. Chi sono questi sciagurati?

FAMIGLIO. Il mio padrone e i figliuoli.

PROMETEO. Chi gli ha uccisi?

FAMIGLIO. Il padrone tutti e tre.

PROMETEO. Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso?

FAMIGLIO. Appunto.

PROMETEO. Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere accaduta.

FAMIGLIO. Nessuna, che io sappia.

PROMETEO. Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o in corte?

FAMIGLIO. Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva molto favore.

PROMETEO. Dunque come è caduto in questa disperazione?

FAMIGLIO. Per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto.

PROMETEO. E questi giudici che fanno?

FAMIGLIO. S’informano se il padrone era impazzito o no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba ricade al pubblico per legge: e in verità non si potrà fare che non ricada.

PROMETEO. Ma, dimmi, non aveva nessun amico o parente, a cui potesse raccomandare questi fanciullini, in cambio d’ammazzarli?

FAMIGLIO. Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli era molto intrinseco, al quale ha raccomandato il suo cane.

Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche rammemorargli che nessun altro animale fuori dell’uomo, si uccide volontariamente esso medesimo, nè spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa.

IX. LA APUESTA DE PROMETEO [56] 

El año ochocientos treinta y tres mil doscientos sesenta y cinco del reinado de Júpiter, la academia de las Musas publicó e hizo pegar, en los lugares públicos de la ciudad y de las aldeas de Hipernéfelo,[57] diversas cédulas en las que invitaba a todos los Dioses mayores y menores y a los demás habitantes de dicha ciudad que, ya recientemente, ya en la antigüedad, hubieran realizado una loable invención, a que la propusieran con una experimentación, con un modelo o por escrito, a algunos jueces elegidos de dicha academia. Y, excusándose de que, debido a su conocida pobreza, no se podía mostrar tan liberal como hubiera querido, prometía como premio, a aquel cuyo hallazgo fuera juzgado el más hermoso o el más fructífero, una corona de laurel, con el privilegio de poder llevarla en la cabeza día y noche, en privado y en público, en la ciudad y fuera de ella, y de poder ser pintado, esculpido, fundido, representado de cualquier modo y con cualquier materia, con la distinción de esa corona alrededor de la cabeza.

Concurrieron a este premio no pocos celestes por pasatiempo, lo cual no es menos necesario para los habitantes de Hipernéfelo que para los de otras ciudades; y sin ningún deseo deseo de la corona, que no valía ni lo que vale una gorra de estopa; y por lo que se refiere a la gloria, si los hombres, desde que se han hecho filósofos, la desprecian, ya podemos conjeturar en qué estima la tendrán los Dioses, que son mucho más sabios que los hombres, es más, los únicos sabios, según Pitágoras y Platón. Por tanto, ejemplo único y hasta entonces inaudito en similares casos de recompensas propuestas a los más merecedores, este premio fue adjudicado sin que intervinieran ni ruegos de favor, ni promesas ocultas, ni artificios. Y tres fueron los vencedores, a saber, Baco por la invención del vino, Minerva por la del aceite, necesario para las unciones que los Dioses acostumbran a hacer diariamente después del baño, y Vulcano por haber fabricado una olla de cobre, tipo económico, que sirve para cocer cualquier cosa con poco fuego y con rapidez. Así, al tenerse que dividir el premio en tres partes, le tocó a cada uno una ramita de laurel, pero los tres rechazaron tanto la parte como el todo. Vulcano alegó que, al estar la mayor parte del tiempo junto al fuego en la fragua, con fatiga y sudor, le resultaría muy inoportuno ese estorbo en la cabeza; además de que lo pondría en peligro de chamuscarse o quemarse, si por casualidad una chispa se pegaba a esas hojas secas y metía fuego. Minerva dijo que, al tener que llevar en la cabeza un yelmo, como escribe Homero, [58] tan grande que puede cubrir a los ejércitos de cien ciudades juntos, no le convenía de ningún modo aumentar ese peso. Baco no quiso cambiar su diadema y su corona de pámpanos por la de laurel, aunque la habría aceptado de grado, si se le hubiera permitido colocarla, como insignia, fuera de su taberna; pero las Musas no consintieron dársela para eso, de modo que se quedó en el erario público.

Ninguno de los competidores de este premio sintió envidia por los tres Dioses que lo habían conseguido y rechazado, ni se dolió de los jueces, ni criticó la sentencia, excepto uno, que fue Prometeo, que había participado en el concurso enviando un modelo de barro que había hecho y preparado para formar a los primeros hombres, al que adjuntó un escrito en el que exponía las cualidades y los servicios del género humano, y que había sido inventado por él. Despertó no poca maravilla el malestar mostrado por Prometeo en un caso que todos los otros,  tanto vencedores como vencidos, se habían tomado como un juego; por ello, tras haber sido investigada la causa, se supo que él deseaba intensamente no ya el honor, sino el privilegio que habría obtenido con la victoria. Algunos piensan que tenía la intención de protegerse con el laurel de las tormentas, como se cuenta de Tiberio, que, cada vez que oía tronar, se ponía la corona, considerando que el laurel no puede ser herido por los rayos.[59] Pero, en la ciudad de Hipernéfelo, ni caen rayos ni truena. Otros, con más credibilidad, afirman que Prometeo, a causa de los años, comenzó a perder los cabellos, desventura que, al soportarla, como les sucede a muchos, de muy mala gana, y al no haber leído las alabanzas a la calvicie escritas por Sinesio,[60] o al no estar resignado, que es lo más creíble, quería ocultar bajo la diadema, como César dictador, la desnudez de su cabeza.

