Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Luigi Pirandello

Novelle per un anno I, III, V

1884-1936

Testi del primo volume, Scialle nero

        1. Scialle nero 
        2. Prima notte
        3. Il fumo
        4. Il tabernacolo
        5. Difesa del Mèola
        6. I fortunati
        7. Visto che non piove…
        8. Formalità
        9. Lapo Vannetti
        10. Il ventaglino
        11. E due!
        12. Amicissimi
        13.  Se…
        14. Rimedio: la geografia
        15. Risposta
        16. Il pipistrello

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1.1 Scialle nero

I

– Aspetta qua, – disse il Bandi al D’Andrea. – Vado a prevenirla. Se s’ostina ancora, entrerai per forza.

Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l’uno di fronte all’altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando cosí tra loro, l’uno non aggiustasse all’altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse all’altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei volti.

Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino all’Università, dove poi l’uno s’era laureato in legge, l’altro in medicina. Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all’uscita del paese.

Si conoscevano cosí a fondo, che bastava un lieve cenno, uno sguardo, una parola, perché l’uno comprendesse subito il pensiero dell’altro. Dimodoché quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio di frasi e seguitavano poi in silenzio, come se l’uno avesse dato all’altro da ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi; entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva mai la tentazione di volgere un po’ il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista dell’aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, che s’accendeva tutto agli ultimi fuochi del tramonto: vista di tanta bellezza, che pareva perfino incredibile che quei due vi potessero passar davanti cosí, senza neppure voltarsi a guardare.

Giorni addietro il Bandi aveva detto al D’Andrea:

– Eleonora non sta bene.

Il D’Andrea aveva guardato negli occhi l’amico e compreso che il male della sorella doveva esser lieve:

– Vuoi che venga a visitarla?

– Dice di no.

E tutti e due, passeggiando, s’erano messi a pensare con le ciglia aggrottate, quasi per rancore, a quella donna che aveva fatto loro da madre e a cui dovevano tutto.

Il D’Andrea aveva perduto da ragazzo i genitori ed era stato accolto in casa d’uno zio, che non avrebbe potuto in alcun modo provvedere alla riuscita di lui. Eleonora Bandi, rimasta orfana anch’essa a diciotto anni col fratello molto piú piccolo di lei, industriandosi dapprima con minute e sagge economie su quel po’ che le avevano lasciato i genitori, poi lavorando, dando lezioni di pianoforte e di canto, aveva potuto mantenere agli studii il fratello, e anche l’amico indivisibile di lui.

– In compenso però, – soleva dire ridendo ai due giovani – mi son presa tutta la carne che manca a voi due.

Era infatti un donnone che non finiva mai; ma aveva tuttavia dolcissimi i lineamenti del volto, e l’aria ispirata di quegli angeloni di marmo che si vedono nelle chiese, con le tuniche svolazzanti. E lo sguardo dei begli occhi neri, che le lunghe ciglia quasi vellutavano, e il suono della voce armoniosa pareva volessero anch’essi attenuare, con un certo studio che le dava pena, l’impressione d’alterigia che quel suo corpo cosí grande poteva destare sulle prime; e ne sorrideva mestamente.

Sonava e cantava, forse non molto correttamente ma con foga appassionata. Se non fosse nata e cresciuta fra i pregiudizii d’una piccola città e non avesse avuto l’impedimento di quel fratellino, si sarebbe forse avventurata alla vita di teatro. Era stato quello, un tempo, il suo sogno; nient’altro che un sogno però. Aveva ormai circa quarant’anni. La considerazione, del resto, di cui godeva in paese per quelle sue doti artistiche la compensava, almeno in parte, del sogno fallito, e la soddisfazione d’averne invece attuato un altro, quello cioè d’avere schiuso col proprio lavoro l’avvenire a due poveri orfani, la compensava del lungo sacrifizio di se stessa.

Il dottor D’Andrea attese un buon pezzo nel salotto, che l’amico ritornasse a chiamarlo.

Quel salotto pieno di luce, quantunque dal tetto basso, arredato di mobili già consunti, d’antica foggia, respirava quasi un’aria d’altri tempi e pareva s’appagasse, nella quiete dei due grandi specchi a riscontro, dell’immobile visione della sua antichità scolorita. I vecchi ritratti di famiglia appesi alle pareti erano, là dentro, i veri e soli inquilini. Di nuovo, c’era soltanto il pianoforte a mezzacoda, il pianoforte d’Eleonora, che le figure effigiate in quei ritratti pareva guardassero in cagnesco.

Spazientito, alla fine, dalla lunga attesa, il dottore si alzò, andò fino alla soglia, sporse il capo, udí piangere nella camera di là, attraverso l’uscio chiuso. Allora si mosse e andò a picchiare con le nocche delle dita a quell’uscio.

– Entra, – gli disse il Bandi, aprendo. – Non riesco a capire perché s’ostina cosí.

– Ma perché non ho nulla! – gridò Eleonora tra le lagrime.

Stava a sedere su un ampio seggiolone di cuojo, vestita come sempre di nero, enorme e pallida; ma sempre con quel suo viso di bambinona, che ora pareva piú che mai strano, e forse piú ambiguo che strano, per un certo indurimento negli occhi, quasi di folle fissità, ch’ella voleva tuttavia dissimulare.

– Non ho nulla, v’assicuro, – ripeté piú pacatamente. – Per carità, lasciatemi in pace: non vi date pensiero di me.

– Va bene! – concluse il fratello, duro e cocciuto. – Intanto, qua c’è Carlo. Lo dirà lui quello che hai. – E uscí dalla camera, richiudendo con furia l’uscio dietro di sé.

Eleonora si recò le mani al volto e scoppiò in violenti singhiozzi. Il D’Andrea rimase un pezzo a guardarla, fra seccato e imbarazzato; poi domandò:

– Perché? Che cos’ha? Non può dirlo neanche a me?

E come Eleonora seguitava a singhiozzare, le s’appressò, provò a scostarle con fredda delicatezza una mano dal volto:

– Si calmi, via; lo dica a me; ci son qua io.

Eleonora scosse il capo; poi, d’un tratto, afferrò con tutt’e due le mani la mano di lui, contrasse il volto, come per un fitto spasimo, e gemette:

– Carlo! Carlo!

Il D’Andrea si chinò su lei, un po’ impacciato nel suo rigido contegno.

– Mi dica…

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Allora ella gli appoggiò una guancia su la mano e pregò disperatamente, a bassa voce:

– Fammi, fammi morire, Carlo; ajutami tu, per carità! non trovo il modo; mi manca il coraggio, la forza.

– Morire? – domandò il giovane, sorridendo. – Che dice? Perché?

– Morire, sí! – riprese lei, soffocata dai singhiozzi. – Insegnami tu il modo.  Tu sei medico. Toglimi da questa agonia, per carità! Debbo morire. Non c’è altro rimedio per me. La morte sola.

Egli la fissò, stupito. Anche lei alzò gli occhi a guardarlo, ma subito li richiuse, contraendo di nuovo il volto e restringendosi in sé, quasi colta da improvviso, vivissimo ribrezzo.

– Sí, sí, – disse poi, risolutamente. – Io, sí, Carlo: perduta! perduta!

Istintivamente il D’Andrea ritrasse la mano, ch’ella teneva ancora tra le sue.

– Come! Che dice? – balbettò.

Senza guardarlo, ella si pose un dito su la bocca, poi indicò la porta:

– Se lo sapesse! Non dirgli nulla, per pietà! Fammi prima morire; dammi, dammi qualche cosa: la prenderò come una medicina; crederò che sia una medicina, che mi dai tu; purché sia subito! Ah, non ho coraggio, non ho coraggio! Da due mesi, vedi, mi dibatto in quest’agonia, senza trovar la forza, il modo di farla finita. Che ajuto puoi darmi, tu, Carlo, che dici?

– Che ajuto? – ripeté il D’Andrea, ancora smarrito nello stupore.

Eleonora stese di nuovo le mani per prendergli un braccio e, guardandolo con occhi supplichevoli, soggiunse:

– Se non vuoi farmi morire, non potresti… in qualche altro modo… salvarmi?

Il D’Andrea, a questa proposta, s’irrigidí piú che mai, aggrottando severamente le ciglia.

– Te ne scongiuro, Carlo! – insistette lei. – Non per me, non per me, ma perché Giorgio non sappia. Se tu credi che io abbia fatto qualche cosa per voi, per te, ajutami ora, salvami! Debbo finir cosí, dopo aver fatto tanto, dopo aver tanto sofferto? cosí, in questa ignominia, all’età mia? Ah, che miseria! che orrore!

– Ma come, Eleonora? Lei! Com’è stato? Chi è stato? – fece il D’Andrea, non trovando, di fronte alla tremenda ambascia di lei, che questa domanda per la sua curiosità sbigottita.

Di nuovo Eleonora indicò la porta e si coprí il volto con le mani:

– Non mi ci far pensare! Non posso pensarci! Dunque, non vuoi risparmiare a Giorgio questa vergogna?

– E come? – domandò il D’Andrea. – Delitto, sa! Sarebbe un doppio delitto. Piuttosto, mi dica: non si potrebbe in qualche altro modo… rimediare?

– No! – rispose lei, recisamente, infoscandosi. – Basta. Ho capito. Lasciami! Non ne posso piú…

Abbandonò il capo su la spalliera del seggiolone, rilassò le membra: sfinita.

Carlo D’Andrea, con gli occhi fissi dietro le grosse lenti da miope, attese un pezzo, senza trovar parole, non sapendo ancor credere a quella rivelazione, né riuscendo a immaginare come mai quella donna, finora esempio, specchio di virtú, d’abnegazione, fosse potuta cadere nella colpa.  Possibile? Eleonora Bandi? Ma se aveva in gioventú, per amore del fratello rifiutato tanti partiti, uno piú vantaggioso dell’altro! Come mai ora, ora che la gioventú era tramontata… – Eh! ma forse per questo…

La guardò, e il sospetto, di fronte a quel corpo cosí voluminoso, assunse all’improvviso, agli occhi di lui magro, un aspetto orribilmente sconcio e osceno.

– Va’, dunque, – gli disse a un tratto, irritata, Eleonora, che pur senza guardarlo, in quel silenzio, si sentiva addosso l’inerte orrore di quel sospetto negli occhi di lui. – Va’, va’, a dirlo a Giorgio, perché faccia subito di me quello che vuole. Va’.

Il D’Andrea uscí, quasi automaticamente. Ella sollevò un poco il capo per vederlo uscire; poi, appena richiuso l’uscio, ricadde nella positura di prima.

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II

Dopo due mesi d’orrenda angoscia, quella confessione del suo stato la sollevò, insperatamente. Le parve che il piú, ormai, fosse fatto.

Ora, non avendo piú forza di lottare, di resistere a quello strazio, si sarebbe abbandonata, cosí, alla sorte, qualunque fosse.

Il fratello, tra breve, sarebbe entrato e l’avrebbe uccisa? Ebbene: tanto meglio! Non aveva piú diritto a nessuna considerazione, a nessun compatimento. Aveva fatto, sí, per lui e per quell’altro ingrato, piú del suo dovere, ma in un momento poi aveva perduto il frutto di tutti i suoi benefizii.

Strizzò gli occhi, colta di nuovo dal ribrezzo.

Nel segreto della propria coscienza, si sentiva pure miseramente responsabile del suo fallo. Sí, lei, lei che per tanti anni  aveva avuto la forza di resistere agli impulsi della gioventú, lei che aveva sempre accolto in sé sentimenti puri e nobili, lei che aveva considerato il proprio sacrifizio come un dovere: in un momento, perduta! Oh miseria! miseria!

L’unica ragione che sentiva di potere addurre in sua discolpa, che valore poteva avere davanti al fratello? Poteva dirgli: – «Guarda, Giorgio, che sono forse caduta per te»? – Eppure la verità era forse questa.

Gli aveva fatto da madre, è vero? a quel fratello. Ebbene: in premio di tutti i benefizii lietamente prodigati, in premio del sacrifizio della propria vita, non le era stato concesso neanche il piacere di scorgere un sorriso, anche lieve, di soddisfazione su le labbra di lui e dell’amico. Pareva che avessero entrambi l’anima avvelenata di silenzio e di noja, oppressa come da una scimunita angustia. Ottenuta la laurea, s’eran subito buttati al lavoro, come due bestie; con tanto impegno, con tanto accanimento che in poco tempo erano riusciti a bastare a se stessi. Ora, questa fretta di sdebitarsi in qualche modo, come se a entrambi non ne paresse l’ora, l’aveva proprio ferita nel cuore. Quasi d’un tratto, cosí, s’era trovata senza piú scopo nella vita. Che le restava da fare, ora che i due giovani non avevano piú bisogno di lei? E aveva perduto, irrimediabilmente, la gioventú.

Neanche coi primi guadagni della professione era tornato il sorriso su le labbra del fratello. Sentiva forse ancora il peso del sacrifizio ch’ella aveva fatto per lui? si sentiva forse vincolato da questo sacrifizio per tutta la vita, condannato a sacrificare a sua volta la propria gioventú, la libertà dei proprii sentimenti alla sorella? E aveva voluto parlargli a cuore aperto:

– Non prenderti nessun pensiero di me, Giorgio! Io voglio soltanto vederti lieto, contento… capisci?

Ma egli le aveva troncato subito in bocca le parole:

– Zitta, zitta! Che dici? So quel che debbo fare. Ora spetta a me.

– Ma come? cosí? – avrebbe voluto gridargli, lei, che, senza pensarci due volte, s’era sacrificata col sorriso sempre su le labbra e il cuor leggero.

Conoscendo la chiusa, dura ostinazione di lui, non aveva insistito. Ma, intanto, non si sentiva di durare in quella tristezza soffocante.

Egli raddoppiava di giorno in giorno i guadagni della professione; la circondava d’agi; aveva voluto che smettesse di dar lezioni. In quell’ozio forzato, che la avviliva, aveva allora accolto, malauguratamente, un pensiero che, dapprincipio, quasi l’aveva fatta ridere:

«Se trovassi marito!».

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Ma aveva già trentanove anni, e poi con quel corpo… oh via! – avrebbe dovuto fabbricarselo apposta, un marito. Eppure, sarebbe stato l’unico mezzo per liberar sé e il fratello da quell’opprimente debito di gratitudine.

Quasi senza volerlo, s’era messa allora a curare insolitamente la persona, assumendo una cert’aria di nubile che prima non s’era mai data.

Quei due o tre che un tempo l’avevano chiesta in matrimonio, avevano ormai moglie e figliuoli. Prima, non se n’era mai curata; ora, a ripensarci, ne provava dispetto; provava invidia di tante sue amiche che erano riuscite a procurarsi uno stato.

Lei sola era rimasta cosí…

Ma forse era in tempo ancora: chi sa? Doveva proprio chiudersi cosí la sua vita sempre attiva? in quel vuoto? doveva spegnersi cosí quella fiamma vigile del suo spirito appassionato? in quell’ombra?

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E un profondo rammarico l’aveva invasa, inasprito talvolta da certe smanie, che alteravano le sue grazie spontanee, il suono delle sue parole, delle sue risa. Era divenuta pungente, quasi aggressiva nei discorsi. Si rendeva conto lei stessa del cangiamento della propria indole; provava in certi momenti quasi odio per se stessa, repulsione per quel suo corpo vigoroso, ribrezzo dei desiderii insospettati in cui esso, ora, all’improvviso, le s’accendeva turbandola profondamente.

Il fratello, intanto, coi risparmii, aveva di recente acquistato un podere e vi aveva fatto costruire un bel villino.

Spinta da lui, vi era andata dapprima per un mese in villeggiatura; poi, riflettendo che il fratello aveva forse acquistato quel podere per sbarazzarsi di tanto in tanto di lei, aveva deliberato di ritirarsi colà per sempre. Cosí, lo avrebbe lasciato libero del tutto: non gli avrebbe piú dato la pena della sua compagnia, della sua vista, e anche lei a poco a poco, là, si sarebbe tolta quella strana idea dal capo, di trovar marito all’età sua.

I primi giorni eran trascorsi bene, e aveva creduto che le sarebbe stato facile seguitare cosí.

Aveva già preso l’abitudine di levarsi ogni giorno all’alba e di fare una lunga passeggiata per i campi, fermandosi di tratto in tratto, incantata, ora per ascoltare nell’attonito silenzio dei piani, ove qualche filo d’erba vicino abbrividiva alla frescura dell’aria, il canto dei galli, che si chiamavano da un’aja all’altra; ora per ammirare qualche masso tigrato di gromme verdi, o il velluto del lichene sul vecchio tronco stravolto di qualche olivo saraceno.

Ah, lí, cosí vicina alla terra, si sarebbe presto rifatta un’altr’anima, un altro modo di pensare e di sentire; sarebbe divenuta come quella buona moglie del mezzadro che si mostrava cosí lieta di tenerle compagnia e che già le aveva insegnato tante cose della campagna, tante cose pur cosí semplici della vita e che ne rivelano tuttavia un nuovo senso profondo, insospettato.

Il mezzadro, invece, era insoffribile: si vantava d’aver idee larghe, lui: aveva girato il mondo, lui; era stato in America, otto anni a Benossarie; e non voleva che il suo unico figliuolo, Gerlando, fosse un vile zappaterra. Da tredici anni, pertanto, lo manteneva alle scuole; voleva dargli «un po’ di lettera», diceva, per poi spedirlo in America, là, nel gran paese, dove senza dubbio avrebbe fatto fortuna.

Gerlando aveva diciannove anni e in tredici di scuola era arrivato appena alla terza tecnica. Era un ragazzone rude, tutto d’un pezzo. Quella fissazione del padre costituiva per lui un vero martirio. Praticando coi compagni di scuola, aveva preso, senza volere, una cert’aria di città, che però lo rendeva piú goffo.

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A forza d’acqua, ogni mattina, riusciva a rassettarsi i capelli ispidi, a tirarvi una riga da un lato; ma poi quei capelli, rasciugati, gli si drizzavan compatti e irsuti di qua e di là, come se gli schizzassero dalla cute del cranio; anche le sopracciglia pareva gli schizzassero poco piú giú dalla fronte bassa, e già dal labbro e dal mento cominciavano a schizzare i primi peli dei baffi e della barba, a cespuglietti. Povero Gerlando! faceva compassione, cosí grosso, cosí duro, cosí ispido, con un libro aperto davanti. Il padre doveva sudare una camicia, certe mattine, per scuoterlo dai saporiti sonni profondi, di porcellone satollo e pago, e avviarlo ancora intontito e barcollante, con gli occhi imbambolati, alla vicina città; al suo martirio.

Venuta in campagna la signorina, Gerlando le aveva fatto rivolgere dalla madre la preghiera di persuadere al padre che la smettesse di tormentarlo con questa scuola, con questa scuola, con questa scuola! Non ne poteva piú!

E difatti Eleonora s’era provata a intercedere; ma il mezzadro, – ah, nonononò – ossequio, rispetto, tutto il rispetto per la signorina; ma anche preghiera di non immischiarsi. Ed allora essa, un po’ per pietà, un po’ per ridere, un po’ per darsi da fare, s’era messa ad ajutare quel povero giovanotto, fin dove poteva.

Lo faceva, ogni dopo pranzo, venir su coi libri e i quaderni della scuola. Egli saliva impacciato e vergognoso, perché s’accorgeva che la padrona prendeva a goderselo per la sua balordaggine, per la sua durezza di mente; ma che poteva farci? il padre voleva cosí. Per lo studio, eh, sí: bestia; non aveva difficoltà a riconoscerlo; ma se si fosse trattato d’atterrare un albero, un bue, eh perbacco… – e Gerlando mostrava le braccia nerborute, con certi occhi teneri e un sorriso di denti bianchi e forti…

Improvvisamente, da un giorno all’altro, ella aveva troncato quelle lezioni; non aveva piú voluto vederlo; s’era fatto portare dalla città il pianoforte e per parecchi giorni s’era chiusa nella villa a sonare, a cantare, a leggere, smaniosamente. Una sera, in fine, s’era accorta che quel ragazzone, privato cosí d’un tratto dell’ajuto di lei, della compagnia ch’ella gli concedeva e degli scherzi che si permetteva con lui, s’appostava per spiarla, per sentirla cantare o sonare: e, cedendo a una cattiva ispirazione, aveva voluto sorprenderlo, lasciando d’un tratto il pianoforte e scendendo a precipizio la scala della villa.

– Che fai lí?

– Sto a sentire…

– Ti piace?

– Tanto, sí signora… Mi sento in paradiso.

A questa dichiarazione era scoppiata a ridere; ma, all’improvviso, Gerlando, come sferzato in faccia da quella risata, le era saltato addosso, lí, dietro la villa, nel bujo fitto, oltre la zona di luce che veniva dal balcone aperto lassú.

Cosí era stato.

Sopraffatta a quel modo, non aveva saputo respingerlo; s’era sentita mancare – non sapeva piú come – sotto quell’impeto brutale e s’era abbandonata, sí, cedendo pur senza voler concedere.

Il giorno dopo, aveva fatto ritorno in città.

E ora? come mai Giorgio non entrava a svergognarla? Forse il D’Andrea non gli aveva detto ancor nulla: forse pensava al modo di salvarla. Ma come?

Si nascose il volto tra le mani, quasi per non vedere il vuoto che le s’apriva davanti. Ma era pur dentro di lei quel vuoto. E non c’era rimedio. La morte sola. Quando? come?

L’uscio, a un tratto, s’aprí, e Giorgio apparve su la soglia scontraffatto, pallidissimo, coi capelli scompigliati e gli occhi ancora rossi di pianto. Il D’Andrea lo teneva per un braccio.

– Voglio sapere questo soltanto, – disse alla sorella, a denti stretti, con voce fischiante, quasi scandendo le sillabe: – Voglio sapere chi è stato.

Eleonora, a capo chino, con gli occhi chiusi, scosse lentamente il capo e riprese a singhiozzare.

– Me lo dirai, – gridò il Bandi, appressandosi, trattenuto dall’amico. – E chiunque sia, tu lo sposerai!

– Ma no, Giorgio! – gemette allora lei, raffondando vie piú il capo e torcendosi in gremio le mani.- No!, non é possibile, non é possibile!

– È ammogliato? – domandò lui, appressandosi di piú, coi pugni serrati, terribile.

– No, – s’affrettò a risponder lei. – Ma non è possibile, credi!

– Chi è? – riprese il Bandi, tutto fremente, stringendola da presso. – Chi è? subito, il nome!

Sentendosi addosso la furia del fratello, Eleonora si strinse nelle spalle, si provò a sollevare appena il capo e gemette sotto gli occhi inferociti di lui:

– Non posso dirtelo…

– Il nome, o t’ammazzo! – ruggí allora il Bandi, levando un pugno sul capo di lei.

Ma il D’Andrea s’interpose, scostò l’amico, poi gli disse severamente:

– Tu va’. Lo dirà a me. Va’, va’…

E lo fece uscire, a forza, dalla camera.

     

III

Il fratello fu irremovibile.

Ne’ pochi giorni che occorsero per le pubblicazioni di rito, prima del matrimonio, s’accaní nello scandalo. Per prevenir le beffe  che s’aspettava da tutti, prese ferocemente il partito d’andar sbandendo la sua vergogna, con orribili crudezze di linguaggio. Pareva impazzito; e tutti lo commiseravano.

Gli toccò, tuttavia, a combattere un bel po’ col mezzadro, per farlo condiscendere alle nozze del figliuolo.

Quantunque d’idee larghe, il vecchio, dapprima, parve cascasse dalle nuvole: non voleva creder possibile una cosa simile. Poi disse:

– Vossignoria non dubiti: me lo pesterò sotto i piedi; sa come?, come si pigia l’uva. O piuttosto, facciamo cosí: glielo consegno, legato mani e piedi; e Vossignoria si prenderà tutta quella soddisfazione che vuole. Il nerbo, per le nerbate, glielo procuro io, e glielo tengo prima apposta tre giorni in molle, perché picchi piú sodo.

Quando però comprese che il padrone non intendeva questo, ma voleva altro, il matrimonio, trasecolò di nuovo:

– Come! Che dice, Vossignoria? Una signorona di quella fatta col figlio d’un vile zappaterra?

E oppose un reciso rifiuto.

– Mi perdoni. Ma la signorina aveva il giudizio e l’età; conosceva il bene e il male; non doveva far mai con mio figlio quello che fece. Debbo parlare? Se lo tirava sú in casa tutti i giorni. Vossignoria m’intende… Un ragazzaccio… A quell’età, non si ragiona, non si bada… Ora ci posso perdere cosí il figlio, che Dio sa quanto mi costa? La signorina. Con rispetto parlando, gli può esser madre…

Il Bandi dovette promettere la cessione in dote del podere e un assegno giornaliero alla sorella.

Cosí il matrimonio fu stabilito; e, quando ebbe luogo, fu un vero avvenimento per quella cittaduzza.

Parve che tutti provassero un gran piacere nel far pubblicamente strazio dell’ammirazione, del rispetto per tanti anni tributati a quella donna; come se tra l’ammirazione e il rispetto, di cui non la stimavano piú degna, e il dileggio, con cui ora la accompagnavano a quelle nozze vergognose, non ci potesse esser posto per un po’ di commiserazione.

La commiserazione era tutta per il fratello; il quale, s’intende, non volle prender parte alla cerimonia. Non vi prese parte neanche il D’Andrea, scusandosi che doveva tener compagnia, in quel triste giorno, al suo povero Giorgio.

Un vecchio medico della città, ch’era già stato di casa dei genitori d’Eleonora, e a cui il D’Andrea, venuto di fresco dagli studii, con tutti i fumi e le sofisticherie della novissima terapeutica, aveva tolto gran parte della clientela, si profferse per testimonio e condusse con sé un altro vecchio, suo amico, per secondo testimonio.

Con essi Eleonora si recò in vettura chiusa al Municipio; poi in una chiesetta fuorimano, per la cerimonia religiosa.

In un’altra vettura era lo sposo, Gerlando, torbido e ingrugnato, coi genitori. Questi, parati a festa, stavano su di sé, gonfi e serii, perché, alla fin fine, il figlio sposava una vera signora, sorella d’un avvocato, e gli recava in dote una campagna con una magnifica villa, e denari per giunta. Gerlando, per rendersi degno del nuovo stato, avrebbe seguitato gli studii. Al podere avrebbe atteso lui, il padre, che se n’intendeva. La sposa era un po’ anzianotta? Tanto meglio! L’erede già c’era per via. Per legge di natura ella sarebbe morta prima, e Gerlando allora sarebbe rimasto libero e ricco.

Queste e consimili riflessioni facevano anche, in una terza vettura, i testimonii dello sposo, contadini amici del padre, in compagnia di due vecchi zii materni. Gli altri parenti e amici dello sposo innumerevoli, attendevano nella villa, tutti parati a festa, con gli abiti di panno turchino, gli uomini; con le mantelline nuove e i fazzoletti dai colori piú sgargianti, le donne; giacché il mezzadro, d’idee larghe, aveva preparato un trattamento proprio coi fiocchi.

Al municipio, Eleonora, prima d’entrare nell’aula dello stato civile, fu assalita da una convulsione di pianto; lo sposo che si teneva discosto, in crocchio coi parenti, fu spinto da questi ad accorrere; ma il vecchio medico lo pregò di non farsi scorgere, di star lontano, per il momento.

Non ben rimessa ancora da quella crisi violenta, Eleonora entrò nell’aula; si vide accanto quel ragazzo, che l’impaccio e la vergogna rendevano piú ispido e goffo; ebbe un impeto di ribellione; fu per gridare: – No! No! – e lo guardò come per spingerlo a gridar cosí anche lui. Ma poco dopo dissero sí tutti e due, come condannati a una pena inevitabile. Sbrigata in gran fretta l’altra funzione nella chiesetta solitaria, il triste corteo s’avviò alla villa. Eleonora non voleva staccarsi dai due vecchi amici; ma le fu forza salire in vettura con lo sposo e coi suoceri.

Strada facendo, non fu scambiata una parola nella vettura.

Il mezzadro e la moglie parevano sbigottiti: alzavano di tanto in tanto gli occhi per guardar di sfuggita la nuora; poi si scambiavano uno sguardo e riabbassavano gli occhi. Lo sposo guardava fuori, tutto ristretto in sé, aggrottato.

In villa, furono accolti con uno strepitoso sparo di mortaretti e grida festose e battimani. Ma l’aspetto e il contegno della sposa raggelarono tutti i convitati, per quanto ella si provasse anche a sorridere a quella buona gente, che intendeva farle festa a suo modo, come usa negli sposalizi.

Chiese presto licenza di ritirarsi sola; ma nella camera in cui aveva dormito durante la villeggiatura, trovando apparecchiato il letto nuziale, s’arrestò di botto, su la soglia: – Lí? con lui? No! Mai! Mai! – E, presa da ribrezzo, scappò in un’altra camera: vi si chiuse a chiave; cadde a sedere su una seggiola, premendosi forte, forte, il volto con tutt’e due le mani.

Le giungevano, attraverso l’uscio, le voci, le risa dei convitati, che aizzavano di là Gerlando, lodandogli, piú che la sposa, il buon parentado che aveva fatto e la bella campagna.

Gerlando se ne stava affacciato al balcone e, per tutta risposta, pieno d’onta, scrollava di tratto in tratto le poderose spalle.

Onta sí, provava onta d’esser marito a quel modo, di quella signora: ecco! E tutta la colpa era del padre, il quale, per quella maledetta fissazione della scuola, lo aveva fatto trattare al modo d’un ragazzaccio stupido e inetto dalla signorina, venuta in villeggiatura, abilitandola a certi scherzi che lo avevano ferito. Ed ecco, intanto, quel che n’era venuto. Il padre non pensava che alla bella campagna. Ma lui, come avrebbe vissuto d’ora in poi, con quella donna che gl’incuteva tanta soggezione, e che certo gliene voleva per la vergogna e il disonore? Come avrebbe ardito d’alzar gli occhi in faccia a lei? E, per giunta, il padre pretendeva ch’egli seguitasse a frequentar la scuola! Figurarsi la baja che gli avrebbero data i compagni! Aveva venti anni piú di lui, la moglie, e pareva una montagna, pareva…

Mentre Gerlando si travagliava con queste riflessioni, il padre e la madre attendevano agli ultimi preparativi del pranzo. Finalmente l’uno e l’altra entrarono trionfanti nella sala, dove già la mensa era apparecchiata. Il servizio da tavola era stato fornito per l’avvenimento da un trattore della città che aveva anche inviato un cuoco e due camerieri per servire il pranzo.

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Il mezzadro venne a trovar Gerlando al balcone e gli disse:

– Va’ ad avvertire tua moglie che a momenti sarà pronto.

– Non ci vado, gnornò! – grugní Gerlando, pestando un piede. – Andateci voi.

– Spetta a te, somarone! – gli gridò il padre. – Tu sei il marito: va’!

– Grazie tante… Gnornò! non ci vado! – ripeté Gerlando, cocciuto, schermendosi.

Allora il padre, irato, lo tirò per il bavero della giacca e gli diede uno spintone.

– Ti vergogni, bestione? Ti ci sei messo, prima? E ora ti vergogni? Va’! È tua moglie!

I convitati accorsero a metter pace, a persuadere Gerlando a andare.

– Che male c’è? Le dirai che venga a prendere un boccone…

– Ma se non so neppure come debba chiamarla! – gridò Gerlando, esasperato.

Alcuni convitati scoppiarono a ridere, altri furono pronti a trattenere il mezzadro che s’era lanciato per schiaffeggiare il figlio imbecille che gli guastava cosí la festa preparata con tanta solennità e tanta spesa.

– La chiamerai col suo nome di battesimo, – gli diceva intanto, piano e persuasiva, la madre. – Come si chiama? Eleonora, è vero? e tu chiamala Eleonora. Non è tua moglie? Va’, figlio mio, va’… E, cosí dicendo, lo avviò alla camera nuziale.

Gerlando andò a picchiare all’uscio. Picchiò una prima volta, piano. Attese. Silenzio. Come le avrebbe detto? Doveva proprio darle del tu, cosí alla prima? Ah, maledetto impiccio! E perché, intanto, ella non rispondeva? Forse non aveva inteso. Ripicchiò piú forte. Attese. Silenzio.

Allora, tutto impacciato, si provò a chiamare a bassa voce, come gli aveva suggerito la madre. Ma gli venne fuori un Eneolora cosí ridicolo, che subito, come per cancellarlo, chiamò forte, franco:

– Eleonora!

Intese alla fine la voce di lei che domandava dietro l’uscio di un’altra stanza:

– Chi è?

S’appressò a quell’uscio, col sangue tutto rimescolato.

– Io, – disse – io Ger… Gerlando… È pronto.

– Non posso, – rispose lei. – Fate senza di me.

Gerlando tornò in sala, sollevato da un gran peso.

– Non viene! Dice che non viene! Non può venire!

– Viva il bestione! – esclamò allora il padre, che non lo chiamava altrimenti. – Le hai detto ch’era in tavola? E perché non l’hai forzata a venire?

La moglie s’interpose: fece intendere al marito che sarebbe stato meglio, forse, lasciare in pace la sposa, per quel giorno. I convitati approvarono.

– L’emozione… il disagio… si sa!

Ma il mezzadro che s’era inteso di dimostrare alla nuora che, all’occorrenza, sapeva far l’obbligo suo, rimase imbronciato e ordinò con mala grazia che il pranzo fosse servito.

C’era il desiderio dei piatti fini, ch’ora sarebbero venuti in tavola, ma c’era anche in tutti quei convitati una seria costernazione per tutto quel superfluo che vedevano luccicar sulla tovaglia nuova, che li abbagliava: quattro bicchieri di diversa forma e forchette e forchettine, coltelli e coltellini, e certi pennini, poi, dentro gl’involtini di cartavelina.

Seduti ben discosti dalla tavola, sudavano anche per i grevi abiti di panno della festa, e si guardavano nelle facce dure, arsicce, svisate dall’insolita pulizia; e non osavano alzar le grosse mani sformate dai lavori della campagna per prendere quelle forchette d’argento (la piccola o la grande?) e quei coltelli, sotto gli occhi dei camerieri che, girando coi serviti, con quei guanti di filo bianco incutevano loro una terribile soggezione.

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Il mezzadro, intanto, mangiando, guardava il figlio e scrollava il capo, col volto atteggiato di derisoria commiserazione:

– Guardatelo, guardatelo! – borbottava tra sé. – Che figura ci fa, lí solo, spajato, a capo tavola? Come potrà la sposa aver considerazione per uno scimmione cosí fatto? Ha ragione, ha ragione di vergognarsi di lui. Ah, se fossi stato io al posto suo!

Finito il pranzo fra la musoneria generale, i convitati, con una scusa o con un’altra, andarono via. Era già quasi sera.

– E ora? – disse il padre a Gerlando, quando i due camerieri finirono di sparecchiar la tavola, e tutto nella villa ritornò tranquillo. – Che farai, ora? Te la sbroglierai tu!

E ordinò alla moglie di seguirlo nella casa colonica, ove abitavano, poco discosto dalla villa.

Rimasto solo, Gerlando si guardò attorno, aggrondato, non sapendo che fare.

Sentí nel silenzio la presenza di quella che se ne stava chiusa di là. Forse, or ora, non sentendo piú alcun rumore, sarebbe uscita dalla stanza. Che avrebbe dovuto far lui, allora?

Ah, come volentieri se ne sarebbe scappato a dormire nella casa colonica, presso la madre, o anche giú all’aperto. Sotto un albero, magari!

E se lei intanto s’aspettava d’esser chiamata? Se, rassegnata alla condanna che aveva voluto infliggerle il fratello, si riteneva in potere di lui, suo marito, e aspettava che egli la… sí, la invitasse a…

Tese l’orecchio. Ma no: tutto era silenzio. Forse s’era già addormentata. Era già bujo. Il lume della luna entrava, per il balcone aperto, nella sala.

Senza pensar d’accendere il lume, Gerlando prese una seggiola e si recò a sedere al balcone, che guardava tutt’intorno, dall’alto, l’aperta campagna declinante al mare laggiú in fondo, lontano.

Nella notte chiara splendevano limpide le stelle maggiori; la luna accendeva sul mare una fervida fascia d’argento; dai vasti piani gialli di stoppia si levava tremulo il canto dei grilli, come un fitto, continuo scampanellío. A un tratto, un assiolo, da presso, emise un chiú languido, accorante; da lontano un altro gli rispose, come un’eco, e tutti e due seguitarono per un pezzo a singultar cosí, nella chiara notte.

Con un braccio appoggiato alla ringhiera del balcone, egli allora, istintivamente, per sottrarsi all’oppressione di quell’incertezza smaniosa, fermò l’udito a quei due chiú che si rispondevano nel silenzio incantato dalla luna; poi, scorgendo laggiú in fondo un tratto del muro che cingeva tutt’intorno il podere, pensò che ora tutta quella terra era sua; suoi quegli alberi: olivi, mandorli, carrubi, fichi, gelsi; sua quella vigna.

Aveva ben ragione d’esserne contento il padre, che d’ora in poi non sarebbe stato piú soggetto a nessuno.

Alla fin fine, non era tanto stramba l’idea di fargli seguitare gli studii. Meglio lí, meglio a scuola, che qua tutto il giorno, in compagnia della moglie. A tenere a posto quei compagni che avessero voluto ridere alle sue spalle, ci avrebbe pensato lui. Era un signore, ormai, e non gl’importava piú se lo cacciavano via dalla scuola. Ma questo non sarebbe accaduto. Anzi egli si proponeva di studiare d’ora innanzi con impegno, per potere un giorno, tra breve, figurare tra i «galantuomini» del paese, senza piú sentirne soggezione, e parlare e trattare con loro, da pari a pari. Gli bastavano altri quattro anni di scuola per aver la licenza dell’Istituto tecnico: e poi, perito agronomo o ragioniere. Suo cognato allora, il signor avvocato, che pareva avesse buttato là, ai cani, la sorella, avrebbe dovuto fargli tanto di cappello. Sissignori. E allora egli avrebbe avuto tutto il diritto di dirgli: «Che mi hai dato? A me, quella vecchia? Io ho studiato, ho una professione da signore e potevo aspirare a una bella giovine, ricca e di buoni natali come lei!».

Cosí pensando, s’addormentò con la fronte sul braccio appoggiato alla ringhiera.

I due chiú seguitavano, l’uno qua presso, l’altro lontano, il loro alterno lamentío voluttuoso; la notte chiara pareva facesse tremolar su la terra il suo velo di luna sonoro di grilli, e arrivava ora da lontano, come un’oscura rampogna, il borboglío profondo del mare.

A notte avanzata, Eleonora apparve, come un’ombra, su la soglia del balcone.

Non s’aspettava di trovarvi il giovine addormentato. Ne provò pena e timore insieme. Rimase un pezzo a pensare se le convenisse svegliarlo per dirgli quanto aveva tra sé stabilito e toglierlo di lí; ma, sul punto di scuoterlo, di chiamarlo per nome, sentí mancarsi l’animo e si ritrasse pian piano, come un’ombra, nella camera dond’era uscita.

IV

L’intesa fu facile.

Eleonora, la mattina dopo, parlò maternamente a Gerlando: lo lasciò padrone di tutto, libero di fare quel che gli sarebbe piaciuto, come se tra loro non ci fosse alcun vincolo. Per sé domandò solo d’esser lasciata lí, da canto, in quella cameretta, insieme con la vecchia serva di casa, che l’aveva vista nascere.

Gerlando, che a notte inoltrata s’era tratto dal balcone tutto indurito dall’umido a dormire sul divano della sala da pranzo, ora, cosí sorpreso nel sonno, con una gran voglia di stropicciarsi gli occhi coi pugni, aprendo la bocca per lo sforzo d’aggrottar le ciglia, perché voleva mostrare non tanto di capire, quanto d’esser convinto, disse a tutto di sí, di sí, col capo. Ma il padre e la madre, quando seppero di quel patto, montarono su tutte le furie, e invano Gerlando si provò a far intender loro che gli conveniva cosí, che anzi ne era piú che contento.

Per quietare in certo qual modo il padre, dovette promettere formalmente che, ai primi d’ottobre, sarebbe ritornato a scuola. Ma, per ripicco, la madre gl’impose di scegliersi la camera piú bella per dormire, la camera piú bella per studiare, la camera piú bella per mangiare… tutte le camere piú belle!

– E comanda tu, a bacchetta, sai! Se no, vengo io a farti ubbidire e rispettare.

Giurò infine che non avrebbe mai piú rivolto la parola a quella smorfiosa che le disprezzava cosí il figlio, un cosí bel pezzo di giovanotto, che colei non era neanco degna di guardare.

Da quel giorno stesso, Gerlando si mise a studiare, a riprendere la preparazione interrotta per gli esami di riparazione. Era già tardi, veramente: aveva appena ventiquattro giorni innanzi a sé; ma, chi sa! mettendoci un po’ d’impegno, forse sarebbe riuscito a prendere finalmente quella licenza tecnica, per cui si torturava da tre anni.

Scosso lo sbalordimento angoscioso dei primi giorni, Eleonora, per consiglio della vecchia serva, si diede a preparare il corredino per il nascituro.

Non ci aveva pensato, e ne pianse.

Gesa, la vecchia serva, la ajutò, la guidò in quel lavoro, per cui era inesperta: le diede la misura per le prime camicine, per le prime cuffiette… Ah, la sorte le serbava questa consolazione, e lei non ci aveva ancora pensato; avrebbe avuto un piccino, una piccina a cui attendere, a cui consacrarsi tutta! Ma Dio doveva farle la grazia di mandarle un maschietto. Era già vecchia, sarebbe morta presto, e come avrebbe lasciato a quel padre una femminuccia, a cui lei avrebbe ispirato i suoi pensieri, i suoi sentimenti? Un maschietto avrebbe sofferto meno di quella condizione d’esistenza, in cui fra poco la mala sorte lo avrebbe messo.

Angosciata da questi pensieri, stanca del lavoro, per distrarsi, prendeva in mano uno di quei libri che l’altra volta s’era fatti spedire dal fratello, e si metteva a leggere. Ogni tanto, accennando col capo, domandava alla serva:

– Che fa?

Gesa si stringeva nelle spalle, sporgeva il labbro, poi rispondeva:

– Uhm! Sta con la testa sul libro. Dorme? Pensa? Chi sa!

Pensava, Gerlando: pensava che, tirate le somme, non era molto allegra la sua vita.

Ecco qua: aveva il podere, ed era come se non lo avesse; la moglie, e come se non l’avesse; in guerra coi parenti; arrabbiato con se stesso, che non riusciva a ritener nulla, nulla, nulla di quanto studiava.

E in quell’ozio smanioso, intanto, si sentiva dentro come un fermento d’acri desiderii; fra gli altri, quello della moglie, perché gli s’era negata. Non era piú desiderabile, è vero, quella donna. Ma… che patto era quello? Egli era il marito, e doveva dirlo lui, se mai.

Si alzava; usciva dalla stanza; passava innanzi all’uscio della camera di lei; ma subito, intravedendola, sentiva cadersi ogni proposito di ribellione. Sbuffava e, tanto per non riconoscere che sul punto gliene mancava l’animo, diceva a se stesso che non ne valeva la pena.

Uno di quei giorni, finalmente tornò dalla città sconfitto, bocciato, bocciato ancora una volta agli esami di licenza tecnica. E ora basta! basta davvero! Non voleva piú saperne! Prese libri, quaderni, disegni, squadre, astucci, matite e li portò giú, innanzi alla villa per farne un falò. Il padre accorse per impedirglielo; ma Gerlando, imbestialito, si ribellò:

– Lasciatemi fare! Sono il padrone!

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Sopravvenne la madre; accorsero anche alcuni contadini che lavoravano nella campagna. Una fumicaja prima rada, poi a mano a mano piú densa si sprigionò, tra le grida degli astanti, da quel mucchio di carte; poi un bagliore; poi crepitò la fiamma e si levò. Alle grida, si fecero al balcone Eleonora e la serva.

Gerlando, livido e gonfio come un tacchino, scagliava alle fiamme, scamiciato, furibondo, gli ultimi libri che teneva sotto il braccio, gli strumenti della sua lunga inutile tortura.

Eleonora si tenne a stento di ridere, a quello spettacolo, e si ritrasse in fretta dal balcone. Ma la suocera se ne accorse e disse al figlio:

– Ci prova gusto, sai? la signora; la fai ridere.

– Piangerà! – gridò allora Gerlando, minaccioso, levando il capo verso il balcone.

Eleonora intese la minaccia e impallidí: comprese che la stanca e mesta quiete, di cui aveva goduto finora, era finita per lei. Nient’altro che un momento di tregua le aveva concesso la sorte. Ma che poteva voler da lei quel bruto? Ella era già esausta: un altro colpo, anche lieve, l’avrebbe atterrata.

Poco dopo, si vide innanzi Gerlando, fosco e ansante.

– Si cangia vita da oggi! – le annunziò. – Mi son seccato. Mi metto a fare il contadino, come mio padre; e dunque tu smetterai di far la signora costà. Via, via tutta codesta biancheria! Chi nascerà sarà contadino anche lui, e dunque senza tanti lisci e tante gale. Licenzia la serva: farai tu da mangiare e baderai alla casa, come fa mia madre. Inteso?

Eleonora si levò, pallida e vibrante di sdegno:

– Tua madre è tua madre, – gli disse, guardandolo fieramente negli occhi. – Io sono io, e non posso diventare con te, villano, villana.

– Mia moglie sei! – gridò allora Gerlando, appressandosi violento e afferrandola per un braccio. – E farai ciò che voglio io; qua comando io, capisci?

Poi si volse alla vecchia serva e le indicò l’uscio:

– Via! Voi andate subito via! Non voglio serve per la casa!

– Vengo con te, Gesa! – gridò Eleonora cercando di svincolare il braccio che egli le teneva ancora afferrato.

Ma Gerlando non glielo lasciò; glielo strinse piú forte; la costrinse a sedere.

– No! Qua! Tu rimani qua, alla catena, con me! Io per te mi son prese le beffe: ora basta! Vieni via, esci da codesto tuo covo. Non voglio star piú solo a piangere la mia pena. Fuori! Fuori!

E la spinse fuori della camera.

– E che hai tu pianto finora? – gli disse lei con le lagrime a gli occhi. – Che ho preteso, io da te?

– Che hai preteso? Di non aver molestie, di non aver contatto con me, quasi che io fossi… che non meritassi confidenza da te, matrona! E m’hai fatto servire a tavola da una salariata, mentre toccava a te a servirmi, di tutto punto, come fanno le mogli.

– Ma che n’hai da fare tu, di me? – gli domandò, avvilita, Eleonora. – Ti servirò, se vuoi, con le mie mani, d’ora in poi. Va bene?

Ruppe, cosí dicendo, in singhiozzi, poi sentí mancarsi le gambe e s’abbandonò. Gerlando, smarrito, confuso, la sostenne insieme con Gesa, e tutt’e due la adagiarono su una seggiola.

Verso sera, improvvisamente, fu presa dalle doglie. Gerlando, pentito, spaventato, corse a chiamar la madre: un garzone fu spedito in città per una levatrice; mentre il mezzadro, vedendo già in pericolo il podere, se la nuora abortiva, bistrattava il figlio:

– Bestione, bestione, che hai fatto? E se ti muore, adesso? Se non hai piú figli? Sei in mezzo a una strada! Che farai? Hai lasciato la scuola e non sai neppur tenere la zappa in mano. Sei rovinato!

– Che me ne importa? – gridò Gerlando. – Purché non abbia nulla lei!

Sopravvenne la madre, con le braccia per aria:

– Un medico! Ci vuole subito un medico! La vedo male!

– Che ha? – domandò Gerlando, allibito.

Ma il padre lo spinse fuori:

– Corri! Corri!

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Per via, Gerlando, tutto tremante, s’avvilí, si mise a piangere, sforzandosi tuttavia di correre. A mezza strada s’imbatté nella levatrice che veniva in vettura col garzone.

