Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Original

Frantumi

1914-1917

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Testi:

I. Pubblicati sulla rivista La Riviera Ligure: Frammenti, Resoconto dell’escursione, Deliri, Frantumi, I miei amici di qui, Prosette quasi serene, Conclusioni d’ottobre, Bisbiglio a vespero, Circolo

II. Non pubblicati in vita: [Quadernetto di appunti 1914, Definizione di me, Taccuino 15/16, Varsavia, Dialoghi de tempore belliPresentazione a Dio, L’attività disperde], Così lento andando, Allora qua le rive, A tagliare gli ormeggi

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In questa pagina si pubblicano i testi della sezione I (tranne la prima parte di Delirii) ed i tre ultimi testi della sezione II. Si segue la terza edizione dell´opera: Guanda, Modena, 1938. Per gli altri testi si veda l´edizione di Veronica Pesce: San Marco dei Giustiniani, Genova, 2007.

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[I. I] FRAMMENTI

1) Talvolta quando al tramondo passeggio stanco pel Corso (ch’è vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: «buona sera!».
Allora d’un tratto, lì sul Corso ch’è vuoto, m’imbatto stupito alle cose d’ieri e sono pur io una cosa col nome.

2) Quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso di ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l’atto di me che t’ascolto. Fingo d’essere con te e non ho cuore a dirti d’un tratto: «Non so chi tu sia!». Amico, in verità non so chi tu sia.
E come tu vuoi ch’io rinsaldi l’oggi all’ieri labbra d’abisso, ferita divaricata dell’infinito?

3) Mi fermi per via chiamandomi a nome, col mio nome di ieri.
Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?

4) Tepido letto del nome, sicura casa dell’ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle gioie lontane. Nave sul mare. Zattera di naufraghi.
Ma l’oggi, è, via, come una cateratta aperta. Nubi cangianti nell’abissale cavo del cielo.
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5) Tu resti saldo-piantato nell’ieri specula alta dell’oggi, ed attento vi spii tutte le cose, ciascuna secondo il suo nome.
Che nessuna ti sfugga ecco il tuo ufficio, e che tutte si seguano secondo l’ordine giusto. Che tutte s’incastrino e facciano insieme un regolato disegno. Che nessuna ti sfugga, né vi sia salto.

6) Constipi i tuoi giorni nel calendario dei dodici mesi; le tue ore le misuri sul picchiettio di una ruota.
Perciò al settembre segue l’ottobre e l’effetto alla causa. L’ieri tien le redini all’oggi e le chiama dovere.

7) Come faticoso vivere sul metro dell’ieri! Ma, bue al giogo, prosegui. L’oggi è l’ieri e pingue la stalla s’apre al fine del solco.

8) Trama tessuta, conti le fila della tua vita e nessuna è strappata.

9) Il mio nome è Giovanni e se mi chiami, pronto rispondo. Adesso e nell’ora della mia morte. Appena, il mattino, su mi isso dalla varia nube del sogno, mia madre dice piano «Giovanni» alla porta socchiusa, e, quasi, io sono di nuovo.

10) Non mi torrete il mio nome; lo imbraccio come uno scudo. — Tra la smarrita paura dell’ieri e l’oggi vissuto ho messo a ponte il mio nome.

11) Il dovere è il mio diritto; non m’impedirai di compirlo.

12) Difendo il dovere che l’ieri m’assegna, come l’assalito la casa. Chiusa gelosia, voluttà di un fisso dovere nel mareggiar dell’arbitrio! Ragiono ogni mio atto timoniere alla ruota.

13) La più certa ricchezza è ch’io posseggo un numero mio all’Ufficio di Anagrafe. Ho un titolo e delle attribuzioni: sapete chi sono. È chiaro ad ognuno ch’io debbo nel tal caso agire così. E, dentro, il segnavia della mia coscienza comanda a ogni bivio: «piglia a diritta!»

14) Voi sapete chi sono e cioè cosa ho fatto: sapete che cosa farò. Pongo le mie azioni come pietre miliari e livello con scrupolo l’ultima sulla penultima.

15) Giustifico ogni mia mossa seconde la regola. Nel tempio dell’ieri ho, ginocchioni, adorato il penate Esperienza,
l’ho effigiato nei dieci comandamenti e teologizzato nei commi del codice. E trovatemi una briccica d’atto di cui non vi sappia spiegare il perchè! Faccio ogni cosa secondo un perchè e sono un uomo morale.

16) Non mi sorprenderai inaspettato, né il balzo del mio cuore nuovo. Non esiste l’oggi od il nuovo, né la passione ruggisce. Modero la mia sete sulla misura della mia borraccia. E così non avrò rubato alla sete degli altri e sarò un uomo morale.

17) Ho studiato le molteplici connessure del mio ieri con l’ieri di tutti ed ho riconosciuta la necessaria Società. Ho nettamente tracciata la carta della società, sul mappamondo dell’Universale il quale è l’ieri d’Iddio. Ora io consulto ad ogni respiro l’astrolabio dell’universale navigante che piglia l’altezza del sole.

18) Sono corazzato dell’universale ed il mio nome è coscienza. Nave all’ormeggio, specula salda su roccia s’avvicendano intorno le notti coi soli ed io resto immobile nella certa coscienza di me.

19) Ma ahi no! che l’oggi mi vince e sono un naufrago senza la zattera. Ahi che l’ieri rapido vagulo crepita via, secca foglia nel vento! Son tutto nell’oggi ed il mio nome è attimo.

20) Quando la sera rincaso e mi seggo all’acceso camino, fuori la valle è grigiume di nebbia e notturna opacità. Non esiste il passato. Che mai è il ricordo?

21) Non trovo nel codice il comma dell’azione mia, né il comandamento della mia morale.

22) Non pietre miliari di una diritta via; massi erratici ed oasi.

23) Ho scordato il mio nome: ho perduto i miei passaporti in paese nemico.

24) Drizzai l’avida prua ai ghiacci del Nord, incerto mi dondolo ora nelle bonaccie lisce del Cancro.

25) Il mio nome è oggi, e la mia via si chiama smarrita. Non ci sono insegne ai bivi dell’andare mio e non so s’io abbia imboccato a man dritta.

26) Vagabondo che non sai donde viene e stanotte ti brucierà il pagliaio, ciascuno che incontro mi guata con occhi nemici. Veggo nella titubanza delle tue pupille che io ti sono come l’acqua che fugge.

27) Ahi ch’io non ho letto, ahi ch’io non ho tomba! Ahi ch’io non so chi mi sia e non conosco né cosa né uomo!

28) Sedetti al tramonto su d’una soffice proda contro il sole a scaldarmi, ma si levò subito dopo un gelido vento e fu la notte.

29) Perchè io sono triste ora? Ma perchè io sono gioioso? Non intendo la ragione della notte e del giorno.

30) S’io godo della mia gioia e dico «così ogni mia ora» ecco d’un tratto mi si leva dentro l’amarezza del pianto, come nebbia da una nera palude.
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31) Come vuoi ch’io prometta se non so del domani? Non intendo che cosa sia promessa.

32) Tra dieci anni ci rivedremo? Ma chi tu vedrai fra un’ora? Ahi che bastò il giro di un giorno.

33) E perchè fingi di non aver mutato? Che il tuo vivere sia secondo ragione te ne compiaci. Arrangi le prove del tuo mutare secondo l’apparenza dell’immutabilità.
Io, per me, ciò che volli non l’ho compiuto.

34) Dici del ricordo che lega il tuo oggi al tuo ieri. Ma io sul ricordo dell’ieri ho misurato la disparità dell’oggi e l’impossibilità del legame. Ho rinunciato a ridurre il mio oggi nello spettro dell’ieri e non forzo con infingimenti la mia vita ad apparirti ordinata.

35) Cieco a cui caschi il bastone, via gettai tutte le vostre logiche. Foglia nel vento, barca nel mareggiare; ma non cerco la sbarra.

36) Dico che non v’è timone. Volontà e passione, vuote parole.

37) Passione e volontà son tutto nella gioia dell’oggi, e tutto nel presente dolore.

38) Sono disperatamente gioioso e sono senza speranza triste. Credo con violenza all’Inferno e sono de facto certo di un Paradiso.