Pero volviendo a la narración, un día como otro, mientras Prometeo conversaba con Momo, se lamentaba ásperamente de que el vino, el aceite y las ollas hubieran sido antepuestos al género humano, del que decía que era la mejor obra de los inmortales que había en el mundo. Y, al parecerle que no convencía lo suficiente a Momo, pues este aducía no sé qué razones contrarias, le propuso que, juntos, descendieran a la tierra y visitaran al azar el primer lugar de cada una de las cinco partes de esta que observaran que estaba habitado por los hombres. Y para ello hicieron primero esta apuesta: si, en los cinco lugares o en la mayor parte de ellos, encontrarían o no evidentes argumentos de que el hombre es la más perfecta criatura del universo. Aceptado esto por Momo, y acordada la cuantía de la apuesta, descendieron sin más tardanza a la tierra, dirigiéndose en primer lugar al Nuevo Mundo, como a aquel que, por su mismo nombre y porque hasta entonces en él no había puesto el pie ningún inmortal, despertaba más su curiosidad. Detuvieron el vuelo en la región de Popaian, en la parte septentrional, no muy lejos del río Cauca, en un lugar en el que aparecían muchas señales de la presencia humana: huellas de cultivo por el campo; muchos senderos, aunque truncados en muchas partes y, generalmente, obstruidos; árboles talados y derribados y, particularmente, lo que parecían sepulturas y, a trechos, algunos huesos de hombre. Pero no por eso los dos celestiales, a pesar de poner oídos y aguzar la vista, pudieron oír una voz ni descubrir una sombra de hombre vivo. Continuaron, en parte caminando, en parte volando, a lo largo de muchas millas, atravesando montes y ríos, y encontrando, por todas partes, las mismas señales y la misma soledad. “¿Cómo es que están ahora desiertas estas regiones, a pesar de que muestran claramente que han estado habitadas?”, le decía Momo a Prometeo. Este recordó las inundaciones del mar, los terremotos, los temporales, las lluvias torrenciales que sabía que eran habituales en las regiones cálidas; y, verdaderamente, en ese mismo momento escuchaban, desde todas las espesuras cercanas, las ramas de los árboles que, agitadas por el viento, dejaban caer agua continuamente. Sin embargo, Momo no entendía cómo podía estar sometida esa región a las inundaciones del mar, que estaba tan lejos, que ni siquiera se veía nada de él desde ninguna parte; y menos entendía por qué razón los terremotos, los temporales y las lluvias tendrían que haber destruido a todos los hombres de la región, y no a los jaguares, a los monos, a los osos hormigueros, a las zarigüeyas, a las águilas, a los papagayos y a otras cien especies de animales terrestres y voladores que estaban por esos alrededores. Al final, al bajar a un valle inmenso, descubrieron, por decirlo así, un pequeño grupo de casas o cabañas de madera, cubiertas de hojas de palmera y rodeada cada una de ellas por un cerco a modo de vallado, delante de una de las cuales había muchas personas, unas en pie y otras sentadas, alrededor de una vasija de arcilla puesta al fuego. Se acercaron los dos celestiales tras adoptar forma humana, y Prometeo, habiéndolos saludado cortésmente a todos y dirigiéndose a uno que daba señales de ser el principal, le preguntó: «¿Qué hacemos?»

SALVAJE. Comemos, como ves.

PROMETEO. ¿Qué ricos alimentos tenéis?

SALVAJE. Esta poca carne.

PROMETEO. ¿Carne doméstica o salvaje?

SALVAJE. Doméstica, es más, es la de mi hijo.

PROMETEO. ¿Tienes por hijo a un ternero, como Pasífae?

SALVAJE. A un ternero, no, sino a un hombre, como tuvieron los demás.

PROMETEO. ¿Hablas en serio?, ¿te comes tu propia carne?

SALVAJE. La mía, no, sino la de este, a quien, con esta única intención, puse en el mundo y procuré alimentarlo.

PROMETEO. ¿Con la intención de comértelo?

SALVAJE. ¿Qué te maravilla? También a la madre, que ya no sirve para hacer más hijos, pienso comérmela pronto.

MOMO. Tal como nos comemos a la gallina después de los huevos.

SALVAJE. Y a las demás mujeres que tengo, en cuanto no sirvan para parir, me las comeré de igual modo. Y a estos esclavos míos que veis, ¿los dejo vivir acaso a no ser para recibir, de vez en cuando, a sus hijos y comérmelos? Pero, en cuanto envejezcan, me los comeré también a ellos, uno a uno, si por entonces estoy vivo. [61]

PROMETEO. Dime, estos esclavos, ¿son de tu misma nación o de otra?

SALVAJE. De otra.

PROMETEO. ¿Muy lejana?

SALVAJE. Lejanísima, tanto que entre sus casas y las nuestras corría un riachuelo.

Y señalando una pequeña colina, añadió: «Mira, allí estaba, pero los nuestros la han destruido».[62]  En esto, le pareció a Prometeo que no sé cuántos de ellos lo estaban mirando con una mirada amorosa, como mira el gato al ratón, así que, para no ser comido por sus propias criaturas, levantó de inmediato el vuelo, y lo mismo hizo Momo, y fue tanto el temor que sintieron ambos, que, al marcharse, corrompieron la comida de los bárbaros con esa suerte de inmundicia que las harpías  liberaron, por envidia, en las mesas troyanas.[63] Pero estos, más famélicos y menos escrupulosos que los compañeros de Eneas, siguieron con su almuerzo; y Prometeo, nada satisfecho con el Nuevo Mundo, se dirigió enseguida al viejo, es decir, a Asia; y, recorrido casi en un instante el intervalo que separa las antiguas de las nuevas Indias, bajaron los dos cerca de Agra, en un campo lleno de infinita gente, reunida alrededor de una fosa colmada de leña, en cuyo borde, por un lado, se veían algunas antorchas encendidas dispuestas para prender la leña, y por otro, sobre un estrado, a una mujer joven, cubierta de vestidos muy suntuosos y de todo tipo de adornos bárbaros, que, bailando y gritando, mostraba una grandísima alegría. Prometeo, al ver esto, se imaginaba que era una nueva Lucrecia o una nueva Virginia o cualquier emuladora de las hijas de Ereteo, de las Ifigenias, de los Codros, de los Meneceos, de los Curcios y de los Decios, que, siguiendo la orden de un oráculo, se iba a inmolar voluntariamente por su patria. Al entender después que la razón del sacrificio de la mujer era la muerte del marido, pensó que ella, al igual que Alcestes, [64] quería con su propia muerte rescatar la vida del marido. Pero, al saber que ella no quería ser quemada sino porque esto se acostumbraba hacer con las viudas de su casta, y que siempre había odiado a su marido y que estaba borracha, y que el muerto, en lugar de resucitar, también sería quemado en el mismo fuego, volvió rápidamente la espalda a ese espectáculo y tomó el camino de Europa; y mientras iban hacia allá, mantuvo con su compañero el siguiente diálogo:

MOMO. ¿Te hubieras imaginado, cuando con grandísimo peligro robaste el fuego del cielo para dárselo a los hombres, que estos habrían de servirse de él para cocerse el uno al otro en ollas o para quemarse voluntariamente?