– Caccia! caccia! – gridò. – Vado pel medico, muore!

Inciampò, stramazzò; tutto impolverato, riprese a correre, disparata-mente, addentandosi la mano che s’era scorticata.

Quando tornò col medico alla villa, Eleonora stava per morire, dissanguata.

– Assassino! assassino! – nicchiava Gesa, attendendo alla padrona. – Lui è stato! Ha osato di metterle le mani addosso.

Eleonora però negava col capo. Si sentiva a mano a mano, col sangue, mancar la vita, a mano a mano le forze raffievolendo scemare; era già fredda… Ebbene: non si doleva di morire; era pur dolce cosí la morte, un gran sollievo, dopo le atroci sofferenze. E, col volto come di cera, guardando il soffitto, aspettava che gli occhi le si chiudessero da sé, pian piano, per sempre. Già non distingueva piú nulla. Come in sogno rivide il vecchio medico che le aveva fatto da testimonio; e gli sorrise.

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V

Gerlando non si staccò dalla sponda del letto, né giorno né notte, per tutto il tempo che Eleonora vi giacque tra la vita e la morte.

Quando finalmente dal letto poté esser messa a sedere sul seggiolone, parve un’altra donna: diafana, quasi esangue. Si vide innanzi Gerlando, che sembrava uscito anch’esso da una mortale malattia, e premurosi attorno i parenti di lui. Li guardava coi begli occhi neri ingranditi e dolenti nella pallida magrezza, e le pareva che ormai nessuna relazione esistesse piú tra essi e lei, come se ella fosse or ora tornata, nuova e diversa, da un luogo remoto, dove ogni vincolo fosse stato infranto, non con essi soltanto, ma con tutta la vita di prima.

Respirava con pena; a ogni menomo rumore il cuore le balzava in petto e le batteva con tumultuosa repenza; una stanchezza greve la opprimeva.

Allora, col capo abbandonato su la spalliera del seggiolone, gli occhi chiusi, si rammaricava dentro di sé di non esser morta. Che stava piú a farci, lí? perché ancora quella condanna per gli occhi di veder quei visi attorno e quelle cose, da cui già si sentiva tanto, tanto lontana? Perché quel ravvicinamento con le apparenze opprimenti e nauseanti della vita passata, ravvicinamento che talvolta le pareva diventasse piú brusco, come se qualcuno la spingesse di dietro, per costringerla a vedere, a sentir la presenza, la realtà viva e spirante della vita odiosa, che piú non le apparteneva?

Credeva fermamente che non si sarebbe rialzata mai piú da quel seggiolone; credeva che da un momento all’altro sarebbe morta di crepacuore. E no, invece; dopo alcuni giorni, poté levarsi in piedi, muovere, sorretta, qualche passo per la camera; poi, col tempo, anche scendere la scala e recarsi all’aperto, a braccio di Gerlando e della serva. Prese infine l’abitudine di recarsi sul tramonto fino all’orlo del ciglione che limitava a mezzogiorno il podere.

S’apriva di là la magnifica vista della piaggia sottostante all’altipiano, fino al mare laggiú. Vi si recò i primi giorni accompagnata, al solito, da Gerlando e da Gesa; poi, senza Gerlando; infine, sola.

Seduta su un masso, all’ombra d’un olivo centenario, guardava tutta la riviera lontana che s’incurvava appena, a lievi lunate, a lievi seni, frastagliandosi sul mare che cangiava secondo lo spirare dei venti; vedeva il sole ora come un disco di fuoco affogarsi lentamente tra le brume muffose sedenti sul mare tutto grigio, a ponente, ora calare in trionfo su le onde infiammate, tra una pompa meravigliosa di nuvole accese; vedeva nell’umido cielo crepuscolare sgorgar liquida e calma la luce di Giove, avvivarsi appena la luna diafana e lieve; beveva con gli occhi la mesta dolcezza della sera imminente, e respirava, beata, sentendosi penetrare fino in fondo all’anima il fresco, la quiete, come un conforto sovrumano.

Intanto, di là, nella casa colonica, il vecchio mezzadro e la moglie riprendevano a congiurare a danno di lei, istigando il figliuolo a provvedere a’ suoi casi.

– Perché la lasci sola? – badava a dirgli il padre. – Non t’accorgi che lei, ora, dopo la malattia, t’è grata dell’affezione che le hai dimostrata? Non la lasciare un momento, cerca d’entrarle sempre piú nel cuore; e poi… e poi ottieni che la serva non si corichi piú nella stessa camera con lei. Ora lei sta bene e non ne ha piú bisogno, la notte.

Gerlando, irritato, si scrollava tutto, a questi suggerimenti.

– Ma neanche per sogno! Ma se non le passa piú neanche per il capo che io possa… Ma che! Mi tratta come un figliuolo… Bisogna sentire che discorsi mi fa! Si sente già vecchia, passata e finita per questo mondo. Che!

– Vecchia? – interloquiva la madre. – Certo, non è piú una bambina; ma vecchia neppure; e tu…

– Ti levano la terra! – incalzava il padre. – Te l’ho già detto: sei rovinato, in mezzo a una strada. Senza figli, morta la moglie, la dote torna ai parenti di lei. E tu avrai fatto questo bel guadagno; avrai perduto la scuola e tutto questo tempo, cosí, senza nessuna soddisfazione… Neanche un pugno di mosche! Pensaci, pensaci a tempo: già troppo ne hai perduto… Che speri?

– Con le buone, – riprendeva, manierosa, la madre. – Tu devi andarci con le buone, e magari dirglielo: «Vedi? che n’ho avuto io, di te? t’ho rispettato, come tu hai voluto; ma ora pensa un po’ a me, tu: come resto io? che farò, se tu mi lasci cosí?». Alla fin fine, santo Dio, non deve andare alla guerra!

– E puoi soggiungere, – tornava a incalzare il padre, – puoi soggiungere: «Vuoi far contento tuo fratello che t’ha trattata cosí? farmi cacciar via di qua come un cane, da lui?». È la santa verità, questa, bada! Come un cane sarai cacciato, a pedate, e io e tua madre, poveri vecchi, con te.

Gerlando non rispondeva nulla. Ai consigli della madre provava quasi un sollievo, ma irritante, come una vellicazione; le previsioni del padre gli movevano la bile, lo accendevano d’ira. Che fare? Vedeva la difficoltà dell’impresa e ne vedeva pure la necessità impellente. Bisognava a ogni modo tentare.

Eleonora, adesso, sedeva a tavola con lui. Una sera, a cena, vedendolo con gli occhi fissi su la tovaglia, pensieroso, gli domandò:

– Non mangi? che hai?

.

Quantunque da alcuni giorni egli s’aspettasse questa domanda provocata dal suo stesso contegno, non seppe sul punto rispondere come aveva deliberato, e fece un gesto vago con la mano.

– Che hai? – insistette Eleonora.

– Nulla, – rispose, impacciato, Gerlando. – Mio padre, al solito…

– Daccapo con la scuola? – domandò lei sorridendo, per spingerlo a parlare.

– No: peggio, – diss’egli. – Mi pone… mi pone davanti tante ombre, m’affligge col… col pensiero del mio avvenire, poiché lui è vecchio, dice, e io cosí, senza né arte né parte: finché ci sei tu, bene; ma poi… poi, niente, dice…

– Di’ a tuo padre, – rispose allora, con gravità, Eleonora, socchiudendo gli occhi, quasi per non vedere il rossore di lui, – di’ a tuo padre che non se ne dia pensiero. Ho provveduto io a tutto, digli, e che stia dunque tranquillo. Anzi, giacché siamo a questo discorso, senti: se io venissi a mancare d’un tratto – siamo della vita e della morte – nel secondo cassetto del canterano, nella mia camera, troverai in una busta gialla una carta per te.

– Una carta? – ripeté Gerlando, non sapendo che dire, confuso di vergogna.

Eleonora accennò di sí col capo, e soggiunse:

– Non te ne curare.

Sollevato e contento, Gerlando, la mattina dopo, riferí ai genitori quanto gli aveva detto Eleonora; ma quelli, specialmente il padre, non ne furono per nulla soddisfatti.

– Carta? Imbrogli!

Che poteva essere quella carta? Il testamento: la donazione cioè del podere al marito. E se non era fatta in regola e con tutte le forme? Il sospetto era facile, atteso che si trattava della scrittura privata d’una donna, senza l’assistenza d’un notajo. E poi, non si doveva aver da fare col cognato, domani, uomo di legge, imbroglione?

– Processi, figlio mio? Dio te ne scampi e liberi! La giustizia non è per i poverelli. E quello là, per la rabbia, sarà capace di farti bianco il nero e nero il bianco.

E inoltre, quella carta, c’era davvero, là, nel cassetto del canterano? O glie l’aveva detto per non esser molestata?

– Tu l’hai veduta? No. E allora? Ma, ammesso che te la faccia vedere, che ne capisci tu? che ne capiamo noi? Mentre con un figliuolo… là! Non ti lasciare infinocchiare: da’ ascolto a noi! Carne! carne! che carta!

Cosí un giorno Eleonora, mentre se ne stava sotto a quell’olivo sul ciglione, si vide all’improvviso accanto Gerlando, venuto furtivamente.

Era tutta avvolta in un ampio scialle nero. Sentiva freddo, quantunque il febbrajo fosse cosí mite, che già pareva primavera. La vasta piaggia, sotto, era tutta verde di biade; il mare, in fondo, placidissimo, riteneva insieme col cielo una tinta rosea un po’ sbiadita, ma soavissima, e le campagne in ombra parevano smaltate.

Stanca di mirare, nel silenzio, quella meravigliosa armonia di colori, Eleonora aveva appoggiato il capo al tronco dell’olivo. Dallo scialle nero tirato sul capo si scopriva soltanto il volto, che pareva anche piú pallido.

– Che fai? – le domandò Gerlando. – Mi sembri una Madonna Addolorata.

– Guardavo…  – gli rispose lei, con un sospiro, socchiudendo gli occhi.

Ma lui riprese:

– Se vedessi come… come stai bene cosí, con codesto scialle nero…

– Bene? – disse Eleonora, sorridendo mestamente. – Sento freddo!

– No, dico, bene di… di… di figura, – spiegò egli, balbettando, e sedette per terra accanto al masso.

Eleonora, col capo appoggiato al tronco, richiuse gli occhi, sorrise per non piangere, assalita dal rimpianto della sua gioventú perduta cosí miseramente. A diciott’anni, sí, era stata pur bella, tanto!

A un tratto, mentre se ne stava cosí assorta, s’intese scuotere leggermente.

– Dammi una mano, – le chiese egli da terra, guardandola con occhi lustri.

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Ella comprese; ma finse di non comprendere.

– La mano? Perché? – gli domandò. – Io non posso tirarti su: non ho piú forza, neanche per me… È già sera, andiamo.

E si alzò.

– Non dicevo per tirarmi su, – spiegò di nuovo Gerlando, da terra. – Restiamo qua, al bujo; è tanto bello…

Cosí dicendo, fu lesto ad abbracciarle i ginocchi, sorridendo nervosamente, con le labbra aride.

– No! – gridò lei. – Sei pazzo? Lasciami!

Per non cadere, s’appoggiò con le braccia a gli omeri di lui e lo respinse indietro. Ma lo scialle, a quell’atto, si svolse, e, com’ella se ne stava curva su lui sorto in ginocchio, lo avvolse, lo nascose dentro.

– No: ti voglio! ti voglio! – diss’egli, allora, com’ebbro, stringendola vieppiú con un braccio, mentre con l’altro le cercava, piú su, la vita, avvolto nell’odore del corpo di lei.

Ma ella, con uno sforzo supremo, riuscí a svincolarsi; corse fino all’orlo del ciglione; si voltò; gridò:

– Mi butto!

In quella, se lo vide addosso, violento; si piegò indietro, precipitò giú dal ciglione.

Egli si rattenne a stento, allibito, urlando, con le braccia levate. Udí un tonfo terribile, giú. Sporse il capo. Un mucchio di vesti nere, tra il verde della piaggia sottostante. E lo scialle, che s’era aperto al vento, andava a cadere mollemente, cosí aperto, piú in là.

Con le mani tra i capelli, si voltò a guardare verso la casa campestre; ma fu colpito negli occhi improvvisamente dall’ampia faccia pallida della Luna sorta appena dal folto degli olivi lassú; e rimase atterrito a mirarla, come se quella dal cielo avesse veduto e lo accusasse.

Relatos para un año I, III, V

Versión 2006-2011

Textos del primer volumen, Mantón negro

        1. Mantón negro
        2. Primera noche
        3. El humo
        4. La capilla
        5. Defensa de Mèola
        6. Los afortunados
        7. Visto que no llueve…
        8. Formalidades
        9. Lapo Vannetti
        10. El pequeño abanico
        11. ¡Y dos!
        12. Muy amigos
        13. Si…
        14. Remedio: la geografía
        15. Respuesta
        16. El murciélago

 

1.1 Mantón negro

I

– Espera aquí, – le dijo Bandi a D´Andrea.- Voy a avisarla. Si se obstina aún, entrarás a la fuerza.

Miopes los dos, hablaban muy cerca, en pie, uno frente al otro. Parecían hermanos, de la misma edad, de la misma complexión: altos, delgados, rígidos, de esa rigidez angustiosa de quien lo hace todo con puntos y comas, con meticulosidad. Y era raro el caso de que, hablando así entre ellos, uno no le ajustase al otro con el dedo las gafas en la nariz, o el nudo de la corbata bajo la barbilla, o bien, al no encontrar nada que ajustar, no le tocara al otro los botones de la chaqueta. Hablaban, por lo demás, poquísimo. Y la tristeza taciturna de su índole se mostraba claramente en la tristeza de sus caras.

Habían crecido juntos y habían estudiado ayudándose mutuamente hasta la universidad, donde luego uno se había licenciado en leyes, y el otro, en medicina. Separados ahora, durante el día, por sus trabajos, cada día al atardecer daban aún juntos su paseo por la alameda, a la salida del pueblo.

Se conocían tan a fondo, que bastaba una ligera señal, una mirada, una palabra, para que uno comprendiera en seguida el pensamiento del otro. Así, ese paseo suyo comenzaba siempre con un breve intercambio de frases y luego seguían en silencio, como si uno le hubiera dado al otro que rumiar para un rato. E iban con la cabeza baja, como dos caballos cansados, ambos con las manos detrás de la espalda. Ninguno de los dos sentía nunca la tentación de volver la cabeza hacia la baranda de la alameda para gozar de la vista del campo abierto de abajo, con su variedad de colinas y valles y llanuras, con el mar al fondo, que se encendía entero con los últimos fuegos del ocaso. Vista de tanta belleza, que incluso parecía increíble que ellos dos pudieran pasar por delante así, sin siquiera volverse a mirar.

Días atrás, Bandi le había dicho a D´Andrea.

– Eleonora no está bien.

D´Andrea había mirado a los ojos al amigo y había comprendido que el mal de la hermana tenía que ser leve:

– ¿Quieres que vaya a visitarla?

– Dice que no.

Y los dos, paseando, se pusieron a pensar con el ceño fruncido, como por rencor, en esa mujer que les había hecho de madre y a quien se lo debían todo.

D´Andrea había perdido de muchacho a los padres y había sido acogido en casa de un tío que no habría podido de ningún modo facilitarle una salida. Eleonora Bandi, que también se había quedado huérfana a los dieciocho años con el hermano mucho más pequeño que ella, ingeniándoselas primero con minuciosas y sabias economías sobre lo poco que les habían dejado los padres, y luego trabajando, dando clases de piano y de canto, había podido mantener en los estudios al hermano, e incluso a su inseparable amigo.

– En compensación, sin embargo, – solía decirles riendo a los dos jóvenes – me he quedado con toda la carne que os falta a vosotros dos.

Era, de hecho, una mujerona que no terminaba nunca; pero todavía tenía dulcísimas las líneas de la cara y el aire inspirado de los angelotes de mármol que se ven en las iglesias, con las túnicas vaporosas. Tanto la mirada de los hermosos ojos negros, casi aterciopelados por las largas pestañas, como el sonido de la voz armoniosa parecían que querían atenuar, con cierto estudio que la atormentaba, la impresión de altivez que ese cuerpo suyo tan grande podía despertar a la primera; y sonreía por ello tristemente. 

Tocaba y cantaba, quizás no muy correctamente, pero con fuelle apasionado. Si no hubiera nacido y crecido entre los prejuicios de una pequeña ciudad y no hubiese tenido el impedimento de ese hermanito, se habría aventurado quizás a la vida del teatro. Había sido ese, un tiempo, su sueño; solo un sueño, sin embargo. Tenía ahora cerca de cuarenta años. La consideración, por lo demás, de la que gozaba en el pueblo por sus dotes artísticas la recompensaba, al menos en parte, del sueño fracasado, y la satisfacción de haber realizado otro, el de haberles abierto con su propio trabajo el futuro a dos pobres huérfanos, la recompensaba del largo sacrificio de sí misma.

El doctor D´Andrea esperó un buen rato en el salón que el amigo volviese a llamarlo.

Ese salón lleno de luz, aunque de techo bajo, decorado con muebles ya gastados, de antiguo diseño, respiraba casi un aire de otro tiempo y parecía que se contentase, en la quietud de los dos grandes espejos frontales, con la inmóvil visión de su antigüedad descolorida. Los viejos retratos de familia colgados en las paredes eran, allí dentro, los verdaderos y únicos inquilinos. Nuevo solo había un piano de media cola, el piano de Eleonora, que parecía que miraban hostiles las figuras representadas en esos retratos.

Impaciente, al fin, por la larga espera, el doctor se levantó, fue hasta el umbral, asomó la cabeza, oyó llanto en la habitación de al lado, a través de la puerta cerrada. Entonces, se movió y fue a llamar con los nudillos en esa puerta.

– Entra, – le dijo Bandi, abriendo. – No logro comprender por qué se obstina de este modo.

– ¡Pues porque no tengo nada! – gritó Eleonora entre lágrimas.

Estaba sentada en un amplio sillón de cuero, vestida como siempre de negro, enorme y pálida; pero siempre con esa cara suya de muñecona, que ahora parecía más extraña que nunca, y quizás más ambigua que extraña, por cierto endurecimiento de los ojos, casi de loca fijeza, que ella, sin embargo, quería disimular.

– No tengo nada, os lo aseguro, -repitió más calmada. – Por caridad, dejadme en paz: no os preocupéis por mí.

– ¡Está bien! – concluyó el hermano, duro y tozudo. – Entretanto, aquí está Carlo. Él dirá lo que tienes. – Y salió de la habitación, cerrando con furia la puerta tras sí.

Eleonora se llevó las manos a la cara y estalló en violentos sollozos. D´Andrea se quedó un rato mirándola, entre enfadado y embarazado; luego preguntó:

– ¿Por qué? ¿Qué tiene? ¿No puede decírmelo ni siquiera a mí?

Y como Eleonora seguía sollozando, él se acercó, intentó separarle con fría delicadeza una mano de la cara:

– Cálmese, vamos. Dígamelo a mí. Estoy aquí.

Eleonora sacudió la cabeza; luego, de pronto, aferró con sus manos la de él, contrajo la cara, como por un dolor punzante, y gimió:

– ¡Carlo! ¡Carlo!

D´Andrea se inclinó sobre ella, un poco azorado en su rígida actitud.

– Dígame…

Entonces, ella apoyó una mejilla en la mano de él y le rogó desesperadamente, en voz baja:

– Ayúdame a morir, Carlo; ¡ayúdame tú, por caridad!, no encuentro el modo, me falta el valor, las fuerzas.

– ¿Morir? – preguntó el joven, sonriendo. – ¿Qué dice? ¿Por qué?

– ¡Morir, sí! – continuó ella, sofocada por los sollozos. – Enséñame tú el modo. Tú eres médico. ¡Líbrame de esta agonía, por caridad! Debo morir. No hay remedio para mí. Solo la muerte.

Él la miró, asombrado. También ella levantó los ojos para mirarlo, pero en seguida los cerró, contrayendo de nuevo la cara y encogiéndose, casi atrapada por un improvisto, intensísimo asco.

– Sí, sí, – dijo luego, con resolución. – Yo, sí, Carlo. ¡Perdida!, ¡perdida!

Instintivamente D´Andrea retiró la mano, que ella tenía aún entre las suyas.

– ¡Cómo! ¿Qué dice? – balbució.

Sin mirarlo, se puso un dedo en la boca, luego indicó la puerta:

– ¡Si él lo supiese! No le digas nada, ¡por piedad!  Hazme antes morir; dame, dame algo, lo tomaré como una medicina, creeré que es un medicina que tú me das, ¡basta que sea rápido! ¡Ay, no tengo valor, no tengo valor! Desde hace dos meses, ves, me debato en esta agonía, sin encontrar la fuerza, el modo de acabar. ¿Qué ayuda puedes darme, Carlo, qué dices?

– ¿Qué ayuda? – repitió D´Andrea, aún confuso en el estupor.

Eleonora extendió de nuevo las manos para cogerle un brazo y, mirando con ojos suplicantes, añadió:

– Si no quieres ayudarme a morir, ¿no podrías…  de algún modo… salvarme?

D´Andrea, ante esta propuesta, se puso más tenso que nunca, y frunció con severidad las cejas.

– ¡Te lo suplico, Carlo! –insistió ella. – No por mí, no por mí, sino para que Giorgio no lo sepa. Si tú crees que yo he hecho algo por vosotros, por ti, ¡ayúdame ahora, sálvame! ¿Tengo que terminar así, tras haber hecho tanto, tras haber sufrido tanto?, ¿así, en esta ignominia, a mi edad? ¡Ay, qué miseria!, ¡qué horror!

– Pero ¿cómo, Eleonora? ¡Usted! ¿Cómo ha sido? ¿Quién ha sido? – dijo D´Andrea, no encontrando, frente a la tremenda angustia de ella, sino esta pregunta para su curiosidad aturdida.

De nuevo Eleonora indicó la puerta y se cubrió la cara con las manos:

– ¡No me hagas recordarlo! ¡No puedo recordarlo! Entonces, ¿no puedes ahorrarme esta vergüenza?

– ¿Y cómo? – preguntó D´Andrea. – ¡Es un delito, usted lo sabe! Sería un delito doble. Mejor, dígame, ¿no podríamos… remediarlo de otro modo?

– ¡No! – respondió ella, con brusquedad, ensombreciéndose.- Basta. He comprendido. ¡Déjame! No puedo más…

Abandonó la cabeza en el respaldo del sillón, relajó los miembros, agotada.

Carlo D´Andrea, con los ojos fijos detrás de las gruesas lentes de miope, esperó un rato, sin encontrar palabras, sin poder creer aún esa revelación, sin lograr imaginar cómo esa mujer, hasta ahora ejemplo, espejo de virtud, de abnegación, había podido caer en la culpa. ¿Era posible? ¿Eleonora Bandi? Pero ¡si en su juventud, por amor al hermano, había rechazado tantos partidos, a cual más ventajoso! ¿Cómo podía ser que ahora, ahora que la juventud había llegado a su ocaso…?  ¡Eh!, quizás por esto…

La miró, y la sospecha, frente a ese cuerpo tan voluminoso, asumió de improviso, a los ojos de él, delgado, un aspecto horriblemente deforme y obsceno.

– ¡Vete, pues! – le dijo de pronto, irritada, Eleonora, quien sin siquiera mirarlo, en ese silencio, sentía encima de ella el inerte horror de esa sospecha en los ojos de él. – Vete, ve a decírselo a Giorgio para que haga en seguida conmigo lo que quiera. Vete.

D´Andrea salió, casi automáticamente. Ella levantó un poco la cabeza para verlo salir; luego, apenas cerrada la puerta, volvió a caer en la misma postura de antes.

II

Tras dos meses de horrenda angustia, la confesión de su estado la alivió, inesperadamente. Le pareció que la mayor parte ya estaba hecha.

Ahora, no teniendo más fuerzas para luchar, para resistir a ese tormento, se abandonaría así a la suerte, fuese la que fuese.

El hermano, dentro de poco, ¿entraría y la mataría? Pues bien, ¡tanto mejor! Ya no tenía derecho a ninguna consideración, a ninguna compasión. Había hecho, ciertamente, por él y por el otro ingrato, más de cuanto era su obligación, pero luego, en un momento, había perdido el fruto de todos sus beneficios.

Cerró los ojos, atrapada de nuevo por el asco.

En el fondo de su propia consciencia, se sentía miserablemente responsable de su falta. Sí, ella, ella que durante tantos años había tenido la fuerza de resistir a los impulsos de la juventud, ella que había abrigado siempre sentimientos puros y nobles, ella que había considerado el propio sacrificio como un deber, ¡en un momento, perdida! ¡Oh, miseria, miseria!

La única razón que sentía poder aducir en su disculpa, ¿qué valor podía tener ante el hermano? ¿Podía decirle: – “Mira, Giorgio, quizás he caído por ti”? – Y, sin embargo, la verdad quizás fuera esta.

Le había hecho de madre, ¿no es verdad?, a ese hermano. Pues bien, como premio de todos los beneficios alegremente prodigados, como premio del sacrificio de su propia vida, no le había sido concedido ni el placer de descubrir una sonrisa, aunque leve, de satisfacción en los labios de él y del amigo. Parecía que ambos tenían el alma envenenada por el silencio y el aburrimiento, oprimida como por una idiota angustia. Conseguida la licencia, en seguida se lanzaron al trabajo, como dos bestias, con tanta aplicación, con tanto tesón, que en poco tiempo lograron bastarse a sí mismos. Ahora, esta prisa por saldar la deuda de algún modo, como si ambos no vieran la hora, precisamente le había herido el corazón. Casi de golpe, así, se había encontrado sin más finalidad en la vida. ¿Qué le quedaba por hacer, ahora que los dos jóvenes no la necesitaban ya? Y ella había perdido irremediablemente la juventud.

Ni siquiera con las primeras ganancias de la profesión había vuelto la sonrisa a los labios del hermano. ¿Acaso sentía aún el peso del sacrificio que ella había hecho por él?, ¿se sentía aún vinculado por este sacrificio para toda la vida, condenado a sacrificar a su vez su propia juventud, la libertad de sus propios sentimientos por la hermana? Y había querido hablarle abiertamente:

– ¡No te preocupes por mí, Giorgio! Solo quiero verte alegre, contento… ¿comprendes?

Pero le había cortado en seguida las palabras:

– ¡Calla, calla! ¿Qué dices? Sé lo que tengo que hacer. Ahora me toca a mí.

– Pero ¿cómo?, ¿así? – hubiera querido gritarle ella, quien, sin pensárselo dos veces, se había sacrificado con la sonrisa siempre en los labios y el corazón ligero.

Conociendo su cerrada, dura obstinación, no insistió. Pero, entretanto, no se sentía con fuerzas para soportar esa tristeza sofocante.

Él redoblaba cada día las ganancias de la profesión; la rodeaba de comodidades; quiso que ella dejara de dar clases. En ese ocio forzado, que la envilecía, todavía había acogido, desgraciadamente, un pensamiento que desde el principio casi le había hecho reír:

“¡Si encontrase marido!”

Pero ya tenía treinta y nueve años, y además ese cuerpo… ¡oh, vamos! – el marido habría tenido que fabricárselo a propósito. Y, sin embargo, habría sido el único medio para librarse a ella misma y al hermano de esa opresiva deuda de gratitud.

Casi sin quererlo, se había puesto entonces insólitamente a cuidar su persona, asumiendo cierto aire de soltera que antes nunca se había dado.

Los dos o tres que tiempo atrás le habían pedido matrimonio ya tenían mujer e hijos. Antes, no se había preocupado; ahora, pensándolo, sentía despecho; sentía envidia por tantas amigas suyas que habían logrado procurarse un estado.

Ella sola se había quedado así…

Pero quizás aún había tiempo, ¿quién sabe? ¿Tenía que cerrarse así su vida siempre activa?, ¿en ese vacío?, ¿tenía que apagarse así esa llama despierta de su espíritu apasionado?, ¿en esa sombra?

Y un profundo rencor la había invadido, exacerbado a veces por ansias que alteraban sus gracias espontáneas, el sonido de sus palabras, de sus risas. Se había vuelto hiriente, casi agresiva en sus conversaciones. Se daba cuenta ella misma del cambio de su propia índole; sentía en algunos momentos casi odio por sí misma, repulsión por su cuerpo vigoroso, asco por los deseos insospechados en que, ahora, de improviso, aquel se le encendía turbándola profundamente.

El hermano, entretanto, con los ahorros, había adquirido recientemente una finca y había construido en ella una hermosa casa.

Empujada por él, había ido primero a pasar un mes de vacaciones; luego, pensando que el hermano quizás había adquirido esa finca para desembarazarse de vez en cuando de ella, había deliberado retirarse allí para siempre. Así, lo dejaría completamente libre: no lo molestaría con su compañía, con su vista, y también a ella, allí, poco a poco, se le quitaría de la cabeza esa idea extraña de encontrar marido a su edad.

Los primeros días habían transcurrido bien, y había creído que le sería fácil seguir así.

Ya había cogido la costumbre de levantarse cada día al alba y dar un largo paseo por el campo, parándose de vez en cuando, encantada, ya para escuchar en el atónito silencio de los llanos, donde alguna brizna de hierba cercana se estremecía con el frescor del aire, el canto de los gallos, que se llamaban de una a otra era; ya para admirar algún peñasco atigrado de tártaros verdes, o el terciopelo de líquenes en el viejo tronco retorcido de algún olivo sarraceno.

Ah, allí, tan cerca de la tierra, se le formaría pronto otra alma, otro modo de pensar y de sentir; llegaría a ser como esa buena mujer del arrendatario que se mostraba tan alegre de hacerle compañía y que ya le había enseñado tantas cosas del campo, tantas cosas tan simples de la vida y que revelaban, sin embargo, un nuevo sentido profundo, insospechado.

El arrendatario, en cambio, era insoportable. Se vanagloriaba de tener grandes ideas; había corrido mundo, había estado en América, ocho años en Benosarie, y no quería que su único hijo, Gerlando, fuera un vil labrador. Desde hacía trece años, por tanto, lo mantenía en la escuela; quería darle un poco de letras, decía, para luego enviarlo a América, allá, a la gran ciudad, donde sin duda haría fortuna.

Gerlando tenía diecinueve años, y en trece de escuela apenas había llegado a tercero de técnica. Era un mozalbete rudo, de un bloque. La fijación del padre constituía para él un verdadero martirio. Con el trato de los compañeros de escuela, había llegado a tener, sin quererlo, cierto aire de ciudad que, sin embargo, lo volvía más torpe.

A fuerza de agua, cada mañana, lograba doblegar los cabellos hirsutos y sacarse la raya a un lado; pero luego esos cabellos, ya secos, se le erizaban compactos y tiesos aquí y allá, como si le brotasen de la piel del cráneo; incluso las cejas parecían brotarle, un poco más abajo, de la frente baja, y ya sobre el labio y en el mentón comenzaban a brotarle los primeros vellos de los bigotes y de la barba, a matojillos. ¡Pobre Gerlando!, daba compasión, tan grande, tan duro, tan hirsuto, con un libro abierto delante. El padre tenía que sudar, ciertas mañanas, para sacudirlo de los sabrosos sueños profundos, de cerdito harto y satisfecho, y encaminarlo aún atontado y tambaleante, con los ojos embelesados, a la ciudad vecina, a su martirio.

Cuando llegó al campo la señorita, Gerlando le había hecho llegar a través de su madre el ruego de que persuadiera al padre para que dejara de atormentarlo con esta escuela, ¡con esta escuela, con esta escuela! ¡No podía más!

Y, de hecho, Eleonora había intentado interceder, pero el arrendatario, – ah, no, no, no, no – homenaje, respeto, todo el respeto por la señorita, pero también le rogaba que no se entrometiera. Y entonces, ella, un poco por piedad, un poco por reír, un poco por entretenerse, se había puesto a ayudar a ese pobre jovenzuelo, en lo que podía.

Después del almuerzo, lo hacía venir con sus libros y sus cuadernos de la escuela. Él subía azorado y avergonzado, porque se daba cuenta de que la señora comenzaba a disfrutar con su necedad, con su dureza de mente, pero ¿qué podía hacer?, el padre lo quería así. Para el estudio, sí, era un animal; no tenía dificultad en reconocerlo; pero si se hubiera tratado de abatir un árbol, un buey, eh, por todos los santos… – y Gerlando mostraba los brazos musculosos, con ojos tiernos y una sonrisa de dientes blancos y fuertes…

Improvisamente, de un día para otro, ella cortó con esas lecciones; no quiso verlo más; mandó que le trajeran de la ciudad el piano y durante bastantes días se encerró en la casa a tocar, a cantar, a leer, sin control. Una tarde, al fin, se dio cuenta de que aquel jovenzuelo, privado así de pronto de su ayuda, de la compañía que ella le daba y de las bromas que se permitía con él, la espiaba para escucharla cantar y tocar, y ella, cediendo a una mala inspiración, quiso sorprenderlo, dejando de pronto el piano y bajando precipitadamente la escalera de la casa.

– ¿Qué haces ahí?

– Estoy escuchando…

– ¿Te gusta?

– Mucho, sí, señora… Me siento en el paraíso.

Ante esta declaración estalló de risa; pero, de improviso, Gerlando, como abofeteado por esa risotada, se tiró encima de ella, allí, detrás de la casa, en la oscuridad densa, al otro lado de la zona de luz que llegaba del balcón abierto arriba.

Así fue.

Vencida de ese modo, no había sabido rechazarlo; sintió que se desmayaba – no sabía ya cómo – ante ese ímpetu brutal y se había abandonado, sí, cediendo aun sin querer concederlo.

Al día siguiente volvió a la ciudad.

¿Y ahora?, ¿cómo no entraba Giorgio para avergonzarla? Quizás D´Andrea aún no le había dicho nada, quizás pensaba cómo salvarla. Pero ¿cómo?

Se ocultó la cara entre las manos, como para no ver el vacío que se le abría delante. Pero también en su interior estaba ese vacío. Y no había remedio. Solo la muerte. ¿Cuándo?, ¿cómo?

La puerta, de pronto, se abrió, y Giorgio apareció en el umbral descompuesto, palidísimo, con los cabellos desordenados y los ojos aún rojos de llanto. D´Andrea lo tenía del brazo.

– Quiero saber solo esto, – le dijo a la hermana, con los dientes apretados, con voz silbante, casi separando las sílabas: – Quiero saber quién ha sido.

Eleonora, con la cabeza inclinada, con los ojos cerrados, sacudió lentamente la cabeza y comenzó a sollozar.

– Me lo dirás, – gritó Bandi, acercándose, sujetado por el amigo. – Y con quienquiera que sea, ¡te casarás!

– ¡No puede ser, Giorgio! – gimió aún ella, bajando más la cabeza y retorciéndose en el seno las manos. – ¡No!, ¡no es posible!, ¡no es posible!

– ¿Está casado? – preguntó él, acercándose más, con los puños apretados, terrible.

– No, – se apresuró a responderle ella. – Pero no es posible, ¡créelo!

– ¿Quién es? – continuó Bandi, todo tembloroso, asediándola de cerca.- ¿Quién es?, ¡pronto, el nombre!

Sintiendo encima la furia del hermano, Eleonora se encogió, intentó levantar un poco la cabeza y gimió bajo los ojos fieros de él:

– No puedo decírtelo…

– ¡El nombre, o te mato! – rugió entonces Bandi, alzando un puño sobre la cabeza de ella.

Pero D´Andrea se interpuso, apartó al amigo, luego le dijo severamente:

– Vete. Me lo dirá a mí. Vete, vete…

Y lo hizo salir, a la fuerza, de la habitación.

III

El hermano fue inamovible.

En los pocos días que fueron necesarios para las publicaciones de rito, antes del matrimonio, se ensañó en el escándalo. Para prevenir las bromas que se esperaba de todos, tomó ferozmente el partido de ir proclamando su vergüenza, con horribles crudezas de lenguaje. Parecía enloquecido; y todos lo compadecían.

Le tocó, sin embargo, tener que luchar un poco con el arrendatario, para hacer que este condescendiera a las bodas del hijo.

Aunque de ideas abiertas, el viejo, al principio, pareció caer de las nubes: no quería creer que fuera posible una cosa semejante. Luego dijo:

– No lo dude su señoría. Lo pisaré con mis propios pies, ¿sabe cómo?, como se pisa la uva. O mejor, hagamos así: se lo entrego, atado de pies y manos; y su señoría se tomará toda la satisfacción que quiera. El látigo, para los latigazos, se lo procuro yo, y se lo tengo antes a propósito tres días en remojo, para que golpee mejor.

Pero cuando comprendió que el señor no pretendía esto, sino que quería otra cosa, el matrimonio, se sorprendió de nuevo:

– ¡Cómo! ¿Qué dice, su señoría? ¿Una señorona de esa clase con el hijo de un vil campesino?

Y opuso un duro rechazo.

– Perdóneme. Pero la señorita tenía el juicio y la edad; conocía el bien y el mal, no tenía que haber hecho con mi hijo lo que hizo. ¿Tengo que hablar? Se lo llevaba arriba a la casa todos los días. Su señoría me entiende… Un mozalbete… A esa edad, no se razona, no se presta atención… ¿Ahora puedo perder así a mi hijo, que Dios sabe cuánto me cuesta? La señorita.  Hablando con respeto, puede ser su madre…

Bandi tuvo que prometer como dote la cesión de la finca y una asignación diaria a la hermana.

Así se estableció el matrimonio; y, cuando tuvo lugar, fue un verdadero acontecimiento para ese poblacho.

Pareció que todos sintieran un gran placer destrozando públicamente la admiración, el respeto durante tantos años tributados a esa mujer; como si entre la admiración y el respeto, de lo que ya no la estimaban digna, y el escarnio con que ahora la acompañaban a esas bodas vergonzosas, no pudiera haber sitio para un poco de compasión.

La compasión era completamente para el hermano; el cual, se entiende, no quiso participar en la ceremonia. No participó ni siquiera D´Andrea, excusándose con que tenía que acompañar, ese triste día, a su pobre Giorgio.

Un viejo médico de la ciudad, que ya lo había sido de los padres de Eleonora, y al que D´Andrea, recién llegado fresco de los estudios, con todas las luces y las sofisticaciones de la novísima terapéutica, le había quitado gran parte de la clientela, se ofreció como testigo y llevó consigo a otro viejo, un amigo suyo, como segundo testigo.

Con ellos, Eleonora llegó en coche cerrado al Ayuntamiento; luego, a una pequeña iglesia apartada, para la ceremonia religiosa.

En otro coche iba el esposo, Gerlando, turbio y enfurruñado, con los padres. Estos, vestidos de fiesta, mostraban su orgullo, inflados y serios, porque, al final, el hijo se casaba con una verdadera señora, hermana de un abogado, y traía como dote un campo con una magnífica casa, y encima, dinero. Gerlando, para hacerse digno del nuevo estado, continuaría con los estudios. La finca la atendería él, el padre, que entendía de ello. ¿Que la esposa era un poco vieja? ¡Tanto mejor! El heredero ya estaba en camino. Por ley natural ella moriría antes, y Gerlando entonces se quedaría libre y rico.

Estas y otras reflexiones semejantes hacían también, en un tercer coche, los testigos del esposo, campesinos amigos del padre, en compañía de dos viejos tíos maternos. Los otros parientes y amigos del esposo, innumerables, esperaban en la casa, todos vestidos de fiesta, con trajes de paño turquesa, los hombres; con capitas nuevas y pañuelos de los colores más vistosos, las mujeres. Pues el arrendatario, de grandes ideas, había preparado una recepción precisamente excepcional.

En el ayuntamiento, a Eleonora, antes de entrar en la sala del estado civil, la asaltó una convulsión de llanto; el esposo, que se mantenía aparte, en corro con los familiares, acudió empujado por estos; pero el viejo médico le rogó que no se dejara ver, que se apartara, por el momento.

Aún no repuesta de esa crisis violenta, Eleonora entró en la sala; vio a su lado a ese muchacho, cuyo empacho y vergüenza lo volvían más híspido y ridículo; tuvo un ímpetu de rebeldía; estuvo a punto de gritar: – ¡No! ¡No! – y lo miró como para empujarlo a gritar así también a él. Pero poco después dijeron que sí los dos, como condenados a una pena inevitable. Despachada con mucha prisa la otra función en la pequeña iglesia solitaria, el triste cortejo se dirigió a la casa. Eleonora no quería separarse de los dos viejos amigos; pero tuvo que subir al coche con el esposo y con los suegros.

Por el camino, no intercambiaron ni una palabra en el coche.

El arrendatario y la mujer parecían aturdidos, levantaban la mirada de vez en cuando para mirar de pasada a la nuera; luego, se miraban a su vez y bajaban los ojos. El esposo miraba afuera, completamente encerrado en sí mismo, ceñudo.

En casa los acogieron con un estrepitoso disparo de morteros, gritos festivos y palmadas. Pero el aspecto y la actitud de la esposa helaron a todos los invitados, aunque ella intentara incluso sonreírle a esa buena gente que procuraba festejarla a su manera, como es costumbre en las bodas.

Pidió pronto permiso para retirarse sola; pero en la habitación en la que había dormido durante las vacaciones, al encontrar preparada la cama de matrimonio, se detuvo de pronto, en el umbral: – ¿Ahí?, ¿con él? ¡No! ¡Nunca! ¡Nunca! – Y, dominada por la repulsión, huyó a otra habitación, se encerró en ella con llave, cayó en una silla, apretándose muy fuerte el rostro con las dos manos.

Le llegaban, a través de la puerta, las voces, las risas de los invitados, que incitaban allí a Gerlando, a quien felicitaban, más que por la esposa, por el buen parentesco que había contraído y por el buen campo.

Gerlando estaba asomado al balcón y, por toda respuesta, lleno de vergüenza, sacudía de vez en cuando los poderosos hombros.

Vergüenza, sí, sentía vergüenza de ser marido de ese modo, de esa señora, ¡así era! Y toda la culpa era de su padre, quien, por esa maldita fijación con la escuela, había hecho que la señorita lo tratara como a un muchachote estúpido e inepto, cuando ella vino de vacaciones, al favorecer que ella le gastara bromas que lo habían herido. Y he ahí, en tanto, lo que había sucedido. El padre no pensaba sino en el buen campo. Pero él ¿cómo viviría de ahora en adelante con esa mujer que le infundía tanta sumisión y que ciertamente lo odiaba por la vergüenza y el deshonor? ¿Cómo se atrevería a levantar la mirada ante ella? Y, por añadidura, ¡el padre pretendía que él continuara con los estudios! ¡Figurémonos cómo se mofarían de él los compañeros! Su mujer tenía veinte años más que él, y parecía una montaña, parecía…

Mientras Gerlando se torturaba con estas reflexiones, el padre y la madre esperaban los últimos preparativos del almuerzo. Finalmente, los dos entraron triunfantes en la sala, donde la mesa ya estaba dispuesta. El servicio de mesa había sido preparado para el acontecimiento por un chef de la ciudad que también había enviado a un cocinero y a dos camareras para servir el almuerzo.

El arrendatario fue a buscar a Gerlando al balcón y le dijo:

– Ve a avisar a tu mujer que dentro de poco todo estará listo.

– ¡No voy, no, señor! – gruñó Gerlando, dando un zapatazo. – Vaya usted.

– ¡Te corresponde a ti, animal! – le gritó el padre. – ¡Tú eres el marido, ve!

– Muchas gracias… ¡No, señor! ¡No voy! – repitió Gerlando, duro, evadiéndose.

Entonces, el padre, airado, lo agarró por la solapa de la chaqueta y le dio un empujón.

– ¿Te avergüenzas, animal? ¿Te has liado con ella antes, y ahora te avergüenzas? ¡Ve! ¡Es tu mujer!

Los invitados acudieron a poner paz, a persuadir a Gerlando a ir.

– ¿Qué tiene de malo? Le dirás que venga a tomar un bocado…

-¡Pero si no sé siquiera cómo tengo que llamarla! – gritó Gerlando, exasperado.

Algunos invitados estallaron de risa, otros se dispusieron para sujetar al arrendatario que se había lanzado a abofetear al imbécil del hijo que le estropeaba así la fiesta preparada con tanta solemnidad y tanto gasto.

– La llamarás por su nombre de bautismo, – le decía en tanto, lenta y persuasiva, la madre. – ¿Cómo se llama? Eleonora, ¿no es verdad?, pues tú, llámala Eleonora. ¿No es tu mujer? Ve, hijo mío, ve… Y, hablándole así, lo llevó al dormitorio de matrimonio.

Gerlando fue a llamar a la puerta. Golpeó una primera vez, lento. Esperó. Silencio. ¿Cómo le hablaría? ¿Tenía precisamente que tutearla, así, la primera vez? ¡Ah, maldito lío! ¿Y por qué, en tanto, no respondía ella? Quizás no había oído. Volvió a llamar más fuerte. Esperó. Silencio.

Entonces, todo azorado, intentó llamar en voz baja, como le había sugerido la madre. Pero le salió un Eleonora tan ridículo, que pronto, como para borrarlo, llamó fuerte, franco:

– ¡Eleonora!

Oyó al fin la voz de ella que preguntaba tras la puerta de otra habitación.

– ¿Quién es?

Se acercó a esa puerta, con la sangre toda revuelta.

– Yo, -dijo – yo Ger… Gerlando… Está listo.

– No puedo, – respondió ella. – Continuad sin mí.

Gerlando volvió a la sala, aliviado de un gran peso.

– ¡No viene! ¡Dice que no viene! ¡No puede!

– ¡Viva el animal! – exclamó entonces el padre, que no lo llamaba de otro modo. – ¿Le has dicho que estaba puesta  la mesa? ¿Y por qué no la has forzado a venir?

La mujer se interpuso, hizo que el marido entendiera que sería mejor, quizás, que dejaran en paz a la esposa ese día. Los invitados aprobaron.

– La emoción… el malestar… ¡ya se sabe!

Pero el arrendatario, que se había empeñado en demostrarle a la nuera que, en esa ceremonia, él sabía cumplir su obligación, se quedó ceñudo y ordenó de mala manera que se sirviera el almuerzo.

Había un deseo de platos finos, que ahora llegarían a la mesa, pero había también en todos esos invitados una seria consternación por todo lo superfluo que veían lucir en el mantel nuevo, que los cegaba: cuatro vasos de diversa forma y tenedores y tenedorcitos, cuchillos y cuchillitos, y ciertas plumillas, además, dentro de los envoltorios de papel de seda.

Sentados muy separados de la mesa, sudaban también por los pesados trajes de paño de la fiesta, y se miraban las caras duras, secas, transformadas por la insólita limpieza; y no osaban levantar las grandes manos deformadas por los trabajos del campo para coger esos tenedores de plata (¿el pequeño o el grande?) o esos cuchillos, bajo la mirada de los camareros que, dando vueltas con los servicios, con esos guantes de hilo blanco, despertaban en ellos un terrible embarazo.

El arrendatario, en tanto, mientras comía, miraba al hijo y sacudía la cabeza, con una expresión en la cara de irrisoria conmiseración.

– ¡Miradlo, miradlo! –mascullaba. – ¿Qué papel está haciendo ahí solo, desparejado, presidiendo la mesa? ¿Cómo va a tener la mujer consideración con tal armatoste? Tiene razón, tiene razón al avergonzarse de él. ¡Ah, si hubiera estado yo en su lugar!

Acabado el almuerzo en medio del enfado general, los invitados, con una excusa o con otra, se fueron. Era ya casi de noche.

– ¿Y ahora? – le dijo el padre a Gerlando, cuando los dos camareros acabaron de recoger la mesa, y todo en la casa estuvo tranquilo. – ¿Qué harás, ahora? ¡Te las arreglarás tú!

Y le ordenó a su mujer que lo siguiera a la casa de labranza, donde vivían, poco distante de la casa principal.