39) Perchè la mia vita non si fabbrica su progetto, pezzo per pezzo, come i palazzi di pietra e non corro a una meta cavallo al traguardo. Non ho avvenire perchè non ho passato. Non avendo ricordo, nemmeno speranza.
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40) Vampa di fornace il mio desiderio; e come l’abisso della notte il mio annichilimento. Io non so che gioire, io non so che soffrire. Non ho riparo al dolore, né tempero, con riflessioni, la gioia.

41) Rinuncerò alla cosa che amo s’io non ho scampo fuori di essa? Il mio amore, è via scattato dalla disperazione, così come l’odio.

42) E come potrò rinunciare alla donna che amo s’io non sono che amore della donna che amo? Come tu vuoi ch’io non arda pel corpo della donna che amo s’io non ho altro corpo che il suo?

43) Non mi torrai dalla chiusa prigione dell’attimo con vane chiacchiere sull’infinità dell’eterno.

44) Non v’è altro eterno che l’attimo.

45) Pietosamente mascheri alla mia disperazione la tua felicità.

46) Sei chiuso nella tua gioia com’io nel mio dolore.

47) Dallo scoppio della mia gioia, come una ferita, il tuo soffrire. Compiuto il mio desiderio, con stupefazione ecco il tuo pianto.

48) Ma ciascuno si dibatta nel suo oggi, carcerato nella cella.

49) Scatto le pugna contro la chiusa muraglia; o, bestia spaurita, mi raggriccio nel canto a guatare. È vano che tu mi consoli.

50) Oh dolcezza dell’essere a braccio, lenti per via! Oh nel sonno voluttà del tuo corpo molle-allacciato col mio! Ma ahi che bastò il giro d’un giorno.
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51) Ritmo del tuo respiro confuso leggiero nel mio. Gracilità delle tue membra, trepida allodola nella carezzosa prigione della mia mano! Ed averti innanzi rivo chiacchierino, tra scogli.

52) Tremulo diafano nella immobilità della notte, ruppe con taglienti lame il mattino. Sognai gonfie le vele, navi al ritorno; bottini di gioia come ricolme cornucopie. Con dilatata pupilla, bimbo alla fiaba: «Di dove? ma come?» . — Nacque il sole al tramonto; ostinati, quali dal buio occhi, mi fissarono?

53) E non fummo la felice corrente di due acque confluite? — Ma l’eterno fu un attimo. — E bastò il breve giro d’un giorno. Ciascuno fu nel suo oggi come in serrata prigione.

Nov. 14.

[I. II] RESOCONTO DELL’ESCURSIONE

a M. N.

Dicono tutti che siamo stati dei «pazzi». Epperciò amici promoviamoci eroi! Qui bevendo, l’un l’altro freghiamoci con le medaglie! Ecco pronti, come soldoni, i bottoni bianchi; con nastro rosso (perchè lo si veda) e fibbia dorata, appendiamoli fieri al bavero.

Eh sì, ci siam tutti: quattro, cinque, sei… Anche il mio femore è intero che mi doleva così! Ma che razza di balli fan tra di loro le ossa, quando cammini! che matti rigiri alle giunture! Proprio, guarda, il mio corpo è una macchina.
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Che se non era la neve fresca, s’arrivava in tre ore.

Oh sì! arrancava bene la compagnia dapprima. Con giù quel nero torrente e noi contro corrente su. Che non ti mettevan paura quei mille metri a strapiombo su te e quelle rotte creste, muraglie del mondo, sul vetro verde, sul pungente ghiaccio dell’aria?

Ma noi nel profondo, nere laboriose formiche, sul funereo bianco, in riga.
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Anch’io ero allegro. Altroché! C’era piano, quasi, e la neve era nuova. Quando si passò una roggia, tu citasti la Cena delle Ceneri ed il «porco passo» dell’opaco Tamigi. A caratteri di mezzo metro si scolpivano coi bastoni lungo la pesta le iscrizioni commemoratorie: l’uomo che ci portava i sacchi scrisse dignitoso RAMELLA e trionfale tu al ritorno DI QUI GIOVANNI BOINE PASSÒ.

Sì sì, ero allegro: trottavo anch’io, un po’dietro col respiro rotto-fumante, col viso rosso-ridente. Ma era anche allora un bel traffico quella neve gemente sotto le suola chiovate e quello sprofondare tutt’a colpo pesante, fino al ginocchio!

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Quando diafana, per gli spacchi improvvisi, l’aerea fiamma di Venere e lieve la luna giù, matte, danzanti, di velo, ci soffiarono allato le ombre, uno, dinnanzi, attizzò la lanterna.

Ciascuno allora lavorò per suo conto.

Chi, lontano, di voi intonò La Violetta? (e la vi-olett…). Pareva una voce del Limbo.

Come fu solo, ciascuno, imbottito senz’eco nella soffice coltre!

Ma fu a metà la salita (mamma, il mio cuore che strappi! mamma, che ansito mozzo!) che macchia spettrale nel bianco, io ti vidi dinnanzi come un altro da me. Dici? Eh sì, come un altro da me.

Cercavi la pesta zitto ed avaro. Ciascuno, l’occhio al suo piede, cercava nemico la pesta, pecora prona.

E che deserto, o amico, che morte! (che freddo, che peso la vita). Eravamo in sei, io, tu, lui… Zitti, fantasmi, eravamo in sei sulla valanga funerea. Ed io… tu … lui … che desolato deserto!

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Ma quando sull’arena del gelo, la prima volta giù caddi: e torpido m’accomodai quasi vi dovessi dormire (morire),
il tizzo del vostro lume in alto ansimava, ostinato cercava, e, scia fumosa, voi in traino, su, dietro.

La breve macchia d’ognuno, fusa in compatto plotone. Ruote d’ordigno in incastro, la fatica chiusa d’ognuno, su rapida in ritmo. (Ma sasso gettato che affonda, mendico fuor della porta, io giù solo).

Come in misura, amici, il gemito breve dei vostri bastoni, e come deciso e d’accordo, e come affamato! il mordere stridulo dei vostri chiodi.

Gente pei fatti suoi, come frettolosi, come lontani giravate la costa! Come via taciturna disparve la vostra vincente gioia, nel biancore spettrale!
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Uomini che tengano la loro diritta e non badino in giro. Adulteri, risoluti al convegno. Ma nel cruccio della gelosia, io giù solo.

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Oh sì! fu una festa all’arrivo quello scoppio di saluti rauchi e quelle faccie di riso stupite, nel lume nel fumo caldo della stamberga accovacciata.
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Quella tazza di vino bollente con dentro le spezie, e il bruciore d’aroma giù per la gola, non li scorderò!

E nemmeno il viso amico-materno, i pietosi «oh!» di quell’ostessa che si chiama l’Addolorata.

La quale subito e confusa m’accostò una sedia alla rossa stufa, perchè vi stendessi con voi le gambe diaccie dolenti.

(Ma che dolore-piacere per tutte l’ossa ammaccate quel tuo rannicchio di sedia ostessa!)

Sì, sì, quella panca dura, quel muro a cui poggiai così voluttuosamente la spalla quando poi si cenò.

Quel pane!
e quei canti che, navarca scampato, tra l’uno e l’altro cucchiaio per vittoria e allegria, tu a strappi con beffe ed incitamenti intonavi,
ma che nessuno riusciva a cantare tanto era il sonno.

A me piacevano quei commenti in bisbiglio con le sbirciate rapide verso l’uno e verso l’altro di noi (uno per uno lì a giudicarci); l’affettuosa curiosità di quelli altri agli altri tavoli, montanari rinfagottati che giocavano alle carte con la mezza accanto e i bicchieri.

Materne vacche intorno al vitello nuovo ci fasciavano tutt’in giro della loro calda bestialità.

E pure mi piacque, ora dirò, il capo giovane di uno di voi chinato dormiente sulla spalla di quello accanto.

Così in abbandono e dolce ch’io trasognato sclamai: «Ecco San Giovanni alla cena».

Che furono, mi pare, le mie sole parole da cuore in quella rauca notte con voi;
(o, con svelto discorso, di non so cosa discussi, di non so cosa a lungo inventai, a coprir l’agonizzare del sonno?…)

No, no, no amico, ero sveglio terribilmente: non so qual cappio, di ostile cruccio alla gola, e non so chi sconosciuto, su per una erta, testardo a strapparmi.