PROMETEO. Sin duda que no. Pero considera, querido Momo, que los que hemos visto hasta ahora son bárbaros, y a través de los bárbaros no se puede juzgar cómo es la naturaleza de los hombres, sino a través de los civilizados, hacia los cuales nos dirigimos ahora. Y creo firmemente que entre ellos encontraremos y oiremos cosas y palabras que te parecerán dignas no solo de alabanza, sino de estupor.

MOMO. Por lo que a mí respecta, no veo, si los hombres son el género más perfecto del universo, cómo es necesario que sean civilizados para que no se quemen ellos mismos y para que no se coman a sus propios hijos, dado que todos los demás animales son bárbaros, y, no obstante, ninguno se quema deliberadamente, excepto el ave fénix, que no existe; muy pocos se comen a sus semejantes, y muchos menos se alimentan de sus hijos, por algún accidente insólito, y no por haberlos engendrado con ese propósito. Advierte además que, de las cinco partes del mundo, solo una y no entera, y no comparable por su tamaño a ninguna de las otras cuatro, está dotada de la civilización que tú alabas, y algunas pequeñas porcioncillas de otra parte del mundo. Y tú mismo no querrás afirmar que esta civilización esté culminada, de modo que hoy los hombres de París o de Filadelfia tengan generalmente toda la perfección que le conviene a su especie. Además, para llegar al presente estado de civilización, aún imperfecta, ¿cuánto han tenido que penar estos pueblos? Tantos años cuantos se pueden contar desde el origen del hombre hasta tiempos próximos. Y casi todos los inventos que eran o más necesarios, o más provechosos para conseguir este estado de civilización, han tenido su origen no en la razón, sino en en casos fortuitos, de modo que la civilización humana es obra de la suerte más que de la naturaleza; y allí donde estos casos no se han producido, vemos que los pueblos son aún bárbaros, a pesar de tener la misma edad que los pueblos civilizados. Por tanto, digo, si el hombre bárbaro muestra que es inferior, en muchos puntos, a cualquier otro animal; si la civilización, que es lo opuesto a la barbarie, no es poseída aún hoy sino por una pequeña parte del género humano; si, además de eso, esta parte no ha podido alcanzar el presente estado civilizado sino tras una cantidad innumerable de siglos, y gracias sobre todo a la casualidad, más que a cualquier otra causa, por último, si dicho estado civilizado no es totalmente perfecto, considera un poco si quizás tu opinión acerca del género humano no sería más verdadera enunciada así, a saber, que el género humano es verdaderamente supremo entre los géneros, como tú piensas, pero supremo en imperfección, más que en perfección,  aunque los hombres, cuando hablan y cuando piensan, confundan continuamente la una con la otra, argumentando con ciertas suposiciones que se han hechos ellos mismos y que tienen por verdades evidentes. Es verdad que las demás especies de las criaturas, desde el principio, fueron perfectísimas, cada una en sí misma. E incluso cuando no estuviera claro que el hombre bárbaro, considerado con respecto a los demás animales, es el menos bueno de todos, yo no me convenzo de que el hecho de ser un género imperfectísimo por naturaleza, como parece que es el del hombre, se tenga que considerar una perfección mayor que todas las demás. Añade que la civilización humana, tan difícil de obtener, y quizás imposible de realizarse, no es todavía tan estable, como para que no pueda caer, como de hecho ha sucedido muchas veces, y en diferentes pueblos que ya habían alcanzado una buena parte de ello. En definitiva, yo concluyo que si tu hermano Epimeteo les hubiera llevado a los jueces el modelo que debió utilizar cuando formó el primer asno o la primera rana, quizás se habría llevado el premio que tú no has conseguido. De todos modos, concederé de buena gana que el hombre es muy perfecto, si tú aceptas que esa perfección se parece a la que Plotino atribuía al mundo: que es óptimo y perfecto de manera absoluta; pero para que el mundo sea perfecto, conviene que contenga, entre las demás cosas, también todos los males posibles; por ello, de hecho, se encuentran en él tanto mal, cuanto puede contener. Y en esto, quizás le concedería de igual modo a Leibniz que el mundo presente sea el mejor de todos los mundos posibles.

No se duda que Prometeo no tuviera preparada una respuesta distinta, precisa y dialéctica para todas estas razones, pero es igualmente cierto que no la dio, porque en ese mismo instante se encontraron sobre la ciudad de Londres, en donde, una vez que habían descendido y habían visto una gran multitud de personas que concurrían a la puerta de una casa privada, se pusieron entre la muchedumbre y entraron en la casa. Encontraron, sobre un lecho, a un hombre tendido boca arriba, que tenía en su mano derecha una pistola, herido en el pecho y muerto; a su lado, yacían dos niños, también muertos. Estaban en la habitación muchas personas de la casa y algunos jueces que las interrogaban, mientras un oficial escribía.

PROMETEO. ¿Quiénes son estos desgraciados?

UN CRIADO. Mi señor y sus hijos.

PROMETEO. ¿Quién los ha matado?

UN CRIADO. El señor, a los tres.

PROMETEO. ¿Quieres decir a sus hijos y a sí mismo?

UN CRIADO. Exactamente.

PROMETEO. ¡Oh, qué es esto! Alguna grandísima desventura le ha debido de sobrevenir.

UN CRIADO. Ninguna, que yo sepa.

PROMETEO. ¿Quizás era pobre o se sentía despreciado por todos o desventurado en amores o en la corte?

UN CRIADO. Al contrario, era riquísimo, y creo que todos lo estimaban; del amor, no se preocupaba, y en la corte gozaba de mucho favor.

PROMETEO. Entonces, ¿cómo ha caído en tal desesperación?

UN CRIADO. Por tedio de la vida, según ha dejado escrito.

PROMETEO. ¿Y estos jueces qué hacen?

UN CRIADO. Se informan de si el dueño enloqueció o no; pues, si él no enloqueció, sus bienes le corresponden por ley al erario público: y verdaderamente esto no se podrá hacer que no le correspondan.

PROMETEO. Pero dime, ¿no tenía ningún amigo o pariente a quien confiarle estos niños, en lugar de matarlos?

UN CRIADO. Sí, los tenía; y, entre ellos, a uno que era muy íntimo, al que le ha confiado su perro. [65]

Momo estaba a punto de felicitar a Prometeo por los buenos efectos de la civilización y por la satisfacción que esta parecía proporcionar en nuestras vidas; y quería incluso recordarle que ningún otro animal, excepto el hombre, se mata voluntariamente a sí mismo ni, por desesperación, acaba con la vida de sus hijos, pero Prometeo lo previno y, sin interesarse ya por ver las dos partes del mundo que quedaban, le pagó la apuesta.