Ya solo, Gerlando miró a su alrededor, ceñudo, sin saber qué hacer.

Sintió en el silencio la presencia de la que estaba encerrada allí. Quizás, ahora, al no oír ningún ruido, saldría de la habitación. ¿Qué debería hacer él, entonces?

Ah, con qué placer huiría a dormir a la casa de labranza, junto a la madre, o incluso allí a la intemperie. ¡Quizás bajo algún árbol!

¿Y si ella, entretanto, esperaba que la llamara? Y si, resignada a la condena que había querido infligirle el hermano, se retenía en poder de su marido, y esperaba que él… sí, la invitara a…

Tendió el oído. Pero no, todo era silencio. Quizás se había dormido. Estaba ya oscuro. La luz de la luna entraba, por el balcón abierto, en la sala.

Sin pensar en encender la luz, Gerlando cogió una silla y fue a sentarse al balcón, que miraba a todo su alrededor, desde lo alto, el extendido campo que bajaba hasta el mar allá al fondo, lejos.

En la noche clara brillaban límpidas las estrellas mayores; la luna encendía en el mar una viva cenefa de plata; de los vastos llanos de rastrojos se levantaba trémulo el canto de los grillos, como un denso, continuo campanilleo. De pronto, un ruiseñor, allí cerca, emitió un pío lánguido, acongojado; desde lejos otro le respondió, como un eco, y los dos siguieron un rato piando así, en la clara noche.

Con un brazo apoyado en la baranda del balcón, él, entonces, instintivamente, para librarse de la opresión de esa inseguridad ansiosa, detuvo el oído en esos dos píos que se respondían en el silencio encantado de la luna; luego, descubriendo allí en el fondo un trozo del muro que rodeaba toda la finca, pensó que ahora toda aquella tierra era suya; suyos, aquellos árboles: olivos, almendros, algarrobos, higueras, moreras; suya, esa viña.

Tenía razón el padre al estar contento, pues de ahora en adelante no estaría sometido a nadie.

Al final, no era tan estrambótica la idea de hacerle continuar los estudios. Mejor allí, mejor en la escuela, que aquí todo el día, junto a la mujer. En cómo poner en su lugar a esos compañeros que quisieran reírse a sus espaldas ya pensaría él. Era un señor, ahora, y no le importaba si lo echaban de la escuela. Pero esto no sucedería. Es más, él se proponía estudiar de ahora en adelante con aplicación, para poder un día, dentro de poco, figurar entre los caballeros del pueblo, sin sentir embarazo, y hablar y tratar con ellos, de igual a igual. Le bastaban cuatro años de escuela para tener la licencia del instituto técnico: y luego, perito agrónomo o administrativo. Su cuñado, entonces, el señor abogado, que parecía que había arrojado allí, a los perros, a su hermana, tendría que saludarlo con el sombrero. Sí, señor. Y entonces él tendría todo el derecho de decirle: “¿Qué me has dado? ¿A mí, esa vieja? ¡He estudiado, tengo una profesión de señor y podía aspirar a una hermosa joven, rica y de buena familia como ella!”

Pensando esto, se quedó dormido con la frente en el brazo apoyado en la baranda.

Los dos píos continuaban, uno aquí cerca, el otro lejos, su alterno lamento voluptuoso; la noche clara parecía que hacía temblar en la tierra su velo de luna sonoro de grillos, y llegaba ahora desde lejos, como una oscura zampoña, el murmullo profundo del mar.

En medio de la noche, Eleonora apareció, como una sombra, en el umbral del balcón.

No esperaba encontrar al joven dormido. Sintió pena y temor al mismo tiempo. Se quedó un rato pensando si sería conveniente despertarlo para decirle lo que había decidido y quitarlo de ahí; pero, a punto de sacudirlo, de llamarlo por su nombre, sintió que le faltaban las fuerzas y se retiró lentamente, como una sombra, a la habitación de la que había salido.

IV

El entendimiento fue fácil.

Eleonora, la mañana siguiente, le habló maternalmente a Gerlando. Lo dejó dueño de todo, libre de hacer lo que le gustara, como si entre ellos no hubiera ningún vínculo. Para ella pidió que la dejaran allí, aparte, en esa habitación, junto a la vieja sirvienta de casa, que la había visto nacer.

Gerlando, que ya avanzada la noche se había retirado del balcón todo entumecido por la humedad para irse a dormir al diván del comedor, ahora, así sorprendido en el sueño, con un gran deseo de restregarse los ojos con los puños, abriendo la boca por el esfuerzo de fruncir las cejas, porque quería mostrar no tanto que comprendía, cuanto que estaba convencido, dijo que sí, sí con la cabeza. Pero el padre y la madre, cuando conocieron ese pacto, se encolerizaron, y en vano Gerlando intentó hacerles entender que le convenía así, que además estaba más que contento.

Para tranquilizar en cierto modo al padre, tuvo que prometer formalmente que, a principios de octubre, volvería a la escuela. Pero, por desquite, la madre le impuso que eligiera la habitación más hermosa para dormir, la habitación más hermosa para estudiar, la habitación más hermosa para comer… ¡Todas las habitaciones más hermosas!

– ¡Y lleva tú la batuta, ya sabes! Si no, vengo yo para que te obedezcan y te respeten.

Juró al final que no volvería a dirigirle la palabra a esa melindrosa que despreciaba así a su hijo, un buen muchachote, a quien ella no era ni siquiera digna de mirar.

Desde aquel mismo día, Gerlando se puso a estudiar, a retomar la preparación interrumpida de los exámenes de recuperación. Ya era tarde, verdaderamente: tenía apenas veinticuatro días por delante; pero ¡quién sabe!, aplicándose un poco, quizás lograra finalmente esa licencia técnica, por la que se torturaba desde hacía tres años.

Habiéndose sacudido el aturdimiento angustioso de los primeros días, Eleonora, por consejo de la vieja sirvienta, se puso a preparar la canastilla del  niño que iba a nacer.

No había pensado en ello, y lloró.

Gesa, la vieja sirvienta, la ayudó, la guió en ese trabajo, en el que era inexperta; le dio las medidas para los primeros batones, para los primeros gorritos…  Ah, la suerte le guardaba este consuelo, y ella aún no había pensado en ello; tendría a un pequeñín, a una pequeñita a quien atender, ¡a quien consagrarse por completo! Pero Dios tenía que hacerle el favor de enviarle un varoncito. Ya era vieja, moriría pronto, y ¿cómo le iba a dejar a ese padre una niña a quien ella le inspiraría sus pensamientos, sus sentimientos? Un varoncito sufriría menos con ese tipo de existencia, en la que dentro de poco la mala suerte lo pondría.

Angustiada por estos pensamientos, cansada del trabajo, para distraerse, cogía uno de esos libros que había hecho que le enviase el hermano la otra vez, y se ponía a leer. De vez en cuando, señalando con la cabeza, preguntaba a la criada:

– ¿Qué hace?

Gesa encogía los hombros, sacaba los labios, luego respondía:

– ¡Uf! Está echado sobre el libro. ¿Duerme? ¿Piensa? ¡Quién sabe!

Gerlando pensaba. Pensaba que, a fin de cuentas, su vida no era muy alegre.

Pues tenía la finca, y era como si no la tuviera; la mujer era como si no la tuviese; estaba en guerra con la familia; enfadado consigo mismo, pues no lograba retener nada, nada, nada de lo que estudiaba.

En ese ocio inquieto, entretanto, sentía dentro de él como un fermento de ásperos deseos; entre ellos, el de la mujer, porque se le había negado. No era ya deseable esa mujer, es verdad. Pero… ¿qué pacto ere ese? Él era el marido, y tenía que decirlo él, si acaso.

Se levantaba, salía de la habitación, pasaba por delante de la puerta de la habitación de ella, pero pronto, entreviéndola, sentía que se le derrumbaba todo propósito de rebelión. Resoplaba y, para no reconocer que entonces le faltaban las fuerzas, se decía a sí mismo que no valía la pena.

Uno de esos días, finalmente volvió de la ciudad derrotado, suspendido, suspendido otra vez en los exámenes de licencia técnica, ¡Y ahora basta! ¡Basta de verdad! ¡No quería saber nada más de ello! Cogió libros, cuadernos, dibujos, escuadras, estuches, lápices y los llevó abajo, delante de la casa para hacer una hoguera. El padre acudió para impedírselo; pero Gerlando, enfurecido, se rebeló:

– ¡Déjeme! ¡Soy el dueño!

Sobrevino la madre, acudieron incluso los campesinos que trabajaban en el campo. Una hoguera al principio rala, luego poco a poco más densa se liberó, en medio de los gritos de los presentes, de ese montón de papeles; luego un resplandor; luego crepitó la llama y se levantó. Con los gritos, se asomaron al balcón Eleonora y la sirvienta.

Gerlando, lívido e hinchado como un pavo, arrojaba a las llamas, descamisado, furioso, los últimos libros que tenía bajo el brazo, los instrumentos de su larga e inútil tortura.

Eleonora se esforzó por no reírse ante ese espectáculo, y se retiró deprisa del balcón. Pero la suegra se dio cuenta y le dijo al hijo:

– Con esto se alegra la señora, ¿sabes? Le causas risa.

– ¡Llorará! – gritó entonces Gerlando, amenazante, levantando la cabeza hacia el balcón.

Eleonora oyó la amenaza y palideció. Comprendió que la cansada y triste quietud, de la que había gozado hasta entonces, se había acabado para ella. Solo un momento de tregua le había concedido la suerte. Pero ¿qué podía querer de ella ese bruto? Ella ya estaba exhausta, otro golpe, aunque leve, la abatiría.

Poco después, se vio delante a Gerlando, hosco y jadeante.

– ¡Hoy mismo cambiamos de vida! – le anunció.- Me he hartado. Me pongo a trabajar como un campesino, como mi padre; y por tanto tú dejarás de ser la señora aquí. ¡Fuera, fuera toda esta lencería! Quien nazca será también campesino, y por tanto sin tantos afeites y tantas galas. Despide a la sirvienta: tú harás de comer y cuidarás de la casa, como hace mi madre. ¿Entendido?

Eleonora se levantó, pálida y vibrante de desdén:

– Tu madre es tu madre, – le dijo, mirándolo fieramente a los ojos. – Y yo soy yo, y no puedo volverme contigo, villano, villana.

– ¡Eres mi mujer! – gritó entonces Gerlando, acercándose violento y agarrándola por un brazo. – Y harás lo que yo quiera, aquí mando yo, ¿comprendes?

Luego se volvió a la vieja sirvienta y le indicó la puerta:

– ¡Fuera! ¡Váyase enseguida! ¡No quiero sirvientas por la casa!

– ¡Voy contigo, Gesa! – gritó Eleonora tratando de liberar el brazo que él le tenía aún agarrado.

Pero Gerlando no se lo soltó; se lo apretó más fuerte; la obligó a sentarse.

– ¡No! ¡Aquí! ¡Tú te quedas aquí, encadenada conmigo! Por ti se han burlado de mí, ¡ahora basta! Ven, sal de esta guarida tuya. Ya no quiero estar solo llorando mi pena. ¡Fuera! ¡Fuera!

Y la empujó fuera de la habitación.

– ¿Y qué has llorado tú hasta ahora? – le dijo ella con lágrimas en los ojos. – ¿Qué he pretendido yo de ti?

– ¿Qué has pretendido? ¡No ser molestada, no tener contacto conmigo, como si yo fuese… como si no mereciese tu confianza, señora! Me ha servido la mesa una asalariada, mientras te correspondía a ti servirme, completamente, como hacen las esposas.

– Pero ¿qué vas a hacer conmigo? – le preguntó, humillada, Eleonora. – Te serviré, si quieres, con mis manos, de ahora en adelante. ¿Está bien?

Diciendo esto rompió a llorar, luego sintió que se le doblaban las piernas y se abandonó. Gerlando, perdido, confuso, la sostuvo junto con Gesa, y los dos la pusieron en una silla.

Por la tarde, improvisamente, le llegaron los dolores. Gerlando, arrepentido, espantado, corrió a llamar a la madre. Un muchacho fue enviado a la ciudad por una matrona. Mientras, el arrendatario, viendo ya en peligro la finca, si la nuera abortaba, maltrataba al hijo:

– Animal, animal, ¿qué has hecho? ¿Y si se te muere ahora? ¿Y si no tienes más hijos? ¡Te quedas en la calle! ¿Qué harás? Has dejado la escuela y no sabes siquiera tener el azadón en la mano. ¡Estás arruinado!

– ¿Qué me importa? – gritó Gerlando. – ¡Con tal de que a ella no le pase nada!

Llegó la madre con los brazos levantados:

– ¡Un médico! ¡Necesitamos rápido un médico! ¡La veo mal!

– ¿Qué tiene? – preguntó Gerlando, desconcertado.

Pero el padre lo empujó fuera:

– ¡Corre! ¡Corre!

Por el camino, Gerlando, todo tembloroso,  se vino abajo, se echó a llorar, esforzándose sin embargo por correr. A mitad del camino se encontró con la matrona que venía en una carroza con el muchacho.

-¡Vaya! ¡Vaya! – gritó. – Voy por el médico, ¡se muere!

Tropezó, se cayó; cubierto de polvo, volvió a correr, desesperadamente, mordiéndose la mano que se había desollado.

Cuando volvió con el médico a la casa, Eleonora estaba a punto de morir, desangrada.

– ¡Asesino! ¡Asesino! – se lamentaba Gesa, atendiendo a la señora. – ¡Él ha sido! Ha osado ponerle las manos encima.

Eleonora, sin embargo, negaba con la cabeza. Sentía que, poco a poco, con la sangre, se le iba la vida, que poco a poco las fuerzas se le debilitaban; estaba ya fría… Pues bien, no le daba pena morir; era dulce la muerte así, un gran alivio, después de los atroces sufrimientos. Y con la cara como de cera, mirando el techo, esperaba que los ojos se le cerraran solos, despacio, para siempre. Ya no  distinguía nada. Como en sueños, volvió a ver al viejo médico que le había hecho de testigo, y le sonrió.

V

Gerlando no se separó de los pies de la cama, ni de día ni de noche, durante todo el tiempo que Eleonora estuvo debatiéndose entre la vida y la muerte.

Cuando finalmente pudieron sentarla en el sillón, parecía otra mujer: diáfana, casi exangüe. Se vio delante a Gerlando, que parecía salir también él de una mortal enfermedad, y preocupados a su alrededor a los familiares de él. Los miraba con los hermosos ojos negros, más grandes y dolientes en la pálida delgadez, y le parecía que ahora ninguna relación existía ya entre ellos y ella, como si ella hubiera vuelto ahora, nueva y diversa, de un lugar remoto, donde todo vínculo se hubiera roto, no solo con ellos, sino con toda la vida de antes.

Respiraba con dificultad; con el mínimo ruido el corazón le saltaba en el pecho y le latía con tumultuosa violencia; un cansancio grave la oprimía.

Entonces, con la cabeza abandonada en el respaldo del sillón, los ojos cerrados, lamentaba interiormente no haber muerto. ¿Qué estaba haciendo ya allí?, ¿por qué aún esa condena para los ojos de ver esas caras alrededor y esas cosas, de las que ya se sentía tan lejos? ¿Por qué ese acercamiento a las apariencias opresoras y nauseabundas de la vida pasada, acercamiento que a veces le parecía hacerse más brusco, como si alguien la empujase por detrás, para obligarla a ver, a sentir la presencia, la realidad viva y moribunda de la vida odiosa, que ya no le pertenecía?

Creía firmemente que no se volvería a levantar nunca más de ese sillón; creía que de un momento a otro moriría de pena. Pero no fue así, pues unos días después pudo ponerse en pie, dar unos pasos, sujetada, por la habitación; luego, con el tiempo, incluso pudo bajar la escalera e ir al aire libre, del brazo de Gerlando y de la sirvienta. Se habituó, en fin, a ir al atardecer hasta el borde del precipicio que limitaba la finca al sur.

Se abría al otro lado la magnífica vista de la llanura que estaba bajo el altiplano, hasta el mar allá al fondo. Fue los primeros días acompañada, como de costumbre, por Gerlando y por Gesa; luego, sin Gerlando; al final, sola.

Sentada en una piedra, a la sombra de un olivo centenario, miraba toda la ribera lejana que apenas se curvaba, con leves arcos, con leves senos, rompiéndose en el mar que cambiaba según la dirección del viento; veía el sol ya como un disco de fuego ahogarse lentamente entre las brumas enmohecidas apoyadas sobre el mar completamente gris, a poniente, ya bajando ahora en triunfo sobre las olas en llamas, entre una pompa maravillosa de nubes encendidas; veía en el húmedo cielo crepuscular fluir líquida y tranquila la luz de Júpiter, avivarse apenas la luna diáfana y líquida; se bebía con los ojos la triste dulzura de la tarde inminente, y respiraba, feliz, sintiéndose invadida hasta el fondo del alma, por el fresco, por la quietud, como un consuelo sobrehumano.

En tanto, al otro lado, en la casa de labranza, el viejo arrendatario y su mujer volvían a desearle algún daño, instigando al hijo a que atendiera a sus asuntos.

– ¿Por qué la dejas sola? – se cuidaba de decirle el padre. – ¿No te das cuenta de que ella, ahora, después de la enfermedad, te agradece el afecto que le has mostrado? No la dejes ni un momento, intenta entrarle cada vez más en el corazón; y luego… luego procura que la sirvienta no se acueste más en la misma habitación que ella. Ahora está bien y ya no la necesita, de noche.

Gerlando, irritado, se sacudía por completo, ante estas sugerencias.

– Pero ¡ni siquiera en sueños! Pero si no se le pasa por la cabeza que yo pueda… ¡Qué va! Me trata como a un hijo… ¡Hay que escuchar lo que me dice! Se siente vieja, pasada y acabada para este mundo. ¡Qué va!

– ¿Vieja? – preguntaba la madre. – Cierto, ya no es una niña; pero tampoco vieja, y tú…

– ¡Te quitan la tierra! – acosaba el padre. – Te lo he dicho ya: estás arruinado, en medio de la calle. Sin hijos, muerta tu mujer, la dote vuelve a su familia. Y tú habrás obtenido esta buena ganancia; habrás perdido la escuela y todo este tiempo, así, sin ninguna compensación… ¡Con  un palmo de narices! Piensa, piensa a tiempo, ya has perdido demasiado… ¿Qué esperas?

– Por las buenas, – continuaba, modosa, la madre. – Tú debes ir por las buenas, y quizás decirle: “¿Ves?, ¿Qué he tenido de ti?, te he respetado, como has querido; pero ahora piensa tú un poco en mí: ¿Cómo quedo yo?, ¿qué haré si tú me dejas así?” ¡Al final, santo Dios, no debe ir a la guerra!

– Y puedes añadir, – volvía a acosar el padre, – puedes añadir: “¿Quieres alegrar a tu hermano que te ha tratado así?, ¿hacer que él me eche de aquí como a un perro?”. ¡Esta es la santa verdad, atento! Como a un perro te echarán, a puntapiés, y a tu madre y a mí, pobres viejos, contigo.

Gerlando no respondía nada. Ante los consejos de la madre sentía casi un alivio, pero irritante, como una titilación; las previsiones del padre le removían la bilis, lo encendían de ira. ¿Qué hacer? Veía la dificultad de la empresa y veía también la necesidad imperiosa. Era necesario intentarlo de cualquier modo.

Eleonora, ahora, se sentaba en la mesa con él. Una tarde, en la cena, al verlo con los ojos fijos en el mantel, pensativo, le preguntó:

– ¿No comes?, ¿qué tienes?

Aunque desde hacía unos días él se esperara esta pregunta provocada por su misma actitud, no supo en el momento responder tal como había decidido, e hizo un gesto vago con la mano.

– ¿Qué tienes? – insistió Eleonora.

– Nada, – respondió, azorado, Gerlando. – Mi padre, como siempre…

– ¿De nuevo con la escuela? – preguntó ella sonriendo, para obligarlo a hablar.

– No, peor, – dijo él. – Me pone… me pone delante tantas sombras, me aflige con… con el pensamiento de mi futuro, puesto que él es viejo, dice, y yo así, sin arte ni parte. Mientras estés tú, bien; pero luego… luego, nada, dice…

– Dile a tu padre, – respondió entonces, con gravedad, Eleonora, entrecerrando los ojos, casi para no ver el rubor de él, – dile a tu padre que no se preocupe. Ya lo he arreglado todo, dile, que esté por tanto tranquilo. Es más, ya que estamos en este tema, óyeme: si yo faltara de pronto – somos de la vida y de la muerte – en el segundo cajón del cantarano, en mi habitación, encontrarás en un sobre amarillo una carta para ti.

– ¿Una carta? – repitió Gerlando, sin saber qué decir, confuso de vergüenza.

Eleonora afirmó con la cabeza, y añadió:

– No te preocupes.

Aliviado y contento, Gerlando, la mañana siguiente, refirió a los padres cuanto le había dicho Eleonora; pero estos, especialmente el padre, no se quedaron satisfechos en modo alguno.

– ¿Una carta? ¡Líos!

¿Qué podía ser esa carta? El testamento: la donación de la finca al marido. ¿Y si no estaba hecha en regla y con todas las formas? La sospecha era fácil, visto que se trataba de la escritura privada de una mujer, sin asistencia de un notario. Y luego, ¿no se tenía que ver con el cuñado, mañana, un hombre de leyes, un liante?

– ¿Procesos, hijo mío? ¡Que Dios te guarde y te libre! La justicia no es para los pobres. Y ese, por la rabia, será capaz de hacerte ver blanco lo negro, y negro lo blanco.

Y además, esa carta, ¿estaba de verdad en el cajón del cantarano? ¿O se lo había dicho para que no la molestara?

– ¿La has visto tú? No. ¿Entonces? Pero, admitido que te la deje ver, ¿qué comprendes tú?, ¿qué comprendemos nosotros? Mientras que con un hijo… ¡eso! No te dejes embaucar. ¡Escúchanos! ¡Carne!, ¡carne!, ¡y no una carta!

Así, un día, Eleonora, mientras estaba bajo ese olivo, al pie del precipicio, vio a su lado de pronto a Gerlando, que había llegado furtivamente.

Estaba completamente envuelta en un amplio mantón negro. Tenía frío, aunque febrero era tan delicado, que ya parecía primavera. La vasta llanura, abajo, estaba toda verde de forraje; el mar, al fondo, placidísimo, compartía con el cielo un color rosado un poco apagado, pero muy suave, y los campos en sombra parecían esmaltados.

Cansada de mirar, en el silencio, esa maravillosa armonía de colores, Eleonora había apoyado la cabeza en el tronco del olivo. En el mantón negro echado sobre la cabeza se descubría solo la cara que parecía aún más pálida.

– ¿Qué haces? – le preguntó Gerlando. – Pareces la Virgen de los Dolores.

– Miraba… – le respondió ella, con un suspiro, entrecerrando los ojos.

Pero él retomó:

– Si vieses lo… lo bien que estás así, con este mantón negro…

– ¿Bien? – dijo Eleonora, sonriendo tristemente.- ¡Tengo frío!

– No, digo, bien de… de… de aspecto, – le explicó él, balbuciendo, se sentó en el suelo al lado de la piedra.

Eleonora, con la cabeza apoyada en el tronco, volvió a cerrar los ojos, sonrió para no llorar, asaltada por el lamento de la juventud perdida tan míseramente. A los dieciocho años, sí, había sido incluso hermosa, y mucho.

De pronto, mientras estaba tan absorta, sintió que la sacudían ligeramente.

– Dame una mano, – le pidió él desde el suelo, mirándola con ojos brillantes.

Ella comprendió; pero fingió no comprender.

– ¿La mano? ¿Por qué? – le preguntó. – Yo no puedo levantarte, ya no tengo fuerza, ni siquiera para mí… Ya es tarde, vamos.

Y se levantó.

– No lo decía para que me levantaras, – explicó de nuevo Gerlando, desde el suelo. – Quedémonos aquí, en la oscuridad, es tan hermoso…

Diciendo esto, fue rápido en abrazarle las rodillas, sonriendo nerviosamente, con los labios secos.

– ¡No! – gritó ella. – ¿Estás loco? ¡Déjame!

Para no caer, se apoyó con los brazos en los hombros de él y lo empujó hacia atrás. Pero el mantón, en ese momento, se le soltó y, como ella estaba inclinada sobre él erguido sobre las rodillas, lo envolvió, lo escondió dentro.

– ¡No, te quiero!, ¡te quiero! – dijo él, entonces, como ebrio, apretándola más con un brazo, mientras con el otro le buscaba la cintura, envuelto en el olor del cuerpo de ella.

Pero ella, con un esfuerzo supremo, logró soltarse, corrió hasta el borde del precipicio, se volvió, gritó:

– ¡Me arrojo!

Entonces se lo vio encima, violento; se dobló hacia atrás, cayó en el precipicio.

Él se retuvo con dificultad, desconcertado, gritando, con los brazos levantados. Oyó un golpe terrible, allá abajo. Asomó la cabeza. Un montón de ropas negras, en el verdor de la llanura de abajo. Y el mantón, que se había abierto al viento, cayó blandamente, abierto así, más lejos.

Con las manos en los cabellos, se volvió  a mirar hacia la casa de labranza; pero de improviso en sus ojos se clavó la amplia cara pálida de la luna que había surgido apenas de la densidad de los olivos de allá abajo; y se quedó aterrorizado mirándola, como si esta, desde el cielo, hubiera visto y lo acusara.

1.2 Prima notte

     quattro camíce,

     quattro lenzuola,

     quattro sottane,

quattro, insomma, di tutto. E quel corredo della figliuola, messo sú, un filo oggi, un filo domani, con la pazienza d’un ragno, non si stancava di mostrarlo alle vicine.

– Roba da poverelli, ma pulita.

Con quelle povere mani sbiancate e raspose, che sapevano ogni fatica, levava dalla vecchia cassapanca d’abete, lunga e stretta che pareva una bara, piano piano, come toccasse l’ostia consacrata, la bella biancheria, capo per capo, e le vesti e gli scialli doppii di lana: quello dello sposalizio, con le punte ricamate e la frangia di seta fino a terra; gli altri tre, pure di lana, ma piú modesti; metteva tutto in vista sul letto, ripetendo, umile e sorridente: Roba da poverelli… e la gioja le tremava nelle mani e nella voce.

– Mi sono trovata sola sola, – diceva. – Tutto con queste mani, che non me le sento piú. Io sotto l’acqua, io sotto il sole; lavare al fiume e in fontana; smallare mandorle, raccogliere ulive, di qua e di là per le campagne; far da serva e da acquajola… Non importa. Dio, che ha contato le mie lagrime e sa la vita mia, m’ha dato forza e salute. Tanto ho fatto, che l’ho spuntata; e ora posso morire. A quel sant’uomo che m’aspetta di là, se mi domanda di nostra figlia, potrò dirglielo: «Sta’ in pace, poveretto; non ci pensare: tua figlia l’ho lasciata bene; guaj non ne patirà. Ne ho patiti tanti io per lei…». Piango di gioja, non ve ne fate…

.

E s’asciugava le lagrime, Mamm’Anto’, con una cocca del fazzoletto nero che teneva in capo, annodato sotto il mento.

Quasi quasi non pareva piú lei, quel giorno, cosí tutta vestita di nuovo, e faceva una curiosa impressione a sentirla parlare come sempre.

Le vicine la lodavano, la commiseravano a gara. Ma la figlia Marastella, già parata da sposa con l’abito grigio di raso (una galanteria!) e il fazzoletto di seta celeste al collo, in un angolo della stanzuccia addobbata alla meglio per l’avvenimento della giornata, vedendo pianger la madre, scoppiò in singhiozzi anche lei.

– Maraste’, Maraste’, che fai? – Le vicine le furono tutte intorno, premurose, ciascuna a dir la sua:

– Allegra! Oh! Che fai? Oggi non si piange… Sai come si dice? Cento lire di malinconia non pagano il debito d’un soldo.

– Penso a mio padre! – disse allora Marastella, con la faccia nascosta tra le mani.

Morto di mala morte, sett’anni addietro! Doganiere del porto, andava coi luntri, di notte, in perlustrazione. Una notte di tempesta, bordeggiando presso le Due Riviere, il luntro s’era capovolto e poi era sparito, coi tre uomini che lo governavano.

Era ancora viva, in tutta la gente di mare, la memoria di questo naufragio. E ricordavano che Marastella, accorsa con la madre, tutt’e due urlanti, con le braccia levate, tra il vento e la spruzzaglia dei cavalloni, in capo alla scogliera del nuovo porto, su cui i cadaveri dei tre annegati erano stati tratti dopo due giorni di ricerche disperate, invece di buttarsi ginocchioni presso il cadavere del padre, era rimasta come impietrita davanti a un altro cadavere, mormorando, con le mani incrociate sul petto:

– Ah! Amore mio! amore mio! Ah, come ti sei ridotto…

Mamm’Anto’, i parenti del giovane annegato, la gente accorsa, erano restati, a quell’inattesa rivelazione. E la madre dell’annegato che si chiamava Tino Sparti (vero giovane d’oro, poveretto!) sentendola gridar cosí, le aveva subito buttato le braccia al collo e se l’era stretta al cuore, forte forte, in presenza di tutti, come per farla sua, sua e di lui, del figlio morto, chiamandola con alte grida:

– Figlia! Figlia!

.

Per questo ora le vicine, sentendo dire a Marastella: «Penso a mio padre», si scambiarono uno sguardo d’intelligenza, commiserandola in silenzio. No, non piangeva per il padre, povera ragazza. O forse piangeva, sí, pensando che il padre, vivo, non avrebbe accettato per lei quel partito, che alla madre, nelle misere condizioni in cui era rimasta, sembrava ora una fortuna.

Quanto aveva dovuto lottare Mammm’Anto’ per vincere l’ostinazione della figlia!

– Mi vedi? sono vecchia ormai: piú della morte che della vita. Che speri? che farai sola domani, senz’ajuto, in mezzo a una strada?

Sí. La madre aveva ragione. Ma tant’altre considerazioni faceva lei, Marastella, dal suo canto. Brav’uomo, sí, quel don Lisi Chírico che le volevano dare per marito, non lo negava ma quasi vecchio, e vedovo per giunta. Si riammogliava, poveretto, piú per forza che per amore, dopo un anno appena di vedovanza, perché aveva bisogno d’una donna lassú, che badasse alla casa e gli cucinasse la sera. Ecco perché si riammogliava.

– E che te n’importa? – le aveva risposto la madre. – Questo anzi deve affidarti: pensa da uomo sennato. Vecchio? Non ha ancora quarant’anni. Non ti farà mancare mai nulla: ha uno stipendio fisso, un buon impiego. Cinque lire al giorno: una fortuna!

– Ah sí, bell’impiego! bell’impiego!

Qui era l’intoppo: Mamm’Anto’ lo aveva capito fin da principio: nella qualità dell’impiego del Chírico.

E una bella giornata di maggio aveva invitato alcune vicine? lei, poveretta!? a una scampagnata lassú, sull’altipiano sovrastante il paese.

Don Lisi Chírico, dal cancello del piccolo, bianco cimitero che sorge lassú, sopra il paese, col mare davanti e la campagna dietro, scorgendo la comitiva delle donne, le aveva invitate a entrare.

– Vedi? Che cos’è? Pare un giardino, con tanti fiori… – aveva detto Mamm’Anto’ a Marastella, dopo la visita al camposanto. – Fiori che non appassiscono mai. E qui, tutt’intorno, campagna. Se sporgi un po’ il capo dal cancello, vedi tutto il paese ai tuoi piedi; ne senti il rumore, le voci… E hai visto che bella cameretta bianca, pulita, piena d’aria? Chiudi porta e finestra, la sera; accendi il lume; e sei a casa tua: una casa come un’altra. Che vai pensando?

E le vicine, dal canto loro:

– Ma si sa! E poi, tutto è abitudine; vedrai: dopo un pajo di giorni, non ti farà piú impressione. I morti, del resto, figliuola, non fanno male; dai vivi devi guardarti. E tu che sei piú piccola di noi, ci avrai tutte qua, a una a una. Questa è la casa grande, e tu sarai la padrona e la buona guardiana.

Quella visita lassú, nella bella giornata di maggio, era rimasta nell’anima di Marastella come una visione consolatrice, durante gli undici mesi del fidanzamento: a essa s’era richiamata col pensiero nelle ore di sconforto, specialmente al sopravvenire della sera, quando l’anima le si oscurava e le tremava di paura.

S’asciugava ancora le lagrime, quando don Lisi Chírico si presentò su la soglia con due grossi cartocci su le braccia quasi irriconoscibile.

– Madonna! – gridò Mamm’Anto’. – E che avete fatto, santo cristiano?

– Io? Ah sí… La barba… – rispose don Lisi con un sorriso squallido che gli tremava smarrito sulle larghe e livide labbra nude.

Ma non s’era solamente raso, don Lisi: s’era anche tutto incicciato, tanto ispida e forte aveva radicata la barba in quelle gote cave, che or gli davano l’aspetto d’un vecchio capro scorticato.

– Io, io, gliel’ho fatta radere io, – s’affrettò a intromettersi, sopravvenendo tutta scalmanata, donna Nela, la sorella dello sposo, grassa e impetuosa.

.

Recava sotto lo scialle alcune bottiglie, e parve, entrando, che ingombrasse tutta quanta la stanzuccia, con quell’abito di seta verde pisello, che frusciava come una fontana.La seguiva il marito, magro come don Lisi, taciturno e imbronciato.

– Ho fatto male? – seguitò quella, liberandosi dello scialle. – Deve dirlo la sposa. Dov’è? Guarda, Lisi: te lo dicevo io? Piange… Hai ragione, figliuola mia. Abbiamo troppo tardato. Colpa sua, di Lisi. «Me la rado? Non me la rado?» Due ore per risolversi. Di’ un po’, non ti sembra piú giovane cosí? Con quei pelacci bianchi, il giorno delle nozze…

– Me la farò ricrescere, – disse Chírico interrompendo la sorella e guardando triste la giovane sposa. – Sembro vecchio lo stesso e, per giunta, piú brutto.

– L’uomo è uomo, asinaccio, e non è né bello né brutto! – sentenziò allora la sorella stizzita. – Guarda intanto: l’abito nuovo! Lo incigni adesso, peccato!

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E cominciò a dargli manacciate su le maniche per scuoterne via la sfarinatura delle paste ch’egli reggeva ancora nei due cartocci.

Era già tardi; si doveva andar prima al Municipio, per non fare aspettar l’assessore, poi in chiesa; e il festino doveva esser finito prima di sera. Don Lisi, zelantissimo del suo ufficio, si raccomandava, tenuto su le spine specialmente dalla sorella intrigante e chiassona, massime dopo il pranzo e le abbondanti libazioni.

– Ci vogliono i suoni! S’è mai sentito uno sposalizio senza suoni? Dobbiamo ballare! Mandate per Sidoro l’orbo… Chitarre e mandolini!

Strillava tanto, che il fratello dovette chiamarsela in disparte.

– Smettila, Nela, smettila! Avresti dovuto capirlo che non voglio tanto chiasso.

La sorella gli sgranò in faccia due occhi cosí.

– Come? Anzi! Perché?

Don Lisi aggrottò le ciglia e sospirò profondamente:

– Pensa che è appena un anno che quella poveretta…

– Ci pensi ancora davvero? – lo interruppe donna Nela con una sghignazzata. – Se stai riprendendo moglie! Oh povera Nunziata!

– Riprendo moglie, – disse don Lisi socchiudendo gli occhi e impallidendo, – ma non voglio né suoni né balli. Ho tutt’altro nel cuore.

E quando parve a lui che il giorno inchinasse al tramonto, pregò la suocera di disporre tutto per la partenza.

– Lo sapete, debbo sonare l’avemaria, lassú.

Prima di lasciar la casa, Marastella, aggrappata al collo della madre, scoppiò di nuovo a piangere, a piangere, che pareva non la volesse finir piú. Non se la sentiva, non se la sentiva di andar lassú, sola con lui…

– T’accompagneremo tutti noi, non piangere, – la confortava la madre. – Non piangere, sciocchina!

Ma piangeva anche lei e piangevano anche tant’altre vicine. Partenza amara!

Solo donna Nela, la sorella del Chírico, piú rubiconda che mai, non era commossa: diceva d’aver assistito a dodici sposalizii e che le lagrime alla fine, come i confetti, non erano mancate mai.

– Piange la figlia nel lasciare la madre; piange la madre nel lasciare la figlia. Si sa! Un altro bicchierotto per sedare la commozione, e andiamo via ché Lisi ha fretta.

Si misero in via. Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi per via, sospirava: – Povera sposa!

Lassú, sul breve spiazzo innanzi al cancello, gl’invitati si trattennero un poco, prima di prender commiato, a esortare Marastella a far buon animo. Il sole tramontava, e il cielo era tutto rosso, di fiamma, e il mare, sotto, ne pareva arroventato. Dal paese sottostante saliva un vocio incessante, indistinto, come d’un tumulto lontano, e quelle onde di voci rissose vanivano contro il muro bianco, grezzo, che cingeva il cimitero perduto lassú nel silenzio.

Lo squillo aereo argentino della campanella sonata da don Lisi per annunziar l’ave, fu come il segnale della partenza per gli invitati. A tutti parve piú bianco, udendo la campanella, quel muro del camposanto. Forse perché l’aria s’era fatta piú scura. Bisognava andar via per non far tardi. E tutti presero a licenziarsi, con molti augurii alla sposa.

Restarono con Marastella, stordita e gelata, la madre e due fra le piú intime amiche. Su in alto, le nuvole, prima di fiamma, erano divenute ora fosche, come di fumo.

– Volete entrare? – disse don Lisi alle donne, dalla soglia del cancello.

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Ma subito Mamm’Anto’ con una mano gli fece segno di star zitto e d’aspettare. Marastella piangeva, scongiurandola tra le lagrime di riportarsela giú in paese con sé.

– Per carità! per carità!

Non gridava; glielo diceva cosí piano e con tanto tremore nella voce, che la povera mamma si sentiva strappare il cuore. Il tremore della figlia  lei lo capiva era perché dal cancello aveva intraveduto l’interno del camposanto, tutte quelle croci là, su cui calava l’ombra della sera.

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Don Lisi andò ad accendere il lume nella cameretta, a sinistra dell’entrata; volse intorno uno sguardo per vedere se tutto era in ordine, e rimase un po’ incerto se andare o aspettare che la sposa si lasciasse persuadere dalla madre a entrare.

Comprendeva e compativa. Aveva coscienza che la sua persona triste, invecchiata, imbruttita, non poteva ispirare alla sposa né affetto né confidenza: si sentiva anche lui il cuore pieno di lagrime.

Fino alla sera avanti s’era buttato ginocchioni a piangere come un bambino davanti a una crocetta di quel camposanto, per licenziarsi dalla sua prima moglie. Non doveva pensarci piú. Ora sarebbe stato tutto di quest’altra, padre e marito insieme; ma le nuove cure per la sposa non gli avrebbero fatto trascurare quelle che da tant’anni si prendeva amorosamente di tutti coloro,amici o ignoti, che dormivano lassú sotto la sua custodia.

Lo aveva promesso a tutte le croci in quel giro notturno, la sera avanti.

Alla fine Marastella si lasciò persuadere a entrare. La madre chiuse subito la porta quasi per isolar la figlia nell’intimità della cameretta, lasciando fuori la paura del luogo. E veramente la vista degli oggetti familiari parve confortasse alquanto Marastella.

– Su, levati lo scialle, – disse Mamm’Anto’. – Aspetta, te lo levo io. Ora sei a casa tua…

– La padrona, – aggiunse don Lisi, timidamente, con un sorriso mesto e affettuoso.

– Lo senti? – riprese Mamm’Anto’ per incitare il genero a parlare ancora.

– Padrona mia e di tutto, – continuò don Lisi. – Lei deve già saperlo. Avrà qui uno che la rispetterà e le vorrà bene come la sua stessa mamma. E non deve aver paura di niente.

– Di niente, di niente, si sa! – incalzò la madre. – Che è forse una bambina piú? Che paura! Le comincerà tanto da fare, adesso… È vero? È vero?

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Marastella chinò piú volte il capo, affermando; ma appena Mamm’Anto’ e le due vicine si mossero per andar via, ruppe di nuovo in pianto, si buttò di nuovo al collo della madre, aggrappandosi. Questa, con dolce violenza si sciolse dalle braccia della figlia, le fece le ultime raccomandazioni d’aver fiducia nello sposo e in Dio, e andò via con le vicine piangendo anche lei.

Marastella restò presso la porta, che la madre, uscendo, aveva raccostata, e con le mani sul volto si sforzava di soffocare i singhiozzi irrompenti, quando un alito d’aria schiuse un poco, silenziosamente, quella porta.

Ancora con le mani sul volto, ella non se n’accorse: le parve invece che tutt’a un tratto ? chi sa perché ? le si aprisse dentro come un vuoto delizioso, di sogno; sentí un lontano, tremulo scampanellío di grilli, una fresca inebriante fragranza di fiori. Si tolse le mani dagli occhi: intravide nel cimitero un chiarore, piú che d’alba, che pareva incantasse ogni cosa, là immobile e precisa.

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Don Lisi accorse per richiudere la porta. Ma, subito, allora, Marastella, rabbrividendo e restringendosi nell’angolo tra la porta e il muro, gli gridò:

– Per carità, non mi toccate!

Don Lisi, ferito da quel moto istintivo di ribrezzo, restò.

– Non ti toccavo, – disse. – Volevo richiudere la porta.

– No, no, – riprese subito Marastella, per tenerlo lontano. – Lasciatela pure aperta. Non ho paura!

– E allora?… – balbettò don Lisi, sentendosi cader le braccia.

Nel silenzio, attraverso la porta semichiusa, giunse il canto lontano d’un contadino che ritornava spensierato alla campagna, lassú, sotto la luna, nella frescura tutta impregnata dell’odore del fieno verde, falciato da poco.

– Se vuoi che passi, – riprese don Lisi avvilito, profondamente amareggiato, – vado a richiudere il cancello che è rimasto aperto.

Marastella non si mosse dall’angolo in cui s’era ristretta. Lisi Chírico si recò lentamente a richiudere il cancello; stava per rientrare, quando se la vide venire incontro, come impazzita tutt’a un tratto.

– Dov’è, dov’è mio padre? Ditemelo! Voglio andare da mio padre.

– Eccomi, perché no? è giusto; ti ci conduco, – le rispose egli cupamente. – Ogni sera, io faccio il giro prima d’andare a letto. Obbligo mio. Questa sera non lo facevo per te. Andiamo. Non c’è bisogno di lanternino. C’è la lanterna del cielo.

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E andarono per i vialetti inghiajati, tra le siepi di spigo fiorite.

Spiccavano bianche tutt’intorno, nel lume della luna, le tombe gentilizie e nere per terra, con la loro ombra da un lato, come a giacere, le croci di ferro dei poveri.

Piú distinto, piú chiaro, veniva dalle campagne vicine il tremulo canto dei grilli e, da lontano, il borboglío continuo del mare.

– Qua, – disse il Chírico, indicando una bassa, rustica tomba, su cui era murata una lapide che ricordava il naufragio e le tre vittime del dovere. – C’è anche lo Sparti, – aggiunse, vedendo cader Marastella in ginocchio innanzi alla tomba, singhiozzante. – Tu piangi qua… Io andrò piú là; non è lontano…

La luna guardava dal cielo il piccolo camposanto su l’altipiano. Lei sola vide quelle due ombre nere su la ghiaja gialla d’un vialetto presso due tombe, in quella dolce notte d’aprile.

Don Lisi, chino su la fossa della prima moglie, singhiozzava:

– Nunzia’, Nunzia’, mi senti?

1.2 Primera noche

     cuatro camisas,

     cuatro sábanas,

     cuatro faldas,

cuatro, en suma, de todo. Y ese ajuar de la hija, hecho así, una puntada hoy, una puntada mañana, con la paciencia de una araña, no se cansaba de enseñárselo a las vecinas.

– Cosas de pobres, pero limpias.

Con esas pobres manos descoloridas y ásperas que conocían todos los cansancios sacaba de la vieja arca de abeto, larga y estrecha como un ataúd, lentamente, como si tocase la hostia consagrada, la hermosa lencería, pieza por pieza, y los vestidos y los mantones dobles de lana: el de la boda, con las puntas bordadas y el festón de seda hasta el suelo; los otros tres, también de lana, pero más modestos; lo ponía todo a la vista sobre la cama, repitiendo, humilde y sonriente:  Cosas de pobres, y la alegría le temblaba en las manos y en la voz.

– Me he encontrado sola, -decía. – Todo con estas manos, que ya ni me las siento. Bajo el agua, bajo el sol; lavando en el río y en la fuente; ablandando almendras, recogiendo aceitunas, aquí  y allá por el campo; trabajando como criada y como aguadora… No importa. Dios, que ha contado mis lágrimas y conoce mi vida, me ha dado fuerza y salud. He hecho tanto, que lo he conseguido; y ahora puedo morir. A ese santo hombre que me espera en el otro mundo, si me pregunta por nuestra hija, podré decírselo: “Tranquilízate, pobre, no pienses más en ello: a tu hija la he dejado bien; penurias no sufrirá. Ya he padecido yo tantas por ella…” Lloro de alegría, no os preocupéis…

Y se secaba las lágrimas, Mamá Antó, con una punta del pañuelo negro que tenía en la cabeza, anudado bajo el mentón.

Casi casi no parecía ella misma, ese día, vestida completamente de nuevo, y causaba una curiosa impresión  escucharla hablar como siempre.

Las vecinas, a cual más, la alababan, la compadecían. Pero la hija Marastella, ya arreglada de novia con el traje gris de raso (¡una finura!) y el pañuelo de seda celeste en el cuello, en un rincón de la habitacioncilla preparada como mejor se pudo para el acontecimiento de ese día, viendo llorar a la madre, también  rompió en sollozos.

– Marasté, Marasté, ¿qué haces? – Las vecinas la rodearon, amables, dando cada una su opinión:

– ¡Tienes que estar alegre! ¿Qué haces? Hoy no se llora… ¿Sabes cómo se dice? Cien liras de melancolía no pagan la deuda de un céntimo.

– ¡Pensaba en mi padre! – dijo entonces Marastella, con la cara escondida entre las manos.

¡Muerto de mala muerte, siete años atrás! Aduanero del puerto, iba con la barca, de noche, vigilando. Una noche de tempestad, bordeando de cerca las Dos Riberas, la barca se había volcado y luego había desaparecido, con los tres hombres que la gobernaban.

Estaba aún vivo, en toda la gente de mar, el recuerdo de este naufragio. Y recordaban que Marastella, que acudió con la madre, las dos gritando, con los brazos levantados, entre el viento y las salpicaduras de las oleadas, al fondo de la escollera del nuevo puerto, sobre los cuales los cadáveres de los tres ahogados habían sido sacados tras dos días de búsquedas desesperadas, en lugar de echarse de rodillas sobre el cadáver del padre, se había quedado como petrificada delante de otro cadáver, murmurando, con las manos cruzadas sobre el pecho:

– ¡Ah! ¡Amor mío!, ¡amor mío! Ah, cómo has terminado…

Mamá Antó, los parientes del joven ahogado y la gente que acudió se habían detenido ante aquella inesperada revelación. Y la madre del ahogado, que se llamaba Tino Sparti (una verdadera joya de joven, ¡pobrecito!), al escucharla gritar así, le había echado los brazos al cuello en seguida y la había estrechado contra su corazón, muy fuerte, en presencia de todos, como para hacerla suya, suya y de él, del hijo muerto, llamándola con fuertes gritos:

– ¡Hija! ¡Hija!

