Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Giovanni Boine

Frantumi

1914-1917

.

Testi:

I. Pubblicati sulla rivista La Riviera Ligure: Frammenti, Resoconto dell’escursione, Deliri, Frantumi, I miei amici di qui, Prosette quasi serene, Conclusioni d’ottobre, Bisbiglio a vespero, Circolo

II. Non pubblicati in vita: [Quadernetto di appunti 1914, Definizione di me, Taccuino 15/16, Varsavia, Dialoghi de tempore belliPresentazione a Dio, L’attività disperde], Così lento andando, Allora qua le rive, A tagliare gli ormeggi

***

In questa pagina si pubblicano i testi della sezione I (tranne la prima parte di Delirii) ed i tre ultimi testi della sezione II. Si segue la terza edizione dell´opera: Guanda, Modena, 1938. Per gli altri testi si veda l´edizione di Veronica Pesce: San Marco dei Giustiniani, Genova, 2007.

***

.
.

.

[I. I] FRAMMENTI

1) Talvolta quando al tramondo passeggio stanco pel Corso (ch’è vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: «buona sera!».
Allora d’un tratto, lì sul Corso ch’è vuoto, m’imbatto stupito alle cose d’ieri e sono pur io una cosa col nome.

2) Quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso di ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l’atto di me che t’ascolto. Fingo d’essere con te e non ho cuore a dirti d’un tratto: «Non so chi tu sia!». Amico, in verità non so chi tu sia.
E come tu vuoi ch’io rinsaldi l’oggi all’ieri labbra d’abisso, ferita divaricata dell’infinito?

3) Mi fermi per via chiamandomi a nome, col mio nome di ieri.
Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?

4) Tepido letto del nome, sicura casa dell’ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle gioie lontane. Nave sul mare. Zattera di naufraghi.
Ma l’oggi, è, via, come una cateratta aperta. Nubi cangianti nell’abissale cavo del cielo.
.

5) Tu resti saldo-piantato nell’ieri specula alta dell’oggi, ed attento vi spii tutte le cose, ciascuna secondo il suo nome.
Che nessuna ti sfugga ecco il tuo ufficio, e che tutte si seguano secondo l’ordine giusto. Che tutte s’incastrino e facciano insieme un regolato disegno. Che nessuna ti sfugga, né vi sia salto.

6) Constipi i tuoi giorni nel calendario dei dodici mesi; le tue ore le misuri sul picchiettio di una ruota.
Perciò al settembre segue l’ottobre e l’effetto alla causa. L’ieri tien le redini all’oggi e le chiama dovere.

7) Come faticoso vivere sul metro dell’ieri! Ma, bue al giogo, prosegui. L’oggi è l’ieri e pingue la stalla s’apre al fine del solco.

8) Trama tessuta, conti le fila della tua vita e nessuna è strappata.

9) Il mio nome è Giovanni e se mi chiami, pronto rispondo. Adesso e nell’ora della mia morte. Appena, il mattino, su mi isso dalla varia nube del sogno, mia madre dice piano «Giovanni» alla porta socchiusa, e, quasi, io sono di nuovo.

10) Non mi torrete il mio nome; lo imbraccio come uno scudo. — Tra la smarrita paura dell’ieri e l’oggi vissuto ho messo a ponte il mio nome.

11) Il dovere è il mio diritto; non m’impedirai di compirlo.

12) Difendo il dovere che l’ieri m’assegna, come l’assalito la casa. Chiusa gelosia, voluttà di un fisso dovere nel mareggiar dell’arbitrio! Ragiono ogni mio atto timoniere alla ruota.

13) La più certa ricchezza è ch’io posseggo un numero mio all’Ufficio di Anagrafe. Ho un titolo e delle attribuzioni: sapete chi sono. È chiaro ad ognuno ch’io debbo nel tal caso agire così. E, dentro, il segnavia della mia coscienza comanda a ogni bivio: «piglia a diritta!»

14) Voi sapete chi sono e cioè cosa ho fatto: sapete che cosa farò. Pongo le mie azioni come pietre miliari e livello con scrupolo l’ultima sulla penultima.

15) Giustifico ogni mia mossa seconde la regola. Nel tempio dell’ieri ho, ginocchioni, adorato il penate Esperienza,
l’ho effigiato nei dieci comandamenti e teologizzato nei commi del codice. E trovatemi una briccica d’atto di cui non vi sappia spiegare il perchè! Faccio ogni cosa secondo un perchè e sono un uomo morale.

16) Non mi sorprenderai inaspettato, né il balzo del mio cuore nuovo. Non esiste l’oggi od il nuovo, né la passione ruggisce. Modero la mia sete sulla misura della mia borraccia. E così non avrò rubato alla sete degli altri e sarò un uomo morale.

17) Ho studiato le molteplici connessure del mio ieri con l’ieri di tutti ed ho riconosciuta la necessaria Società. Ho nettamente tracciata la carta della società, sul mappamondo dell’Universale il quale è l’ieri d’Iddio. Ora io consulto ad ogni respiro l’astrolabio dell’universale navigante che piglia l’altezza del sole.

18) Sono corazzato dell’universale ed il mio nome è coscienza. Nave all’ormeggio, specula salda su roccia s’avvicendano intorno le notti coi soli ed io resto immobile nella certa coscienza di me.

19) Ma ahi no! che l’oggi mi vince e sono un naufrago senza la zattera. Ahi che l’ieri rapido vagulo crepita via, secca foglia nel vento! Son tutto nell’oggi ed il mio nome è attimo.

20) Quando la sera rincaso e mi seggo all’acceso camino, fuori la valle è grigiume di nebbia e notturna opacità. Non esiste il passato. Che mai è il ricordo?

21) Non trovo nel codice il comma dell’azione mia, né il comandamento della mia morale.

22) Non pietre miliari di una diritta via; massi erratici ed oasi.

23) Ho scordato il mio nome: ho perduto i miei passaporti in paese nemico.

24) Drizzai l’avida prua ai ghiacci del Nord, incerto mi dondolo ora nelle bonaccie lisce del Cancro.

25) Il mio nome è oggi, e la mia via si chiama smarrita. Non ci sono insegne ai bivi dell’andare mio e non so s’io abbia imboccato a man dritta.

26) Vagabondo che non sai donde viene e stanotte ti brucierà il pagliaio, ciascuno che incontro mi guata con occhi nemici. Veggo nella titubanza delle tue pupille che io ti sono come l’acqua che fugge.

27) Ahi ch’io non ho letto, ahi ch’io non ho tomba! Ahi ch’io non so chi mi sia e non conosco né cosa né uomo!

28) Sedetti al tramonto su d’una soffice proda contro il sole a scaldarmi, ma si levò subito dopo un gelido vento e fu la notte.

29) Perchè io sono triste ora? Ma perchè io sono gioioso? Non intendo la ragione della notte e del giorno.

30) S’io godo della mia gioia e dico «così ogni mia ora» ecco d’un tratto mi si leva dentro l’amarezza del pianto, come nebbia da una nera palude.
.

31) Come vuoi ch’io prometta se non so del domani? Non intendo che cosa sia promessa.

32) Tra dieci anni ci rivedremo? Ma chi tu vedrai fra un’ora? Ahi che bastò il giro di un giorno.

33) E perchè fingi di non aver mutato? Che il tuo vivere sia secondo ragione te ne compiaci. Arrangi le prove del tuo mutare secondo l’apparenza dell’immutabilità.
Io, per me, ciò che volli non l’ho compiuto.

34) Dici del ricordo che lega il tuo oggi al tuo ieri. Ma io sul ricordo dell’ieri ho misurato la disparità dell’oggi e l’impossibilità del legame. Ho rinunciato a ridurre il mio oggi nello spettro dell’ieri e non forzo con infingimenti la mia vita ad apparirti ordinata.

35) Cieco a cui caschi il bastone, via gettai tutte le vostre logiche. Foglia nel vento, barca nel mareggiare; ma non cerco la sbarra.

36) Dico che non v’è timone. Volontà e passione, vuote parole.

37) Passione e volontà son tutto nella gioia dell’oggi, e tutto nel presente dolore.

38) Sono disperatamente gioioso e sono senza speranza triste. Credo con violenza all’Inferno e sono de facto certo di un Paradiso.

39) Perchè la mia vita non si fabbrica su progetto, pezzo per pezzo, come i palazzi di pietra e non corro a una meta cavallo al traguardo. Non ho avvenire perchè non ho passato. Non avendo ricordo, nemmeno speranza.
.

40) Vampa di fornace il mio desiderio; e come l’abisso della notte il mio annichilimento. Io non so che gioire, io non so che soffrire. Non ho riparo al dolore, né tempero, con riflessioni, la gioia.

41) Rinuncerò alla cosa che amo s’io non ho scampo fuori di essa? Il mio amore, è via scattato dalla disperazione, così come l’odio.

42) E come potrò rinunciare alla donna che amo s’io non sono che amore della donna che amo? Come tu vuoi ch’io non arda pel corpo della donna che amo s’io non ho altro corpo che il suo?

43) Non mi torrai dalla chiusa prigione dell’attimo con vane chiacchiere sull’infinità dell’eterno.

44) Non v’è altro eterno che l’attimo.

45) Pietosamente mascheri alla mia disperazione la tua felicità.

46) Sei chiuso nella tua gioia com’io nel mio dolore.

47) Dallo scoppio della mia gioia, come una ferita, il tuo soffrire. Compiuto il mio desiderio, con stupefazione ecco il tuo pianto.

48) Ma ciascuno si dibatta nel suo oggi, carcerato nella cella.

49) Scatto le pugna contro la chiusa muraglia; o, bestia spaurita, mi raggriccio nel canto a guatare. È vano che tu mi consoli.

50) Oh dolcezza dell’essere a braccio, lenti per via! Oh nel sonno voluttà del tuo corpo molle-allacciato col mio! Ma ahi che bastò il giro d’un giorno.
.

51) Ritmo del tuo respiro confuso leggiero nel mio. Gracilità delle tue membra, trepida allodola nella carezzosa prigione della mia mano! Ed averti innanzi rivo chiacchierino, tra scogli.

52) Tremulo diafano nella immobilità della notte, ruppe con taglienti lame il mattino. Sognai gonfie le vele, navi al ritorno; bottini di gioia come ricolme cornucopie. Con dilatata pupilla, bimbo alla fiaba: «Di dove? ma come?» . — Nacque il sole al tramonto; ostinati, quali dal buio occhi, mi fissarono?

53) E non fummo la felice corrente di due acque confluite? — Ma l’eterno fu un attimo. — E bastò il breve giro d’un giorno. Ciascuno fu nel suo oggi come in serrata prigione.

Nov. 14.

Añicos

Versión otoño de 2022

A H. hace cuarenta y cinco años o ahora.

Textos:

I. Publicados en la revista La Riviera Ligure: Fragmentos, Relación de la excursión, Delirios, Añicos, Mis amigos de aquí, Prosillas casi serenas, Conclusiones de octubre, Susurro al anochecer, Círculo

II. No publicados en vida: [Cuadernillo de apuntes 1914, Definición de mí, Libreta 15/16, Varsovia, Diálogos de tempore belli, Presentación a Dios, La activi-dad dispersa], Yendo tan lento, Entonces las riberas aquí, Si cortas las amarras 

***

NOTA INICIAL. Giovanni Boine murió en 1917, cuando apenas tenía 29 años, y no pudo darle a esta obra una organización de conjunto. Entre 1915 y 1917, había publicado algunos de los textos que la conforman en la revista La Riviera ligure. Al año de su muerte, Mario Novaro, fundador y director de dicha revista, publica el poemario reuniendo los textos publicados y otros que permanecían entre los manuscritos del poeta. Desde entonces, las ediciones (1918 y 1921 en La Voce, 1938 en Guanda, 1987 en Garzanti, 2007 en San Marco dei Giustiniani) han presentado importantes variaciones, ante todo por lo que se refiere a los textos que se incluyen y a su disposición. 

.

[I. I] FRAGMENTOS

1) A veces, cuando al atardecer paseo cansado por el Corso (que está vacío), alguien que encuentro dice, fuerte, mi nombre y exclama: «¡buenas tardes!»
Entonces, de golpe, ahí, en el Corso que está vacío, me topo asombrado con las cosas de ayer y también yo soy una cosa con un nombre.

2) Cuando te estrecho la mano, y tú retomas seguro el diálogo de ayer, no sé qué reverberación amarilla de ambigua impostura colorea desde dentro el acto mío de escucharte. Finjo que estoy contigo y no tengo ánimo para decirte de golpe: «¡No sé quién eres!». Amigo, en verdad no sé quién eres.
¿Y cómo quieres que afiance el hoy en el ayer, labios de abismo, herida abierta del infinito?

3) Me paras en la calle llamándome por mi nombre, con mi nombre de ayer.
Entonces, ¿qué es este espectro que vuelve (el ayer al hoy) y esta inmóvil tumba del nombre?

4) ¡Tibio lecho del nombre, segura casa del ayer! Blanda lana de los atormentados dolores, descanso umbroso de las alegrías lejanas. Barco en el mar. Balsa de náufragos.
Pero el hoy es, vamos, como una catarata abierta. Nubes cambiantes en la abismal cavidad del cielo.

5) Te quedas firme-plantado en el ayer, observatorio alto del hoy, y atento espías todas las cosas, cada una según su nombre.
Que ninguna se te escape, ese es tu trabajo, y que todas se sucedan según el orden justo. Que todas encajen y formen juntas un dibujo regular. Que ninguna se te escape, ni haya omisión.

6) Comprimes tus días en el calendario de doce meses; mides tus horas con el tictac de una rueda.
Por ello a septiembre le sigue octubre, y el efecto a la causa. El ayer lleva las riendas del hoy y las llama deber.

7) ¡Qué fatiga vivir con el metro del ayer! Pero, buey al yugo, prosigues. El hoy es el ayer, y el establo, grasiento, se abre al final del surco.

8) Trama tejida, cuentas los hilos de tu vida, y ninguno está roto.

9) Mi nombre es Giovanni, y si me llamas, de inmediato respondo. Ahora y en la hora de mi muerte. Por la mañana, apenas me alzo de la inestable nube del sueño, mi madre me dice despacio «Giovanni» en la puerta entreabierta, y casi existo de nuevo.

10) No me quitaréis el nombre; lo embrazo como un escudo. – Entre el extraviado miedo del ayer y el hoy vivido he puesto como puente mi nombre.

11) El deber es mi derecho; no me impedirás cumplirlo.

12) Defiendo el deber que el ayer me asigna, como el asaltado la casa. ¡Cerrada celosía, voluptuosidad de un firme deber en la agitación del arbitrio! Pondero cada uno de mis actos, timonel al timón.

13) La riqueza más cierta es que poseo un número en el registro civil. Tengo un título y atributos: sabéis quién soy. Está claro para cada uno que debo en tal caso actuar así. Y, dentro, la señal de mi conciencia me manda en cada encrucijada: «¡toma a la derecha!»

14) Sabéis quién soy y qué he hecho: sabéis qué haré. Pongo mis actos como piedras miliares y con escrúpulo nivelo la última sobre la penúltima.

15) Justifico cada una de mis jugadas según la regla. En el templo del ayer, arrodillado, he adorado al dios Experiencia,
lo he esculpido en los diez mandamientos y lo he hecho teología en los artículos del código. ¡Encuentren, pues, una brizna de acto cuyo porqué no sepa explicar! Lo hago todo según un porqué y soy un hombre moral.

16) No me sorprenderás imprevisto, ni nuevo, el latido de mi corazón. No existe el hoy o lo nuevo, ni la pasión brama. Modero mi sed según la medida de mi cantimplora. Y así no le habré robado a la sed de los otros y seré un hombre moral.

17) He estudiado las múltiples conexiones de mi ayer con el ayer de todos y he reconocido la necesaria Sociedad. He trazado nítidamente el mapa de la sociedad en el mapamundi de lo Universal, que es el ayer de Dios. Ahora consulto en cada respiración el astrolabio del universal navegante que toma la altura del sol.

18) Estoy acorazado por lo universal y mi nombre es conciencia. Barco en el fondeadero, observatorio firme en la roca, se acercan alrededor las noches con los soles, y permanezco firme en la segura conciencia de mí mismo.

19) Pero ¡ay, no!, que el hoy me vence y soy un náufrago sin balsa. ¡Ay, que el ayer rápido errante crepita, seca hoja en el viento! Estoy todo en el hoy, y mi nombre es instante.

20) Cuando vuelvo a casa por la tarde y me siento ante el fuego encendido, fuera, el valle es grisura de niebla y nocturna opacidad. No existe el pasado. ¿Qué es, pues, el recuerdo?

21) No encuentro en el código el artículo de mi acción, ni el mandamiento de mi moral.

22) No piedras miliares de un camino derecho; peñascos erráticos y oasis.

23) He olvidado mi nombre: he perdido mis pasaportes en país enemigo.

24) Orienté la ávida proa hacia los hielos del norte, inseguro me balanceo ahora en las bonanzas uniformes de Cáncer.

25) Mi nombre es hoy, y mi camino se llama extraviado. No hay señales en los cruces de mi marcha y no sé si he embocado a mano derecha.