 

[56] Compuesto en Recanati, entre el 30 de abril y el 8 de mayo de 1824.

[57] Lugar imaginario cuyo nombre quiere decir «sobre las nubes». En Hipernéfelo, título segundo del Icaromenipo de Luciano de Samosata, éste es el lugar en el que residen los dioses.

[58] Cfr., según una anotación de Leopardi, Ilíada, V, vv. 743-744: «Se caló un casco de oro de doble cimera y de cuatro / anteojeras, que ornaban soldados de a pie de cien villas.» (Homero, Ilíada, traducción de Fernando Gutiérrez, Planeta, Barcelona, 1980).

[59]  “Plinio, lib. 16, cap. 30; lib. 2, cap. 55;  Suetonio, Tiber. cap. 69.” (N. del A.)

[60]  Sinesio de Cirene (ss. IV-V a.C.) fue autor de un Elogio de la calvicie.

[61]  «Quiero traer aquí un pasaje verdaderamente poco agradable y poco noble por el tema, pero muy curioso para ser leído por la forma tan naturalísima de escribir que tiene el autor. Éste es un tal Pedro Cieza de León, español, que vivió en el tiempo de los primeros descubrimientos y conquistas realizados por sus compatriotas en América, donde sirvió como soldado y donde estuvo diecisiete años. Sobre la veracidad y fe de sus narraciones, se puede ver la primera nota de Robertson al sexto libro de la Historia de América. Transcribo el texto de acuerdo con la ortografía actual: ´La segunda vez que volvímos por aquellos valles, cuando la ciudad de Antiocha fué poblada en las sierras que están por encima dellos, oí decir, que los señores ó caciques destos valles de Nore buscaban por las tierras de sus enemigos todas las mugeres que podian; las quales traidas á sus casas, usaban con ellas como las suyas proprias; y si se empreñaban dellos, los hijos que nacian los criaban con mucho regalo, hasta que habian doce ó trece años; y desta edad, estando bien gordos, los comian con gran sabor, sin mirar que eran su substancia y carne propria: y desta manera tenien mugeres para solamente engendrar hijos en ellas para despues comer; pecado mayor que todos los que ellos hacen. Y háceme tener por cierto lo que digo, ver lo que pasó con el licenciado Juan de Vadillo (que en este año está en España; y si le preguntan lo que digo dirá ser verdad): y es, que la primera vez que entraron Christianos españoles en estos valles, que fuímos yo y mis compañeros, vino de paz un señorote, que habia por nombre Nabonuco, y traia consigo tres mugeres; y viniendo la noche, dos dellas se echaron á la larga encima de un tapete ó estera, y la otra atraversada para servir de almohada; y el Indio se echó encima de los cuerpos dellas, muy tendido; y tomó de la mano otra muger hermosa, que quedaba atras con otra gente suya, que luego vino. Y como el licenciado Juan de Vadillo le viese de aquella suerte, preguntóle que para qué habia traido aquella muger que tenia de la mano: y, mirandolo al rostro el Indio, respondió mansamente, que para comerla; y que si él no hubiera venido, lo hubiera yá hecho. Vadillo, oido esto, mostrando espantárse, le dijo: ¿pues como, siendo tu muger, la has de comer? El cacique, alzando la voz, tornó a responder diciendo: mira mira; y aun al hijo que pariere tengo tambien de comer. Esto que he dicho, pasó en el valle de Nore; y en él de Guaca, que es él que dije quedar atras, oí decir á este licenciado Vadillo algunas vezes, como supo por dicho de algunos Indios viejos, por las lenguas que traíamos, que cuando los naturales dél iban á la guerra, á los Indios que prendian en ella, hacian sus esclavos; a los quales casaban con sus parientas y vecinas; y los hijos que habian en ellas aquellos esclavos, los comian: y que despues que los mismos esclavos eran muy viejos, y sin potencia para engendrar, los comian tambien á ellos. Y á la verdad, como estos Indios no tenian fe, ni conocian al demonio, que tales pecados les hacia hacer, cuan malo y perverso era; no me espanto dello: porque hacer esto, más lo tenian ellos por valentia, que por pecado.` Parte primera de la Crónica del Perú hecha por Pedro de Cieza, cap. 12, ed. de Amberes, 1554, hoja 30 y siguiente.” (N. del A.)

[62]  » ´El número de los indígenas independientes que habitan las dos Américas decrece cada año.  Se cuentan alrededor de 500.000 en el norte y en el oeste de los Estados Unidos, y 400.00 al sur de las repúblicas de Río de la Plata y de Chile. Es menos a las guerras que tienen que sostener los gobiernos americanos, que a su funesta pasión por los licores fuertes y a los combates de exterminio que mantienen entre ellos, a lo que se debe atribuir su decrecimiento rápido. Ellos llevan tan lejos esos dos excesos, que se puede predecir, con certeza, que antes de un siglo habrán desaparecido completamente de esta parte del globo. La obra de M. Schoolcraft (titulada Travels in the central portions of the Mississipi valley, publicado en Nueva York, el año 1825) está repleta de detalles curiosos sobre estos propietarios primitivos del Nuevo Mundo; será más buscada en tanto que es, por decirlo así, la historia del último periodo de existencia de un pueblo que se perderá [texto francés].` Revista Enciclopédica, tom. 28, noviembre de 1825, pág. 444.”  (N. del A.)

[63] Cfr. Virgilio, Eneida, III, v. 225 y ss.: «Mas de pronto con espantoso salto de los montes se presentan / las harpías y baten con estridencia sus alas, / y nos roban la comida y ensucian todo con su contacto / inmundo, y un grito feroz entre el olor repugnante.» (ed. cit., pág. 83)

[64] Lucrecia: Esposa del cónsul romano Tarquino, se suicidó por honor, tras ser violada por Sexto; Virginia fue asesinada por su padre para que no fuera violada por el decenviro Apio Claudio; las hijas de Ereteo se inmolaron libremente para aplacar la ira de Neptuno contra su padre; Ifigenia, hija de Agamenón, fue sacrificada por su padre, en honor de Artemisa, para que esta cambiara la dirección de los vientos, de modo que los barcos contra Troya pudieran zarpar; Codro, rey ateniense, se sacrificó por la victoria de la patria en guerra; Meneceo, hijo de Creonte, fue sacrificado por su padre (o se inmoló libremente, según otras versiones) ante el asedio de los Siete Reyes que sufría Tebas; Curcio se arrojó desde el caballo a un abismo del foro, para aplacar la ira de los dioses; los Decios: Nombre que reciben tres romanos que se sacrificaron por la victoria de Roma; Alcestes: Esposa de Admeto, rey de Tesalia, que ofreció su vida a los dioses en lugar de la de su esposo.