Por esto, ahora, las vecinas, escuchando decir a Marastella: “Pienso en mi padre”, se intercambiaron una mirada de entendimiento, compadeciéndola en silencio. No, no lloraba por el padre, pobre muchacha. O quizás lloraba, sí, pensando  que el padre, vivo, no aceptaría ese partido que a la madre, en la miserable condición en que había quedado, le parecía ahora una fortuna.

¡Cuánto había tenido que luchar Mamá Antó para vencer la obstinación de la hija!

– ¿Me ves?, ya soy vieja, más de la muerte que de la vida. ¿Qué esperas?, ¿qué harás sola mañana, sin ayuda, en medio de la calle?

Sí. La madre tenía razón. Pero tantas otras consideraciones hacía ella, Marastella, por su parte. Sí era un buen hombre ese don Lisi Chírico que le querían dar por marido, no lo negaba, pero casi viejo, y viudo además. Se volvía a casar, pobrecillo, más por fuerza que por amor, tras un año apenas de viudez, porque necesitaba una mujer que cuidara la casa y le cocinara por la tarde. Era por eso por lo que volvía a casarse.

– ¿Y qué te importa? – le había respondido la madre.- Es más, eso debe darte confianza, pues piensa como hombre prudente. ¿Viejo? Aún no tiene cuarenta años. Con él no te faltará nada: tiene un sueldo fijo, un buen empleo. Cinco liras al día: ¡una fortuna!

– ¡Ah, sí,  un buen empleo!, ¡un buen empleo!

Este era el escollo, Mamá Antó lo había comprendido desde el principio: el tipo de empleo de Chírico.

Y un buen día de mayo había invitado a algunas vecinas, ella, ¡pobrecita!, a un paseo al altiplano que dominaba el pueblo.

Don Lisi Chírico, desde la cancela del pequeño cementerio blanco que se levanta arriba, sobre el pueblo, con el mar delante y el campo detrás, al ver la comitiva de las mujeres, las había invitado a entrar.

– ¿Ves? ¿Qué es? Parece un jardín, con muchas flores… – le había dicho Mamá Antó a Marastella, tras la visita al camposanto.- Flores  que no se marchitan nunca. Y aquí, todo  alrededor, campo. Si te asomas un poco por la cancela, ves todo el pueblo a tus pies; escuchas sus ruidos, sus voces… ¿Y has visto qué hermosa habitacioncita blanca, limpia y llena de aire? Por la tarde, cierras la puerta y la ventana, enciendes la luz, y estás en tu casa, una casa como cualquier otra. ¿Qué estás pensando?

Y las vecinas, por su parte:

– ¡Ya se sabe! Y además, todo es costumbre; ya verás, tras un par de días, ya no te impresionará. Los muertos, por lo demás, hija, no hacen daño; de los vivos tienes que guardarte. Y tú que eres menor que nosotras, nos tendrás a todas aquí, una tras otra. Esta casa es grande, y tú serás la dueña y la buena guarda.

Esa visita allá arriba, ese hermoso día de mayo, se había quedado en el alma de Marastella como una visión consoladora, durante los once meses de noviazgo: a ella volvía con el recuerdo en las horas de desconsuelo, especialmente al anochecer, cuando el alma se le ensombrecía y le temblaba de miedo.

Aún estaba secándose las lágrimas cuando don Lisi Chírico se presentó en la puerta con dos grandes cartuchos en los brazos, casi irreconocible.

– ¡Virgen Santa! –gritó Mamá Antó. – ¿Qué ha hecho, santo cristiano?

– ¿Yo? Ah, sí… La barba… – respondió don Lisi con una sonrisa escuálida que le temblaba perdida en los anchos y lívidos labios desnudos.

Pero no solo se había afeitado, don Lisi, se había incluso herido completamente, tan híspidas y fuertes tenía las raíces de la barba en esas mejillas huecas que ahora le daban el aspecto de una vieja cabra despellejada.

– Yo, yo, he sido yo quien ha hecho que se afeite, – se apresuró a entrometerse, cuando llegó, completamente acalorada, doña Nela, la hermana del esposo, gorda e impetuosa.

Llevaba bajo el mantón algunas botellas, y pareció, al entrar, que ocupaba todo el cuartucho, con ese vestido de seda verde guisante, que murmuraba como una fuente. La seguía el marido, delgado como don Lisi, taciturno y enfadado.

– ¿He hecho mal? – continuó aquella, quitándose el mantón. – Debe decirlo la esposa. ¿Dónde está? Mira, Lisi: ¿no te lo decía yo? Llora… tienes razón, hija mía. Hemos tardado demasiado. Por su culpa, por culpa de Lisi. “¿Me la afeito? ¿No me la afeito?” Dos horas para decidirse. Dime, ¿no te parece más joven así? Con esa pelambre blanca, el día del matrimonio…

– Me la dejaré crecer, – dijo Chírico interrumpiendo a la hermana y mirando triste a la joven esposa. – Parezco un viejo de todas formas y, además, más feo.

– ¡El hombre es hombre, so asno, y no es ni guapo ni feo! – sentenció airada la hermana. – Mira en cambio ¡el traje nuevo! ¡Lo estás estrenando ahora, qué lástima!

Y comenzó a darle manotazos en las mangas para sacudirle la harina de las pastas que aún llevaba en los dos cartuchos.

Ya era tarde; tenían que ir primero al ayuntamiento, para no hacer esperar al concejal, luego, a la iglesia; y el convite tenía que terminar antes de que anocheciera. Don Lisi, celosísimo de su trabajo, lo imploraba, angustiado especialmente por la hermana intrigante y charlatana, máxime después del almuerzo y las abundantes libaciones.

– ¡Aquí falta música! ¿Se ha visto alguna vez una boda sin música? ¡Tenemos que bailar! Llamad a Sidoro el ciego… ¡Guitarras y mandolinas!

Gritaba tanto, que el hermano debió llamarla aparte.

– ¡Déjalo, Nela, déjalo! Tendrías que haber entendido que no quiero jaleo.

La hermana lo miró con los ojos completamente abiertos:

– ¿Cómo? Pero … ¿Por qué?

Don Lisi frunció el ceño y suspiró profundamente:

– Piensa que hace apenas un año que la pobrecilla…

– ¿Piensas aún en ello verdaderamente? – le interrumpió doña Nela con una risotada. – ¡Si te estás casando de nuevo! ¡Ay, pobre Nunziata!

– Me vuelvo a casar, – dijo don Lisi entrecerrando los ojos y palideciendo, – pero no quiero ni música ni bailes. Algo bien distinto es lo que quiero.

Y cuando a él le pareció que estaba a punto de anochecer, le rogó a la suegra que lo dispusiera todo para la despedida.

– Ya sabe, tengo que tocar el avemaría, allí.

Antes de dejar la casa, Marastella, agarrada al cuello de la madre, rompió de nuevo a llorar y a llorar, y parecía que no terminaría nunca. No se veía con fuerzas, no se sentía con fuerzas para marcharse allí arriba, sola con él…

– Te acompañaremos todos nosotros, no llores, – la consolaba la madre.- ¡No llores, tonta!

Pero lloraba también ella y lloraban incluso todas las vecinas. ¡Despedida amarga!

Solo doña Nela, la hermana de Chírico, más rubicunda que nunca, no se había conmovido. Decía que había asistido a doce bodas y que las lágrimas, al final, como los confetis, nunca habían faltado.

– Llora la hija al dejar a la madre; llora la madre al dejar a la hija. ¡Esto se sabe! Otro vasito para calmar la conmoción, y nos vamos, que Lisi tiene prisas.

Se pusieron en camino. Parecía más un entierro que un cortejo nupcial. Y al verlo pasar, la gente, asomada a las puertas, a las ventanas, o parándose por la calle, suspiraba: – ¡Pobre novia!

Allí arriba, en el pequeño claro delante de la cancela, los invitados se entretuvieron un poco, antes de despedirse, para pedirle a Marastella que se animase. El sol se ponía ya, y el cielo estaba todo rojo, en llamas, y el mar, abajo, parecía arder. Desde el pueblo, allá abajo, subía un vocerío incesante, indistinto, como de un tumulto lejano, y esas olas de voces pendencieras se desvanecían contra la pared blanca, basta, que rodeaba el cementerio perdido allá arriba en el silencio.

El tañido aéreo y plateado de la campanilla tocada por don Lisi para anunciar el avemaría fue como la señal de la partida para los invitados. Al oír la campanilla, a todos les pareció más blanca esa pared del camposanto. Quizás porque el aire se había hecho más oscuro. Era necesario irse para que no se les hiciera muy tarde. Y todos empezaron a despedirse, deseándole mucha felicidad a la novia.

Se quedaron con Marastella, aturdida y helada, la madre y dos de entre las más íntimas amigas. Allá arriba, las nubes, antes de llamas, se habían vuelto ahora oscuras, como de humo.

– ¿Queréis entrar? – les dijo don Lisi a las mujeres, en el umbral de la cancela.

Pero en seguida Mamá Antó con una mano le indicó que callara y esperara. Marastella lloraba, suplicándole entre lágrimas que se la llevara a la ciudad con ella.

– ¡Por caridad! ¡Por caridad!

No gritaba, se lo decía así, despacio y con tanto temblor en la voz, que la pobre madre sentía que le arrancaban el corazón. El temblor de la hija, lo comprendía ella, era porque por la cancela había entrevisto el interior del camposanto, todas aquellas cruces allí, sobre las que caía la sombra de la tarde.

Don Lisi fue a encender la luz en la habitación a la izquierda de la entrada; volvió alrededor una mirada para ver si todo estaba en orden, y se quedó un poco incierto entre ir o esperar que la esposa se dejase persuadir por la madre, y entrara.

Comprendía y compadecía. Era consciente de que su persona triste, envejecida y afeada no podía inspirar en la esposa ni afecto ni confianza. Sentía incluso el corazón lleno de lágrimas.

Hasta la noche anterior se había arrodillado a llorar como un niño ante una crucecilla de ese camposanto, para despedirse de su primera esposa. No tenía que pensar más en ella, ahora sería todo de esta otra, padre y marido a la vez; pero los nuevos cuidados a la esposa no le harían descuidar los que desde hacía tantos años se tomaba amorosamente por todos ellos, amigos o desconocidos, que dormían allí bajo su custodia.

Se lo había prometido a todas las cruces durante esa vuelta nocturna la tarde anterior.

Al final, Marastella se dejó persuadir a entrar. La madre cerró en seguida la puerta casi para aislar a la hija en la intimidad de la habitación, dejando fuera el miedo del lugar. Y verdaderamente la vista de los objetos familiares pareció reconfortar algo a Marastella.

– Vamos, quítate el mantón, – dijo Mamá Antó. – Espera, te lo quito yo. Ahora estás en tu casa…

– La señora, – añadió don Lisi, tímidamente, con una sonrisa triste y afectuosa.

– ¿Lo oyes? – continuó Mamá Antó para incitar al yerno a que hablara de nuevo.

– Señora mía y de todo, – continuó don Lisi. – Ella tiene que saberlo ya. Aquí tendrá a uno que la respetará y que la querrá como su propia madre. Y no tiene que tener miedo de nada.

– ¡De nada, de nada, claro! – apremió la madre. – ¿Acaso es ya una niña? ¡Qué miedo! Tendrá tanto que hacer, ahora… ¿No es cierto? ¿No es cierto?

Marastella inclinó varias veces la cabeza, afirmando; pero apenas Mamá Antó y las dos vecinas se dispusieron a irse, rompió de nuevo a llorar y se echó de nuevo al cuello de la madre, agarrándose. Esta, con dulce violencia, se soltó de los brazos de la hija, le dio los últimos consejos para que confiara en el marido y en Dios, y se fue con las vecinas, llorando también ella.

Marastella se quedó cerca de la puerta, que la madre, al salir, había entornado, y con las manos en la cara se esforzaba por sofocar los sollozos que irrumpían, cuando un golpe de aire abrió un poco, silenciosamente, esa puerta.

Aún con las manos en la cara, ella no se dio cuenta. En cambio, le pareció que de pronto, quién sabe por qué, se le abría dentro como un vacío silencioso, de sueño; sintió un lejano, tembloroso campanilleo de grillos, una fresca y embriagadora fragancia de flores. Se quitó las manos de los ojos, entrevió en el cementerio una claridad mayor que la del alba, que parecía que encantase todas las cosas, allí, inmóviles y precisas.

Don Lisi corrió a cerrar la puerta. Pero,  entonces, Marastella, estremeciéndose de pronto y cobijándose en el rincón, entre la puerta y la pared, le gritó:

– ¡Por caridad, no me toque!

Don Lisi, herido por ese movimiento instintivo de repulsión, se detuvo.

– No iba a tocarte, – dijo. – Quería cerrar la puerta.

– No, no, – respondió en seguida Marastella, para mantenerlo lejos. – Déjela abierta. ¡No tengo miedo!

– ¿Y entonces?… – balbució don Lisi, sintiendo que se le caían los brazos.

En el silencio, a través de la puerta medio cerrada, llegó el canto lejano de un campesino que volvía despreocupado al campo, allá, bajo la luna, en el frescor impregnado del olor del heno verde, recién cortado.

– Si quieres que pase, – continuó don Lisi humillado, profundamente entristecido, – voy a cerrar la cancela que se ha quedado abierta.

Marastella no se movió del rincón en que se había cobijado. Lisi Chirico se acercó lentamente a cerrar la cancela; estaba a punto de volver, cuando la vio venir a su encuentro, como enloquecida del todo de pronto.

– ¿Dónde está, dónde está mi padre? ¡Dígamelo! Quiero ir adonde está mi padre.

– De acuerdo, ¿por qué no?, es justo; te llevo allí, le respondió con gravedad. – Cada tarde doy una vuelta antes de acostarme. Es mi obligación. Esta tarde no lo iba a hacer por ti. Vamos. No necesitamos linterna. Hoy tenemos la linterna del cielo.

Y fueron por los senderos de guijarros entre los setos de espino en flor.

Destacaban blancas todo alrededor, bajo la luz de la luna, las tumbas gentilicias, y negras y en el suelo, con su sombra a un lado, como yacentes, las cruces de hierro de los pobres.

Más preciso, más claro, llegaba de los campos vecinos el tembloroso canto de los grillos y, de lejos, el borboteo continuo del mar.

– Aquí, – dijo Chirico, indicando una baja y rústica tumba, en la que estaba colocada una lápida que recordaba el naufragio y las tres víctimas del deber. – Está también Sparti, – añadió viendo a Marastella caer de rodillas ante la tumba, sollozando. – Tú llora aquí… Yo iré a otro sitio; no está lejos…

La luna miraba desde el cielo el pequeño camposanto en el altiplano. Ella sola vio a esas dos sombras negras sobre las guijas amarillas de un sendero cerca de dos tumbas, en esa dulce noche de abril.

Don Lisi, inclinado sobre la fosa de su primera mujer, sollozaba:

– Nunzia, Nunzia, ¿me oyes?

1.3  Il fumo

I

Appena i zolfatari venivan sú dal fondo della «buca» col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde là della collina lontana, che chiudeva a ponente l’ampia vallata.

Qua, le coste aride, livide di tufi arsicci, non avevano piú da tempo un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare come da tanti enormi formicaj e bruciate tutte dal fumo.

Sul verde di quella collina, gli occhi infiammati, offesi dalla luce dopo tante ore di tenebra laggiú, si riposavano.

A chi attendeva a riempire di minerale grezzo i forni o i calcheroni, a chi vigilava alla fusione dello zolfo, o s’affaccendava sotto i forni stessi a ricevere dentro ai giornelli che servivan da forme lo zolfo bruciato che vi colava lento come una densa morchia nerastra, la vista di tutto quel verde lontano alleviava anche la pena del respiro, l’agra oppressura del fumo che s’aggrappava alla gola, fino a promuovere gli spasimi piú crudeli e le rabbie dell’asfissia.

I carusi, buttando giú il carico dalle spalle peste e scorticate, seduti su i sacchi, per rifiatare un po’ all’aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della «buca», grattandosi la testa e guardando a quella collina attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai «calcheroni» accesi o dai forni, pensavano alla vita di campagna, vita lieta per loro, senza rischi, senza gravi stenti là all’aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini.

– Beati loro!

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Per tutti, infine, era come un paese di sogno quella collina lontana. Di là veniva l’olio alle loro lucerne che a mala pena rompevano il crudo tenebrore della zolfara; di là il pane, quel pane solido e nero che li teneva in piedi per tutta la giornata, alla fatica bestiale; di là il vino, l’unico loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare: parevano, sottoterra, tanti morti affaccendati.

I contadini della collina, all’incontro, perfino sputavano: – Puh! – guardando a quelle coste della vallata.

Era là il loro nemico: il fumo devastatore.

E quando il vento spirava di là, recando il lezzo asfissiante dello zolfo bruciato, guardavano gli alberi come a difenderli e borbottavano imprecazioni contro quei pazzi che s’ostinavano a scavar la fossa alle loro fortune e che, non contenti d’aver devastato la vallata, quasi invidiosi di quell’unico occhio di verde, avrebbero voluto invadere coi loro picconi e i loro forni anche le belle campagne.

Tutti, infatti, dicevano che anche sotto la collina ci doveva esser lo zolfo. Quelle creste in cima, di calcare siliceo e, piú giú, il briscale degli affioramenti lo davano a vedere; gl’ingegneri minerarii avevano piú volte confermato la voce.

Ma i proprietarii di quelle campagne, quantunque tentati insistentemente con ricche profferte, non solo non avevan voluto mai cedere in affitto il sottosuolo, ma neanche alla tentazione di praticar loro stessi per curiosità qualche assaggio, cosí sopra sopra.

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La campagna era lí, stesa al sole, che tutti potevano vederla: soggetta sí alle cattive annate, ma compensata poi anche dalle buone; la zolfara, all’incontro, cieca, e guaj a scivolarci dentro. Lasciare il certo per l’incerto sarebbe stata impresa da pazzi.

Queste considerazioni, che ciascuno di quei proprietarii della collina ribadiva di continuo nella mente dell’altro, volevano essere come un impegno per tutti di resistere uniti alle tentazioni, sapendo bene che se uno di loro avesse ceduto e una zolfara fosse sorta là in mezzo, tutti ne avrebbero sofferto; e allora, cominciata la distruzione, altre bocche d’inferno si sarebbero aperte e, in pochi anni, tutti gli alberi, tutte le piante sarebbero morti, attossicati dal fumo, e addio campagne!

II

Tra i piú tentati era don Mattia Scala che possedeva un poderetto con un bel giro di mandorli e d’olivi a mezza costa della collina, ove, per suo dispetto, affiorava con piú ricca promessa il minerale.

Parecchi ingegneri del R. Corpo delle Miniere eran venuti a osservare, a studiare quegli affioramenti e a far rilievi. Lo Scala li aveva accolti come un marito geloso può accogliere un medico, che gli venga in casa a visitare qualche segreto male della moglie.

Chiudere la porta in faccia a quegli ingegneri governativi che venivan per dovere d’ufficio, non poteva. Si sfogava in compenso a maltrattare quegli altri che, o per conto di qualche ricco produttore di zolfo o di qualche società mineraria, venivano a proporgli la cessione o l’affitto del sottosuolo.

– Corna, vi cedo! – gridava. – Neanche se m’offriste i tesori di Creso; neanche se mi diceste: Mattia, raspa qua con un piede, come fanno le galline; ci trovi tanto zolfo, che diventi d’un colpo piú ricco di… che dico? di re Fàllari! Non rasperei, parola d’onore.

E se, poco poco, quelli insistevano:

– Insomma, ve n’andate, o chiamo i cani?

Gli avveniva spesso di ripetere questa minaccia dei cani, perché il suo poderetto aveva il cancello su la trazzera, cioè su la via mulattiera che traversava la collina, accavalcandola, e che serviva da scorciatoja agli operai delle zolfare, ai capimastri, a gl’ingegneri direttori, che dalla prossima città si recavano alla vallata o ne tornavano. Ora, quest’ultimi segnatamente pareva avessero preso gusto a farlo stizzire; e, almeno una volta la settimana, si fermavano innanzi al cancello, vedendo don Mattia lí presso, per domandargli:

– Niente, ancora?

– Tè, Scampirro! Tè, Regina!

Don Mattia, per chiasso, chiamava davvero i cani.

Aveva avuto anche lui un tempo la mania delle zolfare, per cui s’era ridotto – eccolo là – scannato miserabile! Ora non poteva veder neanche da lontano un pezzo di zolfo che subito, con rispetto parlando, non si sentisse rompere lo stomaco.

– E che è, il diavolo? – gli domandavano.

E lui:

– Peggio! Perché vi danna l’anima, il diavolo, ma vi fa ricchi, se vuole! Mentre lo zolfo vi fa piú poveri di Santo Giobbe; e l’anima ve la danna lo stesso!

Parlando, pareva il telegrafo. (Il telegrafo s’intende come usava prima, ad asta.) Lungo lungo, allampanato, sempre col cappellaccio bianco in capo, buttato indietro, a spera; e portava agli orecchi un paio di catenaccetti d’oro, che davano a vedere quello che, del resto, egli non si curava di nascondere, come fosse cioè venuto sú da una famiglia mezzo popolana e mezzo borghese.

Nel volto raso, pallido, di quel pallore proprio dei biliosi, gli spiccavano stranamente le sopracciglia enormi, spioventi, come un gran pajo di baffi che si fosse sfogato a crescer lí, visto che giú, sul labbro, non gli era nemmen permesso di spuntare. E sotto, all’ombra di quelle sopracciglia, gli lampeggiavano gli occhi chiari, taglienti, vivi vivi, mentre le narici del gran naso aquilino, energico, gli si dilatavano di continuo e fremevano.

Tutti i possidenti della collina gli volevano bene.

Ricordavano com’egli, molto ricco un giorno, fosse venuto lí a pigliar possesso di quei pochi ettari di terra comperati dopo la rovina, col denaro ricavato dalla vendita della casa in città e di tutte le masserizie di essa e delle gioje della moglie morta di crepacuore; ricordavano come si fosse prima rintanato nelle quattro stanze della casa rustica annessa al podere, senza voler vedere nessuno, insieme con una ragazza di circa sedici anni, Jana, che tutti in principio avevano creduto sua figlia e che poi s’era saputo esser la sorella minore d’un tal Dima Chiarenza, cioè proprio di quell’infame che lo aveva tradito e rovinato.

C’era tutta una storia sotto.

Lo Scala aveva conosciuto questo Chiarenza ragazzo, e lo aveva sempre ajutato, sapendolo orfano di padre e di madre, con quella sorellina molto piú piccola di lui; se l’era anzi preso con sé per farlo lavorare; poi, avendolo sperimentato veramente esperto e amante del lavoro, aveva voluto averlo anche socio nell’affitto d’una zolfara. Tutte le spese per la lavorazione se l’era accollate lui; Dima Chiarenza doveva soltanto star lí, sul posto, vigilare all’amministrazione e ai lavori.

Intanto Jana (Januzza, come la chiamavano) gli cresceva in casa. Ma don Mattia aveva anche un figlio (unico!) quasi della stessa età, che si chiamava Neli. Si sa, presto padre e madre s’erano accorti che i due ragazzi avevano preso a volersi bene, non come fratello e sorella; e per non tener la paglia accanto al fuoco e dare tempo al tempo, avevano pensato giudiziosamente d’allontanare dalla casa Neli, che non aveva ancora diciotto anni, e lo avevano mandato alla zolfara, a tener compagnia e a prestare ajuto al Chiarenza. Fra due, tre anni, li avrebbero sposati, se tutto, come pareva, fosse andato bene.

Poteva mai sospettare don Mattia Scala che Dima Chiarenza, di cui si fidava come di se stesso, Dima Chiarenza, ch’egli aveva raccolto dalla strada, trattato come un figliuolo e messo a parte degli affari, Dima Chiarenza lo dovesse tradire, come Giuda tradí Cristo?

Proprio cosí! S’era messo d’accordo, l’infame, con l’ingegnere direttore della zolfara, d’accordo coi capimastri, coi pesatori, coi carrettieri, per rubarlo a man salva su le spese d’amministrazione, su lo zolfo estratto, finanche sul carbone che doveva servire ad alimentar le macchine per l’eduzione delle acque sotterranee. E la zolfara, una notte, gli s’era allagata, irreparabilmente, distruggendo l’impianto del piano inclinato, che allo Scala costava piú di trecento mila lire.

Neli, che in quella notte d’inferno s’era trovato sul luogo e aveva partecipato agl’inutili sforzi disperati per impedire il disastro, presentendo l’odio che il padre da quell’ora avrebbe portato al Chiarenza, e in cui forse avrebbe coinvolto Jana, la sorella innocente, la sua Jana; >>>> temendo che avrebbe chiamato anche lui, forse, responsabile della rovina per non essersi accorto o per non aver denunziato a tempo il tradimento di quel Giuda che doveva esser tra poco suo cognato; nella stessa notte, era fuggito come un pazzo, in mezzo alla tempesta; e scomparso, senza lasciar nessuna traccia di sé.

Pochi giorni dopo la madre era morta, assistita amorosamente da Jana, e lo Scala s’era trovato solo, in casa, rovinato, senza piú la moglie, senza piú il figlio, solo con quella ragazza, la quale, come impazzita dall’onta e dal cordoglio, s’era stretta a lui, non aveva voluto lasciarlo, aveva minacciato di buttarsi da una finestra s’egli la avesse respinta in casa del fratello.

Vinto da quella fermezza e reprimendo la repulsione che la sua vista ora gli destava, lo Scala aveva condisceso a condurla con sé, vestita di nero, come una figliuola due volte orfana, là, nel poderetto acquistato allora.

Uscendo a poco a poco, con l’andar del tempo, dal suo lutto, s’era messo a scambiare qualche parola coi vicini e a dar notizie di sé e della ragazza.

– Ah, non è figlia vostra?

– No. Ma come se fosse.

Si vergognava dapprima a dir chi era veramente. Del figlio, non diceva nulla. Era una spina troppo grande. E del resto, che notizie poteva darne? Non ne aveva. Se n’era tanto occupata la questura, ma senza venire a capo di nulla.

Dopo alcuni anni, però, Jana, stanca d’aspettar cosí senza speranza il ritorno del fidanzato, aveva voluto tornarsene in città, in casa del fratello, il quale, sposata una vecchia di molti denari, famigerata usuraja, s’era messo a far l’usurajo anche lui, ed era adesso tra i piú ricchi del paese.

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Cosí lo Scala era restato solo, lí, nel poderetto. Otto anni erano già trascorsi e, almeno apparentemente, aveva ripreso l’umore di prima; era divenuto amico di tutti i proprietarii della collina che, spesso, sul tramonto venivano a trovarlo dai poderi vicini.

Pareva che la campagna avesse voluto compensarlo dei danni della zolfara.

Era pure stata una fortuna l’aver potuto acquistare quei pochi ettari di terra, perché uno dei proprietarii dei sei poderi in cui era frazionata la collina, il Butera, riccone, s’era fitto in capo di diventar col tempo padrone di tutte quelle terre. Prestava denaro e andava a mano a mano allargando i confini del suo fondo. Già s’era annesso quasi metà del podere di un certo Nino Mo; e aveva ridotto un altro proprietario, il Làbiso, a vivere in un pezzettino di terra largo quanto un fazzoletto da naso, anticipandogli la dote per cinque figliuole; teneva da un pezzo gli occhi anche su le terre del Lopes; ma questi, per bizza, dovendo disfarsi dopo una serie di male annate d’una parte della sua tenuta, s’era contentato di venderla, anche a minor prezzo, a un estraneo: allo Scala.

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In pochi anni, buttatosi tutto al lavoro, per distrarsi dalle sue sciagure, don Mattia aveva talmente beneficato quei pochi ettari di terra, che ora gli amici, il Lopes stesso, quasi stentavano a riconoscerli; e ne facevano le meraviglie.

Il Lopes, veramente, si rodeva dentro dalla gelosia. Rosso di pelo, dal viso lentigginoso, e tutto sciamannato, teneva di solito il cappello buttato sul naso, come per non veder piú niente, né nessuno; ma sotto la falda di quel cappello qualche occhiata obliqua gli sguisciava di tanto in tanto, come nessuno s’aspettava da quei grossi occhi verdastri che pareva covassero il sonno.

Girato il podere, gli amici si riducevano su lo spiazzetto innanzi alla cascina.

Là, lo Scala li invitava a sedere sul murello che limitava giro giro, sul davanti, la scarpata su cui la cascina era edificata. Ai piedi di quella scarpata, dalla parte di dietro, sorgevano, come a proteggere la cascina, certe pioppe nere, alte alte, di cui don Mattia non si sapeva dar pace, perché il Lopes ce l’avesse piantate.

– Che stanno a farci? Me lo dite? Non danno frutto e ingombrano.

– E voi buttatele a terra e fatene carbone, – gli rispondeva, indolente, il Lopes.

Ma il Butera consigliava:

– Vedete un po’, prima di buttarle giú, se qualcuno ve le prende.

– E chi volete che le prenda?

– Mah! Quelli che fanno i Santi di legno.

– Ah! I Santi! Guarda, guarda! Ora capisco, – concludeva don Mattia – se li fanno di questo legno, perché non fanno piú miracoli i Santi!

Su quelle pioppe, al vespro, si davano convegno tutti i passeri della collina, e col loro fitto, assordante cinguettío disturbavano gli amici che si trattenevano lí a parlare, al solito, delle zolfare e dei danni delle imprese minerarie.

Moveva quasi sempre il discorso Nocio Butera, il quale, com’era il possidente piú ricco, cosí era anche la piú grossa pancia di tutte quelle contrade. Era avvocato, ma una volta sola in vita sua, poco dopo ottenuta la laurea, s’era provato a esercitar la professione: s’era impappinato nel bel meglio della sua prima arringa; smarrito; con le lagrime in pelle, come un bambino, lí, davanti ai giurati e alla Corte aveva levato le braccia, a pugni chiusi, contro la Giustizia raffigurata nella volta con tanto di bilancia in mano, gemendo, esasperato: – «Eh che! Santo Dio!» – perché, povero giovine, aveva sudato una camicia a cacciarsi l’arringa a memoria e credeva di poterla recitare proprio bene, tutta filata, senza impuntature.

Ogni tanto, ancora, qualcuno gli ricordava quel fiasco famoso:

– Eh che, don No’, santo Dio!

E Nocio Butera figurava di sorriderne anche lui, ora, masticando: – Già… già… – mentre si grattava con le mani paffute le fedine nere su le guance rubiconde o s’aggiustava sul naso a gnocco o su gli orecchi il sellino o le staffe degli occhiali d’oro. Veramente avrebbe potuto riderne di cuore, perché, se come avvocato aveva fatto quella pessima prova, come coltivatore di campi e amministratore di beni, via, portava bandiera. Ma l’uomo, si sa, l’uomo non si vuol mai contentare, e Nocio Butera pareva godesse soltanto nel sapere che altri, come lui, aveva fatto cilecca in qualche impresa. Veniva nel fondo dello Scala unicamente per annunziar la rovina prossima o già accaduta di questo o di quello, e per spiegarne le ragioni e dimostrare cosí, che a lui non sarebbe certo accaduta.

Tino Làbiso, lungo lungo, rinfichito, tirava dalla tasca dei calzoni un pezzolone a dadi rossi e neri, vi strombettava dentro col naso che pareva una buccina marina; poi ripiegava diligentemente il pezzolone, se lo ripassava, cosí ripiegato, parecchie volte sotto il naso, e se lo rimetteva in tasca; infine, da uomo prudente, che non si lascia mai scappar giudizii avventati, diceva:

– Può essere.

– Può essere? È è è! – scattava Nino Mo, che non poteva soffrire quell’aria flemmatica del Làbiso.

Il Lopes accennava di scuotersi dalla cupa noja e, sotto al cappellaccio buttato sul naso, consigliava con voce sonnolenta:

– Lasciate parlare don Mattia che se n’intende piú di voi.

Ma don Mattia, ogni volta, prima di mettersi a parlare, si recava in cantina per offrire agli amici un buon boccale di vino.

– Aceto, avvelenatevi!

Beveva anche lui, sedeva, s’attortigliava le gambe e domandava:

– Di che si tratta?

– Si tratta, – prorompeva al solito Nino Mo, – che sono tante bestie, tutti, a uno a uno!

– Chi?

– Ma quei figli di cane! I zolfatari. Scavano, scavano, e il prezzo dello zolfo giú, giú, giú! Senza capire che fanno la loro e la nostra rovina; perché tutti i danari vanno a finir là, in quelle buche, in quelle bocche d’inferno sempre affamate, bocche che ci mangiano vivi!

– E il rimedio, scusate? – tornava a domandare lo Scala.

– Limitare, – rispondeva allora placidamente Nocio Butera – limitare la produzione dello zolfo. L’unica, per me, sarebbe questa.

– Madonna, che locco! – esclamava subito don Mattia Scala sorgendo in piedi per gestire piú liberamente: – Scusate, don Nocio mio, locco, sí, locco e ve lo provo! Dite un po’: quante, tra mille zolfare, credete che siano coltivate direttamente, in economia, dai proprietarii? Duecento appena! Tutte le altre sono date in affitto. Tu, Tino Làbiso, ne convieni?

– Può essere, – ripeteva Tino Làbiso, intento e grave.

E Nino Mo:

– Può essere? È è è!

Don Mattia protendeva le mani per farlo tacere.

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– Ora, don Nocio mio, quanto vi pare che duri, per l’ingordigia e la prepotenza dei proprietarii panciuti come voi, l’affitto d’una zolfara? Dite su! dite su!

– Dieci anni? – arrischiava, incerto, il Butera, sorridendo con aria di condiscendente superiorità.

– Dodici, – concedeva lo Scala – venti, anzi, qualche volta. Bene, e che ve ne fate? che frutto potete cavarne in cosí poco tempo? Per quanto lesti e fortunati si sia, in venti anni non c’è modo neanche di rifarsi delle spese che ci vogliono per coltivare come Dio comanda una zolfara. Questo, per dirvi che, data in commercio una minore domanda, se è possibile che il proprietario coltivatore rallenti la produzione per non rinvilire la merce, non sarà mai possibile per l’affittuario a breve scadenza, il quale, facendolo, sacrificherebbe i proprii interessi a beneficio del successore. Dunque l’impegno, l’accanimento dell’affittuario nel produrre quanto piú gli sia possibile, mi spiego? Poi, sprovvisto com’è quasi sempre di mezzi, deve per forza smerciar subito il suo prodotto, a qualunque prezzo, per seguitare il lavoro; perché, se non lavora – voi lo sapete – il proprietario gli toglie la zolfara. E, per conseguenza, come dice Nino Mo: lo zolfo giú, giú, giú, come se fosse pietraccia vile. Ma, del resto, voi don Nocio che avete studiato, e tu Tino Làbiso: sapreste dirmi che diavolo sia lo zolfo e a che cosa serva?

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Finanche il Lopes, a questa domanda speciosa, si voltava a guardare con gli occhi sbarrati. Nino Mo si cacciava in tasca le mani irrequiete, come se volesse cercarvi rabbiosamente la risposta; mentre Tino Làbiso tirava al solito daccapo il pezzolone per soffiarsi il naso e prender tempo, da uomo prudente.

– Oh bella! – esclamava intanto Nocio Butera, imbarazzato anche lui. – Serve… serve per… per inzolfare le viti, serve.

– E… e anche per… già, per i fiammiferi di legno, mi pare, – aggiungeva Tino Làbiso ripiegando con somma diligenza il fazzoletto.

– Mi pare… mi pare… – si metteva a sghignazzare don Mattia Scala. – Che vi pare? È proprio cosí! Questi due soli usi ne conosciamo noi. Domandatene a chi volete: nessuno vi saprà dire per che altro serva lo zolfo. E intanto lavoriamo, ci ammazziamo a scavarlo, poi lo trasportiamo giú alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingojarselo; ci tirano una bella fischiata, e addio! Che ne faranno, di là, nei loro paesi? Nessuno lo sa; nessuno si cura di saperlo! E la ricchezza nostra, intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via cosí dalle vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qua, come tanti ciechi, come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico guadagno: le nostre campagne bruciate dal fumo.

I quattro amici, a questa vivace, lampantissima dimostrazione della cecità con cui si esercitava l’industria e il commercio di quel tesoro concesso dalla natura alle loro contrade e intorno a cui pur ferveva tanta briga, tanta guerra di lucro, insidiosa e spietata, restavano muti, come oppressi da una condanna di perpetua miseria.

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Allora lo Scala, riprendendo il primo discorso, si metteva a rappresentar loro tutti gli altri pesi, a cui doveva sottostare un povero affittuario di zolfare. Li sapeva tutti, lui, per averli purtroppo sperimentati. Ed ecco, oltre l’affitto breve, l’estaglio, cioè la quota d’affitto che doveva esser pagata in natura, sul prodotto lordo, al proprietario del suolo, il quale non voleva affatto sapere se il giacimento fosse ricco o povero, se le zone sterili fossero rare o frequenti, se il sotterraneo fosse asciutto o invaso dalle acque, se il prezzo fosse alto o basso, se insomma l’industria fosse o no remunerativa. E, oltre l’estaglio, le tasse governative d’ogni sorta; e poi l’obbligo di costruire, non solo le gallerie inclinate per l’accesso alla zolfara e quella per la ventilazione e i pozzi per l’estrazione e l’eduzione delle acque; ma anche i calcheroni, i forni, le strade, i caseggiati e quanto mai potesse occorrere alla superficie per l’esercizio della zolfara. E tutte queste costruzioni, alla fine del contratto, dovevano rimanere al proprietario del suolo, il quale, per giunta, esigeva che tutto gli fosse consegnato in buon ordine e in buono stato. Come se le spese fossero state a suo carico. Né bastava! Neppur dentro le gallerie sotterranee l’affittuario era padrone di lavorare a suo modo, ma ad archi, o a colonne, o a pasture, come il proprietario imponeva, talvolta anche contro le esigenze stesse del terreno.

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Si doveva esser pazzi o disperati, no?, per accettar siffatte condizioni, per farsi mettere cosí i piedi sul collo. Chi erano, infatti, per la maggior parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d’un quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivar la zolfara presa in affitto, dai mercanti di zolfo delle marine, che li assoggettavano ad altre usure, ad altre soperchierie.

Tirati i conti, che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiú, esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti; per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore alle loro forze, su e giú per le gallerie e le scale della buca.

Quando lo Scala terminava di parlare e i vicini si alzavano per tornarsene alle loro abitazioni rurali, la luna, alta e come smarrita nel cielo, quasi non fosse di quella notte, ma la luna d’un tempo lontano lontano, dopo il racconto di tante miserie, illuminando le due coste della vallata ne faceva apparir piú squallida e piú lugubre la desolazione.

E ciascuno, avviandosi, pensava che là, sotto quelle coste cosí squallidamente rischiarate, cento, duecento metri sottoterra, c’era gente che s’affannava ancora a scavare, a scavare, poveri picconieri sepolti laggiú, a cui non importava se sú fosse giorno o notte, poiché notte era sempre per loro.

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III

Tutti, a sentirlo parlare, credevano che lo Scala avesse già dimenticato i dolori passati e non si curasse piú di nulla ormai, tranne di quel suo pezzetto di terra, da cui non si staccava piú da anni, nemmeno per un giorno.

Del figliuolo scomparso, sperduto per il mondo – se qualche volta ne parlava, perché qualcuno gliene moveva il discorso – si sfogava a dir male, per l’ingratitudine che gli aveva dimostrata, per il cuor duro di cui aveva dato prova.

– Se è vivo, – concludeva – è vivo per sé; per me, è morto, e non ci penso piú.

Diceva cosí, ma, intanto, non partiva per l’America da tutti quei dintorni un contadino, dal quale non si recasse di nascosto, alla vigilia della partenza, per consegnargli segretamente una lettera indirizzata a quel suo figliuolo.

– Non per qualche cosa, oh! Se niente niente t’avvenisse di vederlo o d’averne notizia, laggiú.

Molte di quelle lettere gli eran tornate indietro, con gli emigranti rimpatriati dopo quattro o cinque anni, gualcite, ingiallite, quasi illeggibili ormai. Nessuno aveva visto Neli, né era riuscito ad averne notizia, né all’Argentina, né al Brasile, né agli Stati Uniti.

Egli ascoltava, poi scrollava le spalle:

– E che me n’importa? Da’ qua, da’ qua. Non mi ricordavo piú neanche d’averti dato questa lettera per lui.

Non voleva mostrare agli estranei la miseria del suo cuore, l’inganno in cui sentiva il bisogno di persistere ancora: che il figlio, cioè, fosse là, in America, in qualche luogo remoto, e che dovesse un giorno o l’altro ritornare, venendo a sapere ch’egli s’era adattato alla nuova condizione e possedeva una campagna, dove viveva tranquillo, aspettandolo.

Era poca, veramente, quella terra; ma da parecchi anni don Mattia covava, di nascosto al Butera, il disegno d’ingrandirla, acquistando la terra d’un suo vicino, col quale già s’era messo a prezzo e accordato. Quante privazioni, quanti sacrifizii non s’era imposti, per metter da parte quanto gli bisognava per attuare quel suo disegno! Era poca, sí, la sua terra; ma da un pezzo egli, affacciandosi al balcone della cascina, s’era abituato a saltar con gli occhi il muro di cinta tra il suo podere e quello del vicino e a considerar come sua tutta quanta quella terra. Raccolta la somma convenuta, aspettava solamente che il vicino si risolvesse a firmare il contratto e a sloggiare di là.

Gli sapeva mill’anni, allo Scala; ma, per disgrazia, gli era toccato ad aver da fare con un benedett’uomo! Buono, badiamo, quieto, garbato, remissivo, don Filippino Lo Cícero, ma senza dubbio un po’ svanito di cervello. Leggeva dalla mattina alla sera certi libracci latini, e viveva solo in campagna con una scimmia che gli avevano regalata.

La scimmia si chiamava Tita; era vecchia e tisica per giunta. Don Filippino la curava come una figliuola, la carezzava, s’assoggettava senza mai ribellarsi a tutti i capricci di lei; con lei parlava tutto il giorno, certissimo d’esser compreso. E quando essa, triste per la malattia, se ne stava arrampicata su la trabacca del letto, ch’era il suo posto preferito, egli, seduto su la poltrona, si metteva a leggerle qualche squarcio delle Georgiche o delle Bucoliche:

Tityre, tu patulae...

Ma quella lettura era di tratto in tratto interrotta da certi soprassalti d’ammirazione curiosissimi: a qualche frase, a qualche espressione, talvolta anche per una semplice parola, di cui don Filippino comprendeva la squisita proprietà o gustava la dolcezza, posava il libro su le ginocchia, socchiudeva gli occhi e si metteva a dire celerissimamente:- Bello! bello! bello! bello! bello! – abbandonandosi man mano su la spalliera, come se svenisse dal piacere. Tita allora scendeva dalla trabacca e gli montava sul petto, angustiata, costernata; don Filippino la abbracciava e le diceva, al colmo della gioja:

– Senti, Tita, senti… Bello! bello! bello! bello! bello…

Ora don Mattia Scala voleva la campagna: aveva fretta, cominciava a essere stufo, e aveva ragione: la somma convenuta era pronta – e notare che quel denaro a don Filippino avrebbe fatto tanto comodo; ma, Dio benedetto, come avrebbe poi potuto in città gustar la poesia pastorale e campestre del suo divino Virgilio?

– Abbi pazienza, caro Mattia!

La prima volta che lo Scala s’era sentito rispondere cosí, aveva sbarrato tanto d’occhi:

– Mi burlate, o dite sul serio?

Burlare? Ma neanche per sogno! Diceva proprio sul serio, don Filippino.

Certe cose lo Scala, ecco, non le poteva capire. E poi c’era Tita, Tita ch’era abituata a vivere in campagna, e che forse non avrebbe piú saputo farne a meno, poverina.

Nei giorni belli don Filippino la conduceva a passeggio, un po’ facendola camminare pian pianino coi suoi piedi, un po’ reggendola in braccio, come fosse una bambina; poi sedeva su qualche masso a piè d’un albero; Tita allora s’arrampicava sui rami e, spenzolandosi, afferrata per la coda, tentava di ghermirgli la papalina per il fiocco o di acciuffargli la parrucca o di strappargli il Virgilio dalle mani.

– Bonina, Tita, bonina! Fammi questo piacere, povera Tita!

Povera, povera, sí, perché era condannata, quella cara bestiola. E Mattia Scala, dunque, doveva avere ancora un po’ di pazienza.

– Aspetta almeno, – gli diceva don Filippino – che questa povera bestiola se ne vada. Poi la campagna sarà tua. Va bene?

Ma era già passato piú d’un anno di comporto, e quella brutta bestiaccia non si risolveva a crepare.

– Vogliamo farla invece guarire? – gli disse un giorno lo Scala. – Ho una ricetta coi fiocchi!

Don Filippino lo guardò sorridente, ma pure con una cert’ansia, e domandò:

– Mi burli?

– No. Sul serio. Me l’ha data un veterinario che ha studiato a Napoli: bravissimo.

– Magari, caro Mattia!

– Dunque fate cosí. Prendete quanto un litro d’olio fino. Ne avete, olio fino? ma fino, proprio fino?

– Lo compro, anche se dovessi pagarlo sangue di papa.

– Bene. Quanto un litro. Mettetelo a bollire, con tre spicchi d’aglio, dentro.

– Aglio?

– Tre spicchi. Date ascolto a me. Quando l’olio comincerà a muoversi, prima che alzi il bollo, toglietelo dal fuoco. Prendete allora una buona manata di farina di Majorca e buttatecela dentro.

– Farina di Majorca?

– Di Majorca, gnorsí. Mestate; poi, quando si sarà ridotta come una pasta molle, oleosa, applicatela, ancora calda, sul petto e su le spalle di quella brutta bestia; ricopritela ben bene di bambagia, di molta bambagia, capite?

– Benissimo: di bambagia; e poi?

– Poi aprite una finestra e buttatela giú.

– Ohooo! – miaolò don Filippino. – Povera Tita!

– Povera campagna, dico io! Voi non ci badate; io debbo guardarla da lontano, e intanto, pensate: non c’è piú vigna; gli alberi aspettano da una diecina d’anni almeno, la rimonda; i frútici crescono senza innesti, coi polloni sparpagliati, che si succhian la vita l’un l’altro e par che chiedano ajuto da tutte le parti; di molti olivi non resta che da far legna. Che debbo comperarmi, alla fine? Possibile seguitare cosí?

Don Filippino, a queste rimostranze, faceva una faccia talmente afflitta, che don Mattia non si sentiva piú l’animo d’aggiunger altro.

Con chi parlava, del resto? Quel pover’uomo non era di questo mondo. Il sole, il sole vero, il sole della giornata non era forse mai sorto per lui: per lui sorgevano ancora i soli del tempo di Virgilio.

.

Aveva vissuto sempre là, in quella campagna, prima insieme con lo zio prete, che, morendo, gliel’aveva lasciata in eredità, poi sempre solo. Orfano a tre anni, era stato accolto e cresciuto da quello zio, appassionato latinista e cacciatore per la vita. Ma di caccia don Filippino non s’era mai dilettato, forse per l’esperienza fatta su lo zio, il quale – quantunque prete – era terribilmente focoso: l’esperienza cioè, di due dita saltate a quella buon’anima, dalla mano sinistra, nel caricare il fucile. Si era dato tutto al latino, lui, invece, con passione quieta, contentandosi di svenire dal piacere, parecchie volte, durante la lettura;  mentre l’altro, lo zio prete, si levava in piedi, nei suoi soprassalti d’ammirazione, infocato in volto, con le vene della fronte cosí gonfie che pareva gli volessero scoppiare, e leggeva ad altissima voce e in fine prorompeva, scaraventando il libro per terra o su la faccia rimminchionita di don Filippino:

– Sublime, santo diavolo!

Morto di colpo questo zio, don Filippino era rimasto padrone della campagna; ma padrone per modo di dire.