E se appena smorzavo gli occhi (mentre tu parlavi), dalla netta sponda del tavolo giù d’un tratto, un abisso affondava, con nella perdizione del buio un incurante sciaguattio di fiume ed in giro zitta (mentre tu parlavi) la desolata solennità del nero e del bianco.

Come quando alla seconda caduta, la guancia, sul gelo bruciante, attesi opaco, deciso, di giù scivolare.

A colui che con la picca lento tastando, Cireneo muto, giunse, ed impugnatomi, di strappo m’alzò, feci rauco per grazia questo discorso:

«Ora perchè così forte tu, così d’accordo in gioia voi? — Io, qui ci sto bene!»
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Ora perchè quest’ansito fuor del respiro; questa agonia fuor della vita?

Come chi ascolti un festino dalle avare fessure, tagliano il mio buio rasoiate di luce.

(O, chiuso, come chi tira via nottetempo, incontrato al lampione il vinoso coro degli ubriachi?)

Han tutti una voce; han tutti un traguardo; si versano precipitosi tutti a una foce.

Marciano un passo che io non so battere. Corrono una strada che la mia tagliò. (Sbandato nel vasto, sbocco disperatamente al deserto).
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A colui che colla picca, lento tastando, Cireneo muto, giunse, dissi bieco che lì fosse il mio stare (appena, appena una spenta eco di grida, appena un lontano scalpitio di altrui vita su)
donec eveniat immutatio nostra, lì, stare, su quel ciglio del nulla.

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Eh no! il posto mio vero, quello di diritto mio, lo ritrovai poco su alla terza caduta,
quando sul molle-lucente bucato, panciallaria pacificamente mi stesi.

E chi, col muso alla pesta, s’era accorto d’una così tonda luna lassù?
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Voi dalla costa allato, con quel vostro lumino da morti, spettri vaganti, mi facevate «ohè

Anch’io gridai ohè! ma vi lasciai camminare.

Che luccichii, che punture vive di gemme, tutt’intorno pel bianco! S’io stendevo la mano raccoglievo a rastrello i diamanti.

E dalla vitrea chiarità degli spazi quella luna agghiacciata, quelle frecciate dell’Orsa!
e quegli immobili gridi di creste che uno per uno e fin chissà dove, netti li conti, quegli artigli di roccie in agguato nella vastità così lucida e zitta!
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Che lì, se fai oh! non ti fondi. Lì se fai oh! resti tu.

Questi lacci, questi abbracci molli della primavera, questa amicizia dolce di colli, questo tepore e questo struggimento… A tu per tu, con calmo respiro, così io guardo, padrone, questo bivacco notturno.

Com’era fioco, il vostro lumino compagni e come spenti i vostri rauchi ohè!
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Ohè ohè! m’incitavate frettolosi alla meta ed io ero arrivato.

Ma c’era lì sotto di poco, quel baratro nero con, mia casa, in fondo la morte,
come un letto-riposo, o come un agguato di ladri.
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Ecco, contento di stare, contento del mio ricco abbandono, il mio posto era lì
tra i vostri ohè petulanti a cui appena badavo
ed, occhi di serpe, quell’altro richiamo laggiù verso cui sogghignavo.
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E come mia, a tu per tu con queto respiro con limpidi occhi, o amici la notte! come zitta e lucente.

Epperciò dalle mie membra in culbutta giù per le frane nevose, nel sole,
con ubriaca voce così straripò l’allegria.

Qui e qui! anche quest’altra bottiglia e si faccia baldoria.

Intona, intona tu la canzone che vuoi, dammi il bicchiere che vuoi: io son qui cosa vostra: canto e tracanno.

Giuro che niente v’è più, se non questi occhi lustri di fauni e questo satollo odore di tavola.

E chi, e chi dice che laggiù qualcuno ci aspetta? I tedeschi, i francesi; la guerra? Ci aspetta quel buio e quel gorgoglio diaccio di acqua.
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Oh sì, sono allegro; allegro altroché!

Ma di’, sul barbaglio del bianco, quello stacco, quello spalanco di blu, non metteva paura?

Non ti veniva la voglia di giù (di su) a capofitto gettarti,
per una volta finirla con questo sgomento di abisso dappertutto a inghiottirci?

(E dì… anche tu, anche tu questo riso-ferita dentro? questo essere-essere, questa… voglia di morire?)

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Ma se eri di quelli più innanzi! Anche tu, anche tu stanco sfinito? Stanco da buttarti giù e dire che basta.

A me piace, amico, lo scoppio-scintille del tuo volto-vecchiaia, il guizzo cilestre del tuo occhio dolore.

Quando il pazzo capo, ridendo arrovescio nella lacerazione del riso, tu, padrone, sforzi l’arguzia pungendo.

Allora clamorosamente tutti questi altri, felici, in giro fan coro.
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Mandiamoli innanzi, ohè! ragazzi innanzi! e lasciamoli andare
che si credon allegri, sbracciandosi, d’essere innanzi e d’andare.

Oh vedi che affanno trionfale pel mondo, vedi che matta girandola.

Torrente che schiuma e si perde, fiume che va, che va, che va.

Ma qui su questa proda di blu, di’, qui stiamo bene. La è ben qui, dimmi la foce? Fiume che va, che va, che va. — A me piace, amico, questo sipario-pallore,
finestra per dispetto serrata sulla brigata chiassosa, come chi dà e ritoglie, questo tuo chiuso viso.

A me piace, amico, questa tua nimicizia improvvisa, questo tuo sprofondare.

Come in un carrozzone di treno, ciascuno alla sua meta, ci lascia.

Siam tutti, si sa, dello stesso paese, tutti in felice combutta, ma ciascuno ha la sua tessera in tasca.

A me piace, amico-nemico, questa inafferrabile beffa ch’è nel tuo riso.

— Però, vedi qui, ch’io ho buttata la tessera; vedi qui, noi siamo insieme arrivati.

Nessuna meta ci aspetta. — Ohè ragazzi avanti! su su, che c’è la medaglia! E chi si guadagna questo bottone d’oro?

Noi, amico, siamo arrivati. Non scenderemo al primo sbatacchiar di sportello; confessiamoci, che meta non c’è.

Ma anche tu, anche tu dunque? Vuoi ch’io ti dica il tuffo del cuore e lo sciogliersi quando, come un ahi, ti sfuggì?

Guardiamoci con serena pupilla e, questo gorgo d’azzurro, su, ci divori.

gennaio ´15

[I. III] DELIRII

(L’equivalente. Trasfigurazione. Idillio. Veggo al di là. Risveglio. I cespugli è bizzarro…)

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[I. III.I] L’EQUIVALENTE

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[I. III. II] TRASFIGURAZIONE

— Ci sono giorni di vuoto che le rose non danno profumo, né gli occhi vedono; la gente degli spettri scorre via per strada senza rumore. 

— L’amico da lungi mi guata con ambiguo giallore; a barriera ci sono fra gli uomini i cubitali cristalli della pazzia.

— Si staccano come foglie in novembre le lucide felicità; par che divalli il mondo in sprofondamenti zitti di ombra.

— E quando in dispetto tu mi rinneghi, e l’altro pronto mi ha sconfessato; quand’egli parla di me come di un morto, e coloro in frotta passando, dinanzi alla ronzante carogna si tappano i nasi con rapide smorfie, allora come una infinita pioggia di grigio dissolvo gli invernali stecchi della mia persona nella desolazione dell’abbandono.

— Sono una macerata bocca che non ha sapore; monotono expecto donec eveniat immutatio nostra.

— Ma il mattino si leva la vasta vampa del vento levante ed umido gonfia le case ed i colli di delirante delirio.

— Nascono a tremiti dorsi molli-frondosi in fughe declivi: i netti scheletri crescono e s’inombrano d’ombra.

— Anfratti di mistero s’ingolfano fondi tra le consuete forme; esorbita ogni geometrica lin ea un’aura di febbre.

— In scenografie di iridi-nebule s’aumenta la cavità degli spazii; la rombante calura via anelando sprimaccia la vita.

— Fremono allora improvvise le inaudite trasfigurazioni, ogni cosa dilata per nascosti pori la violenza secreta.

— Toccano il cielo le biancastre torri del tempio con sollevati presentatarm di giganti, e per l’aereo arco delle campane fluisce rifluisce la mareggiante diafanità dell’azzurro.

— Annerano l’occidente con minacciosi pennacchi i quattro queti cipressi del Monte-Calvario; per l’altitudine degli orizzonti esala l’accovacciato convento un letale tenebrore di cripta.