[65] “Este hecho es real.” (N. del A.)

X. DIALOGO DI UN FISICO E DI UN METAFISICO

FISICO. Eureca, eureca.

METAFISICO. Che è? che hai trovato?

FISICO. L’arte di vivere lungamente.

METAFISICO. E cotesto libro che porti?

FISICO. Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno in eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.

METAFISICO. Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocchè vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente.

FISICO. E in questo mezzo?

METAFISICO. In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse l’arte di viver poco.

FISICO. Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu difficile a trovarla.

METAFISICO. In ogni modo la stimo più della tua.

FISICO. Perchè?

METAFISICO. Perchè se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga.

FISICO. Oh cotesto no: perchè la vita è bene da se medesima, e ciascuno la desidera e l’ama naturalmente.

METAFISICO. Così credono gli uomini; ma s’ingannano: come il volgo s’inganna pensando che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce. Dico che l’uomo non desidera e non ama se non la felicità propria. Però non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento o subbietto di essa felicità. In modo che propriamente viene ad amare questa e non quella, ancorchè spessissimo attribuisca all’una l’amore che porta all’altra. Vero è che questo inganno e quello dei colori sono tutti e due naturali. Ma che l’amore della vita negli uomini non sia naturale, o vogliamo dire non sia necessario, vedi che moltissimi ai tempi antichi elessero di morire potendo vivere, e moltissimi ai tempi nostri desiderano la morte in diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. Cose che non potrebbero essere se l’amore della vita per se medesimo fosse natura dell’uomo. Come essendo natura di ogni vivente l’amore della propria felicità, prima cadrebbe il mondo, che alcuno di loro lasciasse di amarla e di procurarla a suo modo. Che poi la vita sia bene per se medesima, aspetto che tu me lo provi, con ragioni o fisiche o metafisiche o di qualunque disciplina. Per me, dico che la vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita. La vita infelice, in quanto all’essere infelice, è male; e atteso che la natura, almeno quella degli uomini, porta che vita e infelicità non si possono scompagnare, discorri tu medesimo quello che ne segua.

FISICO. Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è troppo malinconica; e senza tante sottigliezze, rispondimi sinceramente: se l’uomo vivesse e potesse vivere in eterno; dico senza morire, e non dopo morto; credi tu che non gli piacesse?

METAFISICO. A un presupposto favoloso risponderò con qualche favola: tanto più che non sono mai vissuto in eterno, sicchè non posso rispondere per esperienza; nè anche ho parlato con alcuno che fosse immortale; e fuori che nelle favole, non trovo notizia di persone di tal sorta. Se fosse qui presente il Cagliostro, forse ci potrebbe dare un poco di lume; essendo vissuto parecchi secoli: se bene, perchè poi morì come gli altri, non pare che fosse immortale. Dirò dunque che il saggio Chirone, che era dio, coll’andar del tempo si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì. Or pensa, se l’immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini. Gl’Iperborei, popolo incognito, ma famoso; ai quali non si può penetrare, nè per terra nè per acqua; ricchi di ogni bene; e specialmente di bellissimi asini, dei quali sogliono fare ecatombe; potendo, se io non m’inganno, essere immortali; perchè non hanno infermità nè fatiche nè guerre nè discordie nè carestie nè vizi nè colpe; contuttociò muoiono tutti: perchè, in capo a mille anni di vita o circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una certa rupe in mare, e vi si annegano. Aggiungi quest’altra favola. Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non erano in pronto le mule, essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea che rimunerasse la pietà de’ figliuoli col maggior bene che possa cadere negli uomini. Giunone, in vece di farli immortali, come avrebbe potuto; e allora si costumava; fece che l’uno e l’altro pian piano se ne morirono in quella medesima ora. Il simile toccò ad Agamede e a Trofonio. Finito il tempio di Delfo, fecero instanza ad Apollo che li pagasse: il quale rispose volerli soddisfare fra sette giorni; in questo mezzo attendessero a far gozzoviglia a loro spese. La settima notte, mandò loro un dolce sonno, dal quale ancora s’hanno a svegliare; e avuta questa, non dimandarono altra paga. Ma poichè siamo in sulle favole, eccotene un’altra, intorno alla quale ti vo’ proporre una questione. Io so che oggi i vostri pari tengono per sentenza certa, che la vita umana, in qualunque paese abitato, e sotto qualunque cielo, dura naturalmente, eccetto piccole differenze, una medesima quantità di tempo, considerando ciascun popolo in grosso. Ma qualche buono antico racconta che gli uomini di alcune parti dell’India e dell’Etiopia non campano oltre a quarant’anni; chi muore in questa età, muor vecchissimo; e le fanciulle di sette anni sono di età da marito. Il quale ultimo capo sappiamo che, appresso a poco, si verifica nella Guinea, nel Decan e in altri luoghi sottoposti alla zona torrida. Dunque, presupponendo per vero che si trovi una o più nazioni, gli uomini delle quali regolarmente non passino i quarant’anni di vita; e ciò sia per natura, non, come si è creduto degli Ottentotti, per altre cagioni; domando se in rispetto a questo, ti pare che i detti popoli debbano essere più miseri o più felici degli altri?

FISICO. Più miseri senza fallo, venendo a morte più presto.