In vita, lo zio prete aveva anche posseduto una casa nella vicina città, e questa casa aveva lasciato nel testamento al figliuolo di un’altra sua sorella, il quale si chiamava Saro Trigona. Ora forse, costui, considerando la propria condizione di sfortunato sensale di zolfo, di sfortunatissimo padre di famiglia con una caterva di figliuoli, s’aspettava che lo zio prete lasciasse tutto a lui, la casa e la campagna, con l’obbligo, si capisce, di prendere con sé e di mantenere, vita natural durante, il cugino Lo Cícero, il quale, cresciuto sempre come un figlio di famiglia, sarebbe stato inetto, per altro, ad amministrar da sé quella campagna. Ma, poiché lo zio non aveva avuto per lui questa considerazione, Saro Trigona, non potendo per diritto, cercava di trar profitto in tutte le maniere anche dell’eredità del cugino, e mungeva spietatamente il povero don Filippino. Quasi tutti i prodotti della campagna andavano a lui: frumento, fave, frutta, vino, ortaggi; e, se don Filippino ne vendeva qualche parte di nascosto, come se non fosse roba sua, il cugino Saro, scoprendo la vendita, gli piombava in campagna su le furie, quasi avesse scoperto una frode a suo danno, e invano don Filippino gli dimostrava umilmente che quel denaro gli serviva per i molti lavori di cui la campagna aveva bisogno. Voleva il denaro:

– O mi uccido! – gli diceva, accennando di cavar la rivoltella dal fodero sotto la giacca. – Mi uccido qua, davanti a te Filippino, ora stesso! Perché non ne posso piú, credimi! Nove figliuoli, Cristo sacrato, nove figliuoli che mi piangono per il pane!

E meno male quando veniva solo, in campagna, a far quelle scenate! Certe volte conduceva con sé la moglie e la caterva dei figliuoli. A don Filippino, abituato a vivere sempre solo, gli pareva d’andar via col cervello. Quei nove nipoti, tutti maschi, il maggiore dei quali non aveva ancora quattordici anni, quantunque «piangenti per il pane» prendevano d’assalto, come nove demonii scatenati, la tranquilla casa campestre dello zio; gli mettevano tutto sossopra: ballavano, ballavano proprio quelle stanze, dagli urli, dalle risa, dai pianti, dalle corse sfrenate; poi s’udiva, immancabilmente, il fracasso, il rovinío di qualche grossa rottura, almeno almeno di qualche specchio d’armadio andato in briciole; allora Saro Trigona balzava in piedi, gridando:

– Faccio l’organo! faccio l’organo!

Rincorreva, acciuffava quelle birbe; distribuiva calci, schiaffi, pugni, sculacciate; poi, com’essi si mettevano a strillare in tutti i toni, li disponeva in fila, per ordine d’altezza, e cosí facevano l’organo.

– Fermi là! Belli… belli davvero, guarda, Filippino! Non sono da dipingere? Che sinfonia!

Don Filippino si turava gli orecchi, chiudeva gli occhi e si metteva a pestare i piedi dalla disperazione.

– Mandali via! Rompano ogni cosa; si portino via casa, alberi, tutto; ma lasciatemi in pace per carità!

Aveva torto, però, don Filippino. Perché la cugina, per esempio, non veniva mai con le mani vuote a trovarlo in campagna: gli portava qualche papalina ricamata, con un bel fiocco di seta: come no? quella che teneva in capo; o un pajo di pantofole gli portava, pur ricamate da lei: quelle che teneva ai piedi. E la parrucca? Dono e attenzione del cugino, per guardarlo dai raffreddori frequenti, a cui andava soggetto, per la calvizie precoce. Parrucca di Francia! Gli era costata un occhio, a Saro Trigona. E la scimmia, Tita? Anch’essa, regalo della cugina: regalo di sorpresa, per rallegrare gli ozii e la solitudine del buon cugino esiliato in campagna. Come no?

– Somarone, scusate, somarone! – gli gridava don Mattia Scala. – O perché mi fate ancora aspettare a pigliar possesso? Firmate il contratto, levatevi da questa schiavitú! Col denaro che vi do io, voi senza vizii, voi con cosí pochi bisogni, potreste viver tranquillo, in città, gli anni che vi restano. Siete pazzo? Se perdete ancora altro tempo per amore di Tita e di Virgilio, vi ridurrete all’elemosina, vi ridurrete!

Perché don Mattia Scala, non volendo che andasse in malora il podere ch’egli considerava già come suo, s’era messo ad anticipare al Lo Cícero parte della somma convenuta.

– Tanto, per la potatura; tanto per gl’innesti; tanto per la concimazione… Don Filippino, diffalchiamo! –

Diffalchiamo! – sospirava don Filippino. – Ma lasciami stare qui. In città, vicino a quei demonii, morirei dopo due giorni. Tanto a te non do ombra. Non sei tu qua il padrone, caro Mattia? Puoi far quello che ti pare e piace. Io non ti dico niente. Basta che tu mi lasci star tranquillo…

– Sí. Ma intanto, – gli rispondeva lo Scala – i beneficii se li gode vostro cugino!

– Che te ne importa? – gli faceva osservare il Lo Cícero. – Questo denaro tu dovresti darmelo tutto in una volta, è vero? Me lo dai invece cosí, a spizzico; e ci perdo io, in fondo, perché, diffalcando oggi, diffalcando domani, mi verrà un giorno a mancare, mentre tu lo avrai speso qua, a beneficar la terra che allora sarà tua.

IV

Il ragionamento di don Filippino era senza dubbio convincente; ma che sicuro aveva intanto lo Scala di quei denari spesi nel fondo di lui? E se don Filippino fosse venuto a mancare d’un colpo, Dio liberi! senza aver tempo e modo di firmar l’atto di vendita, per quel tanto che oramai gli toccava, Saro Trigona, suo unico erede, avrebbe poi riconosciuto quelle spese e il precedente accordo col cugino?

Questo dubbio sorgeva di tanto in tanto nell’animo di don Mattia; ma poi pensava che, a voler forzare don Filippino a cedergli il possesso del fondo, a volerlo mettere alle strette per quei denari anticipati, poteva correre il rischio di sentirsi rispondere: «O infine, chi t’ha costretto ad anticiparmeli? Per me, il fondo poteva restar bene com’era e andar anche in malora: non me ne sono mai curato. Non puoi mica, ora, cacciarmi di casa mia, se io non voglio». – Pensava inoltre lo Scala che aveva da fare con un vero galantuomo, incapace di far male, neanche a una mosca. Quanto al pericolo che morisse d’un colpo, questo pericolo non c’era: senza vizii, e viveva cosí morigeratamente, sempre sano e vegeto, che prometteva anzi di campar cent’anni. Del resto, il termine del comporto era già fissato: alla morte della scimmia, che poco piú ormai si sarebbe fatta aspettare.

Era tal fortuna, infine, per lui, il potere acquistar quella terra a cosí modico prezzo, che gli conveniva star zitto e fidare; gli conveniva tenervi cosí, anzi, la mano sopra, con quei denari che ci veniva spendendo a mano a mano, quietamente, e come gli pareva e piaceva. Il vero padrone, lí, era lui; stava piú lí, si può dire, che nel suo podere.

– Fate questo; fate quest’altro.

Comandava; s’abbelliva la campagna, e non pagava tasse. Che voleva di piú?

Tutto poteva aspettarsi il povero don Mattia, tranne che quella scimmia maledetta, che tanto lo aveva fatto penare, gli dovesse far l’ultima!

.

Era solito lo Scala di levarsi prima dell’alba, per vigilare ai preparativi del lavoro prestabilito la sera avanti col garzone; non voleva che questi, dovendo, per esempio, attendere alla rimonda, tornasse due o tre volte dalla costa alla cascina o per la scala, o per la pietra d’affilare, la ronca o l’accetta, o per l’acqua o per la colazione: doveva andarsene munito e provvisto di tutto punto, per non perder tempo inutilmente.

– Lo ziro, ce l’hai? Il companatico? Tieni, ti do una cipolla. E svelto, mi raccomando.

Passava quindi, prima che il sole spuntasse, nel podere del Lo Cícero.

Quel giorno, a causa d’una carbonaja a cui si doveva dar fuoco, lo Scala fece tardi. Erano già passate le dieci. Intanto, la porta della cascina di don Filippino era ancora chiusa, insolitamente. Don Mattia picchiò: nessuno gli rispose: picchiò di nuovo, invano; guardò sú ai balconi e alle finestre: chiusi per notte, ancora.

«Che novità?» pensò, avviandosi alla casa colonica lí vicino, per aver notizie dalla moglie del garzone.

Ma anche lí trovò chiuso. Il podere pareva abbandonato.

Lo Scala allora si portò le mani alla bocca per farsene portavoce e, rivolto verso la campagna, chiamò forte il garzone. Come questi, poco dopo, dal fondo della piaggia, gli diede la voce, don Mattia gli domandò se don Filippino fosse là con lui. Il garzone gli rispose che non s’era visto. Allora, già con un po’ d’apprensione, lo Scala tornò a picchiare alla cascina; chiamò piú volte: – Don Filippino! Don Filippino! – e, non avendo risposta, né sapendo che pensarne, si mise a stirarsi con una mano quel suo nasone palpitante.

La sera avanti egli aveva lasciato l’amico in buona salute. Malato, dunque, non poteva essere, almeno fino al punto di non poter lasciare il letto per un minuto. Ma forse, ecco, s’era dimenticato di aprir le finestre delle camere poste sul davanti, ed era uscito per la campagna con la scimmia: il portone forse lo aveva chiuso, vedendo che nella casa colonica non c’era alcuno di guardia.

Tranquillatosi con questa riflessione, si mise a cercarlo per la campagna, ma fermandosi di tratto in tratto qua e là, dove con l’occhio esperto e previdente dell’agricoltore scorgeva a volo il bisogno di qualche riparo; di tratto in tratto chiamando:

– Don Filippino, oh don Filippííí…

Si ridusse cosí in fondo alla piaggia, dove il garzone attendeva con tre giornanti a zappare la vigna.

– E don Filippino? Che se n’è fatto? Io non lo trovo.

Ripreso dalla costernazione, di fronte all’incertezza di quegli uomini, a cui pareva strano ch’egli avesse trovata chiusa la villa com’essi la avevano lasciata nell’avviarsi al lavoro, lo Scala propose di ritornar sú tutti insieme a vedere che fosse accaduto.

– Ho bell’e capito! Questa mattina è infilata male!

– Quando mai, lui! – badava a dire il garzone. – Di solito cosí mattiniero…

– Ma gli starà male la scimmia, vedrete! – disse uno dei giornanti. – La terrà in braccio, e non vorrà muoversi per non disturbarla.

– Neanche a sentirsi chiamato, come l’ho chiamato io, non so piú quante volte? – osservò don Mattia. – Va’ là! Qualcosa dev’essergli accaduto! 

.

Pervenuti su lo spiazzo innanzi alla cascina, tutti e cinque, ora l’uno ora l’altro, si provarono a chiamarlo, inutilmente; fecero il giro della cascina; dal lato di tramontana, trovarono una finestra con gli scuri aperti; si rincorarono:

– Ah! esclamò il garzone. – Ha aperto, finalmente! È la finestra della cucina.

– Don Filippino! – gridò lo Scala. – Mannaggia a voi! Non ci fate disperare!

Attesero un pezzo coi nasi per aria; tornarono a chiamarlo in tutti i modi; alla fine, don Mattia, ormai costernatissimo e infuriato, prese una risoluzione.

– Una scala!

Il garzone corse alla casa colonica e ritornò poco dopo con la scala.

– Monto io! – disse don Mattia, pallido e fremente al solito, scostando tutti.

Pervenuto all’altezza della finestra, si tolse il cappellaccio bianco, vi cacciò il pugno e infranse il vetro, poi aprí la finestra e saltò dentro.

Il focolare, lí, in cucina, era spento. Non s’udiva nella casa alcun rumore. Tutto, là dentro, era ancora come se fosse notte: soltanto dalle fessure delle imposte traspariva il giorno.

– Don Filippino! – chiamò ancora una volta lo Scala: ma il suono della sua stessa voce, in quel silenzio strano, gli suscitò un brivido, dai capelli alla schiena.

Attraversò, a tentoni, alcune stanze; giunse alla camera da letto, anch’essa al bujo. Appena entrato, s’arrestò di botto. Al tenue barlume che filtrava dalle imposte, gli parve di scernere qualcosa, come un’ombra, che si moveva sul letto, strisciando, e dileguava. I capelli gli si drizzarono su la fronte; gli mancò la voce per gridare. Con un salto fu al balcone, lo aprí, si voltò e spalancò gli occhi e la bocca, dal raccapriccio, scotendo le mani per aria. Senza fiato, senza voce, tutto tremante e ristretto in sé dal terrore, corse alla finestra della cucina.

– Sú… sú, salite! Ammazzato! Assassinato!

– Assassinato? Come! Che dice? – esclamarono quelli che attendevano ansiosamente, slanciandosi tutti e quattro insieme per montare. Il garzone volle andare innanzi agli altri, gridando:

– Piano per la scala! A uno a uno!

Sbalordito, allibito, don Mattia si teneva con tutt’e due le mani la testa, ancora con la bocca aperta e gli occhi pieni di quell’orrenda vista.

Don Filippino giaceva sul letto col capo rovesciato indietro, affondato nel guanciale, come per uno stiramento spasmodico, e mostrava la gola squarciata e sanguinante: teneva ancora alzate le mani, quelle manine che non gli parevano nemmeno, orrende ora a vederle, cosí scompostamente irrigidite e livide.

Don Mattia e i quattro contadini lo mirarono un pezzo, atterriti; a un tratto, trabalzarono tutt’e cinque, a un rumore che venne di sotto al letto: si guardarono negli occhi; poi, uno di loro si chinò a guardare.

– La scimmia! – disse con un sospiro di sollievo, e quasi gli venne di ridere.

Gli altri quattro, allora, si chinarono anch’essi a guardare.

.

Tita, accoccolata sotto il letto, con la testa bassa e le braccia incrociate sul petto, vedendo quei cinque che la esaminavano, giro giro, cosí chinati e stravolti, tese le mani alle tavole del letto e saltò piú volte a balziculi, poi accomodò la bocca ad o, ed emise un suono minaccioso:

– Chhhh…

– Guardate! – gridò allora lo Scala. – Sangue… Ha le mani… il petto insanguinati… essa lo ha ucciso!

Si ricordò di ciò che gli era parso di scernere, entrando, e raffermò, convinto:

– Essa, sí! l’ho veduta io, con gli occhi miei! Stava sul letto…

E mostrò ai quattro contadini inorriditi le scigrigne su le gote e sul mento del povero morto:

– Guardate!

Ma come mai? La scimmia? Possibile? Quella bestia ch’egli teneva da tanti anni con sé, notte e giorno?

– Fosse arrabbiata? – osservò uno dei giornanti, spaventato.

Tutt’e cinque, a un tempo, con lo stesso pensiero si scostarono dal letto.

– Aspettate! Un bastone… – disse don Mattia.

E cercò con gli occhi nella camera, se ce ne fosse qualcuno, o se ci fosse almeno qualche oggetto che potesse farne le veci.

Il garzone prese per la spalliera una seggiola e si chinò; ma gli altri, cosí inermi, senza riparo, ebbero paura e gli gridarono:

– Aspetta! Aspetta!

Si munirono di seggiole anche loro. Il garzone allora spinse la sua piú volte sotto il letto: Tita balzò fuori dall’altra parte, s’arrampicò con meravigliosa agilità su per la trabacca del letto, andò ad accoccolarsi in cima al padiglione, e lassú, pacificamente, come se nulla fosse, si mise a grattarsi il ventre, poi a scherzar con le cocche d’un fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato alla gola.

I cinque uomini stettero a mirare quell’indifferenza bestiale, rimbecilliti.

– Che fare, intanto? – domandò lo Scala, abbassando gli occhi sul cadavere; ma subito alla vista di quella gola squarciata, voltò la faccia. – Se lo coprissimo con lo stesso lenzuolo?

– Nossignore! – disse subito il garzone. – Vossignoria dia ascolto a me. Bisogna lasciarlo cosí come si trova. Io sono qua, di casa, e non voglio impicci con la giustizia, io. Anzi mi siete tutti testimoni.

– Che c’entra adesso! – esclamò don Mattia, dando una spallata.

Ma il garzone riprese ponendo avanti le mani:

– Non si sa mai, con la giustizia, padrone mio! Siamo poveretti, nojaltri, e con noi… so io quel che mi dico…

– Io penso, invece, – gridò don Mattia, esasperato, – penso che lui, là, povero pazzo, è morto come un minchione, per la sua stolidaggine, e che io, intanto, piú pazzo e piú stolido di lui, son bell’e rovinato! Oh, ma – tutti testimoni davvero, voi qua – che in questa campagna io ho speso i miei denari, il sangue mio: lo direte… Ora andate ad avvertire quel bel galantuomo di Saro Trigona e il pretore e il delegato, che vengano a vedere le prodezze di questa… Maledetta! – urlò, con uno scatto improvviso, strappandosi dal capo il cappellaccio e lanciandolo contro la scimmia.

Tita lo colse al volo, lo esaminò attentamente, vi stropicciò la faccia, come per soffiarsi il naso, poi se lo cacciò sotto e vi si pose a sedere. I quattro contadini scoppiarono a ridere, senza volerlo.

V

Niente: né un rigo di testamento, né un appunto pur che fosse in qualche registro o in qualche pezzetto di carta volante.

E non bastava il danno: toccavano per giunta a don Mattia Scala le beffe degli amici. Eh già, perché infatti, Nocio Butera, per esempio, avrebbe facilmente immaginato, che don Filippino Lo Cícero sarebbe morto a quel modo, ucciso dalla scimmia.

– Tu, Tino Làbiso, che ne dici, eh? Può essere, è vero? Che bestia! che bestia! che bestia!

E don Mattia si calcava fin sopra gli occhi con le mani afferrate alla tesa il cappellaccio bianco, e pestava i piedi dalla rabbia.

Saro Trigona, finché il cugino non fu sotterrato, dopo gli accertamenti del medico e del pretore, non gli volle dare ascolto, protestando che la disgrazia non gli consentiva di parlar d’affari.

– Sí! Come se la scimmia non gliel’avesse regalata lui, apposta! – si sfogava a dire lo Scala, di nascosto.

Avrebbe dovuto farle coniare una medaglia d’oro, a quella scimmia, e invece – ingrato, – l’aveva fatta fucilare: proprio cosí, fu-ci-la-re, il giorno dopo, non ostante che il giovane medico, venuto in campagna insieme col pretore, avesse trovato una graziosa spiegazione del delitto incosciente della bestia. Tita, malata di tisi, si sentiva forse mancare il respiro, anche a causa, probabilmente, di quel fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato al collo, forse un po’ troppo stretto, o perché se lo fosse stretto lei stessa tentando di slegarselo. Ebbene: forse era saltata sul letto per indicare al padrone dove si sentiva mancare il respiro, lí, al collo, e gliel’aveva preso con le mani; poi, nell’oppressura, non riuscendo a tirare il fiato, esasperata, forse s’era messa a scavare con le unghie, lí, nella gola del padrone. Ecco fatto! Bestia era, infine. Che capiva?

E il pretore, serio serio, accigliato, col testone calvo, rosso, sudato, aveva fatto ripetuti segni d’approvazione alla rara perspicacia del giovine medico – tanto carino!

Basta. Sotterrato il cugino, fucilata la scimmia, Saro Trigona si mise a disposizione di don Mattia Scala.

– Caro don Mattia, discorriamo.

C’era poco da discorrere. Lo Scala, con quel suo fare a scatti, gli espose brevemente il suo accordo col Lo Cícero, e come, aspettando di giorno in giorno che quella maledetta bestiaccia morisse per pigliar possesso, avesse speso nel podere, in piú stagioni, col consenso del Lo Cícero stesso, beninteso, parecchie migliaja di lire, che dovevano per conseguenza detrarsi dalla somma convenuta. Chiaro, eh?

– Chiarissimo! – rispose il Trigona, che aveva ascoltato con molta attenzione il racconto dello Scala, approvando col capo, serio serio, come il pretore. – Chiarissimo! E io, dal canto mio, caro don Mattia, sono disposto a rispettare l’accordo. Fo il sensale; e, voi lo sapete: tempacci! Per collocare una partita di zolfo ci vuol la mano di Dio: la senseria se ne va in francobolli e in telegrammi. Questo, per dirvi che io, con la mia professione, non potrei attendere alla campagna, di cui non so proprio che farmi. Ho poi, come sapete, caro don Mattia, nove figliuoli maschi, che debbono andare a scuola: bestie, uno piú dell’altro: ma vanno a scuola. Debbo, dunque, per forza stare in città. Veniamo a noi. C’è un guajo, c’è. Eh, caro don Mattia, pur troppo! Guajo grosso. Nove figliuoli, dicevamo, e voi non sapete, non potete farvi un’idea di quanto mi costino: di scarpe soltanto… ma già, è inutile che stia a farvi il conto! Impazzireste. Per dirvi, caro don Mattia…

.

– Non me lo dite piú, per carità, caro don Mattia, – proruppe lo Scala, irritato di quell’interminabile discorso che non veniva a capo di  nulla. – Caro don Mattia… caro don Mattia… basta! concludiamo! Ho già perso troppo tempo con la scimmia e con don Filippino!

– Ecco, – riprese il Trigona, senza scomporsi. – Volevo dirvi che ho avuto sempre bisogno di ricorrere a certi messeri, che Dio ne scampi e liberi, per… mi spiego? e, si capisce, mi hanno messo i piedi sul collo. Voi sapete chi porta la bandiera, nel nostro paese, in questa specie d’operazioni…

– Dima Chiarenza? – esclamò subito lo Scala scattando in piedi, pallidissimo. Scaraventò il cappello per terra, si passò furiosamente una mano sui capelli; poi, rimanendo con la mano dietro la nuca, sbarrando gli occhi e appuntando l’indice dell’altra mano, come un’arma, verso il Trigona:

– Voi? – aggiunse. – Voi, da quel boja? da quell’assassino, che mi ha mangiato vivo? Quanto avete preso?

– Aspettate, vi dirò, – rispose il Trigona, con calma dolente, ponendo innanzi una mano. – Non io! perché quel boja, come voi dite benissimo, della mia firma non ha mai voluto saperne…

– E allora… don Filippino? – domandò lo Scala coprendosi il volto con le mani, come per non veder le parole che gli uscivano di bocca.

– L’avallo… – sospirò il Trigona, tentennando il capo amaramente.

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Don Mattia si mise a girar per la stanza, esclamando, con le mani per aria:

– Rovinato! Rovinato! Rovinato!

– Aspettate, – ripeté il Trigona. – Non vi disperate. Vediamo di rimediarla. Quanto intendevate di dare voi, a Filippino, per la terra?

– Io? – gridò lo Scala, fermandosi di botto, con le mani sul petto. – Diciotto mila lire, io: contanti! Son circa sei ettari di terra: tre salme giuste, con la nostra misura: sei mila lire a salma, contanti! Dio sa quel che ho penato per metterle insieme: e ora, ora mi vedo sfuggir l’affare, la terra sotto i piedi, la terra che già consideravo mia!

Mentre don Mattia si sfogava cosí, Saro Trigona si toccava le dita, accigliato, per farsi i conti:

– Diciotto mila… oh, dunque, si dice…

– Piano, – lo interruppe lo Scala. – Diciotto mila, se la buon’anima m’avesse lasciato subito il possesso del fondo. Ma piú di sei mila già ce l’ho spese. E questo è conto che si può far subito, sul luogo. Ho i testimoni: quest’anno stesso, ho piantato due migliaja di vitigni americani, spaventosi! e poi…

Saro Trigona si levò in piedi per troncare quella discussione, dichiarando:

– Ma dodici mila non bastano, caro don Mattia. Gliene debbo piú di venti mila a quel boja, figuratevi!

– Venti mila lire? – esclamò lo Scala, trasecolando. – E che avete mangiato, denari, voi e i vostri figliuoli?

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Il Trigona trasse un lunghissimo sospiro e, battendo una mano sul braccio dello Scala, disse:

– E le mie disgrazie, don Mattia? Non è ancora un mese, che mi è toccato a pagar nove mila lire a un negoziante di Licata, per differenza di prezzo su una partita di zolfo. Lasciatemi stare! Furono le ultime cambiali che mi avallò il povero Filippino, Dio l’abbia in gloria!

Dopo altre inutili rimostranze, convennero di recarsi quel giorno stesso, con le dodici mila lire in mano, dal Chiarenza, per tentare un accordo.

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VI

La casa di Dima Chiarenza sorgeva su la piazza principale del paese. Era una casa antica, a due piani, annerita dal tempo, innanzi alla quale solevano fermarsi con le loro macchinette fotografiche i forestieri, inglesi e tedeschi che si recavano a veder le zolfare, destando una certa meraviglia mista di dileggio o di commiserazione negli abitanti del paese, per i quali quella casa non era altro che una cupa decrepita stamberga, che guastava l’armonia della piazza, col palazzo comunale di fronte, stuccato e lucido, che pareva di marmo, e maestoso anche, con quel loggiato a otto colonne; la Matrice di qua, il Palazzo della Banca Commerciale di là, che aveva a pianterreno uno splendido Caffè da una parte, dall’altra il Circolo di Compagnia.

Il Municipio, secondo i soci di questo Circolo, avrebbe dovuto provvedere a quello sconcio, obbligando il Chiarenza a dare almeno un intonaco decente alla sua casa. Avrebbe fatto bene anche a lui, dicevano: gli si sarebbe forse schiarita un po’ la faccia che, da quando era entrato in quella casa, gli era diventata dello stesso colore. – Però – soggiungevano – volendo esser giusti, gliel’aveva recata in dote la moglie, quella casa, ed egli, proferendo il sí sacramentale, s’era forse obbligato a rispettare la doppia antichità.

Don Mattia Scala e Saro Trigona trovarono nella vasta anticamera quasi buja una ventina di contadini, vestiti tutti, su per giú, allo stesso modo, con un greve abito di panno turchino scuro; scarponi di cuojo grezzo imbullettati, ai piedi; in capo, una berretta nera a calza con la nappina in punta: alcuni portavano gli orecchini; tutti, essendo domenica, rasi di fresco.

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– Annunziami, – disse il Trigona al servo che se ne stava seduto presso la porta, innanzi a un tavolinetto, il cui piano era tutto segnato di cifre e di nomi.

– Abbiano pazienza un momento, – rispose il servo, che guardava stupito lo Scala, conoscendo l’antica inimicizia di lui per il suo padrone. – C’è dentro don Tino Làbiso.

– Anche lui? Disgraziato! – borbottò don Mattia, guardando i contadini in attesa, stupiti come il servo della presenza di lui in quella casa.

Poco dopo, dall’espressione dei loro volti lo Scala poté facilmente argomentare chi fra essi veniva a saldare il suo debito, chi recava soltanto una parte della somma tolta in prestito e aveva già negli occhi la preghiera che avrebbe rivolta all’usurajo perché avesse pazienza per il resto fino al mese venturo; chi non portava nulla e pareva schiacciato sotto la minaccia della fame, perché il Chiarenza lo avrebbe senza misericordia spogliato di tutto e buttato in mezzo a una strada.

A un tratto, l’uscio del banco s’aprí, e Tino Làbiso, col volto infocato, quasi paonazzo, con gli occhi lustri, come se avesse pianto, scappò via senza veder nessuno, tenendo in mano il suo pezzolone a dadi rossi e neri: l’emblema della sua sfortunata prudenza.

Lo Scala e il Trigona entrarono nella sala del banco.

Era anch’essa quasi buja, con una sola finestra ferrata, che dava su un angusto vicoletto. Di pieno giorno, il Chiarenza doveva tenere su la scrivania il lume acceso, riparato da un mantino verde.

Seduto su un vecchio seggiolone di cuojo innanzi alla scrivania, il cui palchetto a casellario era pieno zeppo di carte, il Chiarenza teneva su le spalle uno scialletto, in capo una papalina, e un pajo di mezzi guanti di lana alle mani orribilmente deformate dall’artritide. Quantunque non avesse ancora quarant’anni, ne mostrava piú di cinquanta, la faccia gialla, itterica, i capelli grigi, fitti, aridi che gli si allungavano come a un malato su le tempie. Aveva, in quel momento, gli occhiali a staffa rialzati su la fronte stretta, rugosa, e guardava innanzi a sé con gli occhi torbidi, quasi spenti sotto le grosse palpebre gravi. Evidentemente, si sforzava di dominare l’interna agitazione e di apparir calmo di fronte allo Scala.

La coscienza della propria infamità, non gl’ispirava ora che odio, odio cupo e duro, contro tutti e segnatamente contro il suo antico benefattore, sua prima vittima. Non sapeva ancora che cosa lo Scala volesse da lui; ma era risoluto a non concedergli nulla, per non apparire pentito d’una colpa ch’egli aveva sempre sdegnosamente negata, rappresentando lo Scala come un pazzo.

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Questi, che da anni e anni non lo aveva piú riveduto, neanche da lontano, rimase dapprima stupito, a mirarlo. Non lo avrebbe riconosciuto, ridotto in quello stato, se lo avesse incontrato per via.

«Il castigo di Dio» pensò; e aggrottò le ciglia, comprendendo subito che, cosí ridotto, quell’uomo doveva credere d’aver già scontato il delitto e di non dovergli piú, perciò, nessuna riparazione.

Dima Chiarenza, con gli occhi bassi, si pose una mano dietro le reni per tirarsi sú, pian piano, dal seggiolone di cuojo, col volto atteggiato di spasimo; ma Saro Trigona lo costrinse a rimaner seduto e, subito, col suo solito opprimente garbuglio di frasi, cominciò a esporre lo scopo della visita: egli, vendendo la campagna ereditata dal cugino al caro don Mattia lí presente, avrebbe pagato, subito, dodici mila lire, a scomputo del suo debito, al carissimo don Dima, il quale, dal canto suo, doveva obbligarsi di non muovere nessuna azione giudiziaria contro l’eredità Lo Cícero, aspettando…

– Piano, piano, figliuolo, – lo interruppe a questo punto il Chiarenza, riponendosi gli occhiali sul naso. – Già l’ho mossa oggi stesso, protestando le cambiali a firma di vostro cugino, scadute da un pezzo. Le mani avanti!

– E il mio denaro? – scattò allora lo Scala. – Il fondo del Lo Cícero non valeva piú di diciotto mila lire; ma ora io ce ne ho spese piú di sei mila; dunque, facendolo stimare onestamente, tu non potresti averlo per meno di ventiquattro mila.

– Bene – rispose, calmissimo, il Chiarenza. – Siccome il Trigona me ne deve venticinque mila, vuol dire che io, prendendomi il podere, vengo a perdercene mille, oltre gl’interessi.

– Dunque… venticinque? – esclamò allora don Mattia, rivolto al Trigona, con gli occhi sbarrati.

Questi si agitò su la seggiola, come su un arnese di tortura, balbettando:

– Ma… co… come?

– Ecco, figlio mio: ve lo faccio vedere, – rispose senza scomporsi il Chiarenza, ponendosi di nuovo la mano dietro le reni e tirandosi su con pena. – Ci sono i registri. Parlano chiaro.

– Lascia stare i registri! – gridò lo Scala, facendosi avanti. – Qua ora si tratta de’ miei denari: quelli spesi da me nel podere…

– E che ne so io? – fece il Chiarenza, stringendosi nelle spalle e chiudendo gli occhi. – Chi ve li ha fatti spendere?

Don Mattia Scala ripeté, su le furie, al Chiarenza il suo accordo col Lo Cícero.

– Male, – soggiunse, richiudendo gli occhi, il Chiarenza, per la pena che gli costava la calma che voleva dimostrare; ma quasi non tirava piú fiato. – Male. Vedo che voi, al solito, non sapete trattare gli affari.

– E me lo rinfacci tu? – gridò lo Scala, – tu!

– Non rinfaccio nulla; ma, santo Dio, avreste dovuto almeno sapere, prima di spendere codesti denari che voi dite, che il Lo Cícero non poteva piú vendere a nessuno il podere, perché aveva firmato a me tante cambiali per un valore che sorpassava quello del podere stesso.

– E cosí, – riprese lo Scala – tu ti approfitterai anche del mio denaro?

– Non mi approfitto di nulla, io, – rispose, pronto, il Chiarenza. – Mi pare di avervi dimostrato che, anche secondo la stima che voi fate della terra, io vengo a perderci piú di mille lire.

Saro Trigona cercò d’interporsi, facendo balenare al Chiarenza le dodici mila lire contanti che don Mattia aveva nel portafogli.

– Il denaro è denaro!

– E vola! – aggiunse subito il Chiarenza. – Il meglio impiego del denaro oggi è su terre, sappiatelo, caro mio. Le cambiali, armi da guerra, a doppio taglio: la rendita sale e scende; la terra, invece, è là, che non si muove.

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Don Mattia ne convenne e, cangiando tono e maniera, parlò al Chiarenza del suo lungo amore per quella campagna contigua, soggiungendo che non avrebbe saputo acconciarsi mai a vedersela tolta, dopo tanti stenti durati per essa. Si contentasse, dunque, il Chiarenza, per il momento, del denaro ch’egli aveva con sé; avrebbe avuto il resto, fino all’ultimo centesimo, da lui, non piú dal Trigona, tenendo anche ferma la stima di ventiquattro mila lire, come se quelle sei mila lui non ce le avesse spese, e anche fino al saldo delle venticinque mila, se voleva, cioè dell’intero debito del Trigona.

– Che posso dirti di piú?

Dima Chiarenza ascoltò, con gli occhi chiusi, impassibile, il discorso appassionato dello Scala. Poi gli disse, assumendo anche lui un altro tono, piú funebre e piú grave:

– Sentite, don Mattia. Vedo che vi sta molto a cuore quella terra, e volentieri ve la lascerei, per farvi piacere, se non mi trovassi in queste condizioni di salute. Vedete come sto? I medici mi hanno consigliato riposo e aria di campagna…

– Ah! – esclamò lo Scala fremente. – Te ne verresti là, dunque, accanto a me?

– Per altro, – riprese il Chiarenza – voi ora non mi dareste neanche la metà di quanto io debbo avere. Chi sa dunque fino a quando dovrei aspettare per esser pagato; mentre ora, con un lieve sacrificio, prendendomi quella terra, posso riavere subito il mio e provvedere alla mia salute. Voglio lasciar tutto in regola, io, ai miei eredi.

– Non dir cosí! – proruppe lo Scala, indignato e furente. – Tu pensi agli eredi? Non hai figli, tu! Pensi ai nipoti? Giusto ora? Non ci hai mai pensato. Di’ franco: Voglio nuocerti, come t’ho sempre nociuto! Ah non t’è bastato d’avermi distrutta la casa, d’avermi quasi uccisa la moglie e messo in fuga per disperazione l’unico figlio, non t’è bastato d’avermi ridotto là, misero, in ricompensa del bene ricevuto; anche la terra ora vuoi levarmi, la terra dove io ho buttato il sangue mio? Ma perché, perché cosí feroce contro di me? Che t’ho fatto io? Non ho nemmeno fiatato dopo il tuo tradimento da Giuda: avevo da pensare alla moglie che mi moriva per causa tua, al figlio scomparso per causa tua: prove, prove materiali del furto non ne avevo, per mandarti in galera; e dunque, zitto; me ne sono andato là, in quei tre palmi di terra; mentre qua tutto il paese, a una voce, t’accusava, ti gridava: Ladro! Giuda! Non io, non io! Ma Dio c’è, sai? e t’ha punito: guarda le tue mani ladre come sono ridotte… Te le nascondi? Sei morto! sei morto! e ti ostini ancora a farmi del male? Oh ma, sai? questa volta, no: tu non ci arrivi! Io t’ho detto i sacrificii che sarei disposto a fare per quella terra. Alle corte, dunque, rispondi: – Vuoi lasciarmela?

– No! – gridò, pronto, rabbiosamente, il Chiarenza, torvo, stravolto.

– E allora, né io né tu!

E lo Scala s’avviò per uscire.

– Che farete? – domandò il Chiarenza, rimanendo seduto e aprendo le labbra a un ghigno squallido.

Lo Scala si voltò, alzò la mano a un violento gesto di minaccia e rispose, guardandolo fieramente negli occhi:

– Ti brucio!

VII

Uscito dalla casa del Chiarenza e sbarazzatosi con una furiosa scrollata di spalle del Trigona che voleva dimostrargli, tutto dolente, la sua buona intenzione, don Mattia Scala si recò prima in casa d’un suo amico avvocato per esporgli il caso di cui era vittima e domandargli se, potendo agire giudiziariamente per il riconoscimento del suo credito, sarebbe riuscito a impedire al Chiarenza di pigliar possesso del podere.

L’avvocato non comprese nulla in principio, sopraffatto dalla concitazione con cui lo Scala aveva parlato. Si provò a calmarlo, ma invano. 

– Insomma, prove, documenti, ne avete?

– Non ho un corno!

– E allora andate a farvi benedire! Che volete da me?

– Aspettate, – gli disse don Mattia, prima d’andarsene. – Sapreste, per caso, indicarmi dove sta di casa l’ingegnere Scelzi, della Società delle Zolfare di Comitini?

L’avvocato gl’indicò la via e il numero della casa, e don Mattia Scala, ormai deciso, vi andò difilato.

Lo Scelzi era uno di quegli ingegneri che, passando ogni mattina per la via mulattiera innanzi al cancello della villa per recarsi alle zolfare della vallata, lo avevano con maggior insistenza sollecitato per la cessione del sottosuolo. Quante volte lo Scala, per chiasso, non lo aveva minacciato di chiamare i cani per farlo scappare!

Quantunque di domenica lo Scelzi non ricevesse per affari, si affrettò a lasciar passare nello studio l’insolito visitatore.

– Voi, don Mattia? Qual buon vento?

Lo Scala con le enormi sopracciglia aggrottate si piantò di fronte al giovine ingegnere sorridente, lo guardò negli occhi, e rispose:

– Sono pronto.

– Ah! benissimo! Cedete?

– Non cedo. Voglio contrattare. Sentiamo i patti.

– E non li sapete? – esclamò lo Scelzi. – Ve li ho ripetuti tante volte…

– Avete bisogno di far altri rilievi lassú? – domandò don Mattia, cupo, impetuoso.

– Eh no! Guardate… – rispose l’ingegnere indicando la grande carta geologica appesa alla parete, ov’era tracciato per cura del R. Corpo delle Miniere tutto il campo minerale della regione. Fissò col dito un punto nella carta e aggiunse: – È qui: non c’è bisogno d’altro…

– E allora possiamo contrattare subito?

– Subito?… Domani. Domattina stesso io ne parlerò al Consiglio d’Amministrazione. Intanto, se volete, qua, ora, possiamo stendere insieme la proposta, che sarà senza dubbio accettata, se voi non ponete avanti altri patti.

– Ho bisogno di legarmi subito! – scattò lo Scala. – Tutto, tutto distrutto, è vero?… sarà tutto distrutto lassú?

Lo Scelzi lo guardò meravigliato: conosceva da un pezzo l’indole strana, impulsiva, dello Scala; ma non ricordava d’averlo mai veduto cosí.

– Ma i danni del fumo, – disse saranno previsti nel contratto e compensati…

– Lo so! Non me n’importa! – soggiunse lo Scala. – Le campagne, dico, le campagne, tutte distrutte… è vero?

– Eh… – fece lo Scelzi, stringendosi nelle spalle.

– Questo, questo cerco! questo voglio! – esclamò allora don Mattia, battendo un pugno sulla scrivania. – Qua, ingegnere: scrivete, scrivete! Né io né lui! Lo brucio… Scrivete. Non vi curate di quello che dico.

Lo Scelzi sedette innanzi alla scrivania e si mise a scrivere la proposta, esponendo prima, man mano, i patti vantaggiosi, tante volte già respinti sdegnosamente dallo Scala, che ora, invece, cupo, accigliato, annuiva col capo, a ognuno.

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Stesa finalmente la proposta, l’ingegnere Scelzi non seppe resistere al desiderio di conoscere il perché di quella risoluzione improvvisa, inattesa.

– Mal’annata?

– Ma che mal’annata! Quella che verrà, – gli rispose lo Scala – quando avrete aperto la zolfara!

Sospettò allora lo Scelzi che don Mattia Scala avesse ricevuto tristi notizie del figliuolo scomparso: sapeva che, alcuni mesi addietro, egli aveva rivolto una supplica a Roma perché, per mezzo degli agenti consolari, fossero fatte ricerche dovunque. Ma non volle toccar quel tasto doloroso.

Lo Scala, prima d’andarsene, raccomandò di nuovo allo Scelzi di sbrigar la faccenda con la massima sollecitudine.

– A tamburo battente, e legatemi bene!

Ma dovettero passar due giorni per la deliberazione del Consiglio della Società delle zolfare, per la scrittura dell’atto presso il notajo, per la registrazione dell’atto stesso: due giorni tremendi per don Mattia Scala. Non mangiò, non dormí, fu come in un continuo delirio, andando di qua e di là dietro allo Scelzi, a cui ripeteva di continuo:

– Legatemi bene! Legatemi bene!

– Non dubiti, – gli rispondeva sorridendo l’ingegnere. – Adesso non ci scappa piú!

Firmato alla fine e registrato il contratto di cessione, don Mattia Scala uscí come un pazzo dallo studio notarile; corse al fondaco, all’uscita del paese, dove, nel venire, tre giorni addietro, aveva lasciato la giumenta; cavalcò e via.

Il sole era al tramonto. Per lo stradone polveroso don Mattia s’imbatté in una lunga fila di carri carichi di zolfo, i quali dalle lontane zolfare della vallata, di là dalla collina che ancora non si scorgeva, si recavano, lenti e pesanti, alla stazione ferroviaria sotto il paese.

Dall’alto della giumenta, lo Scala lanciò uno sguardo d’odio a tutto quello zolfo che cigolava e scricchiolava continuamente agli urti, ai sobbalzi dei carri senza molle.

Lo stradone era fiancheggiato da due interminabili siepi di fichidindia, le cui pale, per il continuo transito di quei carri, eran tutte impolverate di zolfo.

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Alla loro vista, la nausea di don Mattia si accrebbe. Non si vedeva che zolfo, da per tutto, in quel paese! Lo zolfo era anche nell’aria che si respirava, e tagliava il respiro, e bruciava gli occhi.

Finalmente, a una svolta dello stradone, apparve la collina tutta verde. Il sole la investiva con gli ultimi raggi.

Lo Scala vi fissò gli occhi e strinse nel pugno le briglie fino a farsi male. Gli parve che il sole salutasse per l’ultima volta il verde della collina. Forse egli, dall’alto di quello stradone, non avrebbe mai piú riveduto la collina, come ora la vedeva. Fra vent’anni, quelli che sarebbero venuti dopo di lui, da quel punto dello stradone, avrebbero veduto là un colle calvo, arsiccio, livido, sforacchiato dalle zolfare.

«E dove sarò io, allora?» pensò, provando un senso di vuoto, che subito lo richiamò al pensiero del figlio lontano, sperduto, randagio per il mondo, se pure era ancor vivo. Un impeto di commozione lo vinse, e gli occhi gli s’empirono di lagrime. Per lui, per lui egli aveva trovato la forza di rialzarsi dalla miseria in cui lo aveva gettato il Chiarenza, quel ladro infame che ora gli toglieva la campagna.

– No, no! – ruggí, tra i denti, al pensiero del Chiarenza. – Né io né lui!

E spronò la giumenta, come per volare là a distruggere d’un colpo la campagna che non poteva piú esser sua.

Era già sera, quando pervenne ai piedi della collina. Dové girarla per un tratto, prima d’imboccar la via mulattiera. Ma era sorta la luna, e pareva che a mano a mano raggiornasse. I grilli, tutt’intorno, salutavano freneticamente quell’alba lunare.

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Attraversando le campagne, lo Scala si sentí pungere da un acuto rimorso, pensando ai proprietarii di quelle terre, tutti suoi amici, i quali in quel momento non sospettavano certo il tradimento ch’egli aveva fatto loro.

Ah, tutte quelle campagne sarebbero scomparse tra breve: neppure un filo d’erba sarebbe piú cresciuto lassú; e lui, lui sarebbe stato il devastatore della verde collina! Si riportò col pensiero al balcone della sua prossima cascina, rivide il limite della sua angusta terra, pensò che gli occhi suoi ora avrebbero dovuto arrestarsi là, senza piú scavalcare quel muro di cinta e spaziar lo sguardo nella terra accanto: e si sentí come in prigione, quasi piú senz’aria, senza piú libertà in quel campicello suo, col suo nemico che sarebbe venuto ad abitare là. No! No!

– Distruzione! distruzione! Né io né lui! Brucino!

E guardò attorno gli alberi, con la gola stretta d’angoscia: quegli olivi centenarii, dal grigio poderoso tronco stravolto, immobili, come assorti in un sogno misterioso nel chiarore lunare. Immaginò come tutte quelle foglie, ora vive, si sarebbero aggricciate ai primi fiati agri della zolfara, aperta lí come una bocca d’inferno; poi sarebbero cadute; poi gli alberi nudi si sarebbero anneriti, poi sarebbero morti, attossicati dal fumo dei forni. L’accetta, lí, allora. Legna da ardere, tutti quegli alberi…

Una brezza lieve si levò, salendo la luna. E allora le foglie di tutti quegli alberi, come se avessero sentito la loro condanna di morte, si scossero quasi in un brivido lungo, che si ripercosse su la schiena di don Mattia Scala, curvo su la giumenta bianca.

1.3  El humo

I

Apenas los azufreros subían del fondo del agujero extenuados, con los huesos rotos de cansancio, lo primero que buscaban con los ojos era el verde de la colina lejana, que cerraba a poniente el amplio valle.

Aquí, las laderas áridas, lívidas por las tobas abrasadas, no tenían desde hacía tiempo ni una brizna de hierba, agujereadas por las azufreras como por tantos enormes hormigueros y quemadas completamente por el humo.

En el verdor de aquella colina, los ojos inflamados, ofendidos por la luz después de tantas horas de tiniebla allá abajo, descansaban.

A quien esperaba llenar con mineral tosco los hornos o calcheroni,[1] a quien controlaba la fusión del azufre o se aplicaba bajo los mismos hornos a recibir dentro de las artesas que servían de molde el azufre quemado que fluía lento como un denso orujo negruzco, la vista de todo ese verdor lejano le aliviaba incluso la dificultad de la respiración, la agria opresión del humo que se agarraba a la garganta, hasta provocar los espasmos más crueles y las rabias de la asfixia.

Los zagales, dejando caer la carga de sus espaldas aplastadas y desolladas, sentados en los sacos, para tomar un poco de aire, todos sucios con el agua caliza estancada a lo largo de las galerías o a lo largo de la resbaladiza escalera con los peldaños gastados del agujero, rascándose la cabeza y mirando aquella colina a través de la vítrea respiración sulfúrea que temblaba al sol y que se evaporaba de los calcheroni encendidos o de los hornos, pensaban en la vida del campo, una vida alegre según ellos, sin riesgos, sin graves dificultades allí al aire libre, bajo el sol, y envidiaban a los campesinos.

– ¡Felices ellos!

Para todos, en fin, era como un país de sueño aquella colina lejana. De ahí venía el aceite hasta sus antorchas que a duras penas rompían la dura tiniebla de la azufrera; de ahí, el pan, ese pan sólido y negro que los tenía en pie durante todo el día, hasta el cansancio tremendo; de ahí, el vino, su único bien, el bien que les daba el coraje, la fuerza de perdurar en esa vida maldita, si vida podía llamarse, pues parecían, bajo tierra, tantos muertos atareados.

Los campesinos de la colina, en cambio, hasta escupían: – ¡Puh! – mirando esas laderas del valle.

Estaba allí su enemigo: el humo devastador.