— Primaverile lago di verde il prato lontano sul colle s’accende di subdole incandescenze di solfo; mugli si levano pel silente paese; han guizzi sardonici i vetrigni occhi di ogni finestra, atteggiamenti di ribellione le sagome dei fabbricati.

— Qual sotterraneo assembramento di démoni freme in concioni per i cunicoli-biscie ed i neri angiporti? Suda per tutti i muri non so che madore epidemico; i visi d’ognuno che passa han piglio di disperata risolutezza.
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— Ora il mare solleva solleva…. verticale ora solleva la sua compatta pianura con terribile blu; ora strapiomba, ora c’invade, ora ricade; ora ora il mare sotterra tutta quanta la terra con terribile blu.

— Ma, larga e diritta, questa strada maestra par ampio-scandita da marcie d’eroi. È riso delirio il contorcere pazzo per le chiome degli alberi per le bandiere dell’anima.

— Scavalco e m’addrizzo; fermentano gonfi gli sdegni, rompono come gridi i bagliori, a colpi di spalla crollano per immensurabili frane le strutture dei secoli.

— Allora è che sprofondo per le luci bislacche, aereo e nuovo per gli abissali echi.

— Di là, di là dai mari lontanissimi rombo ronza il cataclisma agli orli; ebbro nell’ebbra ebbrezza mi libro della dimenticanza.

— Vi sono spazi senza speranza, vi sono vie senza le mete, vi son sprofondi senza sostanza, sponde non ha la dimenticanza, è un ricco dono ogni abbandono, son tutte sciolte le verità.

— Guizzano sprizzano pensieri di risa, fiottano alighe lentissimi mostri; son tutte morte le verità né so chi mi sono.

— Perchè giorni vi sono di vuoto, che gli errabondi occhi non veggono e scorre via per le strade la gente spettrale;

— aereo e nuovo oggi non so chi mi sono e per gli abissali echi delle bislacche luci perdutamente sprofondo.

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[I. III. III] IDILLIO

— Passeggiando talvolta con passi senz’eco per l’opacità del nulla, bimbo su rena, per ozio mi svago, a disegnarlo d’idillio.

— Mi faccio un sentiero di ciottoli su per un clivo, e in fretta, sopra e disotto, ci stendo a scalini le terrazze di olivi.

— Ci sono a lato in riga, le selve dell’erba nera; agli svolti per la serena immensità i dolcissimi dorsi dei colli.

— Le casettine a crepe con chiuse-verdi le imposte, le abbandono deserte, com’esca, all’amo d’una redola-lenza; le processioni ostinate delle minute formiche le disturbo curioso col piede.

— A valle divallo un silenzio come una nenia di quete, ma se il ticchio mi salta, gonfio sul capo il cresposo fascio dei rami la soda villana che scende mi dice il nostrano buongiorno.

— Contro il muro m’appiatto, conscio e quasi con risa, a lasciarla passare; — scricchiola giù colle scarpe ferrate, agli scalini traballa, zitto la miro sparire alla gobba del muro.

— Allora, contento, raccolgo le bacche rigonfie e l’asprigno olio ne succio; tocco i ruvidi tronchi, che proprio son tronchi, tocco le aride pietre e mi vien voglia (così…. mi vien voglia!) d’udire il fringuello far di là dal cespuglio l’irruente suo verso.

— Comincia allora il fringuello a strappi il suo verso nell’immobile valle: i contorti olivi reggono radi il grigio velario senz’ascoltare; con estatica rassegnazione tiene il respiro la millenne malinconia.

— Così dalle lontananze ritornano i vaghi disfacimenti di quand’ero fanciullo; riconosco lo spiazzo del colle dove mi smarrivo disteso.

— Quello, quello è il cipresso sottile accanto alla fonte; — e laggiù, laggiù per gli echi era il cane così disperato…

— Oh sì, oh sì questo è certo il mio idillio d’allora, ma bene si sente, ma chiaro si sente, ma troppo, troppo si sente agli orli dell’orizzonte la insondabile ansia del buio.

— Sebbene accada ch’io via non mi curi del disfatto mistero e mago ostinato, vi fìnga un noncalente reale.

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[I. III. IV] VEGGO AL DI LÀ

— Quando la febbre degli orizzonti m’ossessiona giù alle pronte partenze dei porti, dove sbandierano addii le laceranti sirene e grugniscono al levarsi, le ancore, di felicità.

— Gonfia rigonfia il desiderio come la incandescente calura nei delirii d’estate.

— Allora improvviso lo sgomento delle squallide consuetudini, dietro a me con ansimo scava il pantanoso vallo della repugnanza;

— in scatenato fremito, balzo nell’ondulante scafo, sciolgo la gòmena, armo i due remi e ritto vogo l’impeto della vastità.

— Oh va! Oh va! rompe la prora il blu, scavalco sull’immensità, ciò che già fu, si fu, il mare non è più, s’avanza una città.

— Sciacquo alle falde degli altissimi cumoli; a picco si spaccano i bianchissimi monti, e veggo pel lustro smeraldo, allora, al di là.
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— Veggo al di là, veggo al di là la strana città, ch’è tutta d’oriente e di selve, tutta di ricco abbandono, calda e beata di nudità.

— Oh va, oh va! molle-distesa serenità, occhi languenti di voluttà, fiumi fluenti di felicità, brezze tepenti di tranquillità…

— Rompe la prora pel blu, ciò che già fu si fu e niente non è più. Oh va oh va oh va!

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[I. III. V] RISVEGLIO

Vagolo talora per le quietudini delle assolute bonaccie, ed il sotterraneo tuono m’arresta della liberazione.

— Passano nell’alta valle le annunzianti fanfare; la pendula immobilità dell’attesa è insostenibile.

— Si fa allora pei silenzi una vasta magia: già sento per le bassure del buio, inesauribile assalto di cavalloni, disfrenarsi il respiro.
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— Or ora erompe il canto imperiale; or or ora disnubila la diafanità serenissima…

— Ma ecco tu per il braccio mi scuoti; mi conduci sfogliando il giornale per le incomprensibili quotidianità.

— Seguo la paziente cavezza che mi strappa pel morso: veggo ad una ad una le cose d’un tempo: le case gli amici, le botteghe le idee, come quando ozioso frugo per gli sprofondati ricordi.

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[I. III. VI?] I CESPUGLI È BIZZARRO…

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— I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima: appena una fantasima…. Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

— Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre; i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente sbarro l’anima di dentro, e «guardare» è tollerabile.

— Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola dell’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabile mitologia.

— Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesanti draghi, gocciolanti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

— Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.
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— Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe con spaurite d’ali. Verso dove? È con occhi di spettrali lontananze.

— Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degli impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti crosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame, con niagara vasti vegetali. Son rovesci a picco di fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.
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— Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno più saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come un albero tropicale dei veleni: — lo starnazzo triangolare delle spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto e che deserto! Non si vedrà un vivente, nè un insetto per trecento miglia di desolazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza croscio, senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.
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— Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio; piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei fantasmi favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. — Fuori d’ogni tempo «guardare» è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.
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— Però, però, lenti, non basta per la sera andare? Subito le chiuse della valle son profondi golfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

— A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!
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— Quanto alla via e dov’è la via? È un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la mèta è il nulla.

— Sono i paesi di fosforescenza non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che risplende, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per la fluidità. — E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.

[I. IV] FRANTUMI

(Limite. Rimpatrio. Tregua. Deserto. Carezza. Rifugio.
Prosa a… Deriva. Non so com´è. Domande. Fuga)

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[I. IV. I] LIMITE

— Ci sono angoscie rapide-vaste come bitume di nubi sopra le valli.

— Avanza avanza…. Avanza! ed ogni cosa è nera. — Ogni cosa è chiara, ogni cosa è nera; ogni cosa è giorno ogni cosa è notte. È notte. È giorno. È chiara… è nera… è nera nera e buia!

— Così è che chiaronero, chiaronero per gli affannosi crepuscoli preme il respiro l’ottuso cielo dell’impotenza e tutti gli sbocchi son sbarri biechi, tutti!

— È come un martello, l’assillo, il pungolo, come un martello sordo l’insopportabile pungolo della maledizione.