 

 

METAFISICO. Io credo il contrario anche per cotesta ragione. Ma qui non consiste il punto. Fa un poco di avvertenza. Io negava che la pura vita, cioè a dire il semplice sentimento dell’esser proprio, fosse cosa amabile e desiderabile per natura. Ma quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini: perchè qualunque azione o passione viva e forte, purchè non ci sia rincrescevole o dolorosa, col solo essere viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole. Ora in quella specie d’uomini, la vita dei quali si consumasse naturalmente in ispazio di quarant’anni, cioè nella metà del tempo destinato dalla natura agli altri uomini; essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più viva il doppio di questa nostra: perchè, dovendo coloro crescere, e giungere a perfezione, e similmente appassire e mancare, alla metà del tempo; le operazioni vitali della loro natura, proporzionalmente a questa celerità, sarebbero in ciascuno istante doppie di forza per rispetto a quello che accade negli altri; ed anche le azioni volontarie di questi tali, la mobilità e la vivacità estrinseca, corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di modo che essi avrebbero in minore spazio di tempo la stessa quantità di vita che abbiamo noi. La quale distribuendosi in minor numero d’anni basterebbe a riempierli, o vi lascerebbe piccoli vani; laddove ella non basta a uno spazio doppio: e gli atti e le sensazioni di coloro, essendo più forti, e raccolte in un giro più stretto, sarebbero quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la loro età; dove che nella nostra, molto più lunga, restano spessissimi e grandi intervalli, vòti di ogni azione e affezione viva. E poichè non il semplice essere, ma il solo essere felice, è desiderabile; e la buona o cattiva sorte di chicchessia non si misura dal numero dei giorni; io conchiudo che la vita di quelle nazioni, che quanto più breve, tanto sarebbe men povera di piacere, o di quello che è chiamato con questo nome, si vorrebbe anteporre alla vita nostra, ed anche a quella dei primi re dell’Assiria, dell’Egitto, della Cina, dell’India, e d’altri paesi; che vissero, per tornare alle favole, migliaia d’anni. Perciò, non solo io non mi curo dell’immortalità, e sono contento di lasciarla a’ pesci; ai quali la dona il Leeuwenhoek, purchè non sieno mangiati dagli uomini o dalle balene; ma, in cambio di ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per allungare la vita, come propone il Maupertuis, io vorrei che la potessimo accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse alla misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei quali si dice che i più vecchi non passano l’età di un giorno, e contuttociò muoiono bisavoli e trisavoli. Nel qual caso, io stimo che non ci rimarrebbe luogo alla noia. Che pensi di questo ragionamento?

FISICO. Penso che non mi persuade; e che se tu ami la metafisica, io m’attengo alla fisica: voglio dire che se tu guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne contento. Però senza metter mano al microscopio, giudico che la vita sia più bella della morte, e do il pomo a quella, guardandole tutte due vestite.

METAFISICO. Così giudico anch’io. Ma quando mi torna a mente il costume di quei barbari, che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano in un turcasso una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bianca; penso quanto poco numero delle bianche è verisimile che fosse trovato in quelle faretre alla morte di ciascheduno, e quanto gran moltitudine delle nere. E desidero vedermi davanti tutte le pietruzze dei giorni che mi rimangono; e, sceverandole, aver facoltà di gittar via tutte le nere, e detrarle dalla mia vita; riserbandomi solo le bianche: quantunque io sappia bene che non farebbero gran cumulo, e sarebbero di un bianco torbido.

FISICO. Molti, per lo contrario, quando anche tutti i sassolini fossero neri, e più neri del paragone, vorrebbero potervene aggiungere, benchè dello stesso colore: perchè tengono per fermo che niun sassolino sia così nero come l’ultimo. E questi tali, del cui numero sono anch’io, potranno aggiungere in effetto molti sassolini alla loro vita, usando l’arte che si mostra in questo mio libro.

METAFISICO. Ciascuno pensi ed operi a suo talento: e anche la morte non mancherà di fare a suo modo. Ma se tu vuoi, prolungando la vita, giovare agli uomini veramente; trova un’arte per la quale sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le sensazioni e le azioni loro. Nel qual modo, accrescerai propriamente la vita umana, ed empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro essere è piuttosto durare che vivere, ti potrai dar vanto di prolungarla. E ciò senza andare in cerca dell’impossibile, o usar violenza alla natura, anzi secondandola. Non pare a te che gli antichi vivessero più di noi, dato ancora che, per li pericoli gravi e continui che solevano correre, morissero comunemente più presto? E farai grandissimo beneficio agli uomini: la cui vita fu sempre, non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore nè disagio. Ma piena d’ozio e di tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella sentenza di Pirrone, che dalla vita alla morte non è divario. Il che se io credessi, ti giuro che la morte mi spaventerebbe non poco. Ma in fine, la vita debb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio.

X. DIÁLOGO DE UN FÍSICO Y DE UN METAFÍSICO [66]

FÍSICO. ¡Eureka!, ¡eureka! [67]

METAFÍSICO. ¿Qué hay?, ¿qué has encontrado?

FÍSICO. El arte de vivir largamente. [68]

METAFÍSICO. ¿Y este libro que traes?

FÍSICO. En él lo explico; y, gracias a este descubrimiento, si los demás vivirán mucho tiempo, yo viviré, por lo menos, eternamente, quiero decir que alcanzaré gloria inmortal.

METAFÍSICO. Sigue mi consejo: busca una cajita de plomo, esconde allí este libro, entiérrala, y antes de morir, no te olvides de indicar el lugar, para que se pueda ir allí y sacar el libro cuando se haya encontrado el arte de vivir felizmente.

FÍSICO. ¿Y entretanto?

METAFÍSICO. Entretanto no servirá para nada. Más lo estimaría si expusiera el arte de vivir poco.

FÍSICO. Ese ya se conoce desde hace tiempo, y no fue difícil encontrarlo.

METAFÍSICO. De todas formas, lo estimo más que el tuyo.

FÍSICO. ¿Por qué?

METAFÍSICO. Porque, si la vida no es feliz, y hasta ahora no lo ha sido, mejor nos resulta tenerla breve que larga.

FÍSICO. ¡Oh, esto no!, pues la vida es un bien por sí misma, y cada uno la desea y la ama por naturaleza.

METAFÍSICO. Así creen los hombres, pero se engañan, como se engaña el vulgo al pensar que los colores son una cualidad de los objetos, cuando no son de ellos, sino de la luz. Digo que el hombre no desea ni ama sino la propia felicidad. Por ello, no ama la vida, sino en cuanto la considera instrumento y materia de dicha felicidad. De ese modo, viene a amar esta y no aquella, aunque muy a menudo le atribuye a una el amor que siente por la otra. Es verdad que este error y el de los colores son los dos naturales. Pero que el amor a la vida no es natural en los hombres, o si queremos decirlo de otro modo, que no es necesario, se ve en que muchísimos en los tiempos antiguos eligieron morir pudiendo vivir, y muchísimos en nuestro tiempo desean la muerte en diversos casos, y algunos se matan con su propia mano. Cosas que no podrían suceder si el amor a la vida en sí mismo fuera naturaleza del hombre.  Al ser natural en todo individuo el amor a la propia felicidad, antes se caería el mundo, que no que ellos dejaran de amarla y de buscarla a su manera. Que, además, la vida sea un bien por sí misma, espero que tú me lo demuestres, con razones físicas o metafísicas o procedentes de cualquier disciplina. En cuanto a mí, digo que la vida feliz sería un bien sin duda, pero en tanto que feliz, no en tanto que vida. La vida infeliz, para el ser infeliz, es un mal; y dado que la naturaleza, al menos la de los hombres, hace que la vida y la infelicidad no se puedan separar, examina tú mismo lo que se deduce.