26) Vagabundo que no sabes de dónde viene y esta noche te quemará el pajar, quienquiera que encuentro me escudriña con ojos enemigos. Veo en el titubeo de tus pupilas que soy para ti como agua que escapa.

27) ¡Ay, que no tengo lecho, ay, que no tengo tumba! ¡Ay, que no sé quién soy, ni conozco nada ni a nadie!

28) Me senté al atardecer en una blanda proa frente al sol a calentarme, pero enseguida se levantó un gélido viento, y se hizo de noche.

29) ¿Por qué estoy triste ahora? Pero ¿por qué estoy alegre? No entiendo la razón de la noche y del día.

30) Si gozo de mi alegría y digo «así cada una de mis horas», he ahí que de golpe se alza dentro de mí la amargura del llanto, como la niebla de una negra ciénaga.

31) ¿Cómo quieres que prometa si no conozco el mañana? No entiendo qué es una promesa.

32) ¿Dentro de diez años volveremos a vernos? Pero ¿a quién verás dentro de una hora? Ay, que bastó el transcurso de un día.

33) ¿Y por qué finges que no has cambiado? Te complace que tu vivir se rija por la razón. Ajustas las pruebas de tu cambio a la apariencia de la inmutabilidad.
Por lo que a mí se refiere, lo que quise no lo he cumplido.

34) Hablas del recuerdo que une tu hoy a tu ayer. Pero yo, en el recuerdo de ayer, he medido la disparidad del hoy y la imposibilidad de la unión. He renunciado a reducir mi hoy al espectro del ayer y no fuerzo con fingimientos mi vida para que te parezca ordenada.

35) Ciego al que se le cae el bastón, arrojé todas vuestras lógicas. Hoja en el viento, barca en la agitación; pero no busco la barrera.

36) Digo que no hay timón. Voluntad y pasión, palabras vacías.

37) Pasión y voluntad, estoy todo en la alegría del hoy, y todo en el presente dolor.

38) Estoy desesperadamente alegre y sin esperanza triste. Creo con violencia en el infierno y estoy de facto seguro de un paraíso.

39) Porque mi vida no se construye según un proyecto, pieza a pieza, como los palacios de piedra, y no corro hacia un destino, caballo hacia la meta. No tengo futuro porque no tengo pasado. Al no tener recuerdo, tampoco esperanza.

40) Llamarada de horno, mi deseo; y como el abismo de la noche, mi aniquilación. Solo sé alegrarme, solo sé sufrir. No tengo abrigo frente al dolor, ni atempero, con reflexiones, la alegría.

41) ¿Renunciaré a lo que amo si no tengo salida fuera de ello? Mi amor ha brotado de la desesperación, así como el odio.

42) ¿Y cómo podré renunciar a la mujer que amo si solo soy amor a la mujer que amo? ¿Cómo quieres que no arda por el cuerpo de la mujer que amo si no tengo más cuerpo que el suyo?

43) No me apartarás de la cerrada prisión del instante con vanos cuentos sobre la infinitud de lo eterno.

44) No hay más eternidad que el instante.

45) Piadosamente le encubres a mi desesperación tu felicidad.

46) Estás encerrado en tu alegría, como yo en mi dolor.

47) Del estallido de mi alegría, como una herida, tu sufrir. Cumplido mi deseo, con estupefacción he ahí tu llanto.

48) Pero que cada uno se debata en su hoy, encarcelado en la celda.

49) Disparo los puños contra la cerrada muralla; o, animal asustado, me encojo en el rincón a escudriñar. Es vano que me consueles.

50) ¡Oh, dulzura de ir del brazo, lentos por la calle! ¡Oh, en el sueño, voluptuosidad de tu cuerpo blando-enlazado al mío! Pero, ay, que bastó el transcurso de un día.

51) Ritmo de tu respiración confusa, ligera en la mía. ¡Gracilidad de tus miembros, trémula alondra en la acariciadora prisión de mi mano! Y tenerte delante, río parlanchín, entre los escollos.

52) Trémula diáfana en la inmovilidad de la noche, rompió con cortantes cuchillas la mañana. Soñé velas henchidas, barcos de vuelta; botines de alegría como rebosantes cornucopias. Con dilatada pupila, niño en la fábula: «¿De dónde?, pero ¿cómo?».- Nació el sol al atardecer; obstinados, ¿qué ojos me miraron en la oscuridad?

53) ¿Y no fuimos la feliz corriente de dos aguas que confluyeron? – Pero la eternidad fue un instante. – Y bastó el breve transcurso de un día. Cada uno estuvo en su hoy como en cerrada prisión.

noviembre de 1914

[I. II] RESOCONTO DELL’ESCURSIONE

a M. N.

Dicono tutti che siamo stati dei «pazzi». Epperciò amici promoviamoci eroi! Qui bevendo, l’un l’altro freghiamoci con le medaglie! Ecco pronti, come soldoni, i bottoni bianchi; con nastro rosso (perchè lo si veda) e fibbia dorata, appendiamoli fieri al bavero.

Eh sì, ci siam tutti: quattro, cinque, sei… Anche il mio femore è intero che mi doleva così! Ma che razza di balli fan tra di loro le ossa, quando cammini! che matti rigiri alle giunture! Proprio, guarda, il mio corpo è una macchina.
.

Che se non era la neve fresca, s’arrivava in tre ore.

Oh sì! arrancava bene la compagnia dapprima. Con giù quel nero torrente e noi contro corrente su. Che non ti mettevan paura quei mille metri a strapiombo su te e quelle rotte creste, muraglie del mondo, sul vetro verde, sul pungente ghiaccio dell’aria?

Ma noi nel profondo, nere laboriose formiche, sul funereo bianco, in riga.
.

Anch’io ero allegro. Altroché! C’era piano, quasi, e la neve era nuova. Quando si passò una roggia, tu citasti la Cena delle Ceneri ed il «porco passo» dell’opaco Tamigi. A caratteri di mezzo metro si scolpivano coi bastoni lungo la pesta le iscrizioni commemoratorie: l’uomo che ci portava i sacchi scrisse dignitoso RAMELLA e trionfale tu al ritorno DI QUI GIOVANNI BOINE PASSÒ.

Sì sì, ero allegro: trottavo anch’io, un po’dietro col respiro rotto-fumante, col viso rosso-ridente. Ma era anche allora un bel traffico quella neve gemente sotto le suola chiovate e quello sprofondare tutt’a colpo pesante, fino al ginocchio!

***

Quando diafana, per gli spacchi improvvisi, l’aerea fiamma di Venere e lieve la luna giù, matte, danzanti, di velo, ci soffiarono allato le ombre, uno, dinnanzi, attizzò la lanterna.

Ciascuno allora lavorò per suo conto.

Chi, lontano, di voi intonò La Violetta? (e la vi-olett…). Pareva una voce del Limbo.

Come fu solo, ciascuno, imbottito senz’eco nella soffice coltre!

Ma fu a metà la salita (mamma, il mio cuore che strappi! mamma, che ansito mozzo!) che macchia spettrale nel bianco, io ti vidi dinnanzi come un altro da me. Dici? Eh sì, come un altro da me.

Cercavi la pesta zitto ed avaro. Ciascuno, l’occhio al suo piede, cercava nemico la pesta, pecora prona.

E che deserto, o amico, che morte! (che freddo, che peso la vita). Eravamo in sei, io, tu, lui… Zitti, fantasmi, eravamo in sei sulla valanga funerea. Ed io… tu … lui … che desolato deserto!

***

Ma quando sull’arena del gelo, la prima volta giù caddi: e torpido m’accomodai quasi vi dovessi dormire (morire),
il tizzo del vostro lume in alto ansimava, ostinato cercava, e, scia fumosa, voi in traino, su, dietro.

La breve macchia d’ognuno, fusa in compatto plotone. Ruote d’ordigno in incastro, la fatica chiusa d’ognuno, su rapida in ritmo. (Ma sasso gettato che affonda, mendico fuor della porta, io giù solo).

Come in misura, amici, il gemito breve dei vostri bastoni, e come deciso e d’accordo, e come affamato! il mordere stridulo dei vostri chiodi.

Gente pei fatti suoi, come frettolosi, come lontani giravate la costa! Come via taciturna disparve la vostra vincente gioia, nel biancore spettrale!
.

Uomini che tengano la loro diritta e non badino in giro. Adulteri, risoluti al convegno. Ma nel cruccio della gelosia, io giù solo.

***

Oh sì! fu una festa all’arrivo quello scoppio di saluti rauchi e quelle faccie di riso stupite, nel lume nel fumo caldo della stamberga accovacciata.
.

Quella tazza di vino bollente con dentro le spezie, e il bruciore d’aroma giù per la gola, non li scorderò!

E nemmeno il viso amico-materno, i pietosi «oh!» di quell’ostessa che si chiama l’Addolorata.

La quale subito e confusa m’accostò una sedia alla rossa stufa, perchè vi stendessi con voi le gambe diaccie dolenti.

(Ma che dolore-piacere per tutte l’ossa ammaccate quel tuo rannicchio di sedia ostessa!)

Sì, sì, quella panca dura, quel muro a cui poggiai così voluttuosamente la spalla quando poi si cenò.

Quel pane!
e quei canti che, navarca scampato, tra l’uno e l’altro cucchiaio per vittoria e allegria, tu a strappi con beffe ed incitamenti intonavi,
ma che nessuno riusciva a cantare tanto era il sonno.

A me piacevano quei commenti in bisbiglio con le sbirciate rapide verso l’uno e verso l’altro di noi (uno per uno lì a giudicarci); l’affettuosa curiosità di quelli altri agli altri tavoli, montanari rinfagottati che giocavano alle carte con la mezza accanto e i bicchieri.

Materne vacche intorno al vitello nuovo ci fasciavano tutt’in giro della loro calda bestialità.

E pure mi piacque, ora dirò, il capo giovane di uno di voi chinato dormiente sulla spalla di quello accanto.

Così in abbandono e dolce ch’io trasognato sclamai: «Ecco San Giovanni alla cena».

Che furono, mi pare, le mie sole parole da cuore in quella rauca notte con voi;
(o, con svelto discorso, di non so cosa discussi, di non so cosa a lungo inventai, a coprir l’agonizzare del sonno?…)

No, no, no amico, ero sveglio terribilmente: non so qual cappio, di ostile cruccio alla gola, e non so chi sconosciuto, su per una erta, testardo a strapparmi.

E se appena smorzavo gli occhi (mentre tu parlavi), dalla netta sponda del tavolo giù d’un tratto, un abisso affondava, con nella perdizione del buio un incurante sciaguattio di fiume ed in giro zitta (mentre tu parlavi) la desolata solennità del nero e del bianco.

Come quando alla seconda caduta, la guancia, sul gelo bruciante, attesi opaco, deciso, di giù scivolare.

A colui che con la picca lento tastando, Cireneo muto, giunse, ed impugnatomi, di strappo m’alzò, feci rauco per grazia questo discorso:

«Ora perchè così forte tu, così d’accordo in gioia voi? — Io, qui ci sto bene!»
.

Ora perchè quest’ansito fuor del respiro; questa agonia fuor della vita?

Come chi ascolti un festino dalle avare fessure, tagliano il mio buio rasoiate di luce.

(O, chiuso, come chi tira via nottetempo, incontrato al lampione il vinoso coro degli ubriachi?)

Han tutti una voce; han tutti un traguardo; si versano precipitosi tutti a una foce.

Marciano un passo che io non so battere. Corrono una strada che la mia tagliò. (Sbandato nel vasto, sbocco disperatamente al deserto).
.

A colui che colla picca, lento tastando, Cireneo muto, giunse, dissi bieco che lì fosse il mio stare (appena, appena una spenta eco di grida, appena un lontano scalpitio di altrui vita su)
donec eveniat immutatio nostra, lì, stare, su quel ciglio del nulla.

***

Eh no! il posto mio vero, quello di diritto mio, lo ritrovai poco su alla terza caduta,
quando sul molle-lucente bucato, panciallaria pacificamente mi stesi.

E chi, col muso alla pesta, s’era accorto d’una così tonda luna lassù?
.

Voi dalla costa allato, con quel vostro lumino da morti, spettri vaganti, mi facevate «ohè

Anch’io gridai ohè! ma vi lasciai camminare.

Che luccichii, che punture vive di gemme, tutt’intorno pel bianco! S’io stendevo la mano raccoglievo a rastrello i diamanti.

E dalla vitrea chiarità degli spazi quella luna agghiacciata, quelle frecciate dell’Orsa!
e quegli immobili gridi di creste che uno per uno e fin chissà dove, netti li conti, quegli artigli di roccie in agguato nella vastità così lucida e zitta!
.

Che lì, se fai oh! non ti fondi. Lì se fai oh! resti tu.

Questi lacci, questi abbracci molli della primavera, questa amicizia dolce di colli, questo tepore e questo struggimento… A tu per tu, con calmo respiro, così io guardo, padrone, questo bivacco notturno.

Com’era fioco, il vostro lumino compagni e come spenti i vostri rauchi ohè!
.

Ohè ohè! m’incitavate frettolosi alla meta ed io ero arrivato.

Ma c’era lì sotto di poco, quel baratro nero con, mia casa, in fondo la morte,
come un letto-riposo, o come un agguato di ladri.
.

Ecco, contento di stare, contento del mio ricco abbandono, il mio posto era lì
tra i vostri ohè petulanti a cui appena badavo
ed, occhi di serpe, quell’altro richiamo laggiù verso cui sogghignavo.
.

E come mia, a tu per tu con queto respiro con limpidi occhi, o amici la notte! come zitta e lucente.

Epperciò dalle mie membra in culbutta giù per le frane nevose, nel sole,
con ubriaca voce così straripò l’allegria.

Qui e qui! anche quest’altra bottiglia e si faccia baldoria.

Intona, intona tu la canzone che vuoi, dammi il bicchiere che vuoi: io son qui cosa vostra: canto e tracanno.

Giuro che niente v’è più, se non questi occhi lustri di fauni e questo satollo odore di tavola.

E chi, e chi dice che laggiù qualcuno ci aspetta? I tedeschi, i francesi; la guerra? Ci aspetta quel buio e quel gorgoglio diaccio di acqua.
.

Oh sì, sono allegro; allegro altroché!

Ma di’, sul barbaglio del bianco, quello stacco, quello spalanco di blu, non metteva paura?

Non ti veniva la voglia di giù (di su) a capofitto gettarti,
per una volta finirla con questo sgomento di abisso dappertutto a inghiottirci?

(E dì… anche tu, anche tu questo riso-ferita dentro? questo essere-essere, questa… voglia di morire?)

***

Ma se eri di quelli più innanzi! Anche tu, anche tu stanco sfinito? Stanco da buttarti giù e dire che basta.

A me piace, amico, lo scoppio-scintille del tuo volto-vecchiaia, il guizzo cilestre del tuo occhio dolore.

Quando il pazzo capo, ridendo arrovescio nella lacerazione del riso, tu, padrone, sforzi l’arguzia pungendo.

Allora clamorosamente tutti questi altri, felici, in giro fan coro.
.

Mandiamoli innanzi, ohè! ragazzi innanzi! e lasciamoli andare
che si credon allegri, sbracciandosi, d’essere innanzi e d’andare.

Oh vedi che affanno trionfale pel mondo, vedi che matta girandola.

Torrente che schiuma e si perde, fiume che va, che va, che va.

Ma qui su questa proda di blu, di’, qui stiamo bene. La è ben qui, dimmi la foce? Fiume che va, che va, che va. — A me piace, amico, questo sipario-pallore,
finestra per dispetto serrata sulla brigata chiassosa, come chi dà e ritoglie, questo tuo chiuso viso.

A me piace, amico, questa tua nimicizia improvvisa, questo tuo sprofondare.

Come in un carrozzone di treno, ciascuno alla sua meta, ci lascia.

Siam tutti, si sa, dello stesso paese, tutti in felice combutta, ma ciascuno ha la sua tessera in tasca.

A me piace, amico-nemico, questa inafferrabile beffa ch’è nel tuo riso.

— Però, vedi qui, ch’io ho buttata la tessera; vedi qui, noi siamo insieme arrivati.

Nessuna meta ci aspetta. — Ohè ragazzi avanti! su su, che c’è la medaglia! E chi si guadagna questo bottone d’oro?

Noi, amico, siamo arrivati. Non scenderemo al primo sbatacchiar di sportello; confessiamoci, che meta non c’è.

Ma anche tu, anche tu dunque? Vuoi ch’io ti dica il tuffo del cuore e lo sciogliersi quando, come un ahi, ti sfuggì?

Guardiamoci con serena pupilla e, questo gorgo d’azzurro, su, ci divori.

gennaio ´15

[I. II] RELACIÓN DE LA EXCURSIÓN

a Mario Novaro

Todos dicen que hemos sido unos «locos». Por tanto, amigos, ¡sintámonos héroes! Bebiendo aquí, juntos, pasemos de las medallas! Ya están preparados, como monedas, los botones blancos; con lazo rojo (para que se vea) y broche dorado, colguémoslos orgullosos del cuello.

Eh, sí, estamos todos: cuatro, cinco, seis… ¡Incluso el fémur que me dolía tanto está entero! Pero ¡qué tipo de bailes hacen entre sí los huesos cuando caminas!, ¡qué locas vueltas en las articulaciones! Justo, mira, mi cuerpo es una máquina.