— Ci sono, ci sono angoscie rapide-vaste bitumi d’anime martelli pazzi che oltre, via, oltre mi cacciano l’ansimo dei valichi e gli spalanchi dell’ombra.
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— Allora per l’ombra crepuscolare (avanza, avanza!)… allora chiare nere nell’ombra (inghiotte, inghiotte!)… oltre gli sbarri dell’impossibile sono possibili le più impossibili possiblità.

— Svalico i valichi della realtà: — son lingue d’alighe le vostre ancore, son soffi-brezze i vostri muri, è scatenata ogni prigione, è sprigionata la libertà.
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— Ora mareggia l’irrealtà, ora è slegata la schiavitù, non c’è più legge, non c’è mio padre non ci sei tu, ora è disciolta ogni pietà: — rompono febbri di terribilità ed è stravinta la realtà
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— Ci sono angoscie vaste-inghiottenti, ci son bitumi d’ombre di cumoli, che la pazzia trabocca le dighe (rompe trabocca, è nera la piena!) che la pazzia ghigna e dilania, romba e gorgoglia ohimè.

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[I. IV. II] RIMPATRIO

— Quando coi neri voli, abisso silente, ritorno notturno dai Limiti
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— ha il petto ansimi rauchi lentissime onde, e sono bui, gli occhi, pozzi di smarrimento.

— Torbido nell’agonia, è il mio corpo, enorme come di là dalla fine di un profondo mondo nel mare delle caligini.

— Pendono i densi fiati per i tetri Imalaia delle moribonde incertezze, ed isole sommerse rompono tacite-vaste o le vette o le nebbie.
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— L’universo delle angoscie è disteso allora per la bieca immobilità; insensibili voli d’insetti sono le cateratte dei cataclismi.
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— Così i millenni fiottano delle tenebrose doglie, la vita è negli abissi un appena-respiro di sonno…

— Ma quando coi neri voli ritorno notturno-silente dalle lontananze dei Limiti, si levano carezze lievissime brezze, e la dolcezza disnubila.
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— Pullula a volte un pianto come una tepida acqua nel bosco; è buono il disfacimento come riconoscenza d’amico.

— Allora sono le cose, paese di dopo l’esilio; palpo colla mano i colli; il mare e le strade, smarrito li accarezzo come i visi che bacio.

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[I. IV. III] TREGUA

— I giorni della risoluta disperazione con viso di pietra, fisso la ostinata immobilità.

— La voce di chi mi parla, viene di là dal muro.

— Ma nel quietissimo porto dopo il tramonto l’acqua è lustra di madreperla; un vapore rosso ed uno nero fan giù, pei lisci riflessi, i liquidi serpenti.
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— Le cose dintorno son tutte di piuma; scivola a specchio che appena lo senti, un solo piccolissimo guscio.

— Allora è come quando ha piovuto che il mondo, subito par nuovo.

— Si fanno dentro, i pacifici scioglimenti e se mi sdraio la mansueta onda che appena fiata par nella siesta quando il cane, accovacciato, mi guarda, e, buono, a respiri mi lecca.

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[I. IV. IV] DESERTO

— Il tempo dell’adolescenza fu gonfio-ricolmo della calda amicizia, — quand’ero terra d’americhe ricca che avido ciascun vi segnava il suo pezzo.
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— Adolescenza primavera-fervenza d’ogni possibilità! Sei come un bosco; popolosa città. Tutte le strade son buone, tutte le mete! e ciascun che t’incontra fa ressa, vi batte vi cerca la sua.

— Il pregio d’ogni idea era allora d’esser bandiera: ci fasciava a schiera, si marciava in frotta; l’entusiasmo era pane che si spezza alla cena.

— Non v’era né mio né tuo; le case come gli affetti, senza le porte: abbraccio, la nostra sorte, e volersi bene, respiro. Vi furono amici come gelosissimi amanti (vi furono odii e rotture). Devozioni fino alla cecità.

— Ma buono sentir nel buio sbattere cuori, buono l’amore, fraterna la calca! Pullula il mondo, non c’è sabbie di disperazione. — Il tempo dell’adolescenza fu gonfio (ohimè) della calda amicizia…

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[I. IV. V] CAREZZA

— I ripugnevoli tempi che lo sgretolo-frana degli abbandoni, m’ha giù inerte varato per l’immobile belletta del nero disgusto,

— spente onde, giungono a volte le lente sere della malinconia, che vado zitto per l’ombre e, tutto é scordato.

— Quasi in dolcezza, dentro si levano i radi gemiti come il notturno canto del chiù.

— M’allacci allora senza parola, t’appoggi allora così lievemente, che appena ti sento, appena…. Vuoi dir che ci sei?

— Ma torno piano dalla lontananza, ma tocco piano il dolce viso, guardo i fedeli occhi che guardano me.

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[I. IV. VI] RIFUGIO

— Son così punta di lama gli occhi che incontro! I sorrisi-saluto li veggo a volte sogghigni.

— Come i galeotti rasati striscio sgomento pei muri e a tutti gli spigoli urto.
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— Smarrito arrivo allora al tuo sereno cancello come a un verde porto, nell’al di là;

— ma entro smarrito allora pel tuo verde cancello come nel queto porto, della serenità.

— La fresca frescura di casa ci sta, sei come l’acqua chiara che diguazza alla spiaggia laggiù.

— Così così mi ruscelli di chiarità, che il ghigno maligno del mondo io non lo sento più!

— Parli così minuto di cose bambine, tutte nuove e piccine, che l’altre vecchie e buie, lontane mi paion di un mondo che fu.

— La storia-gorgheggio del tuo lucherino, verde e giallino, che appeso al muro, i passeri chiama di là dal giardino, così innamorato così desolato della sua prigionia,

— val bene, oh val bene la triste storia che non ricordo più!

— Il tuo quadrifoglio nel suo vasettino, così delicato così coronato di fulvo e verdino, che chiude a sera l´ali di farfalla sul gambo lungo e spoglio,
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— val bene il nero con loglio che ormai non strappo più.

— Ormai il dolore fu; per me non conta più; sopra i giardini, dentro l’azzurro, è come un vago fumo che fa pennacchio giù, — o è poco più dell’ombra (nera un po’), di quelle nubi sole di lassù.

— Ora anch’io sorrido in chiarità, e che ho un tesoro verde che sei tu, un porto chiaro-queto al di là, una serena riva tutta per me, riso-rifugio chiarito di te, zitto lo sconderò a quei laggiù.

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[I. IV. VII] PROSA A….

— Le tue domande sono i perchè dei bimbi: l’acqua di fonte colla sua borraccina ti fa venir sete, e subito vi tuffi la mano. Allora l’acqua di mare così tanta com’è, mi chiedi perchè non ti vien voglia di bere.

— Ma nell’acqua di mare quelle biscie chiare quando è in bonaccia e il fondo, di su dagli scogli, lo vedi com’è, quelle anche ti piacciono che non quetano mai.

— Però le cose che piacciono a te son quelle che ecco ci sono, e non ci sono più: la spuma che ride via…. e c’è di nuovo il blu!

— Le bolle di sapone quando le fa la bimbetta del giardino di sopra, così lustre-leggere, così zitte-farfalle! le segui a respiro sospeso e quando subito scoppiano batti le mani.

— Le gioie improvvise che non sai perchè, quelle subito t’alzi e scintilli; ma è più di tuo gusto quel riso sereno di quando hai pianto, che io t’accarezzo.
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— Le lacrime senza ragione quando non c’è nessuno, che poi io vengo e gli occhi gli hai di rugiada ed il fazzoletto lo scondi, sono le più buone lo so, ed il cuore è subito come quando ha spiovuto.

— Ci sono i giorni delle lente malinconie, guancia alla palma sul tuo sedile, ma così dolci ma così lievi che la rondine ti guizza vicina col suo grido che punge e via se le porta.

— Le cadenze lontane delle canzoni, che si sentono non si sentono, subito ti fermi in ascolto. Credi che non sappia che ti fa lacrimare sola da te nel tuo letto, quando vengono la notte sotto le finestre zitti, e la serenata si leva?… — come un bisbiglio sì leva, come un bisbiglio ne va.

— Le cose che piacciono a te son quelle che ecco ci sono e poi non son più; i pianti che inventi al piano sono domande brevi, sussurri di notte, lamenti di brezza, e le dici ripeti da te tutta una sera, perchè risposta non c’è. I tasti bianchi e neri li tocchi appena appena; allora, se entro, tengo il respiro, cammino da non svegliare.