FÍSICO. Por favor, dejemos este tema, que es demasiado melancólico, y, sin tantas sutilezas, respóndeme sinceramente. Si el hombre viviera y pudiera vivir eternamente, digo sin morir y no después de muerto, ¿crees que no le gustaría?

METAFÍSICO. A una pregunta fabulosa, responderé con una fábula, tanto más cuanto que nunca he vivido eternamente, así que no puedo responder de acuerdo con la experiencia; ni he hablado con ninguno que fuese inmortal; excepto en las fábulas, no encuentro noticias de personas de tal especie. Si estuviera aquí presente el conde Cagliostro, [69]  quizás nos podría orientar un poco, al haber vivido bastantes siglos, aunque, ya que luego murió como los demás, no parece que fuera inmortal. Te diré, pues, que el sabio Quirón, [70]  que era un dios, con el paso del tiempo se aburrió de la vida y tomó licencia de Júpiter para poder morir, y murió. [71] Entonces, piensa, si la inmortalidad les desagrada a los dioses, ¿qué no ha de suscitar en los hombres?  Los hiperbóreos, [72]  pueblo desconocido pero famoso, hasta los cuales no se puede llegar ni por tierra ni por agua, ricos en todo bien y, especialmente, en hermosos asnos, con los cuales suelen hacer hecatombes, a pesar de que pueden, si no me engaño, ser inmortales, pues no padecen enfermedades ni fatigas ni guerras ni discordias ni carestías ni vicios ni culpas, sin embargo, mueren todos, porque al cabo de mil años de vida, más o menos, cansados de la tierra, saltan espontáneamente al mar desde una roca y se ahogan. [73]  Añade esta otra fábula. Los hermanos Bitón y Cleobis, un día de fiesta en el que las mulas del carro de su madre, sacerdotisa de Juno, no estaban preparadas, las sustituyeron, y, cuando llegaron al templo, la madre suplicó a la diosa que pagara la piedad de sus hijos con el mayor bien que pudiera llegarles a los hombres. Juno, en lugar de hacerlos inmortales, como habría podido hacer, y entonces era costumbre, hizo que ambos poco a poco se murieran en ese mismo instante. Algo similar les sucedió a Agamedes y a Trofonio. Acabado el templo de Delfos, le pidieron a Apolo que les pagara, y este les respondió que les pagaría en siete días, y que entre tanto se dedicaran a las francachelas por cuenta de ellos. La séptima noche les mandó un dulce sueño del que aún tienen que despertarse, y recibida esta recompensa, no pidieron otra. Pero, ya que estamos con fábulas, he aquí otra, en torno a la cual te quiero plantear una cuestión. Sé que hoy tus semejantes creen firmemente que la vida humana, en cualquier lugar habitado y bajo cualquier cielo, dura por naturaleza, excepto pequeñas diferencias, la misma cantidad de tiempo, considerando cada pueblo en general. Pero algún excelente antiguo[74]  cuenta que los hombres de algunas partes de la India y de Etiopía no viven más de cuarenta años, y que quien muere a esa edad muere viejísimo, y que las niñas de siete años ya están en edad de casarse.  Sabemos que esto último, más o menos, se verifica en Guinea, en Decán y en otros lugares de la zona tórrida. Así, suponiendo que sea verdad que haya una o más naciones en las que los hombres no sobrepasen regularmente los cuarenta años, y que eso sea por naturaleza y no por otras razones, como creyeron los hotentotes, te pregunto, ¿te parece, teniendo en cuenta esto, que dichos pueblos son más miserables o más felices que los demás?

FÍSICO. Más miserables, sin duda, pues mueren antes.

METAFÍSICO. Pues por la misma razón creo yo lo contrario. Pero en esto no consiste la cuestión. Atiende un poco. Yo negaba que la simple vida, es decir, el simple sentimiento de existir, fuera algo digno de ser amado o deseado por naturaleza. Pero lo que quizás con mayor dignidad se llama también vida, quiero decir, la eficacia y la abundancia de sensaciones es naturalmente amado y deseado por todos los hombres, porque cualquier acción o pasión intensa y fuerte, con tal de que no nos resulte desagradable o dolorosa, solo por ser intensa y fuerte nos resulta grata, incluso si carece de cualquier otra cualidad deleitable. Así, en aquella especie de hombres cuya vida se consumiera por naturaleza en el espacio de cuarenta años, es decir, en la mitad del tiempo destinado por la naturaleza a los demás hombres, esa vida sería en cada uno de sus momentos el doble de intensa que la nuestra, porque, al deber ellos crecer y alcanzar la perfección y, de igual modo, marchitarse y morir en la mitad de tiempo, las operaciones vitales de su naturaleza, en proporción a esta celeridad, tendrían en cada instante el doble de fuerzas con respecto a lo que sucede en los demás; e incluso sus acciones voluntarias, su movimiento y vitalidad extrínseca se corresponderían con esta mayor eficacia. Por tanto, ellos tendrían en menor espacio de tiempo la misma cantidad de vida que tenemos nosotros, la cual, al distribuirse en menor número de años, bastaría para colmarlos, o les dejaría pequeños vacíos, mientras que, en un espacio de tiempo doble, no basta. Y sus actos y sus sensaciones, al ser más fuertes y al estar recogidos en un círculo más estrecho, serían suficientes para ocupar y vivificar todo su tiempo, mientras que en el nuestra, mucho más largo, quedan abundantísimos y grandes intervalos vacíos de toda acción y afecto vigoroso. Y ya que no el simple existir, sino solo el ser feliz es deseable, y que la buena o mala suerte de quien quiera que sea no se mide por el número de días, concluyo que la vida de esas naciones, que cuanto más breve es, tanto menos pobre es en placeres o en aquello que así es llamado con este nombre, sería preferible a la nuestra, e incluso a aquélla de los primeros reyes de Asiria, de Egipto, de China, de la India y de otros países, quienes vivieron, para volver a las fábulas, miles de años. Por ello, no solo yo no me preocupo de la inmortalidad y me contento con dejársela a los peces, a los cuales se la atribuye Leewenhoek, siempre que no se los coman los hombres o las ballenas, sino que, en lugar de retardar o interrumpir la actividad vegetativa de nuestro cuerpo para alargar la vida, como propone Maupertuis, yo quisiera que la aceleráramos de tal modo que nuestra vida se redujera a la de los insectos llamados efímeros, de los que se dice que los más viejos no llegan a la edad de un día y, a pesar de ello, mueren bisabuelos y tatarabuelos. En este caso, considero que no nos quedaría tiempo para el aburrimiento. ¿Qué piensas de este razonamiento?