Que si no fuera por la nieve blanda, llegaríamos en tres horas.

¡Oh, sí!, bien renqueaba la compañía antes. Con ese negro torrente abajo, y nosotros a contracorriente arriba. ¿Que no te asustaban esos mil metros en desplome sobre ti y esas rotas crestas, murallas del mundo, en el cristal verde, en el punzante hielo del aire?

Pero nosotros, en lo profundo, negras hormigas laboriosas, en la fúnebre blancura, en fila.

También yo estaba alegre. ¡Sin duda! Era llano, casi, y la nieve era nueva. Cuando pasamos un canalito, citaste la Cena de las Cenizas y el «sucio paso» del opaco Támesis. En caracteres de medio metro se esculpían con los bastones, a lo largo de las huellas, las inscripciones conmemorativas: el hombre que nos llevaba los sacos escribió digno RAMELLA y tú, triunfal al regreso, POR AQUÍ PASÓ GIOVANNI BOINE.

Sí, sí, estaba alegre: también yo trotaba, un poco detrás, con la respiración rota-humeante, con la cara roja-sonriente. Pero también era entonces un buen tráfico esa nieve gimiente bajo las suelas claveteadas y ¡ese hundirse de golpe pesado, hasta las rodillas!

***

Cuando, por las rasgaduras imprevistas, diáfana la aérea llama de Venus, y leve, la luna abajo, locas, danzando, de velo, nos soplaron cerca las sombras, uno, delante, avivó la linterna.

Cada uno, entonces, trabajó por su cuenta.

¿Quién de vosotros, a lo lejos, entonó La Violetta? (y la vio lett…) Parecía una voz del limbo.

¡Qué solo estuvo, cada uno, envuelto sin eco en la blanda capa de nieve!

Pero fue en medio de la subida (¡madre, mi corazón, qué desgarros!, ¡madre, qué jadear entrecortado!), mancha espectral en la blancura, cuando te vi delante como distinto de mí. ¿Dices? Eh, sí, como distinto de mí.

Buscabas las huellas callado y avaro. Cada uno, con el ojo en su pie, buscaba enemigo las huellas, oveja boca abajo.

¡Y qué desierto, oh, amigo, qué muerte! (qué frío, qué peso la vida). Éramos seis, él, tú, yo… Callados, fantasmas, éramos seis en la avalancha fúnebre. Y él… tú… yo… ¡qué desolado desierto!

***

Pero cuando en la superficie del hielo, caí por primera vez: y turbio me acomodé como si tuviera que dormir (morir),
el tizón de vuestra luz jadeaba arriba, obstinado buscaba, y, estela incierta, vosotros en remolque, abajo, detrás.

La breve mancha de cada uno, fundida en compacto pelotón. Ruedas de máquina de encaje, la fatiga cerrada de cada uno, en rabión con ritmo. (Pero peñasco tirado que se hunde, mendigo fuera de la puerta, yo abajo solo).

¡Qué medido, amigos, el gemido breve de vuestros bastones!, ¡qué decidida y concertada, y qué hambrienta, la mordida estridente de vuestros clavos!

Gente que va a lo suyo, ¡qué apresurados, qué lejanos volvíais el costado! ¡Como calle taciturna desapareció vuestra vencedora alegría, en la blancura espectral!

Hombres que siguen derechos y no se ocupan del entorno. Adúlteros, resueltos a la cita. Pero en el tormento de los celos, yo abajo solo.

***

¡Oh, sí!, fue una fiesta a la llegada ese estallido de saludos roncos y esas caras de risa asombradas, en la luz, en el humo cálido del tugurio agazapado.

Esa taza de vino hirviendo con especias, y el picor de aroma bajando por la garganta, ¡no los olvidaré!

Y ni siquiera la cara amiga-materna, los piadosos «¡oh!» de esa mesonera que se llama Addolorata.

Ella enseguida y confusa me acercó una silla a la roja estufa, para que extendiera con vosotros las piernas heladas dolorosas.

(Pero ¡qué dolor-placer por todos los huesos aplastados, ese ovillo tuyo de silla, mesonera!)

Sí, sí, esa banca dura, esa pared en la que apoyé tan voluptuosamente la espalda cuando cenamos después.

¡Ese pan!
y esos cantos que, navarca superviviente, entre una cuchara y otra por victoria y alegría, tú a ratos con burlas y exhortaciones entonabas,
pero que nadie lograba cantar, tanto era el sueño.

Me gustaban esos comentarios en susurro con las miradas rápidas hacia uno y hacia otro de nosotros (uno tras otro, allí, juzgándonos); la afectuosa curiosidad de las personas de las otras mesas, montañeros arropados que jugaban a las cartas con la media al lado y los vasos.

Maternas vacas en torno al ternero nuevo nos ceñían todo alrededor con su cálida animalidad.

Y sin embargo me gustó, ahora diré, la cabeza joven de uno de vosotros inclinado durmiente en el hombro del que estaba al lado.

Tan abandonado y dulce, que maravillado exclamé: «He aquí a San Juan en la cena».

Que fueron, creo, mis únicas palabras de corazón en esa ronca noche con vosotros;
(o, con esbelto discurso, no sé de qué discutí, ni qué inventé largo rato, ¿cubriendo la agonía del sueño?…)

No, no, amigo, estaba terriblemente despierto: no sé qué lazo, de hostil tormento en la garganta, y no sé qué desconocido, en una cuesta, testarudo desgarrándome.

Y si apenas apagaba los ojos (mientras hablabas), desde el nítido borde de la mesa, de pronto, un abismo se hundía, con la perdición de la oscuridad un descuidado chapoteo de río, y alrededor, callada (mientras hablabas), la desolada solemnidad del negro y del blanco.

Como cuando en la segunda caída, la mejilla, en el hielo ardiente, esperé opaco, decidido, resbalar hacia abajo.

A aquel que con la pica tanteando lento, Cirineo mudo, llegó, y empuñán-dome, de un tirón me levantó, le dije ronco por gracia este discurso:

«Ahora, ¿por qué tan fuerte tú, tan concertados en la alegría vosotros? – ¡Yo, aquí, estoy bien!»

Ahora, ¿por qué este jadeo sin respiración, esta agonía sin vida?

Como quien escucha un festín por las avaras rendijas, cortan mi oscuridad navajazos de luz.

(¿O, cercado, como quien se aleja de noche, al encontrar en la farola el vinoso coro de los borrachos?)

Todos tienen una voz; todos tienen una meta; todos se vierten precipitados en una desembocadura.

Proceden con un paso que no sé marcar. Corren por un camino que el mío cortó. (Tras derrapar en la vastedad, desemboco desesperadamente en el desierto).

A aquel que con la pica tanteando lento, Cirineo mudo, llegó, le dije torvo que allí estaba mi estar (apenas, apenas un apagado eco de gritos, apenas un lejano paso de la vida ajena)
donec eveniat immutatio nostra, allí, estar, en esa orilla de la nada.

***

¡Eh, no!, mi lugar verdadero, el de mi derecho, lo encontré un poco más arriba, en la tercera caída,
cuando blando-luciente perforado, bocarriba pacíficamente me tendí.

¿Y quién, con el hocico en las huellas, se había dado cuenta de una luna tan redonda allí arriba?

Vosotros, desde la ladera vecina, con ese vuestro quinqué de muertos, espectros errantes, me decíais «¡eh!»

También yo grité ¡eh!, pero os dejé caminar.

¡Qué centelleos, qué pinchazos vivos de gema, todo alrededor en la blancura! Si tendía la mano recogía con rastrillo los diamantes.

¡Y desde la vidriada claridad de los espacios, esa luna helada, esos flechazos de la Osa!
¡y esos inmóviles gritos de las crestas que uno tras otro y quién sabe hasta dónde, nítidos los cuentas, esas garras de las rocas al acecho en la vastedad tan brillante y callada!

Que allí, si dices ¡oh!, no te hundes. Allí, si dices ¡oh! permaneces siendo tú.

Estos lazos, estos abrazos blandos de la primavera, esta amistad dulce de las colinas, esta tibieza y este tormento… De tú a tú, con tranquila respiración, así miro, jefe, este vivac nocturno.

¡Qué débil era vuestro quinqué, compañeros, y qué apagados vuestros roncos eh!

¡Eh, eh!, me incitabais apresurados hacia la meta, y yo había llegado.

Pero estaba allí abajo desde hacía poco, ese abismo negro con mi casa, en el fondo, la muerte,
como un lecho-reposo, o como una emboscada de ladrones.

He aquí, contento de estar, contento de mi rico abandono, mi sitio estaba allí
entre vuestros eh petulantes a los que apenas atendía
y allí abajo, ojos de serpiente, ese otro reclamo del que me mofaba.

¡Y qué mía, de tú a tú con calmada respiración, con claros ojos, oh, amigos, la noche!, ¡qué callada y brillante!

Y así de mis miembros  despeñándose por los derrumbes nevados, al sol,
con voz borracha se desbordó la alegría.

¡Aquí y aquí!, también esta otra botella y corramos una juerga.

Entona, entona tú la canción que quieras, dame el vaso que quieras: aquí soy asunto vuestro: canto y me atizo.

Juro que no hay nada más, solo estos ojos relucientes de faunos y este harto olor de mesa.

¿Y quién, y quién dice que ahí abajo alguien nos espera? ¿Los alemanes, los franceses; la guerra? Nos espera esa oscuridad y ese gorgoteo helado de agua.

¡Oh, sí, estoy alegre; alegre sin duda!

Pero dime, en el fulgor de la blancura, ¿ese intervalo, esa abertura de azul no daba miedo?

¿No te entraban ganas de tirarte abajo (arriba) de cabeza,
para terminar de una vez con esta consternación de abismo que por doquier nos engullía?

(Y di… también tú, ¿también tú, esta risa-herida dentro?, ¿este ser-ser, estas… ganas de morir?)

***

¡Pero si eras de los de delante! ¿También tú, también tú, cansado, extenuado? Cansado de tirarte abajo y decir basta.

Me gusta, amigo, el estallido-centellas de tu cara-vejez, la vibración celeste de tu ojo dolor.

Cuando la loca cabeza, riendo, echo hacia atrás en el desgarro de la risa, tú, jefe, fuerzas el ingenio zahiriendo.

Entonces, clamorosamente, todos estos otros, felices, forman un coro alrededor.

¡Mandémoslos delante, ¡eh!, ¡muchachos, adelante!, y dejémoslos ir
que se creen contentos, braceando, por estar delante y por ir.

Oh, mira qué afán triunfal por el mundo, mira qué loca girándula.

Torrente que espuma y se pierde, río que va, que va, que va.

Pero aquí en esta proa azul, di, aquí estamos bien. ¿Está aquí, dime, la desembocadura? Río que va, que va, que va. – Me gusta, amigo, este telón-palidez,
ventana cerrada, para fastidiar, ante la brigada ruidosa, como quien da y quita, esta cara tuya sellada.

Me gusta, amigo, esta enemistad tuya imprevista, este derrumbarte tuyo.

Como en un vagón de tren, cada uno en su meta, nos deja.

Somos todos, lo sabemos, del mismo país, todos en feliz banda, pero cada uno tiene su carnet en el bolsillo.

Me gusta, amigo-enemigo, esta inaprensible befa que hay en tu risa.

– Sin embargo, mira aquí, he tirado el carnet; mira aquí, hemos llegado juntos.

Ninguna meta nos espera. – ¡Eh, muchachos, adelante!, ¡vamos, vamos, que hay medalla! ¿Y quién gana este botón de oro?

Nosotros, amigo, hemos llegado. No bajaremos con el primer golpeteo de la puerta; confesémonos, que meta no hay.

Pero también tú, ¿también tú, pues? ¿Quieres que te diga el sobresalto del corazón y la anulación cuando, como un ay, se te escapó?

Mirémonos con serena pupila, y que este vórtice de azul, arriba, nos devore.

enero de 1915

[I. III] DELIRII

(L’equivalente. Trasfigurazione. Idillio. Veggo al di là. Risveglio. I cespugli è bizzarro…)

.

[I. III.I] L’EQUIVALENTE

.

[I. III. II] TRASFIGURAZIONE

— Ci sono giorni di vuoto che le rose non danno profumo, né gli occhi vedono; la gente degli spettri scorre via per strada senza rumore. 

— L’amico da lungi mi guata con ambiguo giallore; a barriera ci sono fra gli uomini i cubitali cristalli della pazzia.

— Si staccano come foglie in novembre le lucide felicità; par che divalli il mondo in sprofondamenti zitti di ombra.

— E quando in dispetto tu mi rinneghi, e l’altro pronto mi ha sconfessato; quand’egli parla di me come di un morto, e coloro in frotta passando, dinanzi alla ronzante carogna si tappano i nasi con rapide smorfie, allora come una infinita pioggia di grigio dissolvo gli invernali stecchi della mia persona nella desolazione dell’abbandono.

— Sono una macerata bocca che non ha sapore; monotono expecto donec eveniat immutatio nostra.

— Ma il mattino si leva la vasta vampa del vento levante ed umido gonfia le case ed i colli di delirante delirio.

— Nascono a tremiti dorsi molli-frondosi in fughe declivi: i netti scheletri crescono e s’inombrano d’ombra.

— Anfratti di mistero s’ingolfano fondi tra le consuete forme; esorbita ogni geometrica lin ea un’aura di febbre.

— In scenografie di iridi-nebule s’aumenta la cavità degli spazii; la rombante calura via anelando sprimaccia la vita.

— Fremono allora improvvise le inaudite trasfigurazioni, ogni cosa dilata per nascosti pori la violenza secreta.

— Toccano il cielo le biancastre torri del tempio con sollevati presentatarm di giganti, e per l’aereo arco delle campane fluisce rifluisce la mareggiante diafanità dell’azzurro.

— Annerano l’occidente con minacciosi pennacchi i quattro queti cipressi del Monte-Calvario; per l’altitudine degli orizzonti esala l’accovacciato convento un letale tenebrore di cripta.

— Primaverile lago di verde il prato lontano sul colle s’accende di subdole incandescenze di solfo; mugli si levano pel silente paese; han guizzi sardonici i vetrigni occhi di ogni finestra, atteggiamenti di ribellione le sagome dei fabbricati.

— Qual sotterraneo assembramento di démoni freme in concioni per i cunicoli-biscie ed i neri angiporti? Suda per tutti i muri non so che madore epidemico; i visi d’ognuno che passa han piglio di disperata risolutezza.
.

— Ora il mare solleva solleva…. verticale ora solleva la sua compatta pianura con terribile blu; ora strapiomba, ora c’invade, ora ricade; ora ora il mare sotterra tutta quanta la terra con terribile blu.

— Ma, larga e diritta, questa strada maestra par ampio-scandita da marcie d’eroi. È riso delirio il contorcere pazzo per le chiome degli alberi per le bandiere dell’anima.

— Scavalco e m’addrizzo; fermentano gonfi gli sdegni, rompono come gridi i bagliori, a colpi di spalla crollano per immensurabili frane le strutture dei secoli.

— Allora è che sprofondo per le luci bislacche, aereo e nuovo per gli abissali echi.

— Di là, di là dai mari lontanissimi rombo ronza il cataclisma agli orli; ebbro nell’ebbra ebbrezza mi libro della dimenticanza.

— Vi sono spazi senza speranza, vi sono vie senza le mete, vi son sprofondi senza sostanza, sponde non ha la dimenticanza, è un ricco dono ogni abbandono, son tutte sciolte le verità.

— Guizzano sprizzano pensieri di risa, fiottano alighe lentissimi mostri; son tutte morte le verità né so chi mi sono.

— Perchè giorni vi sono di vuoto, che gli errabondi occhi non veggono e scorre via per le strade la gente spettrale;

— aereo e nuovo oggi non so chi mi sono e per gli abissali echi delle bislacche luci perdutamente sprofondo.

.

[I. III. III] IDILLIO

— Passeggiando talvolta con passi senz’eco per l’opacità del nulla, bimbo su rena, per ozio mi svago, a disegnarlo d’idillio.

— Mi faccio un sentiero di ciottoli su per un clivo, e in fretta, sopra e disotto, ci stendo a scalini le terrazze di olivi.

— Ci sono a lato in riga, le selve dell’erba nera; agli svolti per la serena immensità i dolcissimi dorsi dei colli.

— Le casettine a crepe con chiuse-verdi le imposte, le abbandono deserte, com’esca, all’amo d’una redola-lenza; le processioni ostinate delle minute formiche le disturbo curioso col piede.

— A valle divallo un silenzio come una nenia di quete, ma se il ticchio mi salta, gonfio sul capo il cresposo fascio dei rami la soda villana che scende mi dice il nostrano buongiorno.

— Contro il muro m’appiatto, conscio e quasi con risa, a lasciarla passare; — scricchiola giù colle scarpe ferrate, agli scalini traballa, zitto la miro sparire alla gobba del muro.

— Allora, contento, raccolgo le bacche rigonfie e l’asprigno olio ne succio; tocco i ruvidi tronchi, che proprio son tronchi, tocco le aride pietre e mi vien voglia (così…. mi vien voglia!) d’udire il fringuello far di là dal cespuglio l’irruente suo verso.