— Quella musica così primavera, canto d’angioli così da svenire, all’alba di pasqua rugiada la musica che dice nel Faust: «or la natura si desta all’amor!» m’hai detto una volta che è la più bella, che proprio tutti i giardini mettono i fiori.

— Ma le musiche che cerchi da te, quando dall’orto t’ascolto (vengon da sé, non si sa come!) muoiono di dolcezza subito, c’è dietro lo sconfino dell’ansia. Son come lucciole, le accendi e le spegni, le appendi a un filo lucente nell’infinito. — Son quelle perle di nubi sottili, soffi dell’iride, perline di velo nel tramonto sereno qua e là, che ecco ti volti e non ci sono più.
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— Sei così soffio, così iride-soffio, e cristallo sottile che mi dai la vertigine della fragilità. — Ma la ragione che t’amo è che dilati a volte gli occhi di disperata passione e la morte ci passa vicina. Dici con voce di groppo allora: — Abbandonami! Fammi del male perchè io sia perduta. Battere il capo nel muro! Ho voglia di disperazione.

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[I. IV. VIII] DERIVA

— Mi piaccion gl’indolenti meriggi ch’una lentissima nenia ti scande la siesta, e, scavi deserti sono le piazze in barbagli.

— La impalpabile nebula assonna colli e marine, d’una bianchiccia malinconia: par che tutto si culli in una placida culla d’insensibilità.

— Armo allora piano la pendula vela e senza fiato di fiato, immobile scivolo nell’immobilità.

— Sciacquan sospiri di liquidità, fiottano l’ore dell’eternità, soffice lenta ogni cosa si sfa, e in lisci silenzi d’impassibilità si va non si va.

— Sono le spiaggie di là dai pensieri, son gli orizzonti di là d’ogni meta (molli le scotte, lasci il timone, la vita abbandoni…) dove si sia nessuno sa più, dove si vada nessuno sa più, cosa si voglia nessuno sa più, che il mondo sia nessuno vuol più. Alla deriva, senza memoria, senza respiro, sospesi in nulla si va non si va, per l’indolente insensibilità.

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[I. IV. IX] NON SO COM’È

— Quando la sera mi corico, è così placida l’ombra e così buono il sonno! Ma ora com’è, ora com’è? Nel buio un gemito, gonfia con freddi brividi.
Non so com’è: nel nulla nero un gemito!
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— Si fanno andando a volte i pacifici discorsi; e dico fra me sereno: «Siamo due amici». Ma ora com’è, ora com’è? Ridi improvviso un riso strano e chi tu sia non so.
Non so com’è; ma chi tu sei non so!

— Ci sono luoghi su per i colli, così belli e queti! Mi quetano l’ansimo, mi danno respiro. Ma ora com’è, ora com’è? Si sfanno inquieti, non li ritrovo; – palude mobile son sprofondati.
Non so com’è: paurosamente sono mutati!

— Né triste né lieto par di conoscermi: – vivo i miei giorni. Sopporto l’andare e duro il durare; qualcuno l’amo. Ma ora com’è, ora com’è? Rompo catene, butto ogni cosa son chissachì, – non amo più.
Non so com’è; lascio ogni cosa, non amo più!

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[I. IV. X] DOMANDE

— A volte si va io e te con sì deciso passo per via! Zitti, il tuo viso è intento: non si vede la gente, e diritti si va.
Fiera la risoluzione cadenza d’accanto uno dué, uno dué! Siam pieni e d’accordo: siam pronti.
— Ma pronti a far che?

— Alla porta di casa la risata del campanello lacera talvolta così improvvisa lo strateso spasimo dell’ansia! Per me, per me! Ma non è mai per me.
Sul tic-tac della febbre l’ora che scocca par sempre in sgomento la mia. — Ma ora di che?
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— Mi piglia uscendo talora ai crepuscoli per le vie stranote, il bizzarro ansimo dell’avventura. — Subito butto il mio nome e sono slegato; a mille miglia spatriato, e chi si ricorda o di me o di te?
Aspetto allora l’inaspettato, cerco ricerco e vado, voglio veder che c’è. — Ci sono strade, c’è giù un porto, ci sono le navi ci sono i moli; e in cima ai moli un orizzonte. Ma all’orizzonte, chissà poi che c’è?

— I paesi che sogno la notte non ci son stati mai. Ci torno ogni notte e non ci son stati mai. Son paesi di mai, tutti di ombre e di lai! E me li sogno quasi ogni notte chissà perché!
Ecco: c’entro di notte e vi attendo un che!… C’è una strada zitta, e in fondo… non so che: io lo rincorro sempre, però non so dov’è. — Così è! Così è! Ogni cosa si sta lì così com’è, par che inerte aspetti quel che è. — Io solo, io solo, l’angoscia mi dilania, non so di che!

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[I. IV. XI] FUGA

— Le paurose bonacce dell’immobilità, che magico il mondo pare un vano rispecchio di lago: è, non è? e il respiro è sospeso,

—improvvisa le spazza la frescata levante e l’ansimo degli spazii mugolando dissacca.

— Fugge la bianchissima spuma, innumerevole riso; verso i ponenti allora trionfa in regali beccheggi la più nuova nave.

— Mani in conchiglia, presto, alla bocca: Nave mia nave ohè! nave mia nave ohilà! – Lustran per l’acque i fianchi neri: proprio ne sento il risciacquo, proprio le sartie le conto… con balzo allora pel bordo l’abbranco! Torreggian gonfi i pennoni e fiuto catrame. – Così mi distendo in coperta e lascio che vada.

— Addio addio voi bocca aperta laggiù! Addio il padre e la madre, gli amici l’amante! prigioni decrepite, vecchissimo mondo. Panciallaria mi stendo in coperta e tra castelli di vele le nuvole pazze fuggono.

— Ohi toh! e credevano d’avermi inceppato! Con cambiali d’affetto, collegi di consuetudine, mi trattavano per credito e debito. Ma l’effetto è un pallon di papavero, e il vento via lo soffia! Sì forte crepitano, sì tese gemono le rande e i fiocchi, che i vostri fievoli gridi laggiù, fazzoletti agitati nessuno li ascolta più. E addio, addio!

— Che strepito il mare, che balli dai bordi! La pianura turchina, s’innalza e s’inchina; vi solchiamo una scia di spumosa allegria, e scarmigliati si va.

— Tutto il mondo è scarmigliato, l’universo è liberato, ogni schiavo scatenato; il gabbiano grida ohé! e la ciurma canta ohilà!

— Allor giunge l’al di là, veggo rive con città, corre il mondo per di qua: vien la Spagna vien l’Australia, passa l’India con il Gange, l’Imalaja veggo già (chi ci pensa a voi laggiù!) tutto selve tutto brezze, è il paese-libertà.

[I. V]  I MIEI AMICI DI QUI

Per la tristezza ci vuole un´amante che ti rassereni: ti dice cose così di primavera! Ti fa scordare. Però la mia amante, è la solitudine. – Pei giorni allegri tutto è buono, e il mondo m´è un´uscita da scuola. Tutte le cose mi son camerata: faccio baldoria con tutto. – Gli amici ci vogliono pei tempi andanti.

Pei tempi andanti io ho quattro amici, ma non si sa se mi vogliono bene: son come quattro quieti luoghi in cima a questi colli, quattro soste all´ombra sempre quelle, da cui si vede in giro. Ci vado come capita, ci sto come si sta accanto alla fontana a sentir l´acqua: passano l´ore buone. – Sono quattro amici, come dire? un po` indifferenti: amici così… per i tempi andanti.
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Però il primo s´è fatto un altare sopra el mare: dico davvero proprio un altare di rose rare come ceri o roghi accesi, con dei neri cipressi per candelieri; – e, come un dio, sta di lassù tutto il dì a guardare.
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La terra è tutta sua e tutto il mare, e mai non pare sazio di mirare. Proprio non fa che guardare minutamente, amorosamente con curiosità l´addobbo, in giro, dell´immensità. Ma piano piano, senza voracità: si gode, il mondo a spicchio, che di più fa male! a cosa a cosa e l´ama perché è là, che se domani non vi fosse più… ormai in verità ci sia o non ci sia è poi la stessa cosa. Si posa, si riposa sopra le barche a picco che passan giù nel mare: è ricco di ironia e d´infantilità. È uno che s´è sfinito di pensare, di dipanare dentro il suo dolore che forse era troppo. È sereno con a volte un groppo. È come uscito fuori, lì, a guardare, dopo un temporale buio.
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Così, quando sono stanco di disperare, che proprio non ne ho voglia più, salgo da lui anch´io a guardare. Ci si mostra («e guà, e guà!») il mare blu con le sue risa bianche, le vele stanche o gonfie via. Sempre, quando vengo via mi sceglie la sua rosa più odorosa. Così si scaccia la malinconia: che è quasi un´allegria la vita a cosa a cosa.