FÍSICO. Pienso que no me convence. Y que si tú amas la metafísica, yo me atengo a la física, quiero decir que si tú consideras esto por lo sutil, yo lo considero en general; y con ello estoy satisfecho. Por ello, sin usar el microscopio, juzgo que la vida es más hermosa que la muerte, y le doy la manzana a aquélla, mirándolas vestidas a las dos.

METAFÍSICO. Así lo considero también yo. Pero, cuando recuerdo la costumbre de aquellos bárbaros que cada día infeliz de sus vidas arrojaban una piedrecilla negra en un estuche, y cada día feliz, una blanca,[75] pienso qué pequeño número de blancas se encontraría verosímilmente en aquellas aljabas a la muerte de cada uno, y qué gran multitud de negras.  Y deseo ver ante mí todas las piedrecillas de los días que me quedan y, después de separarlas, poder arrojar todas las negras y restarlas de mi vida, reservándome solo las blancas, aunque sé que no formarían un gran cúmulo, y que serían de un blanco turbio.

FÍSICO. Muchos, por el contrario, incluso si todas las piedrecillas fueran negras, e incluso más negras que el azabache, quisieran poder añadir algunas, aun del mismo color, porque creen firmemente que ninguna piedrecilla será tan negra como la última. Y estos, a cuyo número pertenezco yo, podrán, en efecto, añadir muchas piedrecillas a sus vidas con el arte que se expone en este libro.

METAFÍSICO. Que cada cual piense y obre a su gusto, pues incluso la muerte no dejará de actuar a su modo. Pero, si tú quieres, al prolongar la vida de los hombres, ayudarlos de verdad, descubre un arte por el que se multipliquen la cantidad y la intensidad de sus sensaciones y de sus acciones. De ese modo, acrecentarás precisa-mente la vida humana, y llenando aquellos desmesurados intervalos de tiempo en los que nuestro ser dura más que vive, te podrás jactar de prolongarla. Y eso sin ir en busca de lo imposible o de usar la violencia en la naturaleza, antes secundándola. ¿No te parece que los antiguos vivieron más que nosotros, dado que con los graves y continuos peligros que solían correr morían por lo común antes? Y les harás un gran beneficio a los hombres, cuya vida fue siempre, no diré feliz, sino tanto menos infeliz cuanto más turbulentamente agitada y más ocupada, sin dolor ni malestar. Pero, llena de ocio y de tedio, que es como decir vacía, da lugar a que se crea verdadera aquella sentencia de Pirrón, que entre la vida y la muerte no hay diferencia. Cosa que si yo la creyera, te juro que la muerte me espantaría mucho. Pero, en fin, la vida debe ser vida, es decir, verdadera vida, o la muerte la supera incomparablemente en valor.

 

[66] Compuesto en Recanati, entre el 14 y el 19 de mayo de 1824.

[67]  «Famosas palabras de Arquímedes, cuando encontró el modo de conocer el robo realizado por el orfebre que fabricó la corona votiva del rey Hierón.» (N. del A.)

[68] «Las intenciones de este arte se podrán, en efecto, no sé si aprender, pero sí estudiar en diversos libros, tanto modernos como antiguos, como, por ejemplo, en las Lecciones del arte de prolongar la vida humana escritas, en nuestros tiempos, en alemán por el Sr. Hufeland, que también han sido traducidas y publicadas en Italia. Un nuevo modo de adulación fue la de Tommaso Giannotti, médico de Rávena, apodado el filólogo y famoso en sus tiempos, que escribió en el año 1550 a Julio III, quien subió al pontificado ese mismo año, un libro De vita hominis ultra CXX annos protrahenda, muy a propósito de los Papas, como aquéllos que, cuando comienzan a reinar, suelen ser de avanzada edad. Sería un libro digno de risa, si no fuera oscurísimo. Dice el médico que lo escribió con el fin, principalmente, de prolongar la vida del nuevo pontífice, necesaria para el mundo, y que fue impulsado a escribirlo por dos cardenales, que deseaban mucho el mismo efecto. En la dedicatoria, vives igitur, dice, beatissime pater, ni fallor, diutissime. Y en el cuerpo de la obra, habiendo buscado un capítulo entero cur Ponfificum supremorum nullus ad Petri annos pervenerit, titula del modo siguiente otro: Iulius III papa videbit annos Petri el ultra; huius libri, pro longaeva hominis vita ac chistianae religionis commodo, immensa utilitate. Pero el papa murió cinco años después, a la edad de sesenta y siete años. Por lo que se refiere a sí mismo, el médico prueba que si por casualidad no sobrepasa o no alcanza los ciento veinte años, no será por su culpa, y que, por ello, no se deberán despreciar sus reglas. Concluye el libro con una receta titulada Iulii III vitae longaevae ac semper sanae consilium.» (N. del A.)

[69] Giuseppe Balsamo, llamado Alessandro, conde de Cagliostro (1743-1795). Médico siciliano y célebre aventurero relacionado con la masonería. Recorrió Oriente y casi todas las ciudades de Europa, pregonando sus secretos medicinales, especialmente «el agua de la juventud».

[70] Centauro hijo de Cronos que, tras ser herido accidentalmente por Heracles con una flecha envenenada, cedió su inmortalidad a Prometeo.

[71] ”Véase Luciano, Dial.  Menip. et Chiron. opp. tom. 1, p. 514” (N. del A.)

[72] Pueblo mítico del que se decía que habitaba feliz, al Norte, en un lugar inaccesible.

[73] “Píndaro, Pyth. Od. 10, v. 46 y ss. Estrabón, lib.15, p. 710 y ss.  Mela, lib. 3, cap. 5. Plinio, lib. 4, cap.12 al final.” (N. del A.)

[74]  “Plinio, lib. 6, cap. 30; lib. 7, cap. 2. Arriano, Indic., cap. 9.” (N del A.)

[75]  Suidas, voc.  Leukh hmera.” (N. del A.)

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