Y cuando el viento soplaba de allí, trayendo el hedor asfixiante del azufre quemado, miraban los árboles como para defenderlos y lanzaban imprecaciones contra esos locos que se obstinaban en excavar las fosas a sus fortunas y que, no contentos con haber devastado el valle, casi envidiosos de ese único ojo verde, habrían querido invadir con sus azadones y sus hornos incluso los hermosos campos.

Todos, de hecho, decían que hasta debajo de la colina tenía que haber azufre. Esas crestas en las cimas, de silicio calcáreo y, más abajo, el yeso que afloraba lo dejaban ver; los ingenieros de mina habían confirmado varias veces la noticia.

Pero los propietarios de esos campos, aunque tentados insistentemente con ricas ofertas, no solo no habían querido ceder nunca en alquiler el subsuelo, sino ni siquiera a la tentación de realizar ellos mismos, por curiosidad, alguna prueba, así por encima.

El campo estaba allí, tendido al sol, y todos podían verlo: sometido a las malas cosechas, pero recompensado también por las buenas; la azufrera, en cambio, era ciega, y cuidado con resbalar dentro. Dejar lo seguro por lo inseguro sería negocio de locos.

Estas consideraciones, que cada uno de esos propietarios de la colina corroboraba continuamente en la mente del otro, querían ser como un compromiso de todos para resistir unidos a las tentaciones, sabiendo bien que si uno de ellos cedía, y una azufrera surgía ahí en medio, todos los demás lo padecerían; y entonces, comenzada la destrucción, otras bocas de infierno se abrirían y, en pocos años, todos los árboles, todas las plantas morirían, envenenados por el humo, ¡y adiós a los campos!

II

Uno de los más tentados era don Mattia Scala, quien poseía una pequeña finca con un puñado de almendros y de olivos en medio de la pendiente de la colina, donde, para su desgracia, afloraba con más rica promesa el mineral.

Diversos ingenieros del Real Cuerpo de las Minas habían venido a observar, a estudiar esos afloramientos y a hacer relieves. Scala los había acogido como un marido celoso puede acoger a un médico que viene a su casa para analizar cualquier mal secreto de la mujer.

No podía cerrarles la puerta en la cara a esos ingenieros del gobierno que venían por deber. Se desahogaba, en compensación, maltratando a esos otros que, por cuenta de algún rico productor de azufre o de alguna sociedad minera, venían a proponerle la cesión o el alquiler del subsuelo.

– ¡Un cuerno os cedo! – gritaba. –Ni siquiera si me ofrecierais los tesoros de Creso; ni siquiera si me dijerais: Mattia, escarba aquí con un pie, como  las gallinas, y encontrarás tanto azufre, que te volverás de golpe más rico que… ¿qué digo yo?, ¡que el rey Fàllari![2] ¡No escarbaría, palabra de honor!

Y si esos insistían un poco:

 – En fin, ¿os vais o llamo a los perros?

Le ocurría a menudo eso de repetir la amenaza de los perros, porque la cancela de su finca daba al sendero, es decir, al camino de herradura que atravesaba la colina, cabalgándola, y que servía de atajo a los obreros de las azufreras, a los jefes de obra, a los ingenieros directores, que desde la ciudad vecina venían al valle o volvían. Ahora, estos últimos parecían de modo señalado que le habían tomado gusto a irritarlo; y, al menos una vez a la semana, se paraban delante de la cancela al ver a don Mattia allí cerca, para preguntarle:

– ¿Todavía nada?

– ¡Bonito! ¡Reina!

Don Mattia, de broma, llamaba de verdad a los perros.

Había tenido también él la manía de las azufreras, por lo que se veía – realmente – ¡hundido en la miseria! Ahora no podía ver ni de lejos un pedazo de azufre, que en seguida, hablando con respeto, no sintiese que se le rompía el estómago.

– ¿Y qué es, el diablo?

Y él:

-¡Peor! ¡Porque este os condena el alma, pero os hace ricos, si quiere! Mientras que el azufre os hace más pobres que al Santo Job, ¡y el alma os la condena lo mismo!

Hablando parecía el telégrafo. (El telégrafo, se entiende, como el que se usaba antes, el de brazos.) Muy alto, enjuto, siempre con el sombrerucho blanco en la cabeza, echado hacia atrás, como una aureola; y llevaba en las orejas un par de zarcillos de oro, que mostraban lo que él, por lo demás, no se preocupaba por esconder, a saber, que procedía de una familia medio rural y medio burguesa.

En la cara lampiña, pálida, de la misma palidez que los biliosos, resaltaban extrañamente las cejas enormes, lacias, como un gran par de bigotes que se hubiese desahogado creciendo allí, visto que sobre el labio ni siquiera le había permitido que asomara. Y debajo, a la sombra de las pestañas, le centelleaban los ojos claros, cortantes, muy vivaces, mientras los orificios de la gran nariz aguileña, enérgica, se le dilataban continuamente y temblaban.

Todos los dueños de la colina lo querían.

Recordaban cómo él, muy rico un día, había llegado allí a tomar posesión de esas pocas hectáreas compradas tras su ruina, con el dinero recabado de la venta de la casa de la ciudad y de todo el ajuar de esta y de las joyas de la mujer muerta de pena; recordaban cómo se había encerrado en las cuatro habitaciones de la casa rústica anexa a la finca, sin querer ver a nadie, con una muchacha de unos dieciséis años, Jana, que todos en principio creyeron su hija y que luego se supo que era la hermana menor de un tal Dima Chiarenza, es decir, precisamente del infame que lo había traicionado y arruinado.

Había ahí una historia escondida.

Scala había conocido a Chiarenza cuando este era un muchacho, y lo había ayudado siempre, sabiendo que era huérfano de padre y madre y que tenía a su cargo a esa hermanita mucho menor que él; es más, lo había asumido para darle trabajo; luego, al comprobar que era hábil y amante del trabajo, lo había hecho incluso su socio en el alquiler de una azufrera. De todos los gastos del trabajo  se había hecho cargo él; Dima Chiarenza solo tenía que estar allí, en el lugar, y controlar la administración y los trabajos.

En tanto, Jana (Januzza, como la llamaban) crecía en su casa. Pero don Mattia tenía también un hijo (¡único!) casi de la misma edad, que se llamaba Neli. Ya se sabe, pronto el padre y la madre se dieron cuenta de que los dos muchachos habían comenzado a quererse, no como hermanos; y para no tener la paja al lado del fuego y dar tiempo al tiempo, pensaron juiciosamente alejar de casa a Neli, quien aún no tenía dieciocho años, y lo mandaron a la azufrera, para que acompañara y ayudara a Chiarenza. En dos o tres años los casarían, si todo, como parecía, iba bien.     

¿Podía acaso sospechar don Mattia Scala que Dima Chiarenza, del que se fiaba como de sí mismo, que Dima Chiarenza, a quien él había recogido de la calle, a quien había tratado como a un hijo y a quien le había encargado los negocios, que Dima Chiarenza podía traicionarlo, como Judas a Cristo?

¡Precisamente así! Se había puesto de acuerdo, el infame, con el ingeniero director de la azufrera, con los encargados, con los pesadores, con los carreteros, para robarle sin freno en los gastos de la administración, en el azufre extraído, incluso en el carbón que tenía que servir para alimentar las máquinas que absorbían las aguas subterráneas. Y la azufrera, una noche, se le inundó, irreparablemente, pues destruyó la instalación del plano inclinado, que a Scala le costaba más de trescientas mil liras.

Neli, que esa noche de infierno se encontraba en el lugar y participó en los inútiles esfuerzos desesperados para impedir el desastre, presintiendo el odio que el padre desde ese momento sentiría por Chiarenza, y en el que quizás incluiría a Jana, la hermana inocente, su Jana; temiendo que lo consideraría también a él, quizás, responsable de la ruina por no darse cuenta o por no haber denunciado a tiempo la traición de ese Judas que tendría que ser en poco su cuñado; esa misma noche huyó como un loco, en medio de la tempestad; y desapareció, sin dejar ninguna huella tras sí.

Pocos días después, la madre murió, asistida amorosamente por Jana, y Scala se encontró solo en casa, arruinado, sin mujer, sin hijo, solo con esa muchacha, quien, como enloquecida por la vergüenza y la aflicción, se pegó a él, no quiso dejarlo, y amenazó con tirarse por una ventana si él la expulsaba a la casa del hermano.

Vencido por esa firmeza y reprimiendo la repulsión que su vista le despertaba ahora, Scala condescendió a llevársela con él, vestida de negro, como una hija dos veces huérfana, allá, a la finca comprada entonces.

Saliendo poco a poco, con el paso del tiempo, de su luto, comenzó a intercambiar algunas palabras con los vecinos y a hablar de él y de la muchacha.

-¡Ah!, ¿no es su hija?

– No. Pero como si lo fuese.

Se avergonzaba ante todo de decir quién era verdaderamente. Del hijo no decía nada. Era una espina demasiado grande. Por lo demás, ¿qué noticia podía contar de él? No tenía ninguna. Mucho lo había intentado la comisaría, pero sin resultado.

Pero unos años después, Jana, cansada de aguardar así sin esperanza el regreso del novio, quiso volver a la ciudad, a casa del hermano, quien, habiéndose casado con una mujer mayor de mucho dinero, una afamada usurera, se había dedicado también él a la usura, y era ahora uno de los más ricos del pueblo.

Así Scala se quedó solo, allí, en la finca. Ocho años habían pasado ya y, al menos aparentemente, había recuperado el humor de antes; se había hecho amigo de todos los propietarios de la colina que, a menudo, al atardecer venían a visitarlo desde las fincas vecinas.

Parecía que los campos querían recompensarlo de los daños de la azufrera.

Había sido,  por lo demás, una fortuna haber podido comprar esas pocas hectáreas, porque a uno de los propietarios de las seis fincas en que estaba dividida la colina, Butera, un ricachón, se le había metido en la cabeza hacerse con el tiempo dueño de todas esas tierras. Prestaba dinero e iba poco a poco alargando los límites de su finca. Ya se había anexionado casi media finca de un tal Nino Mo; y había reducido a otro propietario, Labiso, a vivir en un pedacito de tierra del tamaño de un pañuelo de la nariz, anticipándole la dote para cinco hijas; desde hacía tiempo le echaba el ojo también a las tierras de Lopes, pero este, por berrinche, teniendo que deshacerse tras una serie de malas cosechas de una parte de su propiedad, se había contentado con vendérsela, incluso a menor precio, a un extraño: a Scala.

En pocos años, entregado completamente al trabajo, para distraerse de sus desgracias, don Mattia había beneficiado de tal modo esas pocas hectáreas, que ahora los amigos, incluido el mismo Lopes, casi no podían reconocerlas, y se sorprendían.

Lopes, en verdad, se roía por dentro de los celos. Con el pelo rojo y la cara pecosa, completamente desordenado, tenía generalmente el sombrero echado sobre la nariz, como para no ver nada ni a nadie; pero, por debajo del ala de ese sombrero, se le escapaba de vez en cuando alguna mirada oblicua, como nadie se esperaba de esos grandes ojos verdosos que parecía que albergaban el sueño.

Tras dar una vuelta por la finca, los amigos se reunían en el claro, frente a la alquería.

Allí, Scala los invitaba a sentarse en la tapia que limitaba al alrededor, por delante, la pendiente donde la alquería estaba edificada. Al pie de la pendiente, por atrás, sobresalían, como para proteger la alquería, algunos chopos negros, muy altos, y, pensando en la razón por la que Lopes los había plantado allí, don Mattia no lograba tranquilizarse.

– ¿Qué hacen ahí? ¿Me lo podéis decir? No dan fruto y estorban.

– Pues échelos a tierra y haga carbón, – le respondía, indolente, Lopes.

Pero Butera aconsejaba:

– Mire un poco, antes de echarlos a tierra, si alguien se los lleva.

– ¿Y quién quiere que se los lleve?

– ¡Pues los que hacen las imágenes de madera!

– ¡Ah! ¡Las imágenes! ¡Mira, mira! ¡Ya comprendo, – concluía don Mattia – si las hacen con esta madera, por qué no hacen más milagros!

En esos chopos, al anochecer, se daban cita todos los pájaros de la colina, y con sus densos y  ensordecedores gorjeos molestaban a los amigos que se entretenían allí hablando, como de costumbre, de las azufreras y de los daños de los negocios  mineros.

Empezaba casi siempre el discurso Nocio Butera, quien, como era el propietario más rico, era también la panza más gorda de todas esas partes. Era abogado, pero una sola vez en su vida, poco después de licenciarse, había intentado ejercer su profesión: se había enredado en mitad de su primera arenga; perdido, con las lágrimas asomándole, como un niño, allí, delante de los jueces y del tribunal, había levantado los brazos, con los puños cerrados, contra la justicia representada en la bóveda con una balanza en la mano, gimiendo, exasperado: – ¡Eh, cómo! ¡Dios Santo! – porque, pobre joven, había sudado la gota gorda para aprenderse la arenga de memoria, y creía que podía recitarla muy bien, de un tirón, sin titubear.

De vez en cuando, todavía, alguien le recordaba aquel chasco famoso:

– ¡Eh, cómo, don No, Dios Santo!

Y Nocio Butera parecía sonreír también, ahora, masticando: – Ya… ya… – mientras se rascaba con las manos regordetas las patillas negras en las mejillas rubicundas o se colocaba bien las gafas de oro en la nariz en forma de ñoqui o en las orejas. Verdaderamente, habría podido reírse de corazón, porque, si como abogado había dado esa mala imagen, como agricultor y administrador de los bienes se llevaba la palma. Pero el hombre, ya se sabe, el hombre no se contenta nunca, y Nocio Butera parecía que disfrutaba solo sabiendo que otros, al igual que él, habían fracasado en algún negocio. Venía a la finca de Scala únicamente para anunciar la próxima o la pasada ruina de este o de aquel, o para explicar las razones y demostrar así que a él ciertamente no le habría pasado.

Tino Labiso, altísimo, enjuto, sacaba de los bolsillos de los pantalones un pañuelo de dados rojos y negros, se sonaba en él la nariz que parecía una bocina marina, luego doblaba diligentemente el pañuelo, se lo pasaba varias veces así doblado bajo la nariz, y se lo volvía a meter en el bolsillo; en fin, como hombre prudente, que no deja que se le escapen juicios temerarios, decía:

– Puede ser.

– ¿Puede ser? ¡Es y es! – saltaba Nino Mo, que no podía sufrir ese aire flemático de Labiso.

Lopes intentaba sacudirse el melancólico tedio y, bajo el sombrerucho echado sobre la nariz, aconsejaba con voz somnolienta:

– Deje hablar a don Mattia que entiende de eso más que usted.

Pero don Mattia, cada vez que iba a ponerse a hablar, se llegaba antes a la cantina para ofrecerles a los amigos una buena jarra de vino.

– ¡Vinagre, envenenaos!

Bebía también él, se sentaba, se enredaba las piernas y preguntaba:

– ¿De qué se trata?

– Se trata, -prorrumpía habitualmente Nino Mo – de que son unas bestias, ¡todos, uno tras otro!

– ¿Quién?

– ¡Pues esos hijos de perra! Los azufreros. Excavan, excavan, y el precio del azufre ¡baja, baja y baja! Sin comprender que causan su ruina y la nuestra; porque todo el dinero va a acabar allí, en esos agujeros, en esas bocas del infierno siempre hambrientas, ¡unas bocas que nos comen vivos!

– ¿Y el remedio, perdone?- volvía a preguntar Scala.

– Limitar – respondía entonces plácidamente Nocio Butera – limitar la producción de azufre. Lo único, para mí, sería esto.

– ¡Virgen Santa, qué loco! – exclamaba en seguida don Mattia Scala levantándose para gesticular con más libertad: – Perdone, don Noccio mío, ¡loco, sí, loco y os lo pruebo! Diga, ¿cuántas azufreras cree que han sido explotadas directamente, sin recurrir a otros, por los propietarios? ¡Apenas doscientas! Todas las demás han sido arrendadas. Tú, Tino Labiso, ¿estás de acuerdo?

– Puede ser – repetía Tino Labiso, atento y serio.

Y Nino Mo:

– ¿Puede ser? ¡Es y es!

Don Mattia extendía las manos para que se callara.

– Ahora, don Noccio mío, ¿cuánto cree que durará, con la avidez y la prepotencia de los propietarios barrigones como usted, el arrendamiento de una azufrera? ¡Dígalo! ¡Dígalo!

– ¿Diez años? – se arriesgaba, inseguro, Butera, sonriendo con aire de condescendiente superioridad.

– Doce – admitía Scala – es más, veinte, alguna vez. Bien, ¿qué hace usted así, qué fruto puede recoger en tan poco tiempo? Por muy rápido y afortunado que se sea, en veinte años no hay modo de reponerse de los gastos que se requieren para cultivar como Dios manda una azufrera. Esto para deciros que, cuando se da en el comercio una menor demanda, si es posible que el propietario frene la producción para no estropear el producto, no lo será nunca  para el arrendatario, a corto plazo, el cual, si lo hiciera, sacrificaría sus propios intereses a beneficio del sucesor. Por tanto, el empeño, el esfuerzo del arrendatario para producir la mayor cantidad posible, ¿me explico? Luego, desprovisto como está casi siempre de medios, tiene que malvender por fuerza su mercancía, a cualquier precio, para seguir con el trabajo; porque, si no trabaja –vosotros lo sabéis – el propietario le quita la azufrera. Y, en consecuencia, como dice Nino Mo: el azufre baja, baja y baja, como si fuera un pedrusco vil. Pero, por lo demás, usted, don Nocio, que ha estudiado, y tú, Tino Labiso: ¿me podríais decir qué diablos es el azufre y para qué sirve?

Hasta Lopes, ante esta pregunta falaz, se volvía a mirar con ojos desencajados. Nino Mo se metía en el bolsillo las manos nerviosas, como si allí quisiera buscar rabiosamente la repuesta;  mientras Tino Labiso sacaba, como de costumbre, el pañuelo para sonarse la nariz y ganar tiempo, como hombre prudente.

– ¡Esta sí que es buena! – exclamaba entre tanto Nocio Butera, azorado también él. – Sirve… sirve para… para llenarnos de azufre las viñas, para eso sirve.

– Y… y también para… ya, para los fósforos de madera, creo, – añadía Tino Labiso doblando con suma diligencia el pañuelo.

– Creo… creo… – se ponía a burlarse don Mattia Scala. – ¿Qué creéis? ¡Es precisamente así! Solo estos dos usos conocemos nosotros. Preguntadle a quien queráis: nadie sabrá deciros para qué otra cosa sirve el azufre. Y en tanto trabajamos, nos matamos excavándolo, luego lo transportamos a los puertos, donde muchos vapores ingleses, americanos, alemanes, franceses, y hasta griegos están preparados con las bodegas abiertas como bocas para tragárselo; nos dan un buen silbido, ¡y adiós! ¿Qué harán con él allá,  en sus países? Nadie lo sabe; ¡nadie se preocupa por saberlo! Y nuestra riqueza, entre tanto, la que tendría que ser nuestra riqueza, se va así de las venas de nuestras montañas destripadas, y nosotros nos quedamos aquí, como  ciegos, como bobos, con los huesos rotos y los bolsillos vacíos. Única ganancia: nuestros campos quemados por el humo.

Los cuatro amigos, ante esta vivaz, brillantísima demostración de la ceguera con que se realizaba la industria y el comercio de ese tesoro concedido por la naturaleza a su región y en torno al cual bullía tanto incordio, tanta guerra de lucro, insidiosa y despiadada, se quedaron mudos, como oprimidos por una condena a perpetua miseria.

Entonces, Scala, retomando el primer tema, se ponía a explicarles todos los demás gravámenes a los que tenía que hacer frente un pobre arrendatario de azufreras. Él los conocía todos porque, desgraciadamente, los había soportado. Pues, además de la renta neta, estaba el impuesto sobre la producción, es decir, la cuota de renta que hay que pagarle en especie, sobre el producto total, al propietario del suelo, a quien no le importaba de hecho si el yacimiento era rico o pobre, si las zonas estériles eran raras o frecuentes, si el subsuelo estaba seco o anegado por las aguas, si el precio era alto o bajo, si, en definitiva, el negocio era rentable o no. Y, además de este impuesto, tasas al gobierno de toda índole; y luego la obligación de construir no solo galerías inclinadas para acceder a la azufrera y para ventilarla, y los pozos para la extracción y absorción de las aguas; sino también los calcheroni, los hornos, las calles, las casas y cuanto se necesitara en la superficie para la actividad de la azufrera. Y todas estas construcciones, al final del contrato, se las tenía que quedar el propietario del suelo, el cual, por añadidura, exigía que todo fuese consignado en buen orden y buen estado. Como si los gastos hubieran corrido a su cargo. ¡Faltaría más! Ni siquiera dentro de las galerías subterráneas el arrendatario era libre de trabajar a su manera, sino con arcos, o con columnas, o con pastos, como el propietario impusiera, y a veces incluso contra las mismas exigencias del terreno.

Se tenía que estar loco o desesperado, ¿no?, para aceptar tales condiciones, para dejarse poner así los pies en el cuello. ¿Quiénes eran, de hecho, en su mayor parte los productores de azufre? Pobres diablos, sin un céntimo en el bolsillo, obligados a buscarse los medios, para cultivar la azufrera arrendada, entre los mercaderes de azufre de la marina, quienes los sometían a otras usuras, y a otras supercherías.

Hechas las cuentas, ¿qué les quedaba, pues, a los productores? ¿Y cómo habrían podido darles ellos un menos triste salario a esos desgraciados que se esforzaban allí abajo, expuestos continuamente a la muerte? Guerra, por tanto, odio, hambre, miseria para todos; para los productores, para los picadores, para esos pobres muchachos oprimidos, aplastados por una carga superior a sus fuerzas, subiendo y bajando las galerías y las escaleras del agujero.

Cuando Scala terminaba de hablar y los vecinos se levantaban para volver a sus casas rurales, la luna, alta y como perdida en el cielo, casi como si no fuese de esa noche, sino la luna de un tiempo muy lejano, después de la narración de tantas miserias, iluminando las dos laderas del valle, hacía que surgiese más escuálida y más lúgubre la desolación.

Y cada uno, dirigiéndose a su casa, pensaba que allí, bajo esas laderas tan escuálidamente esclarecidas, a cien, a doscientos metros bajo tierra, había gente que se afanaba aún excavando y excavando, pobres picadores sepultados ahí abajo, a los que no les importaba si arriba era de día o de noche, puesto que noche era siempre para ellos.

III

Todos, cuando lo escuchaban, creían que Scala ya había olvidado los dolores pasados y no se preocupaba ya de nada, excepto de su pedazo de tierra, del que no se separaba desde hacía años, ni siquiera un día.

Del hijo desaparecido, perdido por el mundo – si alguna vez hablaba porque alguien le preguntara – se desahogaba hablando mal, por la ingratitud que le había mostrado, por el duro corazón del que había dado prueba.

– Si está vivo, – concluía – está vivo para él; para mí ha muerto, y ya ni pienso en él.

Hablaba así, pero, en tanto, no emigraba a América un campesino de todos aquellos alrededores, a casa del cual no se llegase a escondidas, la vigilia de su marcha, para entregarle en secreto una carta dirigida a ese hijo suyo.

– ¡No es por nada especial, oh! Si así como así te lo encontraras o supieras de él allí.

Muchas de esas cartas le llegaron de vuelta, con los emigrados repatriados tras cuatro o cinco años, estropeadas, amarillentas, ya casi ilegibles. Nadie había visto a Neli, ni había logrado saber nada de él, ni en Argentina, ni en Brasil, ni en los Estados Unidos.

Él escuchaba, luego sacudía los hombros.

– ¿Y qué me importa? Trae, trae. Ya ni siquiera me acordaba de haberte dado esta carta para él.

No quería mostrarles a los extraños la miseria de su corazón, el engaño en que aún necesitaba persistir: que el hijo, a saber, estaba allí, en América, en cualquier lugar remoto, y que un día u otro volvería y se enteraría de que su padre se había adaptado a su nueva condición y poseía un campo, donde vivía tranquilo, esperándolo.

Era poca, en verdad, esa tierra; pero desde hacía años don Mattia abrigaba, a escondidas del Butera, el proyecto de agrandarla, comprando la tierra de un vecino, con quien ya había establecido y acordado el precio. ¡Cuántas privaciones, cuántos sacrificios se había impuesto para ahorrar lo necesario para realizar ese proyecto! Era poca, sí, su tierra; pero desde hacía tiempo él, al asomarse al balcón de la alquería, se había acostumbrado a saltar con  los ojos al otro lado de la tapia que separaba su finca de la del vecino y a considerar suya toda esa tierra. Recogida la suma convenida, solo esperaba que el vecino se decidiese a firmar el contrato y a trasladarse de allí.

Le sabía a mil años, a Scala; pero, por desgracia, ¡le había tocado tener que tratar con un bendito! Bueno, ¡atentos!, tranquilo, amable, dócil era don Filippino Lo Cícero, pero desde luego un poco ido de cabeza. Leía de la mañana a la noche unos libros latinos, y vivía solo en el campo con una mona que le habían regalado.

La mona se llamaba Tita; era vieja y tísica por añadidura. Don Filippino la cuidaba como a una hija, la acariciaba, se sometía sin protestar a todos sus caprichos; con ella hablaba todo el día, segurísimo de ser comprendido. Y cuando ella, triste por la enfermedad, se quedaba encaramada en el pabellón de la cama, que era su sitio preferido, él, sentado en el sillón, se ponía a leerle algún fragmento de las Geórgicas o de las Bucólicas:

Tityre, tu patulae...

Pero esa lectura era de vez en cuando interrumpida por ciertos sobresaltos de admiración curiosísimos: ante una frase, ante una expresión, a veces incluso ante una simple palabra, de la que don Filippino comprendía la exquisita propiedad o apreciaba la dulzura, dejaba el libro sobre sus rodillas, cerraba los ojos y decía velozmente: – ¡Hermoso! ¡Hermoso! ¡Hermoso! ¡Hermoso! ¡Hermoso! – abandonándose poco a poco sobre el respaldo, como si se desmayara de placer. Tita, entonces, bajaba del pabellón y se le subía en el pecho, angustiada, consternada; don Filippino la abrazaba y le decía, en el colmo de la alegría:

– Escucha, Tita, escucha… ¡Hermoso! ¡Hermoso! ¡Hermoso! ¡Hermoso! Hermoso…

Ahora don Mattia Scala quería el campo: tenía prisa, comenzaba a cansarse y tenía razón: la suma convenida estaba ya lista – y hay que observar que ese dinero a don Filippino le vendría muy bien; pero, Dios bendito, ¿cómo podría disfrutar en la ciudad de la poesía pastoril y campestre de su divino Virgilio?

– ¡Ten paciencia, querido Mattia!

La primera vez que Scala sintió que le respondía así, se le desencajaron los ojos:

– ¿Se burla de mí o habla en serio?

¿Burlarse? ¡Ni en sueños! Lo decía muy en serio, don Filippino.

Ciertas cosas, en fin, Scala no podía comprenderlas. Y además estaba Tita, Tita se había acostumbrado a vivir en el campo, y quizás no podría ya vivir sin ello, pobrecita.

Cuando hacía buen día don Filippino la llevaba de paseo, un poco haciendo que caminara lentamente con sus pies, un poco llevándola en brazos, como si fuese una niña; luego se sentaba en algún pedrusco al pie de un árbol; Tita, entonces, trepaba a las ramas y colgándose, aferrada por la cola, intentaba arrancarle el birrete por la borla y despeinarle la peluca o  quitarle el Virgilio de las manos.

– ¡Sé buena, Tita, sé buena! ¡Hazme el favor, pobre Tita!

Pobre, pobre, sí, porque estaba condenado ese querido animal. Y Mattia Scala, por tanto, tenía que tener aún un poco de paciencia.

– Espera al menos, – le decía don Filippino – que este pobre animal se vaya. Luego, el campo será tuyo. ¿De acuerdo?

Pero había pasado ya más de un año fuera de plazo, y ese bruto animal no se decidía a morir.

– ¿Queremos hacer que se cure de una vez? – le dijo un día Scala.- ¡Tengo una receta excepcional!

Don Filippino lo miró sonriente, pero con cierta ansiedad, y preguntó:

– ¿Te burlas de mí?

– No. En serio. Me la ha dado un veterinario que ha estudiado en Nápoles: excelente.

– ¡Ojalá, querido Mattia!

– Bueno, se hace así. Coja un litro entero de aceite fino. ¿Tiene aceite del fino, pero del fino, precisamente del fino?

– Lo compro, incluso si tuviera que pagarlo son sangre de papa.

– Bien. Un litro entero. Póngalo a hervir con tres dientes de ajo dentro.

– ¿Ajo?    

– Tres dientes. Escúcheme a mí. Cuando el aceite comience a moverse, antes de que se levante el hervor, retírelo del fuego. Coja un buen puñado de harina de Mallorca y échesela dentro.

– ¿Harina de Mallorca?

– De Mallorca, sí señor. Mézclela; luego, cuando se haya hecho una pasta blanda, aceitosa, aplíquesela, aún caliente, en el pecho y en los hombros a ese feo animal; cúbralo muy bien con algodón, con mucho algodón, ¿comprende?

– Muy bien: con algodón, ¿y después?

– Después abra la ventana y tírela por allí.

– ¡Ayyy! – maulló don Filippino.- ¡Pobre Tita!

– ¡Pobre campo, digo yo! Usted no le presta atención; y yo tengo que mirarlo desde lejos, y entretanto ya no hay viña; los árboles esperan desde hace al menos una decena de años la escamonda; los frutales crecen sin injertos, con los brotes desparramados, chupándose la vida los unos a los otros, y parecen pedir ayuda por todos lados; de muchos olivos ya no se puede hacer sino leña. ¿Qué voy a comprar al final? ¿Es posible seguir así?

Don Filippino, ante estas quejas, ponía una cara tan afligida, que don Mattia no se sentía ya con fuerzas para añadir nada más.

¿Con quién estaba hablando, por lo demás? Ese pobre hombre no era de este mundo. El sol, el sol verdadero, el sol del día quizás nunca había nacido para él: para él nacían aún los soles del tiempo de Virgilio.

Había vivido siempre allí, en ese campo, primero junto al tío cura que, al morir, se lo había dejado en herencia, luego siempre solo. Huérfano desde los tres años, había sido acogido y  criado por ese tío, apasionado latinista y cazador en esta vida. Pero la caza a don Filippino nunca le había  deleitado, quizás por la experiencia hecha por su tío, quien, aunque cura, era terriblemente fogoso: a saber, la experiencia de dos dedos que al difunto le saltaron de la mano izquierda al cargar el fusil. Él, en cambio, se entregó completamente al latín, con pasión tranquila, contentándose con desmayarse de placer, varias veces, durante la lectura; mientras el otro, el tío cura, se ponía en pie, en sus sobresaltos de admiración, con la cara encendida, con las venas de la frente tan hinchadas, que parecía que le quisieran estallar, y leía en voz muy alta y al fin prorrumpía, tirando el libro al suelo o a la cara alelada de don Filippino:

– ¡Sublime, santo diablo!

Muerto de golpe este tío, don Filippino quedó dueño del campo; aunque dueño es un modo de hablar.

En vida, el tío cura había poseído también una casa en la ciudad vecina, y esta casa se la había dejado en el testamento al hijo de otra hermana suya, el cual se llamaba Saro Trigona. Ahora, quizás, este, considerando su propia condición de desafortunado corredor de azufre, de desafortunadísimo padre de familia con una caterva de hijos, se esperaba que el tío cura se lo dejaría todo a él, la casa y el campo, con la obligación, se comprende, de hacerse cargo, de por vida, del primo Lo Cícero, el cual, habiendo sido criado siempre como un hijo de la familia, era inepto, por lo demás, para administrar por sí mismo ese campo. Pero, puesto que el tío no había tenido con él esta consideración, Saro Trigona, no pudiendo por derecho, intentaba sacar provecho, de todos los modos, de la herencia del primo, y exprimía despiadadamente al pobre don Filippino. Casi todos los frutos del campo iban a parar a él: trigo, fruta, vino, hortalizas; y si don Filippino vendía una parte a escondidas, como si no fuese suyo, el primo Saro, al descubrir la venta, le caía encima en el campo furioso, como si hubiese descubierto un fraude en su perjuicio,  y en vano don Filippino le explicaba humildemente que ese dinero lo necesitaba para los muchos trabajos que era necesario hacer en el campo. Quería el dinero:

– ¡O me mato! – le decía, haciendo ademán de sacar el revólver del forro de la chaqueta. – ¡Me mato aquí, delante de ti, Filippino, ahora mismo! Porque no puedo  más, ¡créeme! ¡Nueve hijos, Santo Dios, nueve hijos que lloran pidiéndome pan!

¡Y menos mal cuando venía solo, al campo, a montar esas escenas! Algunas veces llevaba consigo a la mujer y la caterva de hijos. A don Filippino, acostumbrado a vivir siempre solo, le parecía que iba a perder la cabeza. Esos nueve sobrinos, todos varones, el mayor de los cuales aún no tenía catorce años, aunque “llorando por el pan” tomaban al asalto, como nueve demonios desencadenados, la tranquila casa campestre del tío; le ponían todo boca abajo: bailaban y bailaban precisamente esas habitaciones con los gritos, las risas, los llantos y las carreras desenfrenadas; luego se oía, sin falta, el alboroto, el fragor de alguna grave rotura, al menos de algún espejo de armario hecho trizas; entonces, Saro Trigona saltaba en pie, gritando:

– ¡Hago el órgano! ¡Hago el órgano!

Perseguía, agarraba a esos granujas; distribuía patadas, bofetones, puñetazos, tortas en el culo; luego, como ellos se ponían a gritar en todos los tonos, los colocaba en fila, de mayor a menor, y así hacían el órgano.

– ¡Quietos ahí! ¡Hermosos… hermosos de verdad, mira, Filippino! ¿No están para un retrato? ¡Qué sinfonía!

Don Filippino se tapaba los oídos, cerraba los ojos y se ponía a patalear por la desesperación.

– ¡Mándalos fuera! ¡Que rompan lo que quieran, que se lleven la casa, los árboles, todo, pero dejadme en paz, por caridad!

Se equivocaba, sin embargo, don Filippino. Porque la prima, por ejemplo, no llegaba nunca con las manos vacías a visitarlo al campo, le llevaba algún birrete bordado, con una gran borla de seda: ¿cómo no?, el que tenía en la cabeza; o un par de babuchas le llevaba, también bordadas por ella: las que tenía en los pies. ¿Y la peluca? Un regalo y una atención del primo, para protegerlo de los continuos resfriados a los que lo exponía la calvicie precoz.  ¡Peluca de Francia! Le había costado un ojo de la cara a Saro Trigona. ¿Y la mona, Tita? También ella era un regalo de la prima: un regalo sorpresa, para alegrar el tiempo de ocio y la soledad del buen primo exiliado en el campo. ¿Cómo no?

– ¡Burro, perdone, burro! – le gritaba don Mattia Scala. – Pero ¿por qué me hace esperar aún para tomar posesión? Firme el contrato, ¡y quítese de esa esclavitud! Con el dinero que le doy yo, usted, que no tiene vicios, usted, que tiene tan pocas necesidades, podría vivir tranquilo, en la ciudad, los años que le quedan. ¿Está loco? ¡Si pierde todavía más tiempo por amor a Tita y a Virgilio, se verá viviendo de  limosna, así se verá!

Porque don Mattia Scala, no queriendo que se malograra la finca que él ya consideraba suya, se había puesto a anticiparle a Lo Cícero parte de la suma convenida.

– Tanto, para la poda; tanto, para los injertos; tanto, para el abono… ¡Don Filippino, esto lo restamos!

– ¡Lo restamos! – suspiraba don Filippino. – Pero déjeme quedarme aquí. En la ciudad, cerca de esos demonios, me moriría en dos días. Además, a ti no te molesto. ¿No eres tú el dueño, querido Mattia? Puedes hacer lo que te parezca y guste. Yo no te diré nada. Basta con que me dejes tranquilo…

– Sí. Pero entretanto, – le respondía Scala – ¡los beneficios los disfruta su primo!

– ¿Y qué importa? – le hacía observar Cicerón.  – Ese dinero me lo tendrías que dar todo junto, ¿no es verdad? Así me lo das poco a poco; y pierdo yo, en el fondo, porque restando hoy y restando mañana, un día me faltará, mientras que tú lo habrás gastado aquí, para beneficiar la tierra que entonces será tuya.

IV

El razonamiento de don Filippino era, sin duda, convincente; pero ¿qué seguridad tenía Scala, entretanto, mientras gastaba ese dinero en su finca? Y si don Filippino faltara de pronto, ¡Dios nos libre!, sin haber tenido tiempo de firmar el acta de venta, por lo que ahora le correspondía, Saro Trigona, su único heredero, ¿reconocería esos gastos y el precedente acuerdo con el primo?

Esta duda surgía de tanto en tanto en el ánimo de don Mattia; pero luego pensaba que, forzando a don Filippino a cederle la posesión de la finca, poniéndolo entre la espada y la pared por el dinero anticipado, podía correr el riesgo de tener que escuchar: “En fin, ¿quién te ha obligado a anticipármelo? Por mí, la finca podía quedarse tal como estaba, e incluso malograrse: nunca me he preocupado por ella. No puedes de ningún modo echarme ahora de mi casa, si yo no quiero”. – Pensaba Scala, además, que tenía que ver con un verdadero caballero, incapaz de hacer daño, ni siquiera a una mosca. En cuando al peligro de que muriese de pronto, ese peligro no existía: sin vicios, viviendo de un modo tan morigerado, siempre sano y lozano, prometía aún durar cien años. Por lo demás, el plazo estaba ya fijado: a la muerte de la mona, que ya poco se haría esperar.

Era tal fortuna, en fin, para él, poder comprar esa tierra a tan módico precio, que le convenía estar callado y confiar; es más, le convenía tener la mano encima con ese dinero que se iba gastando poco a poco, tranquilamente, y como le parecía y le gustaba. El verdadero dueño, allí, era él; estaba más allí, se puede decir, que en su propia finca.

– Haga esto, haga lo otro.

Ordenaba; se ponía más bonito el campo, y no pagaba impuestos. ¿Qué más quería?

Todo podía esperárselo el pobre don Mattia, excepto que esa mona maldita, que tanto le había hecho penar, ¡le hiciera la última!

Tenía la costumbre Scala de levantarse antes del alba, para controlar los preparativos del trabajo preestablecido la tarde antes con el zagal; no quería que este, teniendo, por ejemplo, que atender a la poda, volviese dos o tres veces de la ladera a la alquería ya por la escalera, ya por la piedra de afilar, la podadera o el hacha, ya por el agua, o por el desayuno: tenía que irse preparado y provisto absolutamente de todo, para no perder tiempo inútilmente.

– El cántaro, ¿lo tienes?, ¿y la comida? Ten, toma una cebolla. Y rápido, te lo ruego.

Pasaba luego, antes de que el sol asomase, por la finca de Lo Cícero.

Ese día, a causa de una carbonera que se tenía que encender, Scala se retrasó. Eran ya las diez pasadas. En tanto, la puerta de la alquería de don Filippino estaba aún cerrada, insólitamente. Don Mattia llamó: nadie le respondió; llamó de nuevo, en vano; miró hacia arriba, a los balcones y ventanas: cerrados aún, como durante la noche.

“¿Qué novedad es esta?” pensó, dirigiéndose a la casa de labranza de al lado, para pedirle información a la mujer del zagal.

Pero también esa la encontró cerrada. La finca parecía abandonada.

Scala, entonces, se llevó las manos a la boca para hacer bocina y, volviéndose hacia el campo, llamó fuerte al zagal. Como este, poco después, desde el fondo de la pendiente, le contestó, don Mattia le preguntó si don Filippino estaba allí con él. El zagal respondió que no se había dejado ver. Entonces, ya con un poco de aprensión, Scala volvió a llamar a la alquería; llamó varias veces: – ¡Don Filippino! ¡Don Filippino! – y, al no tener respuesta ni saber qué pensar, se puso a darse tirones con una mano en su narizota palpitante.

La tarde anterior había dejado al amigo con buena salud. Enfermo, pues, no podía estar, al menos hasta el punto de no poder dejar la cama un minuto. Pero quizás, eso sería, se había olvidado de abrir las ventanas de las habitaciones de la parte delantera, y había salido al campo con la mona: el portón quizás lo había cerrado, al ver que en la casa de labranza no había nadie de guardia.

Habiéndose tranquilizado con esta reflexión, se puso a buscarlo por el campo, pero parándose de vez en cuando aquí y allá, donde el ojo experto y previsor del agricultor descubría al vuelo la necesidad de algún arreglo, llamando de tiempo en tiempo:

– Don Filippino, eh, don Filippííí…

Llegó así hasta el fondo de la pendiente, donde el zagal lo esperaba con tres jornaleros zapando la viña.

– ¿Y don Filippino? ¿Qué ha sido de él? Yo no lo encuentro.

Dominado de nuevo por la consternación, frente a la inseguridad de esos hombres, a quienes les parecía extraño que él hubiera encontrado cerrada la casa, tal como ellos la habían dejado cuando se marcharon al trabajo, Scala propuso que subieran  todos juntos a ver qué había pasado.

– ¡Ya lo he comprendido bien! ¡Esta mañana viene torcida!

– ¡Qué extraño en él! – intentaba decir el zagal. – Habitualmente tan mañanero…

– ¡Seguro que se le ha puesto enferma la mona, ya lo veréis! – La tendrá en los brazos, y no querrá moverse para no molestarla.

– ¿Ni siquiera si oye que lo llaman, como lo he llamado yo, no sé cuántas veces? – observó don Mattia.- ¡Vamos! ¡Algo tiene que haberle sucedido!

Cuando llegaron al claro delante de la alquería, los cinco, ahora uno, ahora otro, intentaron llamarlo, pero fue inútil; dieron la vuelta a la alquería; por el lado norte, encontraron una ventana con los postigos abiertos; volvieron a animarse:

– ¡Ah!, exclamó el zagal. – ¡Por fin ha abierto! Es la ventana de la cocina.

– ¡Don Filippino! – gritó Scala.- ¡Maldita sea! ¡No nos desesperes!

Esperaron un tiempo con la nariz a la intemperie; volvieron a llamarlo de todos los modos; al fin, don Mattia, ya consternadísimo y furioso, tomó una resolución.

– ¡Una escalera!

El zagal corrió a la casa de labranza y volvió poco después con la escalera.

– ¡Subo yo! – dijo don Mattia, pálido y tembloroso como siempre, apartándolos a todos.

Cuando llegó a la altura de la ventana, se quitó el sombrerucho blanco, metió en él el puño y rompió el cristal, luego abrió la ventana y saltó dentro.

La chimenea, allí, en la cocina, estaba apagada. No se oía en la casa ni un ruido. Todo, allí dentro, estaba como si fuese de noche: solo por las fisuras de las puertas se adivinaba el día.

– ¡Don Filippino! – llamó una vez más Scala: pero el sonido de su misma voz, en ese silencio extraño, hizo que se estremeciera de los pelos  a la espalda.

Atravesó, a tientas, algunas habitaciones; llegó al dormitorio, también este a oscuras. Apenas hubo entrado, se paró de pronto. A la tenue luz que se filtraba por las puertas, le pareció distinguir algo, como una sombra, que se movía en la cama, deslizándose, y desaparecía.  Los pelos se le erizaron en la frente; le faltó la voz para gritar. De un salto fue al balcón, lo abrió, se volvió y desencajó los ojos y la boca, por el horror, agitando las manos en el aire. Sin aliento, sin voz, todo tembloroso, contraído por el terror, corrió hasta la ventana de la cocina.

– ¡Arriba… arriba, subid! ¡Asesinado! ¡Asesinado!

– ¿Asesinado? ¡Cómo! ¿Qué dice? – exclamaron los que esperaban ansiosamente, lanzándose los cuatro juntos para subir. El zagal quiso ir primero, gritando:

– ¡Despacio por la escalera! ¡Uno a uno!

Aturdido, desconcertado, don Mattia tenía las manos en la cabeza, aún con la boca abierta y los ojos llenos de esa horrenda vista.

Don Filippino yacía en la cama con la cabeza caída hacia atrás, hundida en la almohada, como por un estiramiento espasmódico, y mostraba la garganta estrangulada y sangrienta: tenía aún levantadas las manos, esas manos pequeñas que no le correspondían siquiera, de vista ahora horrendas, tan descompuestamente rígidas y lívidas.

Don Mattia y los cuatro campesinos lo miraron un tiempo, aterrorizados; de pronto, dieron un respingo los cinco, ante un ruido que vino de debajo de la cama: se miraron a los ojos; luego, uno de ellos se inclinó a mirar.

– ¡La mona! – dijo con suspiro de alivio, y casi estuvo a punto de reír.

Los otros cuatro, entonces, se inclinaron también para mirar.

Tita, cobijada bajo la cama, con la cabeza baja y los brazos cruzados en el pecho, al ver a esos cinco que la examinaban, a todo su alrededor, tan inclinados y descompuestos, tendió las manos a las tablas de la cama y saltó muchas veces dándose golpes, luego puso la boca en forma de o, y emitió un sonido amenazante:

– Chhhh…

– ¡Mirad! – gritó Scala. – Sangre… Tiene las manos… y el pecho ensangrentados… ¡ella lo ha matado!

Se acordó de lo que le había parecido distinguir al entrar, y volvió a afirmar convencido:

– ¡Ella, sí!, ¡la he visto con mis propios ojos! Estaba en la cama…

Y les mostró a los cuatro campesinos horrorizados las huellas en las mejillas y en la barbilla del pobre muerto:

– ¡Mirad!

Pero ¿cómo? ¿La mona? ¿Posible? ¿El animal que él tenía desde hacía tantos años, noche y día?

– ¿Se habría enfadado? – observó uno de los jornaleros, espantado.

Los cinco, a la vez, con el mismo pensamiento, se apartaron de la cama.

– ¡Esperad! Un bastón… – dijo don Mattia.

Y buscó con los ojos en la habitación por si había alguno, o si había al menos algún objeto que pudiera suplirlo.

El zagal cogió por el respaldo una silla y se inclinó; pero los otros, tan inermes, sin protección, tuvieron miedo y gritaron:

– ¡Espera! ¡Espera!

Se proveyeron también ellos de sillas. El zagal, entonces, empujó la suya varias veces bajo la cama: Tita saltó fuera por el otro lado, trepó con maravillosa agilidad hasta lo alto del pabellón, y allí, pacíficamente, como si no pasara nada, se puso a rascarse el vientre, y luego a jugar con las puntas de un pañuelo que el pobre don Filippino le había atado a la garganta.

Los cinco hombres se quedaron mirando esa indiferencia animal, atontados.

– ¿Qué hacemos, en tanto? – preguntó Scala, bajando los ojos sobre el cadáver; pero en seguida, a la vista de esa garganta estrangulada, volvió la cara. – ¿Y si lo cubriéramos con la misma sábana?

– ¡No, señor! – dijo en seguida el zagal. – Usted, escúcheme a mí. Hay que dejarlo como está. Yo soy de aquí, de la casa, y no quiero líos con la justicia. Es más, todos sois testigos míos.

– ¡Qué tendrá que ver eso! – exclamó don Mattia, encogiéndose de hombros.

Pero el zagal continuó, justificándose:

¡Con la justicia, nunca se sabe, señor mío! Nosotros somos pobres, y con nosotros… yo sé lo que me digo…

– Yo, en cambio, pienso, – gritó don Mattia, exasperado, – pienso que él, ahí, pobre loco, ha muerto como un papanatas, por su estupidez, y que yo, en tanto, más loco y más estúpido que él ¡estoy bien arruinado! Oh, pero – todos vosotros aquí sois testigos en verdad – que en este campo yo he gastado mi dinero, mi sangre: lo diréis… ahora id a advertir a ese caballero de Saro Trigona y al pretor y al delegado, que vengan a ver las proezas de esta… ¡Maldita! – gritó, con un arrebato improviso, arrancándose de la cabeza el sombrerucho y lanzándolo contra la mona.

Tita lo cogió al vuelo, lo examinó atentamente, se refregó la cara, como para sonarse la nariz, y luego se lo puso debajo y se sentó encima. Los cuatro campesinos rompieron a reír sin querer.

V

Nada: ni una línea de testamento, ni una nota, aunque solo fuera en algún registro o algún pedazo de papel suelto.

Y no bastaba el daño: le tocaban por añadidura a don Mattia Scala las burlas de los amigos. Claro, porque de hecho, Nocio Butera, por ejemplo, se habría imaginado fácilmente que don Filippino Lo Cícero moriría de ese modo, matado por la mona.

– Tú, Tino Labiso, ¿qué opinas, eh? ¿Puede ser, no? ¡Qué animal! ¡Qué animal! ¡Qué animal!

Y don Mattia se metía hasta los ojos, con las manos aferradas al ala, el sombrerucho blanco, y pataleaba de rabia.

Saro Trigona, hasta que el primo no fue enterrado, después de los exámenes del médico y del pretor, no quiso escucharlo, declarando que la desgracia no le permitía hablar de negocios.

– ¡Sí! ¡Como si la mona no se la hubiera regalado él, aposta! – se desahogaba diciendo Scala, a escondidas.

Habría tenido que acuñarle una medalla a esa mona, y en cambio, ingrato, hizo que la fusilaran: exactamente así, fu-si-la-ran, al día siguiente, a pesar de que el joven médico, que vino al campo junto al pretor, había encontrado una graciosa explicación al delito inconsciente del animal. Tita, enferma de tisis, quizás sentía que le faltaba la respiración, incluso a causa, probablemente, del pañuelo que el pobre don Filippino le había atado al cuello, quizás un poco apretado, o porque se lo hubiera apretado ella misma intentando desatárselo. Pues bien: quizás había saltado a la cama para indicarle al dueño dónde sentía que le faltaba la respiración, allí, en el cuello, y se lo había cogido con las manos; luego, con la presión, al no lograr respirar, exasperada, quizás se puso a clavarle la uñas al dueño allí, en la garganta. ¡Y hecho! Animal era, al fin y al cabo. ¿Qué entendía?

Y el pretor, muy serio, ceñudo, con la cabezota calva, roja, sudada, había hecho repetidas señales de aprobación ante la rara perspicacia del joven médico. ¡Qué lindo!

Basta. Enterrado el primo, fusilada la mona, Saro Trigona se puso a disposición de don Mattia Scala.

– Querido don Mattia, hablemos.

Había poco que hablar. Scala, con esa manera suya de actuar a borbotones, le expuso brevemente su acuerdo con Lo Cícero, y cómo, esperando día tras día que ese maldito animalucho muriera para tomar posesión, había gastado en la finca, en diversas campañas, con el consentimiento del mismo Lo Cícero, por supuesto, bastantes miles de liras, que, en consecuencia, tenían que detraerse de la suma convenida. ¿Claro, eh?

– ¡Clarísimo! – respondió Trigona, que había escuchado con mucha atención la narración de Scala, aprobando con la cabeza, muy serio, como el pretor. – ¡Clarísimo! Y yo, por mi parte, querido don Mattia, estoy dispuesto a respetar el acuerdo. Soy corredor; y usted lo sabe: ¡son malos tiempos! Para colocar una partida de azufre se necesita la mano de Dios: la correduría se va en sellos y en telegramas. Esto, para deciros que yo, con mi profesión, no podría ocuparme del campo, en el que no sabría hacer nada. Tengo, además, como sabe, querido don Mattia, nueve hijos varones, que tienen que ir a la escuela: animales, uno más que el otro, pero van a la escuela. Debo, por tanto, estar por fuerza en la ciudad. Vengamos a nosotros. Hay un problema, lo hay. Eh, querido don Mattia, ¡desgraciadamente! Un problema gordo. Nueve hijos, decíamos, y usted no sabe, no puede hacerse una idea de cuánto me cuestan: solo en zapatos… pero ya, ¡es inútil que se lo cuente!  Enloquecería. Por decirle, querido don Mattia…

– No me diga nada más, por caridad, querido don Mattia, – prorrumpió Scala, irritado por ese interminable discurso que no iba a ninguna parte. – Querido don Mattia… querido don Mattia… ¡basta! ¡He perdido ya demasiado tiempo con la mona y con don Filippino!

– En fin, – continuó Trigona, sin alterarse. – Quería decirle que siempre he necesitado recurrir a ciertos señores, que Dios nos libre de ello, por… ¿me explico?, y se comprende, me han puesto los pies en el cuello. Usted sabe quién se lleva la palma, en nuestra ciudad, en esta especie de operación…

– ¿Dima Chiarenza? – exclamó en seguida Scala, poniéndose en pie de un salto, palidísimo. Arrojó el sombrero al suelo, se pasó furiosamente una mano por los cabellos; luego, con la mano detrás  de la nuca, abriendo de par en par los ojos y apuntando con el índice de la otra mano, como arma, hacia Trigona:

– ¿Usted? – añadió. – ¿Usted, a la casa de ese verdugo?, ¿de ese asesino que me ha comido vivo? ¿Cuánto ha cogido?

– Espere, se lo contaré, – respondió Trigona, con calma doliente, justificándose. – ¡Yo no!, porque ese verdugo, como usted bien dice, nunca ha querido saber nada de mi firma…

– Y entonces… ¿don Filippino? – preguntó Scala cubriéndose la cara con las manos, como para no ver las palabras que le salían de la boca.

– El aval…  – suspiró Trigona, moviendo la cabeza amargamente.

Don Mattia se puso a dar vueltas por la habitación, exclamando, con las manos por el aire:

– ¡Arruinado! ¡Arruinado! ¡Arruinado!

– Espere, – repitió Trigona.- No desespere. Intentemos remediarlo. ¿Cuánto había acordado darle usted a don Filippino por la tierra?

– ¿Yo? – gritó Scala, parándose de pronto, con las manos en el pecho. – Dieciocho mil liras, yo: ¡contantes! Son cerca de seis hectáreas de tierra: ocho fanegas justas, de nuestra medida: dos mil doscientas cincuenta mil liras la fanega, ¡contantes! Dios sabe lo que he penado para juntarlas:  y ahora, ahora veo que se me escapa el negocio, la tierra bajo los pies, ¡la tierra que ya consideraba mía!

Mientras don Mattia se desahogaba así, Saro Trigona se tocaba los dedos, ceñudo, haciendo cuentas:

– Dieciocho mil… oh, por tanto, se dice…

– Despacio, – lo interrumpió Scala. – dieciocho mil, si el difunto me hubiera dejado en seguida la posesión de la finca. Pero más de seis mil ya las he gastado. Y esta es la cuenta que se puede hacer en seguida, en el lugar. Tengo testigos: este mismo año he plantado dos mil vides americanas, ¡espantosas!, y además…

Saro Trigona se puso en pie para cortar esa discusión, declarando:

– Pero doce mil no bastan, querido don Mattia. Le debo más de veinte mil a ese verdugo, ¡figúrese!

– ¿Veinte mil liras? – exclamó Scala, tambaleándose. –  Pero ¿es que han comido dinero usted y sus hijos?

Trigona suspiró profundamente y, tocando con la mano el brazo de Scala, dijo:

– ¿Y mis desgracias, don Mattia? No hace aún un mes que me ha tocado pagar nueve mil liras a un comerciante de Licata, por la diferencia de precio sobre una partida de azufre. ¡Déjeme! Fueron las últimas letras que me avaló el pobre Filippino, ¡Dios lo tenga en su gloria!

Después de otras inútiles protestas, convinieron en llegarse ese mismo día, con las doce mil liras en las manos, a casa de Chiarenza, para intentar llegar a un acuerdo.

VI

La casa de Dima Chiarenza se levantaba en la plaza principal de la ciudad. Era una casa antigua, de dos plantas, ennegrecida por el tiempo, ante la cual solían pararse con sus cámaras fotográficas los forasteros ingleses y alemanes que iban a ver las azufreras, despertando una cierta maravilla, mezcla de deleite y de conmiseración en los habitantes de la ciudad, para quienes esa casa no era sino una oscura y decrépita pocilga que estropeaba la armonía de la plaza, con el ayuntamiento en frente, estucado y brillante, que parecía de mármol, y hasta majestuoso, con ese pórtico de ocho columnas; la Catedral a este lado, el Palacio de la Banca Comercial, al otro, que tenía en la planta baja un espléndido café en una parte, y en la otra, un casino.

El Municipio, según los socios de este casino, debería enmendar esta indecencia, obligando a Chiarenza a darle al menos una mano de pintura decente a su casa. Le vendría bien incluso a él, decían: se le aclararía un poco la cara que, desde que había entrado en esa casa, se le había puesto del mismo color. – Sin embargo –añadían – para ser justos,  era la mujer quien había llevado esa casa en dote, y él, al pronunciar el sí sagrado, quizás se había obligado a respetar la doble antigüedad.

Don Mattia Scala y Saro Trigona encontraron en la vasta antecámara casi oscura a una veintena de campesinos, vestidos todos, más o menos, del mismo modo: con un grave traje de paño turquesa oscuro, zapatones de cuero basto tachonados, en los pies; en la cabeza, una gorra negra de punto con la borla de punta; algunos llevaban zarcillos; todos, por ser domingo, recién afeitados.

– Anúnciame, – le dijo Trigona al criado que estaba sentado junto a la puerta, delante de una mesita cuya superficie estaba completamente llena de cifras y de nombres.

– Tengan paciencia un momento, – respondió el criado, quien miraba asombrado a Scala, pues conocía la antigua enemistad de este con su señor. – Está dentro don Tino Labiso.

– ¿También él? ¡Desgraciado! – borbotó don Mattia, mirando a los campesinos que esperaban, asombrados como el criado por su presencia en esa casa.

Poco a poco, por la expresión de sus caras, Scala pudo fácilmente deducir quién de ellos venía a saldar su deuda, quién venía solo con una parte de la suma tomada en préstamo y tenía ya en los ojos el ruego que dirigiría al usurero para que tuviese paciencia para el resto hasta el mes siguiente; quién no llevaba nada y parecía aplastado bajo la amenaza del hambre, porque Chiarenza, sin misericordia, lo despojaría de todo y lo tiraría en medio de la calle.

De pronto, la puerta del despacho se abrió, y Tino Labiso, con la cara llena de fuego, casi amoratado, con los ojos brillantes, como si hubiera llorado, huyó sin ver a nadie, con el pañuelo de dados rojos y negros, el  emblema de su desafortunada prudencia, en la mano.

Scala y Trigona entraron en la sala del despacho.

Estaba también esta casi a oscuras, con una sola ventana con rejas que daba a una estrecha callejuela. En pleno día, Chiarenza tenía que tener en el escritorio la luz encendida, cubierta por una mantilla verde.

Sentado en un viejo sillón de cuero delante del escritorio, cuyo casillero estaba atiborrado de papeles, Chiarenza tenía en los hombros una toca, un birrete en la cabeza, y un par de medios guantes de lana en las manos horriblemente deformadas por la artritis. Aunque aún no tuviese cuarenta años, aparentaba más de cincuenta, con la cara amarilla, ictérica, los cabellos grises, espesos, áridos que se le alargaban como a un enfermo sobre las sienes. Tenía, en ese momento, las gafas levantadas sobre la estrecha frente, arrugada, y miraba hacia delante con los ojos turbios, casi apagados bajo los párpados grandes y pesados. Evidentemente, se esforzaba por dominar la agitación interior y por parecer tranquilo frente a Scala.

La conciencia de su propia infamia no le inspiraba ahora más que odio, odio oscuro y duro, contra todos y señaladamente contra su antiguo benefactor, su primera víctima. Aún no sabía qué quería Scala de él; pero estaba decidido a no concederle nada, para no parecer arrepentido de una culpa que él siempre, desdeñosamente, había negado, representando a Scala como a un loco.

Este, que desde hacía años no lo había visto más, ni siquiera de lejos, se quedó primero asombrado al mirarlo. No lo habría reconocido, reducido a tal estado, si se lo hubiera encontrado por la calle.

“El castigo de Dios”, pensó; y frunció las cejas, comprendiendo en seguida que, así reducido, ese hombre creería que ya había pagado el delito y que ya no le debía nada, por tanto, ninguna reparación.

Dima Chiarenza, con los ojos bajos, se puso una mano detrás de los riñones para levantarse lentamente del sillón de cuero, con la cara contraída por el dolor; pero Saro Trigona lo obligó a permanecer sentado y, en seguida, con su habitual y oprimente enredo de frases, comenzó a exponer la finalidad de su visita: él, vendiendo el campo heredado del primo al querido don Mattia allí presente, pagaría, en seguida, doce mil liras, con detracción de su deuda, al queridísimo don Dima, el cual, por su parte, tenía que obligarse a no emprender ninguna acción judicial contra la herencia de Lo Cícero, esperando…

– Despacio, hijo, – lo interrumpió en este punto Chiarenza, colocándose las gafas en la nariz. – Ya la he emprendido hoy mismo, rechazando las letras firmadas por su primo, vencidas hace tiempo. ¡Cura en salud!

– ¿Y mi dinero? – saltó entonces Scala.- La finca de Lo Cícero no valía más de dieciocho mil liras; pero ya he gastado más de seis mil; por tanto, haciendo una estimación honesta, tú no podrías tenerla por menos de veinticuatro mil.

– Bien – respondió, tranquilísimo, Chiarenza. – Como Trigona me debe veinticinco mil, quiere decir que yo, al quedarme con la finca, vengo a perder mil, además de los intereses.

– Por tanto… ¿veinticinco? – exclamó entonces don Mattia, vuelto a Trigona, con los ojos abiertos de par en par.

Este se agitó en el sillón, como en una silla de tortura, balbuciendo:

– Pero…¿có… cómo?

– En fin, hijo mío, se lo explico, – respondió sin descomponerse Chiarenza, llevándose las manos de nuevo a los riñones e incorporándose con dificultad. – Hay registros. Hablan con claridad.

– ¡Deja los registros! – gritó Scala, adelantándose.- Aquí ahora se trata de mi dinero: el que he gastado en la finca…

– ¿Y yo qué sé de ello? – dijo Chiarenza, encogiéndose y cerrando los ojos.- ¿Quién le ha obligado a gastarlo?

Don Mattia Scala repitió, fuera de sí, a Chiarenza su acuerdo con Lo Cícero.

– Mal, – añadió, cerrando los ojos, Chiarenza, por el esfuerzo que le costaba la calma que quería demostrar; pero casi no tenía más aliento.- Mal. Veo que usted, como de costumbre, no sabe llevar los negocios.

– ¿Y me lo echas en cara tú? – gritó Scala, – ¡Tú!

– No le echo en cara nada; pero, Dios Santo, habría tenido que saber al menos, antes de gastar este dinero que usted dice, que Lo Cícero ya no podía venderle a nadie la finca, porque me había firmado muchas letras por un valor que superaba el de la misma finca.

– Y así, respondió Scala, ¿tú te aprovecharías también de mi dinero?

– Yo no me aprovecho de nada – respondió, rápido, Chiarenza.- Me parece que le he demostrado que, incluso con la estimación que usted hace de la tierra, yo vengo a perder más de mil liras.

Saro Trigona intentó interponerse, haciendo que relampaguearan ante Chiarenza las doce mil liras contantes que don Mattia tenía en la cartera.

– ¡El dinero es dinero!

– ¡Y vuela! – añadió en seguida Chiarenza. – Donde mejor se puede emplear hoy el dinero es en las tierras, sépalo, querido mío. Las letras son armas de guerra, de doble filo: la renta sube y baja; la tierra, en cambio, está ahí, y no se mueve.

Don Mattia convino y, cambiando de tono y modo, habló a Chiarenza de su gran amor por ese campo contiguo, añadiendo que no sabría adaptarse nunca a ver que se lo quitaban, después de tantas privaciones sufridas por ello. Que se contentase, por tanto, Chiarenza, por el momento, con el dinero que él llevaba encima; le daría el resto, hasta el último céntimo, él mismo, no Trigona, manteniendo incluso firmemente la estimación de veinticuatro mil liras, como si las otras seis mil él no las hubiese dado, y, si quería, llegaría incluso hasta la suma de las veinticinco mil, es decir, de la deuda completa de Trigona.

– ¿Qué más puedo decirte?

Dima Chiarenza escuchó, con los ojos cerrados, impasible, el discurso apasionado de Scala. Luego le dijo, asumiendo también él otro tono, más fúnebre y más grave:

– Oiga, don Mattia. Veo que quiere mucho esa tierra, y de grado se la dejaría, para contentarle, si no me encontrase en estas condiciones de salud. ¿Ve cómo estoy? Los médicos me han aconsejado reposo y aire del campo…

– ¡Ah! – exclamó Scala tembloroso.- ¿Te vienes allí, por tanto, a mi lado?

– Además, – continuó Chiarenza – usted ahora no me dará ni siquiera la mitad de cuanto me corresponde. ¿Quién sabe, pues, cuánto tendría que esperar para que me pagara? Mientras que ahora, con un pequeño sacrificio, al tomar esa tierra, puedo recobrar en seguida lo mío y proveer a mi salud. Yo quiero dejárselo todo en regla a mis herederos.

– ¡No hables así! – prorrumpió Scala, indignado y furioso. – ¿Piensas en tus herederos? ¡Tú no tienes hijos! ¿Piensas en tus sobrinos? ¿Precisamente ahora? Nunca has pensado en ellos. Dilo francamente: ¡Quiero perjudicarte, como siempre te he perjudicado! Ay, ¿no te ha bastado haber destruido mi casa, haber matado a mi mujer y haber provocado la fuga por desesperación de mi único hijo?, ¿no te ha bastado haberme reducido a la miseria como recompensa del bien recibido?, ¿incluso la tierra quieres quitarme ahora, la tierra donde me he dejado la sangre? Pero ¿por qué, por qué eres tan feroz contra mí? ¿Qué te he hecho yo? No he protestado siquiera después de tu traición de Judas: tenía que pensar en mi mujer que se estaba muriendo por tu culpa, en mi hijo que desapareció por tu culpa: pruebas, pruebas materiales del robo no tenía, para mandarte a la cárcel; y por tanto, me callé; me fui de allí, a esos tres palmos de tierra; mientras aquí todos en la ciudad, a una voz, te acusaban, te gritaban: ¡Ladrón! ¡Judas! ¡No yo, no yo! Pero hay Dios, ¿sabes? Y te ha castigado; mira tus manos ladronas cómo están ahora… ¿Te las escondes? ¡Estás muerto! ¡Estás muerto!, ¿y te obstinas aún en hacerme daño? Oh, pero, ¿sabes? Esta vez, no, ¡no lo conseguirás! Te he contado los sacrificios que estaría dispuesto a hacer por esa tierra. En fin, pues, responde: – ¿Quieres dejármela?

– ¡No! – gritó, rápido, rabiosamente, Chiarenza, torvo, descompuesto.

– Pues entonces, ¡ni tú, ni yo!

Y Scala se dispuso a salir.

– ¿Qué hará? – preguntó Chiarenza, permaneciendo sentado y abriendo los labios en una mueca escuálida.

Scala se volvió, levantó una mano para hacer un violento gesto de amenaza y respondió, mirándolo fieramente a los ojos:

– ¡Te quemo!

VII

Tras salir de la casa de Chiarenza y tras librarse, con una furiosa sacudida de espalda, de Trigona que quería demostrarle, muy doliente, su buena intención, don Mattia Scala se llegó primero a casa de un abogado amigo suyo para exponerle el caso del que era víctima, y preguntarle si, al actuar judicialmente por el reconocimiento de su crédito, lograría impedir que Chiarenza se hiciera dueño de la finca.

El abogado no comprendió nada al principio, agotado por el nerviosismo con que Scala había hablado. Intentó calmarlo, pero fue en vano.

– En suma, las pruebas, los documentos, ¿los tiene?

– ¡Un cuerno tengo!

– ¡Entonces vaya a que le bendigan! ¿Qué quiere de mí?

– Espere, – le dijo don Mattia, antes de irse. – ¿sabría acaso indicarme dónde está la casa del ingeniero Scelzi, de la Sociedad de las Azufreras de Comitini?

El abogado le indicó la calle y el número de la casa, y don Mattia Scala, ya decidido, fue rápidamente.

Scelzi era uno de esos ingenieros que, al pasar cada mañana por el camino de herradura delante de su cancela para dirigirse a las azufreras del valle, le habían pedido con mayor insistencia que cediera el subsuelo. ¡Cuántas veces Scala, de broma, lo había amenazado con llamar a los perros para que se fuera!

Aunque Scelzi no recibía visitas de negocio los domingos, se apresuró a dejar pasar al estudio al insólito visitante.

– ¿Usted, don Mattia? ¿Qué viento le trae?

Scala, con las enormes cejas fruncidas, se plantó frente al joven ingeniero sonriente, lo miró a los ojos, y respondió:

– Estoy listo.

– ¡Ah! ¡Muy bien! ¿Cede?

– No cedo. Quiero hacer un contrato. Veamos los pactos.

– ¿Y no los conoce? – exclamó Scelzi. – Se los he repetido muchas veces.

– ¿Necesita hacer otros relieves allí? – preguntó don Mattia, lúgubre, impetuoso.

– ¡No, no! Mire… – respondió el ingeniero indicando el gran mapa geológico colgado de la pared, donde se había trazado a cargo del Real Cuerpo de las Minas todo el campo mineral de la región. Señaló con el dedo un punto en el mapa y añadió: – Es aquí: no se necesita nada más…

– Entonces, ¿podemos hacer el contrato en seguida?

– ¿En seguida?… Mañana. Mañana por la mañana yo mismo hablaré con el Consejo de Administración. En tanto, si quiere, aquí, ahora, podemos redactar la propuesta, que sin duda será aceptada, si usted no pone otras condiciones.

– ¡Necesito comprometerme en seguida! – Saltó Scala.- Todo, todo destruido, ¿no es verdad?… ¿quedará allí todo destruido?

Scelzi lo miró maravillado: conocía desde hacía tiempo la índole extraña, impulsiva de Scala; pero no recordaba haberlo visto nunca así.

– Pero los daños del humo, – dijo – serán contemplados en el contrato y compensados…

– ¡Lo sé! ¡No me importa! – añadió Scala. – Los campos, digo, los campos, todos destruidos… ¿no es verdad?

– Eh… – exclamó Scelzi, encogiéndose de hombros.

– ¡Eso, eso es lo que quiero! – exclamó entonces don Mattia, dando un puñetazo en el escritorio. – Aquí, ingeniero, ¡escriba, escriba! ¡Ni él, ni yo! Lo quemo… Escriba. No se preocupe por lo que digo.

Scelzi se sentó delante del escritorio y se puso a redactar la propuesta, exponiendo primero, una a una, las condiciones ventajosas, antes tantas veces rechazadas por Scala y que ahora, en cambio, oscuro, ceñudo, afirmaba con la cabeza, una a una.

Redactada la propuesta al fin, el ingeniero Scelzi no supo resistirse al deseo de conocer la razón de esa resolución improvisa, inesperada.

– ¿Mala cosecha?

– Pero ¿qué mala cosecha? ¡La que vendrá, – le respondió Scala – cuando usted abra la azufrera!

Sospechó entonces Scelzi que don Mattia Scala había recibido malas noticias del hijo desaparecido: sabía que, unos meses atrás, había dirigido una súplica a Roma para que, por medio de los agentes consulares, se hicieran investigaciones por todos lados. Pero no quiso tocar en esa herida.

Scala, antes de irse, recomendó de nuevo a Scelzi que gestionara el negocio con la máxima diligencia.

– Como un rayo. ¡Y áteme bien!

Pero tuvieron que pasar dos días para la deliberación del Consejo de la Sociedad de las azufreras, para la escritura del auto en el estudio del notario y para el registro del mismo auto: dos días tremendos para don Mattia Scala. No comió, no durmió, fue como un continuo delirio, yendo y viniendo a casa de Scelzi, a quien le repetía continuamente:

– ¡Áteme bien! ¡Áteme bien!

– No lo dudes, – le respondía sonriendo el ingeniero. – ¡Ahora no podrá escapársenos!

Firmado y registrado por fin el contrato de cesión, don Mattia Scala salió como un loco del estudio del notario; corrió hacia el almacén, a la salida de la ciudad, donde, al venir, tres días antes, había dejado la yegua; cabalgó y desapareció.

El sol se estaba poniendo. Por la avenida polvorienta, don Mattia se topó con una larga fila de carros cargados de azufre, los cuales desde las lejanas azufreras del valle, al otro lado de la colina que aún no se divisaba, se dirigían, lentos y pesados, a la estación ferroviaria en la parte baja de la ciudad.

Desde la grupa de la yegua, Scala lanzó una mirada de odio a todo ese azufre que chirriaba y crujía continuamente con los golpes y los saltos de los carros sin amortiguador.

La avenida estaba flanqueada por dos interminables setos de chumberas cuyas palas, por el continuo tránsito de esos carros, estaban completamente empolvadas de azufre.

A su vista, la náusea de don Mattia se acrecentó. ¡No se veía más que azufre, por todos lados, en esa ciudad! El azufre estaba incluso en el aire que se respiraba, y cortaba la respiración, y quemaba los ojos.

Finalmente, en una curva de la avenida, apareció la colina completamente verde. El sol investía con los últimos rayos.

Scala fijó los ojos y apretó en el puño las bridas hasta hacerse daño. Le pareció que el sol saludaba por última vez el verde de la colina. Quizás él, desde lo alto de la avenida, no volvería a ver nunca más la colina tal como la veía ahora. Dentro de veinte años, los que vendrían tras él, desde ese punto de la avenida, verían un cerro calvo, quemado, lívido, agujereado por las azufreras.

“¿Y dónde estaré yo, entonces?” pensó, sintiendo un sensación de vacío, que en seguida le trajo el recuerdo del hijo lejano, perdido, vagabundo por el mundo, si aún estaba vivo. Un ímpetu de conmoción lo venció, y los ojos se le llenaron de lágrimas. Por él, por él, él había encontrado la fuerza de volver a levantarse de la miseria en que lo había arrojado Chiarenza, ese ladrón infame que ahora le quitaba el campo.

– ¡No, no! – rugió, entre dientes, ante el pensamiento de Chiarenza.- ¡Ni yo, ni él!

Y espoleó la yegua, como para volar allí y destruir de un golpe el campo que ya no podía ser suyo.

Era ya de noche cuando llegó al pie de la colina. Debió rodearla por un tramo, antes de desembocar en el camino de herradura. Pero había salido la luna, y parecía que poco a poco volvía el día. Los grillos, todo alrededor, saludaban frenéticamente a esa alba lunar.

Atravesando los campos, Scala se sintió herido por un agudo remordimiento, pensando en los propietarios de esas tierras, todos amigos suyos, quienes, en ese momento, ciertamente, no sospechaban la traición que él les había hecho.

Ah, todos esos campos desaparecerían dentro de poco: ni siquiera una brizna de hierba crecería más allí; y él, ¡él habría sido el devastador de la verde colina! Pensó en el balcón de su próxima alquería, volvió a ver el límite de su estrecha tierra, pensó que sus ojos tendrían que pararse allí, sin atravesar esa tapia ni mirar la tierra de al lado: y se sintió como en prisión, casi sin aire, sin libertad en ese campito suyo, con su enemigo que vendría a vivir allí. ¡No! ¡No!

– ¡Destrucción!, ¡destrucción! ¡Ni yo ni él! ¡Que lo quemen!

Y miró a su alrededor los árboles, con la garganta atenazada de angustia: esos olivos centenarios, con un gris y poderoso tronco retorcido, inmóviles, como absortos en un sueño misterioso en el claro lunar. Imaginó cómo todas esas hojas, ahora vivas, se fruncirían con los primeros soplos agrios de la azufrera, abierta allí como una boca del infierno; luego caerían; luego los árboles desnudos se ennegrecerían, luego morirían, intoxicados por el humo de los hornos. El hacha, allí, entonces. Leña para quemar, todos esos árboles.

Una brisa leve se levantó, al subir la luna. Y entonces las hojas de todos esos árboles, como si hubieran escuchado su condena a muerte, se sacudieron como por un escalofrío largo, que se contagió hasta la espalda de don Mattia Scala, encorvado sobre la yegua blanca.

 

[1] Voz siciliana ( it. calcaroni). Antiguos hornos donde se fundía el azufre.

[2] Deformación popular siciliana de Falaride, tirano de Agrigento (siglo VI a.C)

1.4  Il tabernacolo

I

Coricatosi accanto alla moglie, che già dormiva, voltata verso il lettuccio, su cui giacevano insieme i due figliuoli, Spatolino disse prima le consuete orazioni, s’intrecciò poi le mani dietro la nuca; strizzò gli occhi, e – senza badare a quello che faceva – si mise a fischiettare, com’era solito ogni qual volta un dubbio o un pensiero lo rodevano dentro.

– Fififí… fififí… fififí…

Non era propriamente un fischio, ma uno zufolío sordo, piuttosto; a fior di labbra, sempre con la medesima cadenza.

A un certo punto, la moglie si destò:

– Ah! ci siamo? Che t’è accaduto?

– Niente. Dormi. Buona notte.

Si tirò giú, voltò le spalle alla moglie e si raggricchiò anche lui da fianco, per dormire. Ma che dormire!

– Fififí… fififí… fififí…

La moglie allora gli allungò un braccio sulla schiena, a pugno chiuso.

– Ohé, la smetti? Bada che mi svegli i piccini!

– Hai ragione. Sta’ zitta! M’addormento.

Si sforzò davvero di scacciare dalla mente quel pensiero tormentoso che diventava cosí, dentro di lui, come sempre, un grillo canterino. Ma, quando già credeva d’averlo scacciato:

– Fififí… fififí… fififí…

Questa volta non aspettò neppure che la moglie gli allungasse un altro pugno piú forte del primo; saltò dal letto, esasperato.

– Che fai? dove vai? – gli domandò quella.

E lui:

– Mi rivesto, mannaggia! Non posso dormire. Mi metterò a sedere qua davanti la porta, su la strada. Aria! Aria!

– Insomma, – riprese la moglie – si può sapere che diavolo t’è accaduto?

– Che? Quella canaglia, – proruppe allora Spatolino, sforzandosi di parlar basso, – quel farabutto, quel nemico di Dio…

– Chi? chi?

– Ciancarella.

– Il notajo?

– Lui. M’ha fatto dire che mi vuole domani alla villa.

– Ebbene?

– Ma che può volere da me un uomo come quello, me lo dici? Porco, salvo il santo battesimo! porco, e dico poco! Aria! aria!

Afferrò, cosí dicendo, una seggiola, riaprí la porta, la riaccostò dietro di sé e si pose a sedere sul vicoletto addormentato, con le spalle appoggiate al muro del suo casalino.

Un lampione a petrolio, lí presso, sonnecchiava languido, verberando del suo lume giallastro l’acqua putrida d’una pozza, seppure era acqua, giú tra l’acciottolato, qua gobbo là avvallato, tutto sconnesso e logoro.

Dall’interno delle casupole in ombra veniva un tanfo grasso di stalla e, a quando a quando, nel silenzio, lo scalpitare di qualche bestia tormentata dalle mosche.

Un gatto, che strisciava lungo il muro, s’arrestò, obliquo, guardingo.

Spatolino si mise a guardare in alto, nella striscia di cielo, le stelle che vi fervevano; e, guardando, si recava alla bocca i peli dell’arida barbetta rossiccia.

Piccolo di statura, quantunque fin da ragazzo avesse impastato terra e calcina, aveva un che di signorile nell’aspetto.

A un tratto, gli occhi chiari rivolti al cielo gli si riempirono di lagrime. Si scosse su la seggiola e, asciugandosi il pianto col dorso della mano, mormorò nel silenzio della notte:

– Ajutatemi voi, Cristo mio!           

II

Dacché nel paese la consorteria clericale era stata battuta e il partito nuovo, degli scomunicati, aveva invaso i seggi del Comune, Spatolino si sentiva come in mezzo a un campo nemico.

Tutti i suoi compagni di lavoro, come tante pecore, s’erano messi dietro ai nuovi caporioni; e stretti ora in corporazione, spadroneggiavano.

Con pochi altri operai rimasti fedeli alla santa Chiesa, Spatolino aveva fondato una Società Cattolica di Mutuo Soccorso tra gl’Indegni Figli della Madonna Addolorata.

Ma la lotta era impari; e le beffe dei nemici (e anche degli amici) e la rabbia dell’impotenza avevano fatto perdere a Spatolino il lume degli occhi.

S’era intestato, come presidente di quella Società Cattolica, a promuovere processioni e luminarie e girandole, nella ricorrenza delle feste religiose, osservate prima e favorite dall’antico Consiglio Comunale, e tra i fischi, gli urli e le risate del partito avversario ci aveva rimesso le spese, per S. Michele Arcangelo, per S. Francesco di Paola, per il Venerdí Santo, per il Corpus Domini e insomma per tutte le feste principali del calendario ecclesiastico.

Cosí il capitaluccio, che gli aveva finora permesso d’assumer qualche lavoro in appalto, s’era talmente assottigliato, ch’egli prevedeva non lontano il giorno che da capomastro muratore si sarebbe ridotto a misero giornante.

La moglie, già da un pezzo, non aveva piú per lui né rispetto né considerazione: s’era messa a provvedere da sé ai suoi bisogni e a quelli dei figliuoli, lavando, cucendo per conto d’altri, facendo ogni sorta di servizii.

Come se lui stesse in ozio per piacere! Ma se la corporazione di quei figli di cane assumeva tutti i lavori! Che pretendeva la moglie? ch’egli rinunziasse alla fede, rinnegasse Dio, e andasse a iscriversi al partito di quelli? Ma si sarebbe fatto tagliar le mani piuttosto!

L’ozio intanto lo divorava, gli faceva di giorno in giorno crescere l’orgasmo e il puntiglio, e lo inveleniva contro tutti.

Ciancarella, il notajo, non aveva mai parteggiato per nessuno; ma era pur notoriamente nemico di Dio; ne faceva professione, dacché non esercitava piú quell’altra del notajo. Una volta, aveva osato finanche d’aizzare i cani contro un santo sacerdote, don Lagàipa, che s’era recato da lui per intercedere in favore d’alcuni parenti poveri, che morivano addirittura di fame, mentr’egli, nella splendida villa che s’era fatta costruire all’uscita del paese, viveva da principe, con la ricchezza accumulata chi sa come e accresciuta da tant’anni d’usura.

Tutta la notte Spatolino (per fortuna era d’estate), un po’ seduto, un po’ passeggiando per il vicoletto deserto, meditò (fififí… fififí… fififí…) su quell’invito misterioso del Ciancarella.

Poi, sapendo che questi era solito lasciare il letto per tempo, e sentendo che la moglie già s’era levata, con l’alba, e sfaccendava per casa, pensò d’avviarsi, lasciando lí fuori la seggiola ch’era vecchia, e nessuno se la sarebbe presa.

III

La villa del Ciancarella era tutta murata come una fortezza, e aveva il cancello su lo stradone provinciale.

Il vecchio, che pareva un rospaccio calzato e vestito, oppresso da una cisti enorme su la nuca, che lo obbligava a tener sempre giú e piegato da un lato il testone raso, vi abitava solo, con un servitore; ma aveva molta gente di campagna ai suoi ordini, armata, e due mastini che incutevano paura, solo a vederli.

Spatolino sonò la campana. Subito quelle due bestiacce s’avventarono furibonde alle sbarre del cancello, e non si quietarono neppure quando il servitore accorse a rincorare Spatolino che non voleva entrare. Bisognò che il padrone, il quale prendeva il caffè nel chioschetto d’edera, a un lato della villa, in mezzo al giardino, li chiamasse col fischio.

– Ah, Spatolino! Bravo, – disse il Ciancarella. – Siedi lí.

E gl’indicò uno degli sgabelli di ferro disposti, giro giro, nel chioschetto.

Ma Spatolino rimase in piedi, col cappelluccio roccioso e ingessato tra le mani.

– Tu sei un indegno figlio, è vero?

– Sissignore, e me ne vanto: della Madonna Addolorata. Che comandi ha da darmi?

– Ecco, – disse Ciancarella; ma, invece di seguitare, si recò la tazza alle labbra e trasse tre sorsi di caffè. – Un tabernacolo – (e un altro sorso).

– Come dice?

– Vorrei costruito da te un tabernacolo – (ancora un sorso).

– Un tabernacolo, Vossignoria?

– Sí, su lo stradone, di fronte al cancello – (altro sorso, l’ultimo; posò la tazza, e – senza asciugarsi le labbra – si levò in piedi. Una goccia di caffè gli scese da un angolo della bocca di tra gl’irti peli della barba non rifatta da parecchi giorni). – Un tabernacolo, dunque, non tanto piccolo, perché ci ha da entrare una statua, grande al vero, di Cristo alla colonna. Alle pareti laterali ci voglio allogare due bei quadri, grandi: di qua, un Calvario; di là, una Deposizione. Insomma, come un camerotto agiato, su uno zoccolo alto un metro, col cancelletto di ferro davanti, e la croce sú, s’intende. Hai capito?

Spatolino chinò piú volte il capo, con gli occhi chiusi; poi, riaprendo gli occhi e traendo un sospiro, disse:

– Ma Vossignoria scherza, è vero?

– Scherzo? Perché?

– Io credo che Vossignoria voglia scherzare. Mi perdoni. Un tabernacolo, Vossignoria, all’Ecce Homo?

Ciancarella si provò ad alzare un po’ il testone raso, se lo tenne con una mano e rise in un suo modo speciale, curiosissimo, come se frignasse, per via di quel malanno che gli opprimeva la nuca.

– Eh che! – disse. – Non ne son forse degno, secondo te?

– Ma nossignore, scusi! – s’affrettò a negare Spatolino, stizzito, infiammandosi. – Perché dovrebbe Vossignoria commettere cosí, senza ragione, un sacrilegio? Si lasci pregare, e mi perdoni se parlo franco. Chi vuol gabbare, Vossignoria? Dio, no; Dio non lo gabba; Dio vede tutto, e non si lascia gabbare da Vossignoria. Gli uomini? Ma vedono anche loro e sanno che Vossignoria…

– Che sanno, imbecille? – gli gridò il vecchio, interrompendolo. – E che sai tu di Dio, verme di terra? Quello che te n’hanno detto i preti! Ma Dio… Vah, vah, vah, io mi metto a ragionare con te, adesso… Hai fatto colazione?

– Nossignore.

– Brutto vizio, caro mio! dovrei dartela io, ora, eh?

– Nossignore. Non prendo nulla.

– Ah, – esclamò Ciancarella con uno sbadiglio. – Ah! I preti, figliuolo, i preti ti hanno sconcertato il cervello. Vanno predicando, è vero? che io non credo in Dio. Ma sai perché? perché non do loro da mangiare. Ebbene, sta’ zitto: ne avranno, quando verranno a consacrare il nostro tabernacolo. Voglio che sia una bella festa, Spatolino. Perché mi guardi cosí? Non credi? O vuoi sapere come mi sia venuto in mente? In sogno, figliuolo! Ho avuto un sogno, l’altra notte. Ora certo i preti diranno che Dio m’ha toccato il cuore. Dicano pure; non me n’importa nulla! Dunque, siamo intesi, eh? Parla… smuoviti… Sei allocchito?

– Sissignore, – confessò Spatolino, aprendo le braccia.

Ciancarella, questa volta, si prese la testa con tutt’e due le mani, per ridere a lungo.

– Bene, – poi disse. – Tu sai com’io tratto. Non voglio impicci di nessun genere. So che sei un bravo operajo e che fai le cose ammodo e onestamente.  Fa’ da te, spese e tutto, senza seccarmi. Quando avrai finito, faremo i conti. Il tabernacolo… hai capito come lo voglio?

– Sissignore.

– Quando ti metterai all’opera?

– Per me, anche domani.

– E quando potrà esser finito?

Spatolino stette un po’ a pensare.

– Eh, – poi disse, – se dev’essere cosí grande, ci vorrà almeno…, che so, un mese.

– Sta bene. Andiamo ora a vedere insieme il posto.

La terra, dall’altra parte dello stradone, apparteneva pure al Ciancarella, che la lasciava incolta, in abbandono: l’aveva acquistata per non aver soggezioni lí davanti alla villa; e permetteva che i pecoraj vi conducessero le loro greggiole a pascolare, come se fosse terra senza padrone. Per costruirvi il tabernacolo non si doveva dunque chieder licenza a nessuno. Stabilito il posto, lí, proprio dirimpetto al cancello, il vecchio rientrò nella villa, e Spatolino, rimasto solo, – fififí… fififí… fififí… – non la finí piú. Poi s’avviò. Cammina e cammina, si ritrovò, quasi senza saperlo, dinanzi la porta di don Lagàipa, ch’era il suo confessore. Si ricordò, dopo aver bussato, che il prete era da parecchi giorni a letto, infermo: non avrebbe dovuto disturbarlo con quella visita mattutina; ma il caso era grave; entrò.

           

IV

Don Lagàipa era in piedi e, tra la confusione delle sue donne, la serva e la nipote, che non sapevano come obbedire agli ordini ch’egli impartiva, stava, in calzoni e maniche di camicia, in mezzo alla camera a pulire le canne d’un fucile.

Il naso vasto e carnoso, tutto bucherato dal vajuolo come una spugna, pareva gli fosse divenuto, dopo la malattia, piú abbondante. Di qua e di là, divergenti quasi per lo spavento di quel naso, gli occhi lucidi, neri, pareva volessero scappargli dalla faccia gialla, disfatta.

–  Mi rovinano, Spatolino, mi rovinano! È venuto poco fa il garzone, baccalà, a dirmi che la mia campagna è diventata proprietà comune, già! roba di tutti. I socialisti, capisci? mi rubano l’uva ancora acerba; i fichidindia, tutto! Il tuo è mio, capisci? Il tuo è mio! Gli mando questo fucile. Alle gambe! gli ho detto; tira loro alle gambe: cura di piombo, ci vuole! (Rosina, papera, papera, papera, un altro po’ d’aceto t’ho detto, e una pezzuola  pulita.) Che volevi dirmi, figliuolo mio?

Spatolino non sapeva piú da che parte cominciare. Appena gli uscí di bocca il nome di Ciancarella, una furia di male parole; all’accenno della costruzione del tabernacolo, vide don Lagàipa trasecolare.

– Un tabernacolo?

– Sissignore: all’Ecce Homo. Vorrei sapere da Vostra Reverenza se debbo farglielo.

– Lo domandi a me? Pezzo d’asino, che gli hai risposto?

Spatolino ripeté quanto aveva detto al Ciancarella e altro aggiunse che non aveva detto, infervorandosi alle lodi del prete battagliero.

– Benissimo! E lui? Muso di cane!

– Ha avuto un sogno, dice.

– Imbroglione! Non starci a credere! Imbroglione! Se Dio veramente gli avesse parlato in sogno, gli avrebbe suggerito piuttosto di ajutare un po’ quei poveretti dei Lattuga, che non vuol riconoscere per parenti solo perché son divoti e fedeli a noi, mentre protegge i Montoro, capisci? quegli atei socialisti, a cui lascerà tutte le sue ricchezze. Basta. Che vuoi da me? Fagli il tabernacolo. Se non glielo fai tu, glielo farà un altro. Tanto, per noi, sarà sempre bene, che un tal peccatore dia segno di volere in qualche modo riconciliarsi con Dio. Imbroglione! Muso di cane!

Tornato a casa, Spatolino, per tutto quel giorno, disegnò tabernacoli. Verso sera si recò a provvedere i materiali, due manovali, un ragazzo calcinajo. E il giorno appresso, all’alba, si mise all’opera.

 

V

La gente che passava a piedi o a cavallo o coi carri per lo stradone polveroso, si fermava a domandare a Spatolino che cosa facesse.

– Un tabernacolo.

– Chi ve l’ha ordinato?

E lui, cupo, alzando un dito al cielo:

– L’Ecce Homo.

Non rispose altrimenti, per tutto il tempo che durò la fabbrica. La gente rideva o scrollava le spalle.

– Giusto qua? – gli domandava però qualcuno, guardando verso il cancello della villa. A nessuno veniva in mente che il notajo potesse avere ordinato quel tabernacolo: tutti, invece, ignorando che quel pezzo di terra appartenesse pure al Ciancarella, e conoscendo il fanatismo religioso di Spatolino, pensavano che questi, o per incarico del vescovo o per voto della Società Cattolica, costruisse lí quel tabernacolo, per far dispetto al vecchio usurajo. E ne ridevano.

Intanto, come se Dio veramente fosse sdegnato di quella fabbrica, capitarono a Spatolino, lavorando, tutte le disgrazie. Già, quattro giorni a sterrare, prima di trovare il pancone per le fondamenta; poi liti lassú alla cava, per la pietra; liti per la calce, liti col fornaciajo; e infine, nell’assettar la centina per costruir l’arco, cade la centina e per miracolo non accoppa il ragazzo calcinajo.

All’ultimo, la bomba. Il Ciancarella, proprio nel giorno che Spatolino doveva mostrargli il tabernacolo bell’e finito, un colpo apoplettico, di quelli genuini, e in capo a tre ore, morto.

Nessuno allora poté piú levar dal capo a Spatolino che quella morte improvvisa del notajo fosse la punizione di Dio sdegnato. Ma non credette, dapprima, che lo sdegno divino dovesse rovesciarsi anche su lui, che – pur di contraggenio – s’era prestato a innalzare quella fabbrica maledetta.

Lo credette quando, recatosi dai Montoro, eredi del notajo, per aver pagata l’opera sua, s’udí rispondere che nulla essi ne sapevano e che non volevano perciò riconoscere quel debito non comprovato da nessun documento.

– Come! – esclamò Spatolino. – E il tabernacolo dunque per chi l’ho fatto io?

– Per l’Ecce Homo.

– Di testa mia?

– Oh insomma, – gli dissero quelli, per cavarselo di torno. – Noi crederemmo di mancare di rispetto alla memoria di nostro zio supponendo anche per un momento ch’egli abbia potuto davvero darti un incarico cosí contrario al suo modo di pensare e di sentire. Non risulta da nulla. Che vuoi dunque da noi? Tienti il tabernacolo; e, se non t’accomoda, ricorri al tribunale.

Ma subito, come no? ricorse al tribunale, Spatolino. Poteva forse perdere? Potevano forse credere sul serio i giudici che egli avesse costruito di testa sua un tabernacolo? E poi c’era il servo, per testimonio, il servo del Ciancarella appunto, ch’era venuto a chiamarlo per incarico del padrone; e don Lagàipa c’era, con cui era andato a consigliarsi quel giorno stesso; c’era la moglie poi, a cui egli l’aveva detto, e i manovali che avevano lavorato con lui, tutto quel tempo. Come poteva perdere?

Perdette, perdette, sissignori. Perdette, perché il servo del Ciancarella, passato ora al servizio dei Montoro, andò a deporre che aveva chiamato sí Spatolino per incarico del padrone, sant’anima; ma non certo perché il padrone, sant’anima, avesse in mente di dargli l’incarico di costruire quel tabernacolo lí, bensí perché dal giardiniere, ora morto, (guarda combinazione!) aveva sentito dire che Spatolino aveva lui l’intenzione di costruire un tabernacolo proprio lí, dirimpetto al cancello, e aveva voluto avvertirlo che il pezzo di terra dall’altra parte dello stradone gli apparteneva, e che dunque si fosse guardato bene dal costruirvi una minchioneria di quel genere. Soggiunse che anzi, avendo egli un giorno detto al padrone, sant’anima, che Spatolino, non ostante il divieto, scavava di là con tre manovali, il padrone, sant’anima, gli aveva risposto:

– E lascialo scavare, non lo sai ch’è matto? Cerca forse il tesoro per terminare la chiesa di Santa Caterina! – A nulla giovò la testimonianza di don Lagàipa, notoriamente ispiratore a Spatolino di tante altre follie. Che piú? Gli stessi manovali deposero che non avevano veduto mai il Ciancarella e che la mercede giornaliera l’avevano ricevuta sempre dal capomastro.