– Ma l´altro è una tristezza vaga abbandonata, proprio una desolazione; però senza ragione scoppietta di gaiezza a quando a quando. Senti non si sa che disfacimento, senti ogni momento, con lui la morte e la rassegnazione; è uno che è arrivato, è scivolato giù alle porte della disperazione, e senza ribellione batte, e ci echeggia lento il niente: il Buio. – Allora, ecco ti si volta con malizia, come certi moribondi: le cose che scintilla, sono pensieri fondi: – non sai se è lì che mente, se è tutta una furbizia o proprio è un che affondi, con serenità.

Così è che dà con la generosità sfatta di chi ormai se ne va: dà come chi più non sa tenere, per il macabro piacere di via disciogliersi. Gode dei suoi pensieri come chi più non ne godrà; le bellezze che dice son più belle perché subito se le scordarà, e i suoi canti sono pianti o son come preghiere subito disperse per l´immensità. È come un incensiere che brucia le più leggere essenze per la cavità dei cieli. È un ricco che dà con triste liberalità per poi restare solo in povertà. – Quando gioca lento con gli accordi, fa cento fuggitive meraviglie che nessuno più le udrà: nenia di su l´armonio all´impensata la bizzarria malata della sua lauta malinconia: proprio una malia vaga l´avviluppa, il cerchio dell´incanto lo sovrasta e par la sua soffitta, non sai che reggia all´asta. Così se sono stanco di catalogare, di far la notomia a questa vita mia d´avaro a chicchi, mi metto anch´io con lui a fantasticare, si vuotano i forzieri dei sogni e dei piaceri: non son piaceri veri, son sogni oppiati: ma il mondo è un mar di nebbie colorate, la vita non è più a spicchi: – siam ricchi, siam straricchi… e quasi consolati. – Le nubi che si veggon lassù dalla soffitta, le son così dorate! Certi Walhalla bianchi sconfinati! Ci si sta da eroi distesi contro il cielo, laggiù all´orizzonte! – Codeste nubi son proprio un ponte sul mar del niente. Son fatte di niente, ma son così opulente: montagne di cielo, porte del paradiso! E sempre io faccio buon viso a questa illusa vita com´un velo che sotto c´è la morte.
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Il terzo io non lo veggo che la notte; par ch´esca dalle grotte come i pipistrelli! È uno che ha rotte tutte le costumanze tanto la vita gli è dura, atroce. Così lo cuoce, che gli è insopportabile: – un soffrire angusto, un patire vile da non potersi dire. – Allora, quando l´odio distrusse la speranza, tutto affondò nella dimenticanza, il mondo gli si sperse in lontananza… Ne ha ricordanze come di ceneri e fole. Queste cose che avvengon sotto il sole, le guerre d´Europa e che so io, gli paiono parole e, proprio, scipite fole. Non dice né no né si; e se gli di´, poniamo: «una vittoria!» risponde scialbo: «Ah sì?»
Ma i sogni, proprio i sogni, quelli che si fan dormendo, non c´è altro ch´egli agogni, e lì davvero è il Re. Che se cominci: «Stanotte ho sognato…» subito trattiene il fiato, è tutto a te. — A condurti nei paesi strani, dove gli spettri vani fan così grottesche carovane, non c’è che lui il Re. Di tutto, sa il perchè, e niente v’è che non dipani. — Gli antri d’eco buia gli son noti, s’aggira fra i meandri dello speco che gli dici quasi fosse una via di questa mia città. La. bizzarria più pazza gli pare verità. Ormai per lui il sogno è realtà.
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È come uno che si sia ammazzato, per non poterne più. Per cupe apocalissi ei divalla giù: s’è come rifugiato tra spettri ed ombre. Ha l’anima ingolfata in catacombe di mistero nero; in cripte giù profonde gli sta nascosto il vero. Di simboli e di sigle è fatto il mondo; a un segno ti risponde la corte degli spiriti che dentro si nasconde. — Nell’onde dei silenzi senza sponde ci venta vasto il vento, ci romba lento il rombo, l’abisso si sprofonda della divinità. — L’anima si gonfia in vastità, per l´immisurata immensità fiotta il mar vivente della eternità.
Allora il Re dei sogni intona un canto: «santo o santo o santo!». Ritto nella notte che l’inghiotte, fa un incanto. Canne d’argento enormi si levan sopra il monte ch’è più alto, un organo di basalto, tra rocce e vento, ci romba lo spavento degli osanna: — dilatasi il concento per i mondi in echi furibondi, o lento fa un lamento piangendo di pietà. Trema l’immensità della passion profonda, si sfa la gemebonda umanità per l’onda senza sponda.
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Così è che quando, il quotidiano andare, queste chiacchiere solite del giornale, di morti e di sconfìtte son stufo di parlare, mi metto anch’io con lui gli spettri ad evocare. Si va per luoghi bui, dove io mai non fui: mi pasco di paura dietro a lui. — Ma accade che il sereno sopra a noi, sia così mistero! Allora ci stendiamo e guardiam su. Il nero è tutto d’occhi e guardan giù; — s’alzi la mano, quasi ti par che li tocchi….; e sono invece chissà dove su! Allora a miglia, di miglia mi misura il dove; da dove la luce muove che poi quaggiù ci piove; ma son conti così pazzi da impazzire. Son lì che li tocchi e sono i lucenti sbocchi, sono i zampilli pungenti come spilli dell’infinito che non può mai finire. — «Per esempio, mi dice, di là dalla Via Lattea, che son mondi incalcolabili, si veggon altri cori di mondi distantissimi: e sono non più di pori dell’universo…!»
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Quasi io mi sento sperso, quasi non son più nulla, non conto più. Ma questa vita quando mi viene ad ira, quasi che si respira con questi sogni che si posson sognare e questi incanti strani da incantare; — eh sì, si può via sfogare per gli stellari spiazzi di lassù.