— Comincia allora il fringuello a strappi il suo verso nell’immobile valle: i contorti olivi reggono radi il grigio velario senz’ascoltare; con estatica rassegnazione tiene il respiro la millenne malinconia.

— Così dalle lontananze ritornano i vaghi disfacimenti di quand’ero fanciullo; riconosco lo spiazzo del colle dove mi smarrivo disteso.

— Quello, quello è il cipresso sottile accanto alla fonte; — e laggiù, laggiù per gli echi era il cane così disperato…

— Oh sì, oh sì questo è certo il mio idillio d’allora, ma bene si sente, ma chiaro si sente, ma troppo, troppo si sente agli orli dell’orizzonte la insondabile ansia del buio.

— Sebbene accada ch’io via non mi curi del disfatto mistero e mago ostinato, vi fìnga un noncalente reale.

.

[I. III. IV] VEGGO AL DI LÀ

— Quando la febbre degli orizzonti m’ossessiona giù alle pronte partenze dei porti, dove sbandierano addii le laceranti sirene e grugniscono al levarsi, le ancore, di felicità.

— Gonfia rigonfia il desiderio come la incandescente calura nei delirii d’estate.

— Allora improvviso lo sgomento delle squallide consuetudini, dietro a me con ansimo scava il pantanoso vallo della repugnanza;

— in scatenato fremito, balzo nell’ondulante scafo, sciolgo la gòmena, armo i due remi e ritto vogo l’impeto della vastità.

— Oh va! Oh va! rompe la prora il blu, scavalco sull’immensità, ciò che già fu, si fu, il mare non è più, s’avanza una città.

— Sciacquo alle falde degli altissimi cumoli; a picco si spaccano i bianchissimi monti, e veggo pel lustro smeraldo, allora, al di là.
.

— Veggo al di là, veggo al di là la strana città, ch’è tutta d’oriente e di selve, tutta di ricco abbandono, calda e beata di nudità.

— Oh va, oh va! molle-distesa serenità, occhi languenti di voluttà, fiumi fluenti di felicità, brezze tepenti di tranquillità…

— Rompe la prora pel blu, ciò che già fu si fu e niente non è più. Oh va oh va oh va!

.

[I. III. V] RISVEGLIO

Vagolo talora per le quietudini delle assolute bonaccie, ed il sotterraneo tuono m’arresta della liberazione.

— Passano nell’alta valle le annunzianti fanfare; la pendula immobilità dell’attesa è insostenibile.

— Si fa allora pei silenzi una vasta magia: già sento per le bassure del buio, inesauribile assalto di cavalloni, disfrenarsi il respiro.
.

— Or ora erompe il canto imperiale; or or ora disnubila la diafanità serenissima…

— Ma ecco tu per il braccio mi scuoti; mi conduci sfogliando il giornale per le incomprensibili quotidianità.

— Seguo la paziente cavezza che mi strappa pel morso: veggo ad una ad una le cose d’un tempo: le case gli amici, le botteghe le idee, come quando ozioso frugo per gli sprofondati ricordi.

.

[I. III. VI?] I CESPUGLI È BIZZARRO…

.
.

— I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima: appena una fantasima…. Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

— Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre; i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente sbarro l’anima di dentro, e «guardare» è tollerabile.

— Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola dell’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabile mitologia.

— Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesanti draghi, gocciolanti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

— Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.
.

— Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe con spaurite d’ali. Verso dove? È con occhi di spettrali lontananze.

— Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degli impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti crosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame, con niagara vasti vegetali. Son rovesci a picco di fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.
.

— Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno più saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come un albero tropicale dei veleni: — lo starnazzo triangolare delle spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto e che deserto! Non si vedrà un vivente, nè un insetto per trecento miglia di desolazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza croscio, senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.
.

— Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio; piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei fantasmi favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. — Fuori d’ogni tempo «guardare» è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.
.

— Però, però, lenti, non basta per la sera andare? Subito le chiuse della valle son profondi golfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

— A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!
.

— Quanto alla via e dov’è la via? È un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la mèta è il nulla.

— Sono i paesi di fosforescenza non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che risplende, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per la fluidità. — E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.

[I. III] DELIRIOS

(Lo equivalente. Transfiguración. Idilio. Veo al otro lado. Despertar. Los matorrales, es extraño…)

.

[I. III. I] LO EQUIVALENTE (no se incluye)

.

[I. III. II] TRANSFIGURACIÓN

– Hay días de vacío en los que las rosas no tienen perfume, ni los ojos ven; la gente de los espectros fluye por la calle sin ruido.

– El amigo desde lejos me observa con ambigua amarillez; en la barrera están entre los hombres los enormes cristales de la locura.

– Se separan como hojas de noviembre las brillantes felicidades; parece que el mundo decae en depresiones calladas de sombra.

– Y cuando por despecho me niegas, y el otro pronto ha abjurado de mí; cuando él habla de mí como de un muerto, y aquellos, pasando en tropel, ante la zumbadora carroña se tapan la nariz con rápidas muecas, entonces disuelvo como una infinita lluvia de grisura las invernales varas de mi persona en la desolación del abandono.

– Soy una atormentada boca que no tiene sabor; monótono expecto donec eveniat immutatio nostra.

– Pero por la mañana se levanta la vasta llamarada del viento de levante y húmedo hincha las casas y las colinas de delirante delirio.

– Nacen en temblores cimas blandas-frondosas en fugas declives: los nítidos esqueletos crecen y se ensombrecen de sombra.

– Recovecos de misterio se sumen hondos entre las habituales formas; toda geométrica línea exagera un aire de fiebre.

– En escenografías de arco iris nebulosas aumenta la cavidad de los espacios; el retumbante ardor jadeando mulle la vida.

– Tiemblan entonces imprevistas las inauditas transfiguraciones, toda cosa dilata por escondidos poros la violencia secreta.

– Tocan el cielo las blancuzcas torres del templo con insurrectos presenten armas de gigantes, y por el aéreo arco de las campanas fluye refluye la encrespada diafanidad del azul.

– Ennegrecen el occidente con amenazadores penachos los cuatro tranquilos cipreses del Monte Calvario; por la altitud de los horizontes exhala el agazapado convento una letal tenebrosidad de cripta.

– Primaveral lago de verdor el prado lejano sobre la colina se enciende de falsas incandescencias de azufre; mugidos se alzan por el silencioso pueblo; tienen vibraciones sardónicas los vítreos ojos de cada ventana, actitudes de rebelión los perfiles de las construcciones.

– ¿Qué aglomeración de demonios tiembla en arengas por las galerías-culebras y por los negros callejones sin salida? Rezuman todas las paredes no sé qué mador epidémico; las caras de todos los que pasan tienen la expresión de desesperada resolución.

– Ahora el mar eleva eleva… vertical ya eleva su compacta llanura con terrible azul; ya se desploma, ya nos invade, ya recae; ahora mismo el mar entierra toda la tierra entera con terrible azul.

– Pero, ancha y derecha, esta calle maestra parece amplitud-acompasada de marchas de héroes. Es risa delirio el retorcerse loco por las copas de los árboles por las banderas del alma.

– Desmonto y me enderezo; fermentan hinchados los desdenes, rompen como gritos los fulgores, a golpes de hombro se derrumban por inmensurables despeñaderos las estructuras de los siglos.

– Entonces es cuando me hundo por las luces extravagantes, aéreo y nuevo por los abismales ecos.

– Al otro lado de mares lejanísimos estruendo zumba el cataclismo en las orillas; ebrio en la ebria ebriedad me libro del olvido.

– Hay espacios sin esperanza, hay calles sin meta, hay simas sin sustancia, riberas no tiene el olvido, es un rico don todo abandono, se han desatado todas las verdades.

– Se deslizan manan pensamientos de risas, flotan algas lentísimos monstruos; están muertas todas las verdades y no sé quién soy.

– Es porque hay días de vacío por lo que los errabundos ojos no ven y fluye por las calles la gente espectral;

– aéreo y nuevo hoy no sé quién soy y por los abismales ecos de las extravagantes luces me hundo.

.

[I. III. III] IDILIO

– Paseando alguna vez con pasos sin eco por la opacidad de la nada, niño en la arena, por ocio me entretengo en pintarlo como idilio.

– Me hago un sendero de guijarros en una loma, y deprisa, arriba y abajo, extiendo en pequeños escalones las terrazas de olivos.

– Están al lado en fila las selvas de la hierba negra; en las vueltas, por la serena inmensidad, las dulcísimas laderas de las colinas.

– Las casitas de crepé con las ventanas cerradas-verdes, las abandono desiertas, como cebo, al anzuelo de un sendero-sedal; curioso, molesto con el pie las procesiones obstinadas de las menudas hormigas.

– En el valle allano un silencio como una nana de calmas, pero si me asalta el capricho, con el arrugado haz de ramas sobre la cabeza, colmado, la firme campesina que baja me dice nuestro buenos días.

– Contra la pared me aplasto, consciente y casi con risas, para dejarla pasar; – cruje con los zapatos herrados, en los escalones se tambalea, callado la veo desaparecer en la comba de la pared.

– Entonces, contento, recojo las bayas hinchadas y el áspero aceite sorbo; toco los ásperos troncos, que justo son troncos, toco las áridas piedras y siento ganas (así… ¡siento ganas!) de oír al pinzón entonar al otro lado del matorral su impetuoso canto.

– Comienza entonces el pinzón a ratos su canto en el inmóvil valle: los retorcidos olivos sostienen ralos el gris telón sin escuchar; con estática resignación contiene la respiración la milenaria melancolía.

– Así desde las lejanías vuelven las vagas ruinas de cuando era niño; reconozco el claro de la colina donde me perdía extendido.

– Ese, ese es el ciprés sutil junto a la fuente; – y allá abajo, allá abajo, por los ecos, estaba el perro tan desesperado…

– Oh, sí, oh, sí, este es ciertamente mi idilio de entonces, pero bien se siente, pero claro se siente, pero demasiado, demasiado se siente en las orillas del horizonte la insondable ansia de la oscuridad.

– Aunque suceda que no me preocupe del deshecho misterio y mago obstinado, finja ahí una insustancial realidad.

.

[I. III. IV] VEO AL OTRO LADO

– Cuando la fiebre de los horizontes me obsesiona en las inmediatas partidas de los puertos, donde enarbolan adioses las lacerantes banderas y gruñen al elevarse las anclas de felicidad.

– Se infla vuelve a inflar el deseo como el incandescente ardor en los delirios del verano.

– Entonces imprevisto el desaliento de las escuálidas costumbres, detrás de mí con jadeo excava el pantanoso cercado de la repugnancia;

– en desencadenado temblor, salto en el ondulante casco, suelto la gúmena, armo los dos remos y derecho bogo en el ímpetu de la vastedad.

– ¡Oh, va! ¡Oh, va!, rompe la proa el azul, desmonto en la inmensidad, lo que ya fue, si fue, el mar ya no está, se aproxima una ciudad.

– Aclaro en las faldas de los altísimos cúmulos; se rompen a pico los blanquísimos montes, y veo por el brillante esmeralda, entonces, al otro lado.

– Veo al otro lado, veo al otro lado la extraña ciudad, que es toda de oriente y de selvas, todo de rico abandono, cálida y feliz de desnudez.

– ¡Oh, va, oh, va!, blanda-extendida serenidad, ojos lánguidos de voluptuosidad, ríos fluyentes de felicidad, brisas tibias de tranquilidad…

– Rompe la proa en el azul, lo que ya fue si fue y nada es ya. ¡Oh va, oh va, oh va!

.

[I. III. V] DESPERTAR

Vago alguna vez por las calmas de las absolutas bonanzas, y el subterráneo trueno me detiene de la liberación.

– Pasan en el alto valle las anunciantes fanfarrias; la colgante inmovilidad de la espera es insostenible.

– Se hace, entonces, por los silencios una vasta magia: ya siento por las hondonadas de la oscuridad, inagotable asalto de oleadas, que se desata la respiración.

– Ahora mismo irrumpe el canto imperial; ahora mismo se despeja la diafanidad serenísima…

– Pero he aquí que tú me sacudes por el brazo; me conduces hojeando el periódico por las incomprensibles cotidianidades.

– Sigo el paciente freno que me desgarra la boca: veo una tras otra las cosas de un tiempo: las casas los amigos, las tiendas las ideas, como cuando ocioso hurgo en los hundidos recuerdos.

.

[¿I. III. VI?] LOS MATORRALES, ES EXTRAÑO…

(Este texto no fue publicado con los anteriores. La crítica tampoco tiene una postura unánime  acerca de si formaría parte de Delirios.)

– ¡Los matorrales, es extraño cómo crecen de negro en la hora cenicienta de los octubres! El mar sombrío flota en el crepúsculo como un espectro: apenas un espectro… Entonces, en la cavidad de los escollos, gorgotea en la orilla una pavorosa ventriloquia de silencio.

– Va con pies de fieltro y voces de secreto el tropel de los que vuelven: todo de sombra. Salen de las cavidades, agazapadas las sombras; los sueños de las cosas, despacio, humean y cogen estatura. Entonces, finalmente, atranco desde dentro el alma, y «mirar» es tolerable.

– Abro los ojos de aflicción a esta mañana-de-tarde, a esta mañana nocturna, que finalmente deshiela el mundo y todo se puebla de alma: es mudo y ciego, pero de indescifrable mitología.

– Reptan desde el vórtice de la brillante oscuridad, he aquí pesados dragones, chorreando como cocodrilos, donde el puente está volcado.

– Multitudes rápidas de misterio, enseguida, en el límite de los bosques, se agolpan, forman vetas como los monstruos tras los cristales de los acuarios marinos.

– Digo fiat: el aire viscoso se amasa con fiebre, pero ¿con qué?, es con fugas, con espantadas de alas. ¿Hacia dónde? Es con ojos de espectrales lejanías.

– Se deforman las formas de la opacidad, los fermentos se exaltan con los imposibles; ¡y por ejemplo!, ese dorso idílico de la costumbre, ¡oh, oh, cómo hace que broten los brotes enormes del apocalíptico verdor!, suben a prueba por surtidores superpuestos, suben, se curvan con callados estrépitos. Erupciones son de volcánico follaje, con niágara vastos vegetales. Son derribos a pico de follaje negro, éufrates de claros como lavas verdes que anegan.

– Y ahora, muy dentro, ahora dentro, ¡lo denso es impenetrable! Nadie sabrá ya (¡nadie!) qué monstruo se cela ni en qué antro. El aliento de caverna, respiración muda, exhala; formará alrededor un abandono secular. El vuelo cauto de los pájaros pasará lejos veloz, como un árbol tropical de venenos: – el aleteo triangular de las espectrales grullas, las flechas negras-chillonas de las fugas de los vencejos, como el somnífero zumbido de las mil abejas cuando buscando hacen el verano elemental. ¡Qué desierto y qué desierto! ¡No se verá un ser vivo, ni un insecto en trescientas millas de desolación!, la tierra alrededor será gélida y pedregosa. Pero erguida la babel exuberante con las danzas de las lianas de medusas, las cascadas de las oscuras hiedras y los pitones retorcidos de los descomunales troncos en las alturas, el remoto león con leonado reposo de pávido estupor, con ojos de desaliento, volviéndose un instante hasta los cielos la verá, hasta los cielos del inmóvil diamante, encresparse oscura, sin estrépito, sin viento, sin crujido en la estática espera, subterráneo que cela el frío de un incomprensible secreto.

– Todo el mundo se deshiela en adorno primigenio; despacio, lentas se desatan las potencias de la oscuridad. Entonces el alma revolotea por su caos con vuelo ambiguo de brujería, como el asco fláccido de los murciélagos. Libidinosamente, entonces, el alma agita los nenúfares de los fantasmas fabulosos, ictiosaurio sin muerte anterior a todo tiempo. – Fuera de todo tiempo «mirar» es tolerable un más fiel espejo de esta sobrehumana ceguera.

– Sin embargo, sin embargo, lentos, ¿no basta ir por la tarde? Enseguida las cañadas del valle son profundos golfos de tinieblas. ¡Cómo se deshace en los torcidos ríos la insostenible solemnidad!

– En la hora honda de las confesiones estos caminantes ralos son larvas. ¿Dónde están las gallardías de las luces? ¡El valle de las delicias como furtiva gema en la opacidad! ¡Cómo, cómo gime en voz baja en la hora honda de la verdad!

– ¿Cuánto para el camino y dónde está el camino? Es una blancura apenas, ahora ya no lleva a nada. ¿Por aquí o por allí? Ahora la meta ya es la nada.

– Son los pueblos de fosforescencia, no tienen solidez. Pero, dentro del agua, ese fanal verde que brilla me inunda, forma un surco por la fluidez. – Y que este sea mi camino en la honda hora de la verdad.

[I. IV] FRANTUMI

(Limite. Rimpatrio. Tregua. Deserto. Carezza. Rifugio.
Prosa a… Deriva. Non so com´è. Domande. Fuga)

.

[I. IV. I] LIMITE

— Ci sono angoscie rapide-vaste come bitume di nubi sopra le valli.

— Avanza avanza…. Avanza! ed ogni cosa è nera. — Ogni cosa è chiara, ogni cosa è nera; ogni cosa è giorno ogni cosa è notte. È notte. È giorno. È chiara… è nera… è nera nera e buia!

— Così è che chiaronero, chiaronero per gli affannosi crepuscoli preme il respiro l’ottuso cielo dell’impotenza e tutti gli sbocchi son sbarri biechi, tutti!

— È come un martello, l’assillo, il pungolo, come un martello sordo l’insopportabile pungolo della maledizione.

— Ci sono, ci sono angoscie rapide-vaste bitumi d’anime martelli pazzi che oltre, via, oltre mi cacciano l’ansimo dei valichi e gli spalanchi dell’ombra.
.

— Allora per l’ombra crepuscolare (avanza, avanza!)… allora chiare nere nell’ombra (inghiotte, inghiotte!)… oltre gli sbarri dell’impossibile sono possibili le più impossibili possiblità.

— Svalico i valichi della realtà: — son lingue d’alighe le vostre ancore, son soffi-brezze i vostri muri, è scatenata ogni prigione, è sprigionata la libertà.
.

— Ora mareggia l’irrealtà, ora è slegata la schiavitù, non c’è più legge, non c’è mio padre non ci sei tu, ora è disciolta ogni pietà: — rompono febbri di terribilità ed è stravinta la realtà
……………………………………………………………………………………………..
……………………………………………………………………………………………..

— Ci sono angoscie vaste-inghiottenti, ci son bitumi d’ombre di cumoli, che la pazzia trabocca le dighe (rompe trabocca, è nera la piena!) che la pazzia ghigna e dilania, romba e gorgoglia ohimè.

.

[I. IV. II] RIMPATRIO

— Quando coi neri voli, abisso silente, ritorno notturno dai Limiti
.

— ha il petto ansimi rauchi lentissime onde, e sono bui, gli occhi, pozzi di smarrimento.

— Torbido nell’agonia, è il mio corpo, enorme come di là dalla fine di un profondo mondo nel mare delle caligini.

— Pendono i densi fiati per i tetri Imalaia delle moribonde incertezze, ed isole sommerse rompono tacite-vaste o le vette o le nebbie.
.

— L’universo delle angoscie è disteso allora per la bieca immobilità; insensibili voli d’insetti sono le cateratte dei cataclismi.
.

— Così i millenni fiottano delle tenebrose doglie, la vita è negli abissi un appena-respiro di sonno…

— Ma quando coi neri voli ritorno notturno-silente dalle lontananze dei Limiti, si levano carezze lievissime brezze, e la dolcezza disnubila.
.

— Pullula a volte un pianto come una tepida acqua nel bosco; è buono il disfacimento come riconoscenza d’amico.

— Allora sono le cose, paese di dopo l’esilio; palpo colla mano i colli; il mare e le strade, smarrito li accarezzo come i visi che bacio.

.

[I. IV. III] TREGUA

— I giorni della risoluta disperazione con viso di pietra, fisso la ostinata immobilità.

— La voce di chi mi parla, viene di là dal muro.

— Ma nel quietissimo porto dopo il tramonto l’acqua è lustra di madreperla; un vapore rosso ed uno nero fan giù, pei lisci riflessi, i liquidi serpenti.
.

— Le cose dintorno son tutte di piuma; scivola a specchio che appena lo senti, un solo piccolissimo guscio.

— Allora è come quando ha piovuto che il mondo, subito par nuovo.

— Si fanno dentro, i pacifici scioglimenti e se mi sdraio la mansueta onda che appena fiata par nella siesta quando il cane, accovacciato, mi guarda, e, buono, a respiri mi lecca.

.

[I. IV. IV] DESERTO

— Il tempo dell’adolescenza fu gonfio-ricolmo della calda amicizia, — quand’ero terra d’americhe ricca che avido ciascun vi segnava il suo pezzo.
.

— Adolescenza primavera-fervenza d’ogni possibilità! Sei come un bosco; popolosa città. Tutte le strade son buone, tutte le mete! e ciascun che t’incontra fa ressa, vi batte vi cerca la sua.

— Il pregio d’ogni idea era allora d’esser bandiera: ci fasciava a schiera, si marciava in frotta; l’entusiasmo era pane che si spezza alla cena.

— Non v’era né mio né tuo; le case come gli affetti, senza le porte: abbraccio, la nostra sorte, e volersi bene, respiro. Vi furono amici come gelosissimi amanti (vi furono odii e rotture). Devozioni fino alla cecità.

— Ma buono sentir nel buio sbattere cuori, buono l’amore, fraterna la calca! Pullula il mondo, non c’è sabbie di disperazione. — Il tempo dell’adolescenza fu gonfio (ohimè) della calda amicizia…

.

[I. IV. V] CAREZZA

— I ripugnevoli tempi che lo sgretolo-frana degli abbandoni, m’ha giù inerte varato per l’immobile belletta del nero disgusto,

— spente onde, giungono a volte le lente sere della malinconia, che vado zitto per l’ombre e, tutto é scordato.

— Quasi in dolcezza, dentro si levano i radi gemiti come il notturno canto del chiù.

— M’allacci allora senza parola, t’appoggi allora così lievemente, che appena ti sento, appena…. Vuoi dir che ci sei?

— Ma torno piano dalla lontananza, ma tocco piano il dolce viso, guardo i fedeli occhi che guardano me.

.

[I. IV. VI] RIFUGIO

— Son così punta di lama gli occhi che incontro! I sorrisi-saluto li veggo a volte sogghigni.

— Come i galeotti rasati striscio sgomento pei muri e a tutti gli spigoli urto.
.

— Smarrito arrivo allora al tuo sereno cancello come a un verde porto, nell’al di là;

— ma entro smarrito allora pel tuo verde cancello come nel queto porto, della serenità.

— La fresca frescura di casa ci sta, sei come l’acqua chiara che diguazza alla spiaggia laggiù.

— Così così mi ruscelli di chiarità, che il ghigno maligno del mondo io non lo sento più!

— Parli così minuto di cose bambine, tutte nuove e piccine, che l’altre vecchie e buie, lontane mi paion di un mondo che fu.

— La storia-gorgheggio del tuo lucherino, verde e giallino, che appeso al muro, i passeri chiama di là dal giardino, così innamorato così desolato della sua prigionia,

— val bene, oh val bene la triste storia che non ricordo più!

— Il tuo quadrifoglio nel suo vasettino, così delicato così coronato di fulvo e verdino, che chiude a sera l´ali di farfalla sul gambo lungo e spoglio,
.

— val bene il nero con loglio che ormai non strappo più.

— Ormai il dolore fu; per me non conta più; sopra i giardini, dentro l’azzurro, è come un vago fumo che fa pennacchio giù, — o è poco più dell’ombra (nera un po’), di quelle nubi sole di lassù.

— Ora anch’io sorrido in chiarità, e che ho un tesoro verde che sei tu, un porto chiaro-queto al di là, una serena riva tutta per me, riso-rifugio chiarito di te, zitto lo sconderò a quei laggiù.

.

[I. IV. VII] PROSA A….

— Le tue domande sono i perchè dei bimbi: l’acqua di fonte colla sua borraccina ti fa venir sete, e subito vi tuffi la mano. Allora l’acqua di mare così tanta com’è, mi chiedi perchè non ti vien voglia di bere.

— Ma nell’acqua di mare quelle biscie chiare quando è in bonaccia e il fondo, di su dagli scogli, lo vedi com’è, quelle anche ti piacciono che non quetano mai.

— Però le cose che piacciono a te son quelle che ecco ci sono, e non ci sono più: la spuma che ride via…. e c’è di nuovo il blu!

— Le bolle di sapone quando le fa la bimbetta del giardino di sopra, così lustre-leggere, così zitte-farfalle! le segui a respiro sospeso e quando subito scoppiano batti le mani.

— Le gioie improvvise che non sai perchè, quelle subito t’alzi e scintilli; ma è più di tuo gusto quel riso sereno di quando hai pianto, che io t’accarezzo.
.

— Le lacrime senza ragione quando non c’è nessuno, che poi io vengo e gli occhi gli hai di rugiada ed il fazzoletto lo scondi, sono le più buone lo so, ed il cuore è subito come quando ha spiovuto.

— Ci sono i giorni delle lente malinconie, guancia alla palma sul tuo sedile, ma così dolci ma così lievi che la rondine ti guizza vicina col suo grido che punge e via se le porta.

— Le cadenze lontane delle canzoni, che si sentono non si sentono, subito ti fermi in ascolto. Credi che non sappia che ti fa lacrimare sola da te nel tuo letto, quando vengono la notte sotto le finestre zitti, e la serenata si leva?… — come un bisbiglio sì leva, come un bisbiglio ne va.

— Le cose che piacciono a te son quelle che ecco ci sono e poi non son più; i pianti che inventi al piano sono domande brevi, sussurri di notte, lamenti di brezza, e le dici ripeti da te tutta una sera, perchè risposta non c’è. I tasti bianchi e neri li tocchi appena appena; allora, se entro, tengo il respiro, cammino da non svegliare.

— Quella musica così primavera, canto d’angioli così da svenire, all’alba di pasqua rugiada la musica che dice nel Faust: «or la natura si desta all’amor!» m’hai detto una volta che è la più bella, che proprio tutti i giardini mettono i fiori.

— Ma le musiche che cerchi da te, quando dall’orto t’ascolto (vengon da sé, non si sa come!) muoiono di dolcezza subito, c’è dietro lo sconfino dell’ansia. Son come lucciole, le accendi e le spegni, le appendi a un filo lucente nell’infinito. — Son quelle perle di nubi sottili, soffi dell’iride, perline di velo nel tramonto sereno qua e là, che ecco ti volti e non ci sono più.
.

— Sei così soffio, così iride-soffio, e cristallo sottile che mi dai la vertigine della fragilità. — Ma la ragione che t’amo è che dilati a volte gli occhi di disperata passione e la morte ci passa vicina. Dici con voce di groppo allora: — Abbandonami! Fammi del male perchè io sia perduta. Battere il capo nel muro! Ho voglia di disperazione.

.

[I. IV. VIII] DERIVA

— Mi piaccion gl’indolenti meriggi ch’una lentissima nenia ti scande la siesta, e, scavi deserti sono le piazze in barbagli.

— La impalpabile nebula assonna colli e marine, d’una bianchiccia malinconia: par che tutto si culli in una placida culla d’insensibilità.

— Armo allora piano la pendula vela e senza fiato di fiato, immobile scivolo nell’immobilità.

— Sciacquan sospiri di liquidità, fiottano l’ore dell’eternità, soffice lenta ogni cosa si sfa, e in lisci silenzi d’impassibilità si va non si va.

— Sono le spiaggie di là dai pensieri, son gli orizzonti di là d’ogni meta (molli le scotte, lasci il timone, la vita abbandoni…) dove si sia nessuno sa più, dove si vada nessuno sa più, cosa si voglia nessuno sa più, che il mondo sia nessuno vuol più. Alla deriva, senza memoria, senza respiro, sospesi in nulla si va non si va, per l’indolente insensibilità.

.
.

[I. IV. IX] NON SO COM’È

— Quando la sera mi corico, è così placida l’ombra e così buono il sonno! Ma ora com’è, ora com’è? Nel buio un gemito, gonfia con freddi brividi.
Non so com’è: nel nulla nero un gemito!
.

— Si fanno andando a volte i pacifici discorsi; e dico fra me sereno: «Siamo due amici». Ma ora com’è, ora com’è? Ridi improvviso un riso strano e chi tu sia non so.
Non so com’è; ma chi tu sei non so!

— Ci sono luoghi su per i colli, così belli e queti! Mi quetano l’ansimo, mi danno respiro. Ma ora com’è, ora com’è? Si sfanno inquieti, non li ritrovo; – palude mobile son sprofondati.
Non so com’è: paurosamente sono mutati!

— Né triste né lieto par di conoscermi: – vivo i miei giorni. Sopporto l’andare e duro il durare; qualcuno l’amo. Ma ora com’è, ora com’è? Rompo catene, butto ogni cosa son chissachì, – non amo più.
Non so com’è; lascio ogni cosa, non amo più!

.

[I. IV. X] DOMANDE

— A volte si va io e te con sì deciso passo per via! Zitti, il tuo viso è intento: non si vede la gente, e diritti si va.
Fiera la risoluzione cadenza d’accanto uno dué, uno dué! Siam pieni e d’accordo: siam pronti.
— Ma pronti a far che?

— Alla porta di casa la risata del campanello lacera talvolta così improvvisa lo strateso spasimo dell’ansia! Per me, per me! Ma non è mai per me.
Sul tic-tac della febbre l’ora che scocca par sempre in sgomento la mia. — Ma ora di che?
.

— Mi piglia uscendo talora ai crepuscoli per le vie stranote, il bizzarro ansimo dell’avventura. — Subito butto il mio nome e sono slegato; a mille miglia spatriato, e chi si ricorda o di me o di te?
Aspetto allora l’inaspettato, cerco ricerco e vado, voglio veder che c’è. — Ci sono strade, c’è giù un porto, ci sono le navi ci sono i moli; e in cima ai moli un orizzonte. Ma all’orizzonte, chissà poi che c’è?

— I paesi che sogno la notte non ci son stati mai. Ci torno ogni notte e non ci son stati mai. Son paesi di mai, tutti di ombre e di lai! E me li sogno quasi ogni notte chissà perché!
Ecco: c’entro di notte e vi attendo un che!… C’è una strada zitta, e in fondo… non so che: io lo rincorro sempre, però non so dov’è. — Così è! Così è! Ogni cosa si sta lì così com’è, par che inerte aspetti quel che è. — Io solo, io solo, l’angoscia mi dilania, non so di che!

.

[I. IV. XI] FUGA

— Le paurose bonacce dell’immobilità, che magico il mondo pare un vano rispecchio di lago: è, non è? e il respiro è sospeso,

—improvvisa le spazza la frescata levante e l’ansimo degli spazii mugolando dissacca.

— Fugge la bianchissima spuma, innumerevole riso; verso i ponenti allora trionfa in regali beccheggi la più nuova nave.

— Mani in conchiglia, presto, alla bocca: Nave mia nave ohè! nave mia nave ohilà! – Lustran per l’acque i fianchi neri: proprio ne sento il risciacquo, proprio le sartie le conto… con balzo allora pel bordo l’abbranco! Torreggian gonfi i pennoni e fiuto catrame. – Così mi distendo in coperta e lascio che vada.

— Addio addio voi bocca aperta laggiù! Addio il padre e la madre, gli amici l’amante! prigioni decrepite, vecchissimo mondo. Panciallaria mi stendo in coperta e tra castelli di vele le nuvole pazze fuggono.

— Ohi toh! e credevano d’avermi inceppato! Con cambiali d’affetto, collegi di consuetudine, mi trattavano per credito e debito. Ma l’effetto è un pallon di papavero, e il vento via lo soffia! Sì forte crepitano, sì tese gemono le rande e i fiocchi, che i vostri fievoli gridi laggiù, fazzoletti agitati nessuno li ascolta più. E addio, addio!

— Che strepito il mare, che balli dai bordi! La pianura turchina, s’innalza e s’inchina; vi solchiamo una scia di spumosa allegria, e scarmigliati si va.

— Tutto il mondo è scarmigliato, l’universo è liberato, ogni schiavo scatenato; il gabbiano grida ohé! e la ciurma canta ohilà!

— Allor giunge l’al di là, veggo rive con città, corre il mondo per di qua: vien la Spagna vien l’Australia, passa l’India con il Gange, l’Imalaja veggo già (chi ci pensa a voi laggiù!) tutto selve tutto brezze, è il paese-libertà.

[I. IV]  AÑICOS

(Límite. Repatración. Tregua. Desierto. Caricia. Refugio.
Prosa para… Deriva. No sé cómo es. Preguntas. Fuga)

.

[I. IV. I] LÍMITE

– Hay angustias rápidas-vastas como betún de nubes sobre los valles.

– Avanza, avanza… ¡Avanza!, y todo es negro. – Todo es claro, todo es negro; todo es día, todo es noche. Es noche. Es día. Es claro… es negro… ¡Es negro y oscuro!

– Así es claronegro, claronegro por los jadeantes crepúsculos, oprime la respiración el obtuso cielo de la impotencia, y todas las salidas son barreras siniestras, ¡todas!

– Es como un martillo, la obsesión, el aguijón, como un martillo sordo el insoportable aguijón de la maldición.

– Hay, hay angustias rápidas-vastas, betunes de almas, martillos locos que más allá, fuera, más allá me extraen el resuello de los desfiladeros y las aberturas de la sombra.

– Entonces, por la sombra crepuscular (¡avanza, avanza!)… entonces, claras negras en la sombra (¡traga, traga!)… más allá de las barreras de lo imposible son posibles las posibilidades más imposibles.

– Paso los pasos de la realidad: – son lenguas de algas vuestras anclas, son soplos-brisas vuestros muros, toda prisión se ha desencadenado, se ha excarcelado la libertad.

– Ahora se encrespa la irrealidad, ahora se desata la esclavitud, ya no hay ley, no existe mi padre, no existes tú, ahora se ha soltado toda la piedad: – rompen fiebres de terribilidad y está aniquilada la realidad
………………………………………………………………………………………………..
………………………………………………………………………………………………..

– Hay angustias vastas-tragantes, hay betunes de sombras de cúmulos, que la locura desborda los diques (rompe, desborda, ¡es negra la crecida!), que la locura escarnece y desgarra, truena y gorgotea, ay de mí.

.

[I. IV. II] REPATRIACIÓN

– Cuando con los negros vuelos, abismo silente, regreso nocturno de los Límites

– tiene el pecho jadeos roncos lentísimas olas, y son oscuros, los ojos, pozos de extravío.

– Turbio en la agonía, mi cuerpo es enorme como más allá del fin de un profundo mundo en el mar de las brumas.

– Penden los densos soplos por el lúgubre Himalaya de las moribundas incertidumbres, e islas sumergidas rompen silenciosas-vastas o las cumbres o las nieblas.

– El universo de las angustias está tendido entonces por la siniestra inmovilidad; insensibles vuelos de insectos son las cataratas de los cataclismos.

– Así los milenios flotan de los tenebrosos lutos, la vida es en los abismos una apenas-respiración de sueño…

– Pero, cuando con los negros vuelos, regreso nocturno-silente de las lejanías de los Límites, se levantan caricias levísimas brisas, y la dulzura se desanubla.

– Abunda a veces un llanto como tibia agua en el bosque; es buena la ruina como reconocimiento de amigo.

– Entonces están las cosas, país de después del exilio; palpo con la mano las colinas; el mar y las calles, perdido acaricio como los rostros que beso.

.

[I. IV. III] TREGUA

– Los días de la resuelta desesperación con rostro de piedra, observo la obstinada inmovilidad.

– La voz que me habla viene del otro lado de la pared.

– Pero en el tranquilísimo puerto tras el ocaso el agua está brillante de madreperla; un vapor rojo y otro negro bajan, por los lisos reflejos, las líquidas serpientes.

– Las cosas alrededor son todas de pluma; se desliza a las orillas, y apenas la sientes, una sola pequeñísima concha.

– Entonces, es como cuando ha llovido, y el mundo enseguida parece nuevo.

– Se forman dentro los pacíficos desleimientos, y si me tiendo, la mansa ola que apenas sopla aparece en la siesta, cuando el perro, agazapado, me mira, y, bueno, respirando me lame.

.

[I. IV. IV] DESIERTO

– El tiempo de la adolescencia estuvo lleno-colmado de cálida amistad, – cuando yo era tierra de Américas rica en la que cada uno, ávido, señalaba su trozo.

– ¡Adolescencia primavera-fervor de toda posibilidad! Eres como un bosque; populosa ciudad. ¡Todas las calles son buenas, todas las metas!, y todos los que te encuentran se agolpan, ahí recorren buscan la suya.

– El valor de toda idea era entonces ser bandera: nos ceñíamos en fila, caminábamos en tropel; el entusiasmo era pan que se parte en la cena.

– No había ni tuyo ni mío; las casas, como los afectos, sin puertas: abrazo, nuestra suerte, y quererse bien, respiración. Hubo amigos como celosísimos amantes (hubo odios y rupturas). Devociones hasta la ceguera.

– Pero ¡bueno sentir en la oscuridad latir los corazones, bueno el amor, fraterno el gentío! Pulula el mundo, no hay arenas de desesperación. – El tiempo de la adolescencia estuvo lleno (ay de mí) de cálida amistad…

.

[I. IV.V] CARICIA

– Los repugnantes tiempos que la disgregación-derrumbe de los abandonos me ha lanzado, inerte, en el inmóvil cieno del negro disgusto,

– apagadas olas, llegan a veces las lentas tardes de la melancolía, y voy callado por las sombras, y todo está olvidado.

– Casi en dulzura, dentro se elevan los ralos gemidos como el nocturno canto del autillo.

– Me enlazas entonces sin palabras, te apoyas entonces tan levemente, que apenas te siento, apenas… ¿Quieres decir que estás?

– Pero vuelvo despacio de la lejanía, pero toco despacio el dulce rostro, miro los fieles ojos que me miran.

.

[I. IV. VI] REFUGIO

– ¡Qué puntas de cuchillas son los ojos que encuentro! A veces veo sarcásticas las sonrisas-saludos.

– Como los galeotes rasurados me desgasto consternado contra las paredes y choco en todas las aristas.

– Perdido llego entonces a tu serena verja como a un verde puerto, en el más allá;

– pero entro perdido entonces por tu verde verja como en el tranquilo puerto de la serenidad.

– El fresco frescor de casa está ahí, eres como el agua clara que se agita allí en la playa.

– ¡Tanto, tanto me inundas en la claridad, que ya no siento el vil visaje del mundo!

– Hablas tan al detalle de cosas niñas, todas nuevas y pequeñitas, que las viejas y oscuras, lejanas, me parecen de un mundo que fue.

– La historia-gorjeo de tu verderón, verde y amarillo, que, colgado en la pared, llama a los pájaros al otro lado del jardín, tan enamorado, tan desolado en su reclusión,

– ¡está bien, oh, está bien la triste historia que ya no recuerdo!

– tu trébol cuadrifolio en su jarroncito, tan delicado, tan ceñido de color leonado y verdoso, que por la noche cierra las alas de mariposa en su tallo alto y desnudo,

– está bien la negrura con cizaña que ya no arranco.

– Ahora el dolor fue; ya no cuenta para mí; sobre los jardines, en el azul, es como un vago humo que forma un penacho, – o es poco más que la sombra (un poco negra), de esas nubes de sol de allí.

– Ahora también yo sonrío en la claridad, pues tengo un tesoro que eres tú, un puerto claro-tranquilo más allá, una serena ribera entera para mí, risa-refugio aclarada por ti, callado se la ocultaré a aquellos de allí.

.

[I. IV. VII] PROSA PARA…

– Tus preguntas son los por qué de los niños: el agua de la fuente con sus musgos te hace sentir sed, y enseguida sumerges la mano. Entonces, el agua del mar, siendo tanta, me preguntas, por qué no sientes ganas de beberla.

– Pero en el agua del mar esas culebras blancas cuando hay bonanza, y el fondo, desde la cima de los escollos, lo ves como es, incluso te gustan, pues nunca descansan.

– Sin embargo, las cosas que te gustan son las que ya están y ya no están: la espuma que ríe… ¡y llega de nuevo el azul!

– Las pompas de jabón cuando las hace la niña del jardín de arriba, ¡tan brillantes-ligeras, tan calladas-mariposas!, las sigues con la respiración suspendida y cuando de pronto estallan aplaudes.

– Las alegrías imprevistas cuyo porqué ignoras, con ellas te elevas y centelleas; pero es más de tu gusto esa risa serena de cuando has llorado, y yo te acaricio.

– Las lágrimas sin razón cuando no hay nadie, y luego llego, y tienes los ojos como el rocío y el pañuelo escondes, son las mejores, lo sé, y el corazón está enseguida como cuando ha escampado.

– Hay días de lentas melancolías, con la mano en la mejilla, en tu asiento, pero tan dulces, pero tan leves, que la golondrina salta a tu lado con su grito que punza y fuera se las lleva.

– Las cadencias lejanas de las canciones, que se oyen, no se oyen, enseguida te paras a escuchar. ¿Crees que no sé que te hace llorar, sola en tu lecho, cuando susurros llegan de noche bajo las ventanas, y la serenata se eleva?… – como un murmullo se eleva, como un murmullo se va.

– Las cosas que te gustan son las que ya están y luego ya no están; los llantos que inventas al piano son preguntas breves, susurros de noche, lamentos de brisa, y las dices repites tú misma toda una tarde, porque respuesta no hay. Las teclas blancas y las negras apenas apenas las tocas; entonces, si entro, contengo la respiración, camino para no despertar.

– Esa música tan primavera, canto de ángeles para desmayar, al alba de pascua rocío la música que dice en el Fausto: «¡ahora la naturaleza se despierta al amor!» una vez me dijiste que es la más hermosa, que justo todos los jardines florecen.

– Pero las músicas que buscas tú misma, cuando en el huerto te escucho (vienen por sí mismas, ¡no se sabe cómo!), mueren de dulzura enseguida, está detrás la invasión del ansia. Son como luciérnagas, las enciendes y las apagas, las cuelgas de un hilo brillante en el infinito. – Son esas perlas de nubes sutiles, soplos del iris, perlitas de velo en el atardecer sereno aquí y allí, que, así es, te giras, y ya no están.

– Qué soplo, qué iris-soplo eres, y cristal sutil, y así me causas el vértigo de la fragilidad. – Pero la razón por la que te amo es que a veces dilatas los ojos por desesperada pasión, y la muerte pasa cerca. Dices entonces con voz turbada: – ¡Abandóname! Hazme daño para que me pierda. ¡Golpea la cabeza en la pared! Quiero desesperación.

.

[I. IV. VIII] DERIVA

– Me gustan los indolentes mediodías en que una lentísima cantilena te acompasa la siesta, y excavaciones desiertas son las plazas en fulgores.

– La impalpable niebla adormece colinas y marinas con una blanquecina melancolía: parece que todo se acuna en una plácida cuna de insensibilidad.

– Armo entonces despacio la vela que cuelga y sin aliento de aliento, inmóvil me deslizo en la inmovilidad.

– Se agitan suspiros de liquidez, flotan las horas de la eternidad, blando lento todo se deshace, y en lisos silencios de impasibilidad se va no se va.

– Son las playas más allá de los pensamientos, son los horizontes más allá de toda meta (sueltas las escotas, dejas el timón, la vida abandonas…), dónde se está nadie sabe ya, dónde se va nadie sabe ya, qué se quiere nadie sabe ya, que el mundo exista nadie quiere ya. A la deriva, sin memoria, sin respiración, suspendidos en nada se va no se va, por la indolente insensibilidad.

.

[I. IV. IX] NO SÉ CÓMO ES

– Cuando por la noche me acuesto, ¡es tan plácida la sombra y tan bueno el sueño! Pero ¿ahora cómo es?, ¿ahora cómo es? En la oscuridad, un gemido se dilata con fríos escalofríos.
No sé cómo es: ¡en la nada negra, un gemido!

– A veces al caminar se hacen pacíficos discursos; y me digo sereno: «Somos dos amigos». Pero ¿ahora cómo es?, ¿ahora cómo es? Ríes de improviso con una risa extraña, y no sé quién eres.
No sé cómo es; pero ¡no sé quién eres!

– ¡Hay lugares sobre las colinas tan hermosos y tranquilos! Me tranquilizan el jadeo, me dan un descanso. Pero ¿ahora cómo es?, ¿ahora cómo es? Se deshacen inquietos, no los encuentro; – ciénaga móvil, se han hundido.
No sé cómo es: ¡han cambiado pavorosamente!

– Ni triste ni alegre parece conocerme: – vivo mis días. Soporto la ida y duro la duración; a alguien amo. Pero ¿ahora cómo es?, ¿ahora cómo es? Rompo cadenas, lo tiro todo, soy quién sabe quién, – ya no amo.
No sé cómo es; lo dejo todo, ¡ya no amo!

.

[I. IV. X] PREGUNTAS

– ¡A veces vamos tú y yo con paso tan decidido por la calle! Callados, tu rostro está abstraído: no se ve a la gente, y se va derecho.
Intrépida la resolución, cadencia cercana ¡uno dos, uno dos! Estamos plenos y de acuerdo: estamos listos.
– Pero ¿listos para qué?

– En la puerta de casa, la carcajada de la campanilla desgarra alguna vez, tan imprevista, la tensísima pena del ansia. ¡Es para mí, es para mí! Pero nunca es para mí.
En el tic-tac de la fiebre, la hora que toca parece siempre, en el desaliento, la mía. – Pero ¿hora de qué?

– Me toma a veces al salir a los crepúsculos por las calles conocidísimas el raro deseo de la aventura. – Enseguida tiro mi nombre y estoy desligado; a mil millas expatriado, ¿y quién se acuerda de ti o de mí?
Espero entonces lo inesperado, busco y rebusco y voy, quiero ver qué es. – Hay calles, hay abajo un puerto, hay barcos, hay moles; y sobre las moles, el horizonte. Pero, en el horizonte, ¿quién sabe luego qué hay?

– Los países con los que sueño de noche no han existido nunca. Regreso cada noche, y nunca han existido. Son países de nunca, ¡todos de sombra y de lamentos! Y con ellos sueño casi cada noche, ¡quién sabe por qué!
He aquí: ¡entro de noche y espero un qué!… Hay una calle callada, y al fondo… no sé qué: lo persigo siempre, pero no sé dónde está. – ¡Así es! ¡Así es! Todo se queda ahí como es, parece que inerte espera lo que es. – Solo yo, solo yo, la angustia me atormenta, ¡no sé de qué!

.

[I. IV. XI] FUGA

– Las pavorosas calmas de la inmovilidad, pues mágico el mundo parece un vano reflejo de lago: ¿es, no es?, y la respiración está suspendida,

– imprevista las arrastra la ráfaga que surge y el jadeo de los espacios aullando expulsa.

– Huye la blanquísima espuma, innumerable risa; hacia los ponientes entonces triunfa en regios cabeceos el barco más nuevo.

– Manos en concha, pronto, a la boca: ¡Barco mío, barco, oye!, ¡barco mío, eh, barco! – Brillan en las aguas los flancos negros: justo escucho su enjuague, justo sus jarcias cuento… ¡con un salto, entonces, por la borda lo aferro! Sobresalen hinchados los palos y huelo alquitrán. – Así me tiendo en cubierta y dejo que vaya.

– ¡Adiós, adiós, a vosotros, boca abierta allí! ¡Adiós al padre, a la madre, a los amigos, a la amante!, prisiones decrépitas, viejísimo mundo. Boca arriba me tiendo en cubierta y, entre castillos de velas, las nubes locas huyen.

– ¡Oh, mira!, ¡y creían que me habían cazado! Con letras de afecto, compañeros de costumbre, me trataban con crédito y deuda. Pero el efecto es un globo de amapola, ¡y el viento se lo lleva! Tan fuerte crepitan, tan tensas gimen las velas cangrejas y los foques, que vuestros débiles gritos allí abajo, pañuelos agitados, ya nadie los escucha. ¡Adiós, adiós!

– ¡Qué estrépito el mar, qué baile en las bordas! La llanura turquesa se eleva y se inclina; surcamos una estela de espumosa alegría, y vamos desgreñados.

– Todos están desgreñados, el universo se ha liberado, todos los esclavos se han desencadenado; la gaviota grita ¡eh!, y la marinería canta ¡oh!

– Entonces llega el más allá, veo orillas con ciudades, corre el mundo por aquí: llega España, llega Australia, pasa la India con el Ganges, ya veo el Himalaya (¡quién piensa en vosotros allí!), todo selvas, todo brisas, es el país-libertad.

[I. V]  I MIEI AMICI DI QUI

Per la tristezza ci vuole un´amante che ti rassereni: ti dice cose così di primavera! Ti fa scordare. Però la mia amante, è la solitudine. – Pei giorni allegri tutto è buono, e il mondo m´è un´uscita da scuola. Tutte le cose mi son camerata: faccio baldoria con tutto. – Gli amici ci vogliono pei tempi andanti.

Pei tempi andanti io ho quattro amici, ma non si sa se mi vogliono bene: son come quattro quieti luoghi in cima a questi colli, quattro soste all´ombra sempre quelle, da cui si vede in giro. Ci vado come capita, ci sto come si sta accanto alla fontana a sentir l´acqua: passano l´ore buone. – Sono quattro amici, come dire? un po` indifferenti: amici così… per i tempi andanti.
.

Però il primo s´è fatto un altare sopra el mare: dico davvero proprio un altare di rose rare come ceri o roghi accesi, con dei neri cipressi per candelieri; – e, come un dio, sta di lassù tutto il dì a guardare.
.

La terra è tutta sua e tutto il mare, e mai non pare sazio di mirare. Proprio non fa che guardare minutamente, amorosamente con curiosità l´addobbo, in giro, dell´immensità. Ma piano piano, senza voracità: si gode, il mondo a spicchio, che di più fa male! a cosa a cosa e l´ama perché è là, che se domani non vi fosse più… ormai in verità ci sia o non ci sia è poi la stessa cosa. Si posa, si riposa sopra le barche a picco che passan giù nel mare: è ricco di ironia e d´infantilità. È uno che s´è sfinito di pensare, di dipanare dentro il suo dolore che forse era troppo. È sereno con a volte un groppo. È come uscito fuori, lì, a guardare, dopo un temporale buio.
.

Così, quando sono stanco di disperare, che proprio non ne ho voglia più, salgo da lui anch´io a guardare. Ci si mostra («e guà, e guà!») il mare blu con le sue risa bianche, le vele stanche o gonfie via. Sempre, quando vengo via mi sceglie la sua rosa più odorosa. Così si scaccia la malinconia: che è quasi un´allegria la vita a cosa a cosa.

– Ma l´altro è una tristezza vaga abbandonata, proprio una desolazione; però senza ragione scoppietta di gaiezza a quando a quando. Senti non si sa che disfacimento, senti ogni momento, con lui la morte e la rassegnazione; è uno che è arrivato, è scivolato giù alle porte della disperazione, e senza ribellione batte, e ci echeggia lento il niente: il Buio. – Allora, ecco ti si volta con malizia, come certi moribondi: le cose che scintilla, sono pensieri fondi: – non sai se è lì che mente, se è tutta una furbizia o proprio è un che affondi, con serenità.

Così è che dà con la generosità sfatta di chi ormai se ne va: dà come chi più non sa tenere, per il macabro piacere di via disciogliersi. Gode dei suoi pensieri come chi più non ne godrà; le bellezze che dice son più belle perché subito se le scordarà, e i suoi canti sono pianti o son come preghiere subito disperse per l´immensità. È come un incensiere che brucia le più leggere essenze per la cavità dei cieli. È un ricco che dà con triste liberalità per poi restare solo in povertà. – Quando gioca lento con gli accordi, fa cento fuggitive meraviglie che nessuno più le udrà: nenia di su l´armonio all´impensata la bizzarria malata della sua lauta malinconia: proprio una malia vaga l´avviluppa, il cerchio dell´incanto lo sovrasta e par la sua soffitta, non sai che reggia all´asta. Così se sono stanco di catalogare, di far la notomia a questa vita mia d´avaro a chicchi, mi metto anch´io con lui a fantasticare, si vuotano i forzieri dei sogni e dei piaceri: non son piaceri veri, son sogni oppiati: ma il mondo è un mar di nebbie colorate, la vita non è più a spicchi: – siam ricchi, siam straricchi… e quasi consolati. – Le nubi che si veggon lassù dalla soffitta, le son così dorate! Certi Walhalla bianchi sconfinati! Ci si sta da eroi distesi contro il cielo, laggiù all´orizzonte! – Codeste nubi son proprio un ponte sul mar del niente. Son fatte di niente, ma son così opulente: montagne di cielo, porte del paradiso! E sempre io faccio buon viso a questa illusa vita com´un velo che sotto c´è la morte.
.

Il terzo io non lo veggo che la notte; par ch´esca dalle grotte come i pipistrelli! È uno che ha rotte tutte le costumanze tanto la vita gli è dura, atroce. Così lo cuoce, che gli è insopportabile: – un soffrire angusto, un patire vile da non potersi dire. – Allora, quando l´odio distrusse la speranza, tutto affondò nella dimenticanza, il mondo gli si sperse in lontananza… Ne ha ricordanze come di ceneri e fole. Queste cose che avvengon sotto il sole, le guerre d´Europa e che so io, gli paiono parole e, proprio, scipite fole. Non dice né no né si; e se gli di´, poniamo: «una vittoria!» risponde scialbo: «Ah sì?»
Ma i sogni, proprio i sogni, quelli che si fan dormendo, non c´è altro ch´egli agogni, e lì davvero è il Re. Che se cominci: «Stanotte ho sognato…» subito trattiene il fiato, è tutto a te. — A condurti nei paesi strani, dove gli spettri vani fan così grottesche carovane, non c’è che lui il Re. Di tutto, sa il perchè, e niente v’è che non dipani. — Gli antri d’eco buia gli son noti, s’aggira fra i meandri dello speco che gli dici quasi fosse una via di questa mia città. La. bizzarria più pazza gli pare verità. Ormai per lui il sogno è realtà.
.

È come uno che si sia ammazzato, per non poterne più. Per cupe apocalissi ei divalla giù: s’è come rifugiato tra spettri ed ombre. Ha l’anima ingolfata in catacombe di mistero nero; in cripte giù profonde gli sta nascosto il vero. Di simboli e di sigle è fatto il mondo; a un segno ti risponde la corte degli spiriti che dentro si nasconde. — Nell’onde dei silenzi senza sponde ci venta vasto il vento, ci romba lento il rombo, l’abisso si sprofonda della divinità. — L’anima si gonfia in vastità, per l´immisurata immensità fiotta il mar vivente della eternità.
Allora il Re dei sogni intona un canto: «santo o santo o santo!». Ritto nella notte che l’inghiotte, fa un incanto. Canne d’argento enormi si levan sopra il monte ch’è più alto, un organo di basalto, tra rocce e vento, ci romba lo spavento degli osanna: — dilatasi il concento per i mondi in echi furibondi, o lento fa un lamento piangendo di pietà. Trema l’immensità della passion profonda, si sfa la gemebonda umanità per l’onda senza sponda.
.

Così è che quando, il quotidiano andare, queste chiacchiere solite del giornale, di morti e di sconfìtte son stufo di parlare, mi metto anch’io con lui gli spettri ad evocare. Si va per luoghi bui, dove io mai non fui: mi pasco di paura dietro a lui. — Ma accade che il sereno sopra a noi, sia così mistero! Allora ci stendiamo e guardiam su. Il nero è tutto d’occhi e guardan giù; — s’alzi la mano, quasi ti par che li tocchi….; e sono invece chissà dove su! Allora a miglia, di miglia mi misura il dove; da dove la luce muove che poi quaggiù ci piove; ma son conti così pazzi da impazzire. Son lì che li tocchi e sono i lucenti sbocchi, sono i zampilli pungenti come spilli dell’infinito che non può mai finire. — «Per esempio, mi dice, di là dalla Via Lattea, che son mondi incalcolabili, si veggon altri cori di mondi distantissimi: e sono non più di pori dell’universo…!»
.

Quasi io mi sento sperso, quasi non son più nulla, non conto più. Ma questa vita quando mi viene ad ira, quasi che si respira con questi sogni che si posson sognare e questi incanti strani da incantare; — eh sì, si può via sfogare per gli stellari spiazzi di lassù.

— Ma col quarto si scorre la terra arditamente: sferra certe pietrate contro la gente, quando c’insegue! Le mani in tasca con occhio di sprezzo, ti guarda con occhio tagliente. Cammina deciso per strada come all’assalto, e, sempre, con un vezzo nel braccio come chi scagli il sasso. — È, infine, non più di un ragazzo di sotto i ventanni, ma è un malanno di barabba sempre a spasso, bello e svelto che di più non ve n’è. C è giorni che fare il borghese, proprio non è per me: — s’esce allora del paese a far per la campagna d’ogni sorta magagna. Proprio se ne fanno di crude e cotte, e a chi s’oppone gli si minaccia botte…. e qualche volta gli si danno. Quanto ai pollai si scassinan la notte: le galline stan lì chiotte a mezz’aria accovacciate. A volte fan starnazzi da dannate, pazze fuggendo via; ma se stendi il braccio piano, una ne stringi al collo o due, e via a rompicollo per il buio! Il domani si fan le ribotte, insieme all’osteria. — Però la maggiore allegria non è coi pollai: è quando si bruciano i pagliai nel mezzo della notte, che i cani cominciano a latrare furibondi e senti per i casolari le voci andare rotte: la gente per gli echi lontana chiamare e poi venire a frotte. — Allor (chi se ne infotte?) lesto dietro un cespo, ti nascondi fuor di pesta: ti godi la festa delle fiamme, l’ombre ratte rosseggianti e il bailamme degli affanni, col cuor che ti batte e certi scoppi di risa matte. — Stendersi sotto una siepe, dopo una scorpacciata di frutta rubata, e il villano che strepe, giunto all’impazzata, e il vano ansar dei carabinieri, per l’intrico dei sentieri, in fretta sguinzagliati, che credon già d’averci in mano ammanettati, davvero non c’è più sano piacere! Rossi e neri, pel pendio li vedi ruzzolare, e quell’altro, per dell’ore, giù a gridare! Noi al fresco, un po’ col batticuore, sottovoce a commentare.
È così bello a volte meriggiare, all’ombra d’un carrubbo in faccia al mare! L’arso deserto allor ci fa sognare dei viaggi dell’oriente.
.
.

— Si lascia ogni cura, si va all’avventura non si pensa più a niente! — I discorsi che si fanno, son come poterci andare. Si può per esempio svaligiare le banche, oppure assassinare chi ci abbia le palanche. Metterci nottetempo ad un canto di via; uno fa la spia e l’altro molla la revolverata. Allora la polizia, ti fa la retata; ma noi con maestria, si scappa via. Che razza di gioia pazza, allor t’incazza: ti par già l’ora dell’imbarco, fiuti impaziente al largo, chissà che libertà.
Proprio, mi piace questa tua ingenuità selvaggia, questi biechi silenzi e questa malvagia freddezza: l’improvvisa ostilità. La sicurezza della tua immoralità, sperona la fiacchezza della mia complessità. La tua risolutezza e la mia incertezza disperata, si dan fra loro mano, — del resto in modo niente strano. Fra tutti sei proprio tu, quello che amo di più.
Ah sì! piantare finalmente questa vita chioccia, succhiata a goccia a goccia; mandare all’accidente tutta ‘sta gente sciocca che ci scoccia. — Il bene e il male; tutto uguale! Darci alla macchia a viver come pare. Di tutta la morale, farne insieme un falò…
… Quasi che anch’io ci sto. — Però, il vero perchè ch’io vengo con te, eccolo qui cos’è. Non è, ohibò! quel tranello quell’intrico d’amicizia che mi tendi con furbizia. E — questo è! — quel nemico d’ogni amico che cova dentro a te. È quel tradire bieco, queir odiare cieco che m’attira. — C’è una coltellata, ch’io veggo a tratto luccicare, nel tuo occhio diaccio: e mollamela ben data, quando ti capiterà! Va là, e va là; il mio braccio non se la parerà.

— E questi mi son gli amici per la vicissitudine del tempo andante: pel tempo di tristezza io ho un’amante, che è la solitudine.

[I. V]  MIS AMIGOS DE AQUÍ

Para la tristeza es necesario un amante que te serene: ¡te dice cosas de primavera! Hace que olvides. Pero mi amante es la soledad. – Para los días alegres todo es bueno, y el mundo es para mí una salida de la escuela. Todas las cosas son mis compañeras: formo un jolgorio con todo. – Los amigos son necesarios para los tiempos corrientes.

Para los tiempos corrientes tengo cuatro amigos, pero no se sabe si me quieren bien: son como cuatro lugares tranquilos sobre estas colinas, cuatro paradas a la sombra, siempre iguales, desde las que se ve el alrededor. Voy allí como cae, estoy allí como se está junto a una fuente escuchando el agua: pasan las horas buenas. – Son cuatro amigos, ¿cómo decir?, un poco indiferentes: amigos así… para los tiempos corrientes.

Pero el primero se ha hecho un altar sobre el mar: lo digo en serio, justo un altar de rosas raras como velones u hogueras encendidas, con negros cipreses como candelabros; – y, como un dios, está todo el día mirando desde lo alto.

La tierra es toda suya y todo el mar, y nunca parece saciado de mirar. Justamente no hace más que mirar minuciosa, amorosamente, con curiosidad el adorno, alrededor, de la inmensidad. Pero muy despacio, sin voracidad: goza del mundo a gajos, ¡que más hace daño!, cosa tras cosa, y lo ama porque está allí, que si mañana ya no estuviera… ahora, en verdad, esté o no es lo mismo. Se posa, descansa sobre las barcas de pico que pasan allá por el mar: es rico en ironía y en infantilismo. Es uno que se ha cansado de pensar, de devanar dentro su dolor, que tal vez era demasiado. Es sereno y a veces tiene un aprieto. Está como si hubiera salido fuera, allí, a mirar, tras un temporal oscuro.

Así, cuando estoy cansado de atormentarme, cuando precisamente ya no tengo ganas de nada, hasta allí subo, a mirar también yo. Se nos muestra («¡guau, guau!») el mar azul con sus risas blancas, las velas cansadas o hinchadas. Siempre, cuando voy, elige para mí su rosa más olorosa. Así se destierra la melancolía: que es casi una alegría la vida, cosa tras cosa.

– Pero el otro es una tristeza vaga abandonada, justo una desolación; mas sin razón estalla de alegría de vez en cuando. Sientes no se sabe qué ruina, sientes con él cada momento la muerte y la resignación; es uno que ha llegado, ha resbalado hasta las puertas de la desesperación, y sin rebelión llama, y retumba lenta la nada: la Oscuridad. – Entonces, he ahí que se gira hacia ti con malicia, como ciertos moribundos: las cosas que brillan son pensamientos hondos: – no sabes si es ahí donde miente, si todo es una trampa o justo es alguien que se hunde, con serenidad.

Así es como da con la generosidad marchita de quien ya se va: da como quien ya no sabe tener, por el macabro placer de librarse. Goza de sus pensamientos como quien ya no gozará; las bellezas que dice son más bellas porque enseguida las olvidará, y sus cantos son llantos o son como oraciones enseguida dispersas en la inmensidad. Es como un incensario que quema las más ligeras esencias en la cavidad de los cielos. Es un rico que da con triste liberalidad para luego quedarse solo en la pobreza. – Cuando juega lento con los acordes, hace cien fugitivas maravillas que nadie más oirá: cantilena en el armonio de pronto, el capricho enfermo de su lauta melancolía: justo un hechizo vago lo envuelve, el cerco del encanto se cierne sobre él, y por su buhardilla, no sabes qué palacio en subasta. Así si estoy cansado de catalogar, de hacer el análisis de esta vida mía de avaro de semillas, me pongo también yo a fantasear con él, se vacían los cofres de los sueños y de los placeres: no son placeres verdaderos, son sueños opiados: pero el mundo es un mar de nieblas de colores, la vida no está ya a gajos: – somos ricos, somos riquísimos… y casi consolados. – Las nubes que se ven allí desde la buhardilla ¡son tan doradas! ¡Ciertos Walhalla blancos inmensos! Estamos allí como héroes tendidos bajo el cielo, ¡allí en el horizonte! – Estas nubes son justo un puente en el mar de la nada. Están hechas de nada, pero son tan opulentas: ¡montañas de cielo, puertas del paraíso! Y siempre pongo buena cara a esta ilusa vida como un velo bajo el cual está la muerte.

Al tercero solo lo veo de noche; parece que sale de las grutas, ¡como los murciélagos! Es uno que tiene rotas todas las costumbres, tan dura, atroz le resulta la vida. Tanto lo ofende, que le resulta insoportable: – un sufrimiento tan angosto, un padecimiento tan vil que no puede decirse. – Entonces, cuando el odio destruyó la esperanza, todo se hundió en el olvido, el mundo se le perdió a lo lejos… Tiene recuerdos como de cenizas y cuentos. Estas cosas que suceden bajo el sol, las guerras de Europa y qué sé yo, le parecen palabras y, justo, insípidos cuentos. No dice no ni sí; y si le dices, pongamos: «¡una victoria!», responde apagado: «¿Ah, sí?»
Pero los sueños, justo los sueños que tenemos al dormir, no hay nada más que él anhele, y ahí en verdad es el Rey. Pues si comienzas: «Esta noche he soñado…» enseguida retiene el aliento, y es todo tuyo. – Para llevarte a los países extraños, donde los espectros vanos forman tan grotescas caravanas, solo él es el Rey. De todo sabe el porqué, y no hay nada que no devane. – Los antros de eco oscuro le son conocidos, gira por los meandros de la gruta que le dices, como si fuera una calle de esta ciudad mía. La extravagancia más loca le parece verdadera. Ahora para él el sueño es realidad.
Es como uno que se ha matado por no poder más. Por tristes apocalipsis cae: como si se hubiera refugiado entre espectros y sombras. Tiene el alma engolfada en catacumbas de misterio negro; en criptas más profundas encuentra escondida la verdad. De símbolos y de siglas está hecho el mundo; a una señal te responde la corte de los espíritus que dentro se esconde. – En las olas de los silencios sin riberas ventea vasto el viento, retumba lento el estruendo, el abismo se precipita de la divinidad. – El alma se hincha en vastedad, por la desmesurada inmensidad flota el mar vivo de la eternidad.
Entonces el Rey de los sueños entona un canto: «santo, oh santo, oh santo!». Erguido en la noche que lo engulle, hace un encantamiento. Cañas de plata enormes se levantan sobre el monte más alto, un órgano de basalto, entre rocas y viento, retumba el espanto de los ¡hosanna!: – se dilata el concento por los mundos en ecos furibundos, o lento forma un lamento llorando de piedad. Tiembla la inmensidad de la pasión profunda, se deshace la gemebunda humanidad por la ola sin ribera.
Así es como cuando, con el cotidiano paso, con estas charlas usuales del periódico, de muertes y de derrotas estoy cansado de hablar, también yo me pongo con él a evocar los espectros. Vamos por lugares oscuros, donde nunca fui: me alimento de miedo tras él. – Pero sucede que el sereno sobre nosotros ¡es tan misterioso! Entonces nos tendemos y miramos arriba. La negrura es toda ojos y mira abajo; – si levantas la mano, casi te parece que los tocas…; ¡y en cambio quién sabe dónde están! Entonces a millas, de millas me mide el donde; de donde parte la luz que luego llueve aquí; pero son cuentos locos para enloquecer. Están ahí, los tocas, y son brillantes salidas, son chorros punzantes como alfileres del infinito que nunca puede acabar. – «Por ejemplo, me dice que, más allá de la Vía Láctea, hay mundos incalculables, se ven otros coros de mundos muy distantes: ¡y no son ya poros del universo…!»
Me siento casi perdido, ya casi no soy nada, ya no cuento. Pero esta vida, cuando me enfurece, casi se respira con estos sueños que se pueden soñar y estos encantos extraños que encantan; – eh, sí, podemos desahogarnos en los estelares espacios de allí. 

– Pero con el cuarto se recorre la tierra intrépidamente: ¡lanza algunas piedras contra la gente, cuando nos persigue! Con las manos en los bolsillos y ojos de desprecio, te mira con mirada cortante. Camina decidido por la calle como al asalto, y, siempre, con la posición del brazo de quien arroja una piedra. – Solo es, en fin, un muchacho de menos de veinte años, pero es un pesado sinvergüenza siempre de paseo, bello y esbelto como no hay otro. Hay días en los que ser civil no es justo para mí: – salimos entonces del pueblo a hacer por el campo todo tipo de destrozos. Justamente hacemos locuras, y a quien se opone lo amenazamos con leñazos… y alguna vez se le dan. En cuanto a los gallineros, se fuerzan de noche: las gallinas están allí quietas a media altura, agazapadas. A veces aletean como condenadas, huyendo enloquecidas; pero si tiendes el brazo despacio, a una le aprietas el cuello, o a dos, ¡y a galope por la oscuridad! Al día siguiente vamos de parranda, juntos a la taberna. – Pero la mayor alegría no está en los gallineros: es cuando se queman los almiares en medio de la noche, y los perros comienzan a ladrar furibundos y escuchas por los caseríos las voces rotas: la gente en los ecos lejana llama y luego viene en tropel. – Entonces (¿a quién le importa?) rápido tras un seto te escondes del gentío: disfrutas de la fiesta de las llamas, las sombras veloces rojeantes y la bulla de los afanes, con el corazón que te golpea y estallidos de grandes risas. – Tenderse bajo un seto, tras un atracón de fruta robada, y el campesino que hace ruido, al llegar como un loco, y el vano jadeo de los guardias, por la maraña de los senderos, de prisa lanzados, que creen que ya nos tienen en sus manos esposados, ¡de verdad que no hay placer más sano! Rojos y negros, por la pendiente los ves rodar, y ese otro, durante horas, ¡abajo gritando! Nosotros, al fresco, con un poco de anhelo, comentamos en voz baja.
¡Es tan bello a veces sestear, a la sombra de un algarrobo frente al mar! El árido desierto, entonces, nos hace soñar con viajes de oriente.

– Se abandona todo cuidado, se va a la aventura, ¡ya no se piensa en nada! – Los discursos que hacemos son como si pudiéramos ir allí. Por ejemplo, podemos desvalijar bancos, o bien asesinar a quien tenga ahí las blancas. Ponernos de noche en un rincón de la calle; uno vigila y el otro suelta los pistoletazos. Entonces la policía hace una redada; pero nosotros, con maestría, escapamos. Qué suerte de risa loca te exalta entonces: te parece ya la hora del embarco, hueles impaciente mar adentro quién sabe qué libertad.
Justo, me gusta esta ingenuidad tuya salvaje, estos aviesos silencios y esta malvada frialdad: la imprevista hostilidad. La seguridad de tu inmoralidad aguijonea la flaqueza de mi complejidad. Tu determinación y mi inseguridad desesperada se dan la mano, – por lo demás, de modo nada extraño. Entre todos eres, precisamente tú, al que más amo.
¡Ah, sí!, plantar esta vida áspera, chupada gota a gota; mandar al diablo a toda esta gente lila que fastidia. – El bien y el mal; ¡todo igual! Echarse al monte a vivir como nos parezca. Con toda la moral, hacer juntos una hoguera…
… Casi también yo lo admito. – Sin embargo, la razón verdadera por la que voy contigo, he aquí cuál es. ¡No es, oh!, ese truco ese enredo de amistad que me tiendes con astucia. Es – ¡esta es! – ese enemigo de cada amigo que anida dentro de ti. – Es una cuchillada que veo de golpe brillar, en tu ojo helado; ¡y dámela bien dada, cuando te toque! Vamos, vamos; mi brazo no se defenderá.

– Y estos son mis amigos para las vicisitudes del tiempo corriente: para el tiempo de tristeza tengo una amante, que es la soledad.

[I. VIII] BISBIGLIO A VESPERO

— E che vuoi dire? È tutto detto ormai. — Andiamo accanto per la sera queti, zitti,- come in una culla di bontà.

— Però questo non dire mai, fa groppo, amico! C’è non so che intoppo, dentro, che non lascia dire.

— Perchè, se dici, è un pò un ubriacamento. Uno si spende con facilità; ma poi nel vuoto li punge il tormento.

— Oh se lo so! Si soffre allora di profanazione…. Le cose fonde non si posson dire. Non c’è che dire le inutilità.

— E già: non si può dire la disperazione! Si dice, si ride, in fine si fa ciò che agli altri più cale: gai si gira attorno all’essenziale buio…
.

— Oh amico! e questo è il male atroce della solitudine in mezzo degli uomini. — Che insopportabile soffrire essere sempre come agli altri cale, ma non poter scordare, non poter mai dire.

— E dunque ormai che vuoi tu dire? È tutto detto. — Andiamo queti per la sera accanto, in questa zitta culla di bontà.

[I. VIII] SUSURRO AL ANOCHECER

– ¿Y qué quieres decir? Ya todo está dicho. – Vamos juntos por la tarde tranquilos, callados, – como en una cuna de bondad.

– Sin embargo, no digas nunca esto, es un enredo, amigo. No sé qué obstáculo hay, dentro, que no deja hablar.

– Porque, si dices, es un poco de borrachera, uno se consume con facilidad; pero, luego, en el vacío, lo hiere el tormento.

– ¡Oh, si lo sé! Se sufre entonces la profanación… Las cosas hondas no se pueden decir. Solo se dicen las inutilidades.

– ¡Y claro, la desesperación no se puede contar! Hablamos, reímos, en fin hacemos lo que a los otros más les importa: joviales giramos en torno a la esencial oscuridad…

– ¡Oh, amigo!, y este es el mal atroz de la soledad en medio de los hombres. – Qué insoportable sufrir ser siempre como a los otros les importa, y no poder olvidar, no poder hablar nunca.

– Y entonces, ¿qué quieres decir ahora? Todo está dicho. – Vamos tranquilos por la tarde juntos, en esta callada cuna de bondad.

[I. IX] CIRCOLO

Quanto al giorno, troppa questa luce! smarrito ci svolazzo come la civetta. Per qua, per là, fan lapazza mascherata, gli uomini le cose: ci urto come a spigoli! E che son mai, qui in mezzo io? Son uno che si tiene dal piangere. Tutto d’ammacchi e angoscia, cerco così i cantucci e le vie deserte.
Il mio giorno lo passo a sospirare la notte.
.

— Ma, solo, la notte! e chi la può vegliare? quando si sbenda ogni piaga. Perchè non si veda c’è il buio, questo mio viso di morto; e il sonno c’è per non più sentire.
Ma, sciolto, si torce ogni viscere; ogni vergogna si stana, quand’io più non comando. Allora il mondo fa orrore: una carcassa che brulica. Allora il mondo profondo è una piaga profonda, e fa orrore e pietà.
Così la luce nasconde: è una benda; ma il sonno è un oppio appena, per questa cancrena! — La mia notte, in ansia la passo a sospirare l’aurora.
.

— Di che desideri, pura, trema l’aurora, sempre di nuovo sorgendo? Dal profondo sepolcro Lazzaro ecco, ad ogni mattina! Fresco subito il cuore, come le cose è di perla; vergini, son come di un bimbo le membra. — Chiara la preghiera, allora, si versa come la fontana; ad uno ad uno gli oggetti (son d’aria?) corro a mirarli; presto ad una ad una le piante con palma amorosa le palpo: son vive! Le lucide foglie le bacio. Oh! qui ancora, tu, sogno? qui ancora, realtà?
Tempo di germoglio, o aurora di speranza, la tua promessa non è compimento? il tuo limpido fiore, più dolce di un frutto. — Oh, mai maturasse il tuo frutto; sempre sospesa, la serena aspettanza, per sempre durasse!
Ma il giorno ch’è nella aurora, sempre è l’atteso; sempre ohimè! sull’aurora son certo di un giorno.

— Cosi pel vivo mattino è agile andare; essere il nuovo padrone del nuovo giardino!
Svelto, con occhio cordiale, ispeziono la vita; per dire: «va bene!». Su, giù per le vie, le mani che stringo sono sigilli; i discorsi che ascolto sono persuasioni. Allora le risa, gli idilli, la gente che va, le faccende; i carri, i mercati, l’umido cielo fra i tetti e le corbe colme dei frutti, sono aperte parole; gli occhi, i cuori, i segreti, tutti son chiari poiché la brezza respira; gli intrichi del mondo li corro come i viluppi dei vicoli.
O mattino felice, alveare! Leggere le opere son come giochi; come un riso d’argento, sfuggono all’uomo!
Senza pensieri, mattino quando sereni si va e non si chiede la meta, oh mattino fanciullo come presto ti rughi!
Così, cipiglioso, ti dai l’aria da grande: appena il confuso compagno, lo saluti col cenno! e la gioia è lontana come il tempo di scuola. Finché opaco, tutto di cruccio, ciò che tu fai è comando; dici: «questo è davvero!» urtando mi dici: «ognun la sua via!»

— Allora la strada che imbocco, lento, è la mia; queta, tra i muri degli orti, un ciuffo di canne, bisbigliando ci spia: i cespi di rose, bianchi, qua e là, si sfogliano giù; — e va al camposanto. Quando, pian piano, ci arrivo, non entro, mi sdraio, fa buono, al sole aspettando, zitti, di starsene lì. — Netto è il silenzio così, che un trillo lo punge; e l’aria è pulita. I dorsi dei colli, gli ulivi, tranquilli fanno da siepe: — il mondo che fa? fa ressa al di là. Se, vago, lo guardo, con gli occhi di oggi ci veggo il giorno di ieri.

[IX] CÍRCULO

En cuanto al día, ¡demasiada esta luz!, aturdido revoloteo como el reclamo. Por aquí y por allá, hacen una loca mascarada los hombres las cosas: ¡choco contra ello como contra aristas! ¿Y qué soy yo aquí en medio? Uno que se se resiste a llorar. Todo golpes y angustia, busco así las esquinas y las calles desiertas.
Mi día, lo paso suspirando por la noche.

– Pero, ¡solo, de noche!, ¿y quién puede velarla?, cuando se desvendan todas las llagas. Para que no se vea está la oscuridad, este rostro mío de muerto; y el sueño está para no sentir más.
Pero, relajado, se retuercen todas las vísceras; toda vergüenza desanida, cuando ya no mando. Entonces, el mundo causa horror: una carcasa que bulle. Entonces, el mundo profundo es una llaga profunda, y causa horror y piedad.
Así la luz oculta: es una venda; pero ¡el sueño apenas es opio, para esta gangrena! – Mi noche, ansioso la paso suspirando por la aurora.

– ¿Con qué deseos, pura, tiembla la aurora, siempre surgiendo de nuevo? ¡Desde la profundidad, he aquí a Lázaro, cada mañana! Fresco enseguida el corazón, como las cosas es de perla; vírgenes son como de un niño sus miembros. – Claro el ruego, entonces, se vierte como la fuente; corro a mirar los objetos (¿son de aire?), uno a uno; pronto, una a una, las plantas con palma amorosa palpo: ¡están vivas! Las brillantes hojas beso. ¡Oh!, ¿de nuevo aquí, tú, sueño?, ¿de nuevo aquí, realidad?
Tiempo de germen, o aurora de esperanza, ¿tu promesa no es cumplimiento?, tu clara flor, más dulce que un fruto. – ¡Oh, que nunca madurara tu fruto!; ¡que, siempre suspendida, la serena espera durara por siempre!
Pero el día que está en la aurora siempre es el esperado; siempre, ¡ay de mí!, en la aurora tengo la certeza de un día.

– Así, por la viva mañana, es ágil ir; ¡ser el nuevo dueño del nuevo jardín!
Rápido, con ojo cordial, inspecciono la vida; para decir: «¡está bien!”. Por las calles arriba, abajo, las manos que estrecho son sellos; los discursos que oigo son persuasiones. Entonces, las risas, los idilios, la gente que va, las tareas; los coches, los mercados, el húmedo cielo entre los techos y los serones llenos de frutas son palabras abiertas; los ojos, los corazones, los secretos, todos son claros porque la brisa respira; los enredos del mundo recorro como los líos de las callejas.
¡Oh, mañana feliz, colmena! Leer la obras, son como juegos; como una risa de plata, ¡se le escapan al hombre!
Sin preocupaciones, mañana, cuando serenos vamos y no preguntamos por la meta; ¡oh, mañana niña, qué pronto te enojas!
Así, ceñuda, presumes de grande: ¡apenas saludas con una señal al confuso compañero!, y la alegría está lejos como el tiempo de escuela. Hasta que opaca, toda dolor, lo que haces es orden; dices: «¡esto es de verdad!», golpeando me dices: «¡cada uno por su camino!»

– Entonces, la calle que cojo, lento, es la mía; tranquila, entre los muros de los huertos, un haz de cañas, susurrando, nos espía: las corolas de las rosas, blancas, aquí y allí, se deshojan abajo; – y va hacia el camposanto. Cuando, lentamente, llego, no entro, me tiendo, hace buen tiempo, esperando al sol, callados, estar allí. – Es el silencio tan nítido, que un trino lo hiere; y el aire está limpio. Las laderas de las colinas, los olivos, tranquilos, forman un seto: – ¿qué hace el mundo!, se agolpa más allá. Si, vago, lo miro con los ojos de hoy veo el día de ayer.

[II.VIII] COSÌ LENTO ANDANDO

— Così lento andando la tristezza m’è così deserta! Oh come pesa, oh come chiude questo mantello nero! Giù tra gli scogli il mare appena fiata, fa gluglù, è una bestia che dorme. Finché dal profondo nero orizzonte qua e là veggo le quiete stelle, così lontane e fuor di cruccio! Proprio; è un altro mondo! che subito mi fermo e d’ogni pena mi stabarro smemorato.

A guardarlo questo vago latte delle nebulose che dolcezza! Così vago che ti stempra, così lieve che non hai più corpo.

Qui, a guardare null’altro è più che il pacifico stupore. Perchè, che cosa dire? sono segni senza paragone; sono al cuore i segni di un profondo senza nome. Non c’è che sprofondare.

[II.VIII] YENDO TAN LENTO

– Yendo tan lento, ¡qué desierta siento la tristeza! ¡Oh, cómo pesa, oh, cómo aprieta este abrigo negro! Abajo entre los escollos el mar apenas respira, dice glu glu, es un animal que duerme. Hasta que en el profundo negro horizonte, aquí y allí, veo las tranquilas estrellas, ¡tan lejanas y ajenas al dolor! Justo: ¡es otro mundo!, y enseguida me detengo y de toda pena me desvisto desmemoriado.

Mirando esta vaga leche de las nebulosas, ¡qué dulzura! Tan vaga, que te deshace; tan leve, que ya no tienes cuerpo.

Aquí, solo se puede mirar el pacífico estupor. Porque, ¿qué decir?, son señales sin parangón; estoy en el corazón de una profundidad sin nombre. No hay más que abismarse.

[II. X ] A TAGLIARE GLI ORMEGGI

— A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia: però non si sa dove.

— Sia dove sia! il vento mi strappi via della disperazione!

— Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento! Però a cercarmi nella pietà stringo le mani in contorcimento, non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.

— Non v’era luce nell’opacità! Curvai le sbarre di questa prigione; verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla!

— Ormai non ho più nulla da via buttare, son nudo fino all’anima, non son che un’anima, tutto son fatto di tristezze amare, e di sgomento. Senza meta, e per disperazione reggo contro me in ribellione, ma il nulla fa spavento.
.

— (Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai, non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio, qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre del corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo spento nel disfacimento della morte).

— Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.

— Mi abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; — di qui qui qui all’eternità!

[II. X ] SI CORTAS LAS AMARRAS

– Si cortas las amarras, el viento te desliza: pero no sabes adónde.

– ¡Dondequiera!, ¡que el viento me arranque de la desesperación!

– Sin embargo, escrutándome en la oscuridad, ¡qué gemir, qué perdición! Sin embargo, buscándome en la piedad, me aprieto las manos contorsio-nadas, no sé a qué Dios le ruego que escuche en la imprevista ingenuidad.

– ¡No había luz en la opacidad! Doblé los barrotes de esta prisión; hacia la liberación rompió el alma con voracidad. ¡Mas puerto fue la nada!

– Ahora no tengo ya nada que tirar, estoy desnudo hasta el alma, solo soy una alma, entero estoy hecho de tristezas amargas, y de desaliento. Sin meta, y por desesperación, resisto en rebelión contra mí, pero la nada da miedo.

– (Señor, este roto cuerpo ya no me sostiene, no me consuela en los claros ojos la salud del mundo. Aquí yazgo, aquí lentamente me deshago gimiendo. Más allá del cuerpo, Señor, busqué tus puertas; abismo apagado en la destrucción de la muerte).

– Con nudillos sangrientos, al final de las gradas, golpeo angustiado la puerta de bronce; estoy perdido en la eternidad.

– Náufrago, me agarro a la desesperación; entero en tensión estoy invocando; – ¡de aquí, de aquí, de aquí a la eternidad!

©Todos los derechos reservados. Desarrollado por Centro Informático Millenium