Spatolino scappò via dalla sala del tribunale come levato di cervello; non tanto per la perdita del suo capitaluccio, buttato lí, nella costruzione di quel tabernacolo; non tanto per le spese del processo a cui, per giunta, era stato condannato; quanto per il crollo della sua fede nella giustizia divina.

– Ma dunque, – andava dicendo, – dunque non c’è piú Dio?

Istigato da don Lagàipa, s’appellò. Fu il tracollo. Il giorno che gli arrivò la notizia che anche in Corte d’appello aveva perduto, Spatolino non fiatò: con gli ultimi soldi che gli erano rimasti in tasca, comprò un metro e mezzo di tela bambagina rossa, tre sacchi vecchi e ritornò a casa.

– Fammi una tonaca! – disse alla moglie, buttandole i tre sacchi in grembo.

La moglie lo guardò, come se non avesse inteso.

– Che vuoi fare?

– T’ho detto: fammi una tonaca… No? Me la faccio da me.

In men che non si dica, sfondò due sacchi e li cucí insieme, per lungo; fece, a quello di su, uno spacco davanti; col terzo sacco fece le maniche e le cucí intorno a due buchi praticati nel primo sacco, a cui chiuse la bocca per un tratto di qua e di là, per modo che vi restasse il largo per il collo. Ne fece un fagottino, prese la tela bambagina rossa e, senza salutar nessuno, se n’andò.

Circa un’ora dopo, si sparse per tutto il paese la notizia che Spatolino, impazzito, s’era impostato da statua di Cristo alla colonna, là, nel tabernacolo nuovo, su lo stradone, dirimpetto alla villa del Ciancarella.

– Come impostato? che vuol dire?

– Ma sí, lui, da Cristo, là dentro il tabernacolo!

– Dite davvero?

 Davvero!

E tutto un popolo accorse a vederlo, dentro il tabernacolo, dietro il cancello, insaccato in quella tonaca con le marche del droghiere ancora lí stampate, la tela bambagia rossa su le spalle a mo’ di mantello, una corona di spine in capo, una canna in mano.

Teneva la testa bassa, inclinata da un lato, e gli occhi a terra. Non si scompose minimamente né alle risa, né ai fischi, né a gli urli indiavolati della folla che cresceva a mano a mano. Piú d’un monello gli tirò qualche buccia; parecchi, lí, sotto il naso, gli lanciarono crudelissime ingiurie: lui, sordo, immobile, come una vera statua; solo che sbatteva di tanto in tanto le palpebre.

Né valsero a smuoverlo le preghiere, prima, le imprecazioni, poi, della moglie accorsa con le altre donne del vicinato, né il pianto dei figliuoli. Ci volle l’intervento di due guardie che, per porre fine a quella gazzarra, forzarono il cancelletto del tabernacolo e trassero Spatolino in arresto.

– Lasciatemi stare! Chi piú Cristo di me? – si mise allora a strillare Spatolino, divincolandosi. – Non vedete come mi beffano e come m’ingiuriano? Chi piú Cristo di me? Lasciatemi! Questa è casa mia! Me la son fatta io, col mio danaro e con le mie mani! Ci ho buttato il sangue mio! Lasciatemi, giudei!

Ma que’ giudei non vollero lasciarlo prima di sera.

– A casa! – gli ordinò il delegato. – A casa, e giudizio, bada!

– Sí, signor Pilato, – gli rispose Spatolino, inchinandosi.

E, quatto quatto, se ne ritornò al tabernacolo. Di nuovo, lí, si parò da Cristo; vi passò tutta la notte, e piú non se ne mosse.

Lo tentarono con la fame; lo tentarono con la paura, con lo scherno; invano.

Finalmente lo lasciarono tranquillo, come un povero matto che non faceva male a nessuno.

 

VI

Ora c’è chi gli porta l’olio per la lampada; c’è chi gli porta da mangiare e da bere; qualche donnicciola, pian piano, comincia a dirlo santo e va a raccomandarglisi perché preghi per lei e pe’ suoi; qualche altra gli ha recato una tonaca nuova, men rozza, e gli ha chiesto in compenso tre numeri da giocare al lotto.

I carrettieri, che passano di notte per lo stradone, si sono abituati a quel lampadino ch’arde nel tabernacolo, e lo vedono da lontano con piacere; si fermano un pezzo lí davanti, a conversare col povero Cristo, che sorride benevolmente a qualche loro lazzo; poi se ne vanno; il rumor dei carri si spegne a poco a poco nel silenzio; e il povero Cristo si riaddormenta, o scende a fare i suoi bisogni dietro al muro, senza piú pensare in quel momento che è parato da Cristo, con la tonaca di sacco e il mantello di bambagina rossa.

Spesso però qualche grillo, attirato dal lume, gli schizza addosso e lo sveglia di soprassalto. Allora egli si rimette a pregare; ma non è raro il caso che, durante la preghiera, un altro grillo, l’antico grillo canterino si ridesti ancora in lui. Spatolino si scosta dalla fronte la corona di spine, a cui già s’è abituato, e – grattandosi lí, dove le spine gli han lasciato il segno – con gli occhi invagati, si rimette a fischiettare:

– Fififí… fififí… fififí…

1.4   La capilla

I

Habiéndose acostado junto a la mujer, que ya dormía, vuelta hacia el camastro en el que yacían juntos los dos hijos, Espátula dijo primero sus habituales oraciones, luego cruzó las manos detrás de la nuca, entornó los ojos y – sin prestar atención a lo que hacía – se puso a silbar, como era habitual en él cuando una duda o un pensamiento lo roían por dentro.

–  Fififi… fififi… fififi…

No era precisamente un silbido, sino mejor un pitido sordo, a flor de labios, siempre con la misma cadencia.

A un cierto punto, la mujer se despertó:

– ¡Ay!, ¿ya estamos? ¿Qué te ha pasado?

– Nada. Duerme. Buenas noches.

Se tendió, volvió la espalda a la mujer y se acurrucó también él de lado para dormir. Pero ¡qué dormir ni dormir!

– Fififí… fififí… fififí…

La mujer aún le alargó un brazo bajo la espalda, con el puño cerrado.

– ¡Eh!, ¿te callas? Mira que me despiertas a los pequeños.

– Tienes razón. ¡Calla! Ya me duermo.

Se esforzó verdaderamente por echar de su cabeza ese pensamiento atormentado que se convertía así, dentro de él, como siempre, en un grillo cantarín. Pero, cuando ya creía haberlo echado:

– Fififí… fififí… fififí…

Esta vez no esperó siquiera que la mujer le largase otro puñetazo más fuerte que el primero; saltó de la cama, exasperado.

– ¿Qué haces?, ¿dónde vas? – le preguntó ella.

Y él:

– Me visto, ¡maldita sea! No puedo dormir. Me sentaré delante de la puerta, en la calle. ¡Aire! ¡Aire!

– En fin, – continuó la mujer – ¿se puede saber qué diablos te ha pasado?

– ¿Qué? Ese canalla, – estalló entonces Espátula, esforzándose por hablar bajo – ese sinvergüenza, ese enemigo de Dios…

– ¿Quién?, ¿quién?

– Ciancarella.

– ¿El notario?

– Ese mismo. Me ha hecho saber que me quiere ver mañana en la ciudad

– ¿Y bien?

– Pero ¿qué puede querer de mí un hombre como él, me lo puedes decir? ¡Puerco, salvo el santo bautismo!, ¡puerco, y digo poco! ¡Aire! ¡Aire!

Diciendo esto, agarró una silla, volvió a abrir la puerta, la cerró detrás de sí y se sentó con la espalda apoyada en la pared de su casucha.

Una lámpara de petróleo, allí cerca, dormitaba lánguida, reverberando su luz amarillenta en el agua pútrida de un charco, si era agua, abajo entre el empedrado, acá jorobado, allá hundido, todo inconexo y consumido.

Del interior de las casuchas en sombra llegaba un tufo grasiento de establo y, de vez en cuando, en el silencio, las pisadas de algún animal atormentado por las moscas.

Un gato que se deslizaba a lo largo de la pared se detuvo, oblicuo, circunspecto.

Espátula se puso a mirar hacia lo alto, en la línea del cielo, las estrellas que crepitaban; y, mirando, se llevaba a la boca los pelos de la árida barba rojiza.

Pequeño de estatura, aunque desde muchacho hubiera amasado tierra y cal, tenía algo de señorial en su aspecto.

De pronto, los ojos claros vueltos al cielo se le llenaron de lágrimas. Se estremeció en la silla y, secándose el llanto con el dorso de la mano, murmuró en el silencio de la noche:

– ¡Ayúdame, tú, Cristo mío!

II

Desde cuando en el pueblo la camarilla clerical había sido vencida y el partido nuevo, el de los excomulgados, había ocupado el gobierno del municipio, Espátula se sentía como en medio de un campo enemigo.

Todos sus compañeros de trabajo, como tantas ovejas, habían seguido a los nuevos bribones; y, unidos ya en una corporación, mandaban.

Con unos pocos obreros fieles a la santa Iglesia, Espátula había fundado una Sociedad Católica de Mutuo Socorro entre los Indignos Hijos de la Virgen de los Dolores.

Pero la lucha era desigual; y las burlas de los enemigos (e incluso de los amigos) y la rabia por la impotencia habían hecho que Espátula perdiera la calma.

Se había obstinado, como presidente de esa sociedad católica, en promover procesiones, luminarias y tracas con ocasión de las fiestas religiosas, observadas antes y favorecidas por el antiguo concejo municipal, y entre los silbidos, los gritos y las risotadas del partido adversario había sufragado los gastos, para san Miguel Arcángel, San Francisco de Paula, el Viernes Santo, el Corpus Christi y, en fin, para todas las fiestas principales del calendario eclesiástico.

Así, el capitalito que hasta ahora le había permitido asumir cualquier trabajo en subasta, había menguado tanto, que no se imaginaba lejano el día en que de jefe de obras se vería reducido a mísero jornalero.

La mujer, ya desde hacía tiempo, no mostraba por él respeto ni consideración: ella misma se había puesto a satisfacer sus necesidades y las de sus hijos, lavando, cosiendo a la calle, haciendo todo tipo de encargos.

¡Como si él estuviese ocioso por placer! ¡Pero si la corporación de esos hijos de perro asumían todos los trabajos! ¿Qué pretendía su mujer?, ¿que él renunciara a la fe, que renegara de Dios y fuese a inscribirse en el partido de esos? ¡Antes se dejaría cortar las manos!

El ocio, mientras tanto, lo devoraba, y hacía que de día en día crecieran en él la agitación y la obstinación, y lo envenenaba contra todos.

Ciancarella, el notario, nunca se había mostrado partidario de ninguno; pero era, sin embargo, notoriamente enemigo de Dios; hacía profesión de ello, desde que no ejercía la de notario. Una vez, incluso había osado aguzar los perros contra un santo sacerdote, don Lagàipa, que se había dirigido a él para interceder en favor de unos parientes pobres, que se morían de hecho de hambre, mientras él, en su espléndida mansión que se había construido a la salida del pueblo, vivía como un príncipe, con la riqueza amasada quién sabe cómo y acrecentada en tantos años de usura.

Toda la noche, Espátula (por fortuna era verano), ya sentado, ya paseando por la callejuela desierta, meditó (fififí… fififí… fififí…) sobre esa invitación misteriosa de Ciancarella.

Luego, sabiendo que este acostumbraba a dejar la cama temprano, y sintiendo que la mujer ya se había levantado con el alba y se movía por la casa, pensó ponerse en camino, dejando allí fuera la silla que era vieja y que nadie se llevaría.

III

La mansión de Ciancarella estaba toda amurallada como una fortaleza y tenía una cancela que daba a la avenida provincial.

El viejo, que parecía un sapo calzado y vestido, oprimido por un quiste enorme en la nuca, que le obligaba a tener baja y doblada hacia un lado la cabezota calva, vivía solo, con un criado; pero tenía mucha gente de campo a sus órdenes, armada, y dos mastines que asustaban solo al verlos.

Espátula tocó la campana. En seguida esas dos bestias se lanzaron furibundas contra los barrotes de la cancela, y no se tranquilizaron ni siquiera cuando el criado acudió a animar a Espátula que no quería entrar. Fue necesario que el amo, que estaba tomando un café en el pabellón de hiedra, a un lado de la mansión, en medio del jardín, lo llamase con un silbido.

– ¡Ah, Espátula! Muy bien, – dijo Ciancarella. – Siéntate ahí.

Y le indicó uno de los escabeles de hierro dispuestos, acá y allá, en el pabellón.

Pero Espátula se quedó en pie, con el sombrerucho rocoso y enyesado entre las manos.

– ¿Tú eres un indigno hijo, no es verdad?

– Sí, señor, y estoy orgulloso de ello: de la Virgen de los Dolores. ¿Qué órdenes tiene que darme?

– En fin, – dijo Ciancarella; pero en lugar de continuar, se llevó la taza a los labios y bebió tres sorbos de café. – Una capilla – (y otro sorbo).

– ¿Cómo dice?

– Quiero que tú me construyas una capilla – (de nuevo otro sorbo).

– ¿Usted, una capilla?

– Sí, que dé a la avenida, frente a la cancela – (otro sorbo, el último; dejó la taza, y – sin secarse los labios – se puso en pie. Una gota de café le bajaba por la comisura de la boca entre los hirsutos pelos de la barba descuidada desde hacía bastantes días). – Una capilla, sí, no muy pequeña, pues tiene que caber una estatua, de tamaño natural, de Cristo en la columna. En las paredes laterales quiero poner dos cuadros grandes: a este lado, un Calvario; al otro, un Desprendimiento. En suma, como una habitación cómoda, sobre un pedestal de un metro de altura, con la cancela de hierro delante, y la cruz arriba, se entiende. ¿Has comprendido?

Espátula bajó varias veces la cabeza, con los ojos cerrados; luego, reabriendo los ojos y dando un suspiro, dijo:

– Pero usted se burla, ¿no es verdad?

– ¿Que me burlo? ¿Por qué?

– Creo que usted quiere burlarse. Perdóneme. ¿Una capilla, usted, y al Ecce Homo?

Ciancarella intentó levantar un poco la cabezota calva, se la sujetó con una mano y se rio de un modo especial, muy curioso, como si lloriquease, a causa de esa desgracia que le oprimía la nuca.

– ¡Eh, cómo! – dijo. – ¿Quizás no soy digno, según tú?

– ¡Claro que no, señor, perdone! – se apresuró a negar Espátula, fastidiado, alterándose.  – ¿Por qué debería usted cometer así, sin razón, un sacrilegio? Se lo ruego, y perdóneme si hablo con franqueza. ¿A quién quiere usted engañar? A Dios, no, a Dios no lo engaña, Dios lo ve todo, y no se deja engañar por usted.  ¿A los hombres? Pero ellos también ven y saben que usted…

– ¿Qué saben, imbécil? – le gritó el viejo, interrumpiéndolo. – ¿Y qué sabes tú de Dios, gusano de tierra? ¡Lo que te han dicho los curas! Pero Dios… bah, bah, bah, yo me pongo a razonar contigo ahora… ¿Has desayunado?

– No, señor.

– ¡Feo vicio, querido! Debería ofrecerte yo el desayuno, ahora, ¿no?

– No, señor. No tomo nada.

– ¡Ah! – exclamó Ciancarella con un bostezo. – ¡Ah! Los curas, hijo, los curas te han trastornado el juicio. Van predicando, ¿no es verdad?, que yo no creo en Dios. ¿Pero sabes por qué? Porque no les doy de comer. Pues bien, silencio: ya comerán cuando vengan a consagrar nuestra capilla. Quiero hacer una gran fiesta, Espátula. ¿Por qué me miras así? ¿No me crees? ¿O quieres saber cómo he decidido esto? Lo he soñado, la otra noche. Ahora ciertamente los curas dirán que Dios me ha tocado el corazón. Que hablen, ¡no me importa nada! Así que, ¿has entendido, eh? Habla… muévete… ¿Estás sorprendido?

– Sí, señor, – confesó Espátula, abriendo los brazos.

Ciancarella, esta vez, se cogió la cabeza con las dos manos, para reír largamente.

– Bien – dijo luego. – Tú sabes cómo me las gasto. No quiero líos de ningún tipo. Sé que eres un buen obrero y que haces las cosas como es debido y honestamente. Hazlo todo tú solo, gastos incluidos, sin molestarme. Cuando acabes, ajustamos las cuentas. La capilla… ¿has comprendido cómo la quiero?

– Sí, señor.

– ¿Cuándo pones manos a la obra?

– Por mí, mañana mismo.

– ¿Y cuándo podrá estar terminada?

Espátula se detuvo un poco a pensar.

– Eh, – luego dijo, – si tiene que ser tan grande, se necesitará al menos…, no sé, un mes.

– Está bien. Vamos ahora a ver juntos el sitio.

El terreno al otro lado de la avenida pertenecía a Ciancarella, que lo dejaba sin cultivar, abandonado: lo había comprado para no tener estorbos ahí delante de la mansión; y permitía que los pastores condujeran sus rebaños a pastar, como si fuese tierra sin dueño. Para construir ahí la capilla no se tenía, pues, que pedir permiso a nadie. Decidido el sitio, allí, precisamente frente a la cancela, el viejo volvió a la mansión, y Espátula, que se quedó solo, – fififí… fififí… fififí… – no dejaba de silbar. Luego se puso en camino. Camina y camina, se encontró, casi sin saberlo, delante de la puerta de don Lagàipa, que había sido su confesor. Se acordó, después de llamar, de que el cura desde hacía algunos días estaba en cama, enfermo: no debería molestarlo con esa visita matutina; pero el caso era grave; entró.

IV

Don Lagàipa estaba levantado y, en medio de la confusión de las mujeres, la criada y la sobrina, que no sabían cómo obedecer a las órdenes que él impartía, en pantalones y mangas de camisa, en medio de la habitación limpiando los cañones de una escopeta.

La nariz ancha y carnosa, toda agujereada por la viruela como una esponja, parecía que se le había vuelto, después de la enfermedad, más grande. Acá y allá, separados quizás por el miedo a esa nariz, los ojos brillantes, negros, parecían querer escapar de su rostro amarillo, deshecho.

– ¡Me arruinan, Espátula, me arruinan! Ha venido hace poco el muchacho, estúpido, a decirme que mi campo se ha vuelto propiedad común, ¡ya!, de todos. Los socialistas, ¿comprendes?, me roban la uva todavía verde, los higos, ¡todo! Lo tuyo es mío, ¿comprendes? ¡Lo tuyo es mío! Le envío esta escopeta. ¡A las piernas!, le he dicho, dispárales a las piernas: ¡una cura de plomo es lo que se necesita! (Rosina, tonta, tonta, tonta, un poco más de vinagre te he dicho, y un trapo limpio.) ¿Qué querías decirme, hijo mío?

Espátula no sabía ya por dónde comenzar. Apenas le salió de la boca el nombre de Ciancarella, una furia de malas palabras. Ante la alusión a la construcción de la capilla, vio a don Lagàipa maravillarse.

– ¿Una capilla?

– Sí, sí, señor: al Ecce Homo. Quisiera saber de vuestra reverencia si debo hacérsela.

– ¿Me lo preguntas a mí? Pedazo de asno, ¿qué le has respondido?

Espátula repitió cuanto le había dicho a Ciancarella y añadió algo que no había dicho, exaltándose con las alabanzas del cura guerrillero.

– ¡Muy bien! ¿Y él? ¡Qué jeta de perro!

– Que ha tenido un sueño, dice.

– ¡Embustero! ¡No vayas a creerle! ¡Embustero! Si Dios verdaderamente le hubiera hablado en sueños, le habría sugerido mejor que ayudara un poco a esos pobres de los Lechuga, a los que no quiere reconocer como parientes solo porque son devotos y fieles a nosotros, mientras protege a los Montoro, ¿comprendes?, a esos ateos socialistas, a quienes les dejará todas sus riquezas. Basta. ¿Qué quieres de mí? Hazle la capilla. Si no se la haces tú, se la hará otro. Para nosotros, además, estará siempre bien que un pecador dé señales de querer de algún modo reconciliarse con Dios. ¡Embustero! ¡Jeta de perro!

Ya en casa, Espátula, durante todo ese día, dibujó capillas. Por la noche fue a proveerse de los materiales, dos peones, un muchacho calero. Y al día siguiente, al alba, puso manos a la obra.

V

La gente que pasaba a pie o a caballo o con los carros por la avenida polvorienta se paraba a preguntarle a Espátula qué estaba haciendo.

– Una capilla.

– ¿Quién te la ha encargado?

Y él, apesadumbrado, levantando al cielo un dedo:

– El Ecce Homo.

No respondió de otro modo durante todo el tiempo que duró la obra. La gente reía o se encogía de hombros.

– ¿Justo aquí? – le preguntaba alguno, sin embargo, mirando hacia la cancela de la mansión. A nadie se le ocurría que el notario pudiera haber encargado esa capilla: todos, por el contrario, ignorando que aquel trozo de tierra pertenecía también a Ciancarella, y conociendo el fanatismo religioso de Espátula, pensaban que éste, ya por encargo del obispo o por deseo de la Sociedad Católica, construía ahí la capilla para contrariar al usurero. Y se reían.

Mientras tanto, como si Dios verdaderamente estuviese indignado con esa obra, le sucedieron a Espátula, en el trabajo, todas las desgracias. Primero, cuatro días tuvo que excavar hasta encontrar tierra firme para los cimientos; luego, peleas allí en la cantera por la piedra; peleas por la cal; peleas con el tejero, y, en fin, al colocar la cimbra para construir el arco, se cae la cimbra y de milagro no mata al muchacho calero.

Por último, la bomba. Ciancarella, precisamente el día en que Espátula tenía que enseñarle la capilla completamente terminada, un ataque de apoplejía, de los genuinos, y en tres horas, muerto.

Nadie entonces pudo quitarle de la cabeza a Espátula que esa muerte imprevista del notario era el castigo de Dios indignado. Pero no creyó, al principio, que el desdén divino debía precipitarse también sobre él, que, – aunque de mala gana – se había entregado a la edificación de esa obra maldita.

Lo creyó cuando, habiendo ido a casa de los Montoro, herederos del notario, para cobrar su trabajo, vio que le respondían que ellos no sabían nada y que no querían, por tanto, reconocer aquella deuda que no constaba en ningún documento.

– ¿Cómo? – exclamó Espátula. – ¿Y la capilla, pues, para quién la he hecho yo?

– Para el Ecce Homo.

– ¿Por mi propia voluntad?

– Oh, en suma, – le dijeron esos, para quitárselo de en medio. – Nosotros creemos que no respetamos la memoria de nuestro tío si suponemos un solo momento que él haya podido de verdad encargarte algo tan contrario a su modo de pensar y de sentir. No se deduce de nada. ¿Qué quieres, pues, de nosotros? Quédate con la capilla; y, si no estás de acuerdo, recurre al tribunal.

Enseguida, ¿cómo no?, recurrió al tribunal, Espátula. ¿Podía quizás perder? ¿Podían quizás los jueces creer en serio que él había construido por su propia voluntad una capilla? Y además estaba el criado que podía testimoniar, el criado de Ciancarella precisamente, que había ido a llamarlo por encargo de su señor; y estaba don Lagàipa, a quien le había pedido consejo el mismo día; y estaba su mujer además, a quien se lo había dicho, y los obreros que habían trabajado con él durante todo aquel tiempo. ¿Como podía perder?

Perdió, perdió, sí, señores. Perdió, porque el criado de Ciancarella, que había pasado al servicio de los Montoro, fue a declarar que ciertamente había llamado a Espátula por encargo del señor, que en paz descanse; pero no ciertamente porque el señor, que en paz descanse, hubiera ideado encargarle la construcción de esa capilla, sino porque el jardinero, ahora muerto, (¡mira qué coincidencia!) le había dicho que Espátula tenía la intención de construir una capilla precisamente allí, frente a la cancela, y había querido advertirle que el terreno al otro lado de la cancela de la avenida le pertenecía, y que, por tanto, se guardara de construir allí tamaña estupidez. Añadió que incluso, habiéndole dicho un día al señor, que en paz descanse, que Espátula, a pesar de la prohibición, estaba excavando allí con tres obreros, el señor, que en paz descanse, le había respondido:

– Pues déjalo excavar, ¿no sabes que está loco? ¡A lo mejor busca el tesoro para terminar la iglesia de Santa Catalina! – De nada sirvió el testimonio de don Lagàipa, notoriamente inspirador de tantas otras locuras de Espátula. ¿Qué más? Los mismos obreros declararon que nunca habían visto a Ciancarella y que el jornal lo habían recibido siempre del maestro de obras.

Espátula escapó de la sala del tribunal como fuera de sí; no tanto por la pérdida de su capitalito, tirado allí, en la erección de esa capilla; no tanto por los gastos del proceso a los que, por añadidura, había sido condenado; cuanto por el hundimiento de su fe en la justicia divina.

– Pero, entonces, – iba diciendo -, ¿entonces, ya no existe Dios?

Instigado por don Lagàipa, apeló. Fue la ruina. El día en que le llegó la noticia de que también en el Tribunal de apelación había perdido, Espátula ni chistó: con el dinero que le había quedado en el bolsillo compró un metro y medio de franela roja, tres sacos viejos y volvió a casa.

– ¡Hazme una túnica! – le dijo a la mujer, tirándole los tres saco a la falda.

La mujer lo miró, como si no hubiera entendido.

– ¿Qué quieres hacer?

– Te he dicho que me hagas una túnica… ¿no? Me la hago solo.

En menos que se diga, abrió los sacos y los pegó a lo largo; le hizo al de arriba una hendidura delante; con el tercer saco hizo las mangas y las cosió alrededor de dos agujeros realizados en el primer saco, al que le cerró un poco la boca acá y allá, de modo que quedase una parte abierta para el cuello. Hizo un lío con ella, cogió la franela roja y, sin saludar a nadie, se fue.

Una hora después se difundió por todo el pueblo la noticia de que Espátula, enloquecido, había sustituido a la estatua de Cristo en la columna, allá, en la capilla nueva, en la avenida, frente a la mansión de Ciancarella.

– ¿Cómo que ocupa el lugar? ¿Qué quiere decir esto?

– ¡Pues sí, él, de Cristo, allá dentro de la capilla!

– ¿De verdad?

– ¡De verdad!

Y todo el pueblo corrió a verlo dentro de la capilla, detrás de la cancela, ensacado en esa túnica con las marcas del tendero aún estampadas allí, la franela roja sobre los hombros como una capa, una corona de espinas en la cabeza, una caña en la mano.

Tenía la cabeza baja, doblada hacia un lado y la mirada en el suelo. No se descompuso mínimamente ni ante las risas ni ante los silbidos ni ante los gritos endiablados de la muchedumbre que crecía poco a poco. Más de un pilluelo le tiró una cáscara; bastantes, allí, delante de él, le lanzaron crudelísimas injurias: él, sordo, inmóvil, como una verdadera estatua; solo que movía de vez en cuando los párpados.

No lograron moverlo ni los ruegos, primero, ni las imprecaciones, después, de la mujer, que había acudido con las mujeres del vecindario, ni el llanto de los hijos. Fue necesaria la intervención de dos guardias que, para poner fin a esa algazara, forzaron la cancela de la capilla y arrestaron a Espátula.

– ¡Dejadme en paz! ¿Quién puede ser más Cristo que yo? – se puso entonces a gritar Espátula, forcejeando. – ¿No veis cómo se burlan de mí y cómo me injurian? ¿Quién puede ser más Cristo que yo? ¡Dejadme! ¡Esta es mi casa! ¡Me la he hecho yo, con mi dinero y con mis manos! ¡Me he dejado en ella la sangre! ¡Dejadme, judíos!

Pero esos judíos no quisieron dejarlo antes de la noche.

– ¡A casa! – le ordenó el delegado. ¡A casa, y juicio, cuidado!

– Sí, señor Pilatos, – le respondió Espátula, inclinándose.

Y, a escondidas, volvió a la capilla; de nuevo allí, se vistió de Cristo; allí pasó toda la noche, y ya no se movió.

Lo tentaron con el hambre. Lo tentaron con el miedo, con el escarnio. En vano.

Finalmente lo dejaron tranquilo, como a un pobre loco que no hacía daño a nadie.

VI

Ahora hay quien le lleva aceite para la lámpara; hay quien le lleva de comer o de beber; alguna mujercita, lentamente, comienza a llamarlo santo y va a recomendarse para que rece por ella y por los suyos; otra le ha llevado una túnica nueva, menos basta, y le ha pedido a cambio tres números para la lotería.

Los carreteros que pasan de noche por la avenida se han acostumbrado a esa lamparita que arde en el tabernáculo, y la ven desde lejos con placer; se paran un poco allí delante, a hablar con el pobre Cristo, que sonríe benévolamente ante algún chiste de ellos; luego se van; el ruido de los carros se apaga poco a poco en el silencio, y el pobre Cristo se vuelve a dormir, o baja a hacer sus necesidades detrás de la pared, sin pensar en ese momento que está vestido de Cristo, con la túnica de saco y la capa de franela roja.

A menudo, sin embargo, algún grillo, atraído por la luz, se le echa encima y lo despierta de sobresalto. Entonces vuelve a rezar; pero no es raro el caso en que, durante la oración, otro grillo, el antiguo grillo cantarín se despierte aún en él. Espátula se quita de la frente la corona de espinas, a la que ya se ha acostumbrado, y – rascándose ahí, donde las espinas le han dejado la señal – con los ojos perdidos, vuelve a silbar:

– Fififí… fififí… fififí 

1.5 Difesa del Mèola
(Tonache di Montelusa)

Ho tanto raccomandato ai miei concittadini di Montelusa di non condannare cosí a occhi chiusi il Mèola, se non vogliono macchiarsi della piú nera ingratitudine.

Il Mèola ha rubato.

Il Mèola s’è arricchito.

Il Mèola probabilmente domani si metterà a far l’usurajo.

Sí. Ma pensiamo, signori miei, a chi e perché ha rubato il Mèola. Pensiamo che è niente il bene che il Mèola ha fatto a se stesso rubando, se lo confrontiamo col bene che da quel suo furto è derivato alla nostra amatissima Montelusa.

Io per me non so tollerare in pace che i miei concittadini, riconoscendo da un canto questo bene, seguitino dall’altro a condannare il Mèola e a rendergli se non proprio impossibile, difficilissima la vita nel nostro paese.

Ragion per cui m’appello al giudizio di quanti sono in Italia liberali equanimi e ben pensanti.

Un incubo orrendo gravava su tutti noi Montelusani, da undici anni: dal giorno nefasto che Monsignor Vitangelo Partanna, per istanze e mali uffizii di potenti prelati a Roma, ottenne il nostro vescovado.

Avvezzi com’eravamo da tempo al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza dell’Eccell.mo nostro Monsignor Vivaldi (Dio l’abbia in gloria!), tutti noi Montelusani ci sentimmo stringere il cuore, allorché vedemmo per la prima volta scendere dall’alto e vetusto Palazzo Vescovile, a piedi tra i due segretarii, incontro al sorriso della nostra perenne primavera, lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo: alto, curvo su la sua trista magrezza, proteso il collo, le tumide e livide labbra in fuori, nello sforzo di tener ritta la faccia incartapecorita, con gli occhialacci neri su l’adunco naso.

I due segretarii, il vecchio don Antonio Sclepis, zio del Mèola, e il giovane don Arturo Filomarino (che durò poco in carica), si tenevano un passo indietro e andavano interiti e come sospesi, consci dell’orribile impressione che Sua Eccellenza destava in tutta la cittadinanza.

E infatti parve a tutti che il cielo, il gajo aspetto della nostra bianca cittadina s’oscurassero a quell’apparizione ispida, lugubre. Un brulichío sommesso, quasi di raccapriccio, si propagò al passaggio di lui per tutti gli alberi del lungo e ridente viale del Paradiso, vanto della nostra Montelusa, terminato laggiú da due azzurri: quello aspro e denso del mare, quello tenue e vano del cielo.

Difetto precipuo di noi Montelusani è senza dubbio l’impressionabilità. Le impressioni, a cui andiamo cosí facilmente soggetti, possono a lungo su le nostre opinioni, su i nostri sentimenti, e ci inducono nell’animo mutamenti sensibilissimi e durevoli.

Un vescovo a piedi? Da che il Vescovado sedeva lassú come una fortezza in cima al paese, tutti i Montelusani avevan sempre veduto scendere in carrozza i loro vescovi al viale del Paradiso. Ma vescovado, disse Monsignor Partanna fin dal primo giorno, insediandosi, è nome d’opera e non d’onore. E smise la vettura, licenziò cocchieri e lacchè, vendette cavalli e paramenti, inaugurando la piú gretta tirchieria.

Pensammo dapprima:

«Vorrà fare economia. Ha molti parenti poveri nella sua nativa Pisanello.»

Se non che, venne un giorno da Pisanello a Montelusa uno di questi parenti poveri, un suo fratello appunto, padre di nove figliuoli, a pregarlo in ginocchio a mani giunte, come si pregano i santi, perché gli desse ajuto, tanto almeno da pagare i medici che dovevano operar la moglie moribonda. Non volle dargli nemmeno da pagarsi il ritorno a Pisanello. E lo vedemmo tutti, sentimmo tutti quel che disse il pover’uomo con gli occhi gonfi di lagrime e la voce rotta dai singhiozzi nel Caffè di Pedoca, appena sceso dal Vescovado.

 

Ora, la Diocesi di Montelusa – è bene saperlo – è tra le piú ricche d’Italia.

Che voleva fare Monsignor Partanna con le rendite di essa, se negava con tanta durezza un cosí urgente soccorso a’ suoi di Pisanello?

Marco Mèola ci svelò il segreto.

L’ho presente (potrei dipingerlo), quella mattina che ci chiamò tutti, noi liberali di Montelusa, nella piazza innanzi al Caffè Pedoca. Gli tremavano le mani; le ciocche ricciute della testa leonina, rizzandosi, lo costringevano piú del solito a rincalcarsi con manate furiose il cappelluccio floscio, che non gli vuol mai sedere in capo. Era pallido e fiero. Un fremito di sdegno gli arricciava il naso di tratto in tratto.

Vive orrenda tuttora negli animi dei vecchi Montelusani la memoria della corruzione seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione, dei Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati da essi negli anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s’eran fatti strumento.

Ebbene, i Liguorini, i Liguorini voleva far tornare a Montelusa Monsignor Partanna, i Liguorini cacciati a furia di popolo quando scoppiò la rivoluzione.

Per questo egli accumulava le rendite della Diocesi.

Ed era una sfida a noi Montelusani, che il fervido amore della libertà non avevamo potuto dimostrare altrimenti, che con quella cacciata di frati, giacché, al primo annunzio dell’entrata di Garibaldi a Palermo, s’era squagliata la sbirraglia, e con essa la scarsa soldatesca borbonica di presidio a Montelusa.

Quell’unico nostro vanto voleva dunque fiaccare Monsignor Partanna.

Ci guardammo tutti negli occhi, frementi d’ira e di sdegno. Bisognava a ogni costo impedire che un tal proposito si riducesse a effetto. Ma come impedirlo?

Parve che da quel giorno il cielo s’incavernasse su Montelusa. La città prese il lutto. Il Vescovado lassú, ove colui covava il reo disegno e di giorno in giorno ne avvicinava l’attuazione, ce lo sentimmo tutti come un macigno sul petto.

Nessuno, allora, pur sapendo che Marco Mèola era nipote dello Sclepis, segretario del vescovo, dubitava della sua fede liberale. Tutti anzi ammiravano la sua forza d’animo quasi eroica, comprendendo di quanta amarezza dovesse in fondo esser cagione quella fede per lui, allevato e cresciuto come un figliuolo da quello zio prete.

I miei concittadini di Montelusa mi domandano adesso con aria di scherno:

– Ma se veramente gli sapeva di sale il pane dello zio prete, perché non si allibertava lavorando?

E dimenticano che, per esser scappato, giovinetto, dal seminario, lo Sclepis, che lo voleva a ogni costo prete come lui, lo aveva tolto dagli studii; dimenticano che tutti allora compiangevamo amaramente che per la bizza d’una chierica stizzita si dovesse perdere un ingegno di quella sorte.

Io ricordo bene che cori d’approvazione e che applausi e quanta ammirazione, allorché, sfidando i fulmini del Vescovado e l’indignazione e la vendetta dello zio, Marco Mèola, facendosi cattedra d’un tavolino del Caffè Pedoca, si mise per un’ora al giorno a commentare ai Montelusani le opere latine e volgari di Alfonso Maria de’ Liguori, segnatamente i Discorsi sacri e morali per tutte le domeniche dell’anno e Il libro delle Glorie di Maria.

Ma noi vogliamo far scontare al Mèola le frodi della nostra illusione, le aberrazioni della nostra deplorabilissima impressionabilità.

Quando il Mèola, un giorno, con aria truce, levando una mano e ponendosela poi sul petto, ci disse: – «Signori, io prometto e giuro che i liguorini non torneranno a Montelusa!» – voi, Montelusani, voleste per forza immaginare non so che diavolerie: mine, bombe, agguati, assalti notturni al Vescovado e Marco Mèola come Pietro Micca con la miccia in mano pronto a far saltare in aria vescovo e Liguorini.

Ora questo, con buona pace e sopportazione vostra, vuol dire avere una concezione dell’eroe alquanto grottesca. Con tali mezzi avrebbe potuto mai il Mèola liberar Montelusa dalla calata dei Liguorini? Il vero eroismo consiste nel sapere attemprare i mezzi all’impresa.

E Marco Mèola seppe.

 

Sonavano nell’aria che inebriava, satura di tutte le fragranze della nuova primavera, le campane delle chiese, tra i gridi festivi delle rondini guizzanti a frotte nel luminoso ardore di quel vespero indimenticabile.

Io e il Mèola passeggiavamo per il nostro viale del Paradiso, muti e assorti nei nostri pensieri.

Il Mèola a un tratto si fermò e sorrise.

– Senti, – mi disse. – queste campane piú prossime? Sono della badia di Sant’Anna. Se tu sapessi chi le suona!

– Chi le suona?

– Tre campane, tre colombelle!

Mi voltai a guardarlo, stupito del tono e dell’aria con cui aveva proferito quelle parole.

– Tre monache?

Negò col capo, e mi fe’ cenno d’attendere.

– Ascolta, – soggiunse piano. – Ora, appena tutt’e tre finiranno di sonare, l’ultima, la campanella piú piccola e piú argentina, batterà tre tocchi, timidi. Ecco… ascolta bene!

Difatti, lontano, nel silenzio del cielo, rintoccò tre volte – din din din – quella timida campanella argentina, e parve che il suono di quei tre tintinni si fondesse beato nell’aurea luminosità del crepuscolo.

– Hai inteso? – mi domandò il Mèola. – Questi tre rintocchi dicono a un felice mortale: «Io penso a te!».

Tornai a guardarlo. Aveva socchiuso gli occhi, per sospirare, e alzato il mento. Sotto la folta barba crespa gli s’intravedeva il collo taurino, bianco come l’avorio.

– Marco! – gli gridai, scotendolo per un braccio.

Egli allora scoppiò a ridere; poi, aggrottando le ciglia, mormorò:

– Mi sacrifico, amico mio, mi sacrifico! Ma sta’ pur sicuro che i Liguorini non torneranno a Montelusa.

Non potei strappargli altro di bocca per molto tempo.

Che relazione poteva esserci tra quei tre rintocchi di campana, che dicevano Io penso a te, e i Liguorini che non dovevano tornare a Montelusa? E a qual sacrifizio s’era votato il Mèola per non farli tornare?

Sapevo che nella badia di Sant’Anna egli aveva una zia, sorella dello Sclepis e della madre; sapevo che tutte le monache delle cinque badie di Montelusa odiavano anch’esse cordialmente Monsignor Partanna, perché appena insediatosi vescovo, aveva dato per esse tre disposizioni, una piú dell’altra crudele:

1ª che non dovessero piú né preparare né vendere dolci o rosolii (quei buoni dolci di miele e di pasta reale, infiocchettati e avvolti in fili d’argento! quei buoni rosolii, che sapevano d’anice e di cannella!);

2ª che non dovessero piú ricamare (neanche arredi e paramenti sacri), ma far soltanto la calzetta;

3ª che non dovessero piú avere, in fine, un confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità.

Che pianti, che angoscia disperata in tutte e cinque le badie di Montelusa, specialmente per quest’ultima disposizione! che maneggi per farla revocare!

Ma Monsignor Partanna era stato irremovibile. Forse aveva giurato a se stesso di far tutto il contrario di quel che aveva fatto il suo Eccell.mo Predecessore. Largo e cordiale con le monache, Monsignor Vivaldi (Dio l’abbia in gloria!), si recava a visitarle almeno una volta la settimana, e accettava di gran cuore i loro trattamenti, lodandone la squisitezza, e si intratteneva a lungo con esse in lieti e onesti conversari.

Monsignor Partanna, invece, non si era mai recato piú d’una volta al mese in questa o in quella badia, sempre accompagnato dai due segretarii, arcigno e duro, e non aveva mai voluto accettare, non che una tazza di caffè, neppure un bicchier d’acqua. Quante riprensioni avevano dovuto fare alle monache e alle educande le madri badesse e le vicarie per ridurle all’obbedienza e farle scendere giú nel parlatorio, quando la portinaja per annunziar la visita di Monsignore strappava a lungo la catena del campanello che strillava come un cagnolino a cui qualcuno avesse pestato una piota! Ma se le spaventava tutte con quei segnacci di croce! con quella vociaccia borbottante: – Santa, figlia, – in risposta al saluto che ciascuna gli porgeva, facendosi innanzi alla doppia grata, col viso vermiglio e gli occhi bassi:

– Vostra Eccellenza benedica!

Nessun discorso, che non fosse di chiesa. Il giovine segretario don Arturo Filomarino aveva perduto il posto per aver promesso un giorno nel parlatorio di Sant’Anna alle educande e alle monacelle piú giovani, che se lo mangiavano con gli occhi dalle grate, una pianticina di fragole da piantare nel giardino della badia.

Odiava ferocemente le donne, Monsignor Partanna. E la donna, la donna piú pericolosa, la donna umile, tenera e fedele, egli scopriva sotto il manto e le bende della monaca. Perciò ogni risposta che dava loro era come un colpo di ferula su le dita. Marco Mèola sapeva, per via dello zio segretario, di quest’odio di Monsignor Partanna per le donne. E quest’odio gli parve troppo e che, come tale, dovesse avere una ragione recondita e particolare nell’animo e nel passato di Monsignore. Si mise a cercare; ma presto troncò le ricerche, all’arrivo misterioso di una nuova educanda alla badia di Sant’Anna, d’una povera gobbetta che non poteva neanche reggere sul collo la grossa testa dai grandi occhi ovati nella macilenza squallida del viso. Questa gobbetta era nipote di Monsignor Partanna; ma una nipote di cui non sapevano nulla i parenti di Pisanello. E difatti non era arrivata da Pisanello, ma da un altro paese dell’interno, ove alcuni anni addietro il Partanna era stato parroco.

Lo stesso giorno dell’arrivo di questa nuova educanda alla badia di Sant’Anna, Marco Mèola gridò solennemente in piazza a tutti noi compagni della sua fede liberale:

– Signori, io prometto e giuro che i Liguorini non torneranno a Montelusa.

E vedemmo, stupiti, subito dopo quel giuramento solenne, cambiar vita a Marco Mèola; lo vedemmo ogni domenica e in tutte le feste del calendario ecclesiastico entrare in chiesa e sentirsi la messa; lo vedemmo a passeggio in compagnia di preti e di vecchi bigotti; lo vedemmo in gran faccende ogni qual volta si preparavano le visite pastorali nella Diocesi, che Monsignor Partanna faceva con la massima vigilanza a’ tempi voluti dai Canoni, non ostante la gran difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni e di veicoli; e lo vedemmo con lo zio far parte del seguito in quelle visite.

Tuttavia, io non volli – io solo – credere a un tradimento da parte del Mèola. Come rispose egli ai primi nostri rimproveri, alle prime nostre rimostranze? Rispose energicamente:

– Signori, lasciatemi fare!

Voi scrollaste le spalle, indignati; diffidaste di lui; credeste e gridaste al voltafaccia. Io seguitai a essergli amico e mi ebbi da lui in quel vespro indimenticabile, quando la timida campanella argentina sonò i tre rintocchi nel cielo luminoso, quella mezza confessione misteriosa.

Marco Mèola, che non era mai andato piú di una volta l’anno a visitare quella sua zia monaca a Sant’Anna, cominciò a visitarla ogni settimana in compagnia della madre. La zia monaca, nella badia di Sant’Anna, era preposta alla sorveglianza delle tre educande. Le tre educande, le tre colombelle, volevano molto bene alla loro maestra; la seguivano per tutto come i pulcini la chioccia; la seguivano anche quand’essa era chiamata in parlatorio per la visita della sorella e del nipote.

E un giorno si vide il miracolo, Monsignor Partanna, che aveva negato alle monache di quella badia la licenza, che esse avevano sempre avuta, di entrare due volte l’anno in chiesa, la mattina, a porte chiuse, per pararla con le loro mani nelle ricorrenze del Corpus Domini e della Madonna del Lume, tolse il veto, riconcesse la licenza, per le preghiere insistenti delle tre educande e segnatamente della sua nipote, quella povera gobbetta nuova arrivata.

Veramente, il miracolo si vide dopo: quando venne la festa della Madonna del Lume.

La sera della vigilia, Marco Mèola si nascose nella chiesa, a tradimento, e dormí nel confessionale del Padre della comunità. All’alba, una vettura era pronta nella piazzetta innanzi alla badia; e quando le tre educande, due belle e vivaci come rondinine in amore, l’altra gobba e asmatica, scesero con la loro maestra a parar l’altare della Madonna del Lume…

Ecco, voi dite: il Mèola ha rubato; il Mèola s’è arricchito; il Mèola probabilmente domani si metterà a far l’usurajo. Sí. Ma pensate, signori miei, pensate che di quelle tre educande non una delle due belle, ma la terza, la terza, quella misera sbiobbina asmatica e cisposa toccò a Marco Mèola di rapirsi, quand’era invece amato fervidamente anche dalle altre due! quella, proprio quella gobbetta, per impedire che i padri Liguorini tornassero a Montelusa.

Monsignor Partanna infatti – per costringere il Mèola alle nozze con la nipote rapita – dovette convertire in dote a questa nipote il fondo raccolto per il ritorno dei padri Liguorini. Monsignor Partanna è vecchio e non avrà piú tempo di rifare quel fondo.

Che aveva promesso Marco Mèola a noi liberali di Montelusa? Che i Liguorini non sarebbero tornati.

Ebbene, o signori, e non è certo ormai che i Liguorini non torneranno a Montelusa?

1.5 Defensa de Mèola
(Sotanas de Montelusa) [3]

Les he recomendado mucho a mis paisanos de Montelusa que no condenen a ciegas a Mèola, si no quieren mancharse con la más negra ingratitud.

Mèola ha robado.

Mèola se ha enriquecido.

Mèola probablemente mañana se pondrá a practicar la usura.

Sí. Pero pensemos, señores míos, a quién y por qué ha robado Mèola. Pensemos que no es nada el bien que Mèola se ha hecho a sí mismo al robar, si lo comparamos con el bien que de su robo se ha derivado para nuestra muy amada Montelusa.

Yo no puedo tolerar en paz que mis paisanos, reconociendo por un lado este bien, sigan por otro lado condenando a