— Ma col quarto si scorre la terra arditamente: sferra certe pietrate contro la gente, quando c’insegue! Le mani in tasca con occhio di sprezzo, ti guarda con occhio tagliente. Cammina deciso per strada come all’assalto, e, sempre, con un vezzo nel braccio come chi scagli il sasso. — È, infine, non più di un ragazzo di sotto i ventanni, ma è un malanno di barabba sempre a spasso, bello e svelto che di più non ve n’è. C è giorni che fare il borghese, proprio non è per me: — s’esce allora del paese a far per la campagna d’ogni sorta magagna. Proprio se ne fanno di crude e cotte, e a chi s’oppone gli si minaccia botte…. e qualche volta gli si danno. Quanto ai pollai si scassinan la notte: le galline stan lì chiotte a mezz’aria accovacciate. A volte fan starnazzi da dannate, pazze fuggendo via; ma se stendi il braccio piano, una ne stringi al collo o due, e via a rompicollo per il buio! Il domani si fan le ribotte, insieme all’osteria. — Però la maggiore allegria non è coi pollai: è quando si bruciano i pagliai nel mezzo della notte, che i cani cominciano a latrare furibondi e senti per i casolari le voci andare rotte: la gente per gli echi lontana chiamare e poi venire a frotte. — Allor (chi se ne infotte?) lesto dietro un cespo, ti nascondi fuor di pesta: ti godi la festa delle fiamme, l’ombre ratte rosseggianti e il bailamme degli affanni, col cuor che ti batte e certi scoppi di risa matte. — Stendersi sotto una siepe, dopo una scorpacciata di frutta rubata, e il villano che strepe, giunto all’impazzata, e il vano ansar dei carabinieri, per l’intrico dei sentieri, in fretta sguinzagliati, che credon già d’averci in mano ammanettati, davvero non c’è più sano piacere! Rossi e neri, pel pendio li vedi ruzzolare, e quell’altro, per dell’ore, giù a gridare! Noi al fresco, un po’ col batticuore, sottovoce a commentare.
È così bello a volte meriggiare, all’ombra d’un carrubbo in faccia al mare! L’arso deserto allor ci fa sognare dei viaggi dell’oriente.
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— Si lascia ogni cura, si va all’avventura non si pensa più a niente! — I discorsi che si fanno, son come poterci andare. Si può per esempio svaligiare le banche, oppure assassinare chi ci abbia le palanche. Metterci nottetempo ad un canto di via; uno fa la spia e l’altro molla la revolverata. Allora la polizia, ti fa la retata; ma noi con maestria, si scappa via. Che razza di gioia pazza, allor t’incazza: ti par già l’ora dell’imbarco, fiuti impaziente al largo, chissà che libertà.
Proprio, mi piace questa tua ingenuità selvaggia, questi biechi silenzi e questa malvagia freddezza: l’improvvisa ostilità. La sicurezza della tua immoralità, sperona la fiacchezza della mia complessità. La tua risolutezza e la mia incertezza disperata, si dan fra loro mano, — del resto in modo niente strano. Fra tutti sei proprio tu, quello che amo di più.
Ah sì! piantare finalmente questa vita chioccia, succhiata a goccia a goccia; mandare all’accidente tutta ‘sta gente sciocca che ci scoccia. — Il bene e il male; tutto uguale! Darci alla macchia a viver come pare. Di tutta la morale, farne insieme un falò…
… Quasi che anch’io ci sto. — Però, il vero perchè ch’io vengo con te, eccolo qui cos’è. Non è, ohibò! quel tranello quell’intrico d’amicizia che mi tendi con furbizia. E — questo è! — quel nemico d’ogni amico che cova dentro a te. È quel tradire bieco, queir odiare cieco che m’attira. — C’è una coltellata, ch’io veggo a tratto luccicare, nel tuo occhio diaccio: e mollamela ben data, quando ti capiterà! Va là, e va là; il mio braccio non se la parerà.

— E questi mi son gli amici per la vicissitudine del tempo andante: pel tempo di tristezza io ho un’amante, che è la solitudine.

[I. VIII] BISBIGLIO A VESPERO

— E che vuoi dire? È tutto detto ormai. — Andiamo accanto per la sera queti, zitti,- come in una culla di bontà.

— Però questo non dire mai, fa groppo, amico! C’è non so che intoppo, dentro, che non lascia dire.

— Perchè, se dici, è un pò un ubriacamento. Uno si spende con facilità; ma poi nel vuoto li punge il tormento.

— Oh se lo so! Si soffre allora di profanazione…. Le cose fonde non si posson dire. Non c’è che dire le inutilità.

— E già: non si può dire la disperazione! Si dice, si ride, in fine si fa ciò che agli altri più cale: gai si gira attorno all’essenziale buio…
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— Oh amico! e questo è il male atroce della solitudine in mezzo degli uomini. — Che insopportabile soffrire essere sempre come agli altri cale, ma non poter scordare, non poter mai dire.

— E dunque ormai che vuoi tu dire? È tutto detto. — Andiamo queti per la sera accanto, in questa zitta culla di bontà.

[I. IX] CIRCOLO

Quanto al giorno, troppa questa luce! smarrito ci svolazzo come la civetta. Per qua, per là, fan lapazza mascherata, gli uomini le cose: ci urto come a spigoli! E che son mai, qui in mezzo io? Son uno che si tiene dal piangere. Tutto d’ammacchi e angoscia, cerco così i cantucci e le vie deserte.
Il mio giorno lo passo a sospirare la notte.
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— Ma, solo, la notte! e chi la può vegliare? quando si sbenda ogni piaga. Perchè non si veda c’è il buio, questo mio viso di morto; e il sonno c’è per non più sentire.
Ma, sciolto, si torce ogni viscere; ogni vergogna si stana, quand’io più non comando. Allora il mondo fa orrore: una carcassa che brulica. Allora il mondo profondo è una piaga profonda, e fa orrore e pietà.
Così la luce nasconde: è una benda; ma il sonno è un oppio appena, per questa cancrena! — La mia notte, in ansia la passo a sospirare l’aurora.
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— Di che desideri, pura, trema l’aurora, sempre di nuovo sorgendo? Dal profondo sepolcro Lazzaro ecco, ad ogni mattina! Fresco subito il cuore, come le cose è di perla; vergini, son come di un bimbo le membra. — Chiara la preghiera, allora, si versa come la fontana; ad uno ad uno gli oggetti (son d’aria?) corro a mirarli; presto ad una ad una le piante con palma amorosa le palpo: son vive! Le lucide foglie le bacio. Oh! qui ancora, tu, sogno? qui ancora, realtà?
Tempo di germoglio, o aurora di speranza, la tua promessa non è compimento? il tuo limpido fiore, più dolce di un frutto. — Oh, mai maturasse il tuo frutto; sempre sospesa, la serena aspettanza, per sempre durasse!
Ma il giorno ch’è nella aurora, sempre è l’atteso; sempre ohimè! sull’aurora son certo di un giorno.

— Cosi pel vivo mattino è agile andare; essere il nuovo padrone del nuovo giardino!
Svelto, con occhio cordiale, ispeziono la vita; per dire: «va bene!». Su, giù per le vie, le mani che stringo sono sigilli; i discorsi che ascolto sono persuasioni. Allora le risa, gli idilli, la gente che va, le faccende; i carri, i mercati, l’umido cielo fra i tetti e le corbe colme dei frutti, sono aperte parole; gli occhi, i cuori, i segreti, tutti son chiari poiché la brezza respira; gli intrichi del mondo li corro come i viluppi dei vicoli.
O mattino felice, alveare! Leggere le opere son come giochi; come un riso d’argento, sfuggono all’uomo!
Senza pensieri, mattino quando sereni si va e non si chiede la meta, oh mattino fanciullo come presto ti rughi!
Così, cipiglioso, ti dai l’aria da grande: appena il confuso compagno, lo saluti col cenno! e la gioia è lontana come il tempo di scuola. Finché opaco, tutto di cruccio, ciò che tu fai è comando; dici: «questo è davvero!» urtando mi dici: «ognun la sua via!»

— Allora la strada che imbocco, lento, è la mia; queta, tra i muri degli orti, un ciuffo di canne, bisbigliando ci spia: i cespi di rose, bianchi, qua e là, si sfogliano giù; — e va al camposanto. Quando, pian piano, ci arrivo, non entro, mi sdraio, fa buono, al sole aspettando, zitti, di starsene lì. — Netto è il silenzio così, che un trillo lo punge; e l’aria è pulita. I dorsi dei colli, gli ulivi, tranquilli fanno da siepe: — il mondo che fa? fa ressa al di là. Se, vago, lo guardo, con gli occhi di oggi ci veggo il giorno di ieri.

[II.VIII] COSÌ LENTO ANDANDO

— Così lento andando la tristezza m’è così deserta! Oh come pesa, oh come chiude questo mantello nero! Giù tra gli scogli il mare appena fiata, fa gluglù, è una bestia che dorme. Finché dal profondo nero orizzonte qua e là veggo le quiete stelle, così lontane e fuor di cruccio! Proprio; è un altro mondo! che subito mi fermo e d’ogni pena mi stabarro smemorato.

A guardarlo questo vago latte delle nebulose che dolcezza! Così vago che ti stempra, così lieve che non hai più corpo.

Qui, a guardare null’altro è più che il pacifico stupore. Perchè, che cosa dire? sono segni senza paragone; sono al cuore i segni di un profondo senza nome. Non c’è che sprofondare.

[II. X ] A TAGLIARE GLI ORMEGGI

— A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia: però non si sa dove.

— Sia dove sia! il vento mi strappi via della disperazione!

— Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento! Però a cercarmi nella pietà stringo le mani in contorcimento, non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.

— Non v’era luce nell’opacità! Curvai le sbarre di questa prigione; verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla!

— Ormai non ho più nulla da via buttare, son nudo fino all’anima, non son che un’anima, tutto son fatto di tristezze amare, e di sgomento. Senza meta, e per disperazione reggo contro me in ribellione, ma il nulla fa spavento.
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— (Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai, non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio, qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre del corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo spento nel disfacimento della morte).

— Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.

— Mi abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; — di qui qui qui all’eternità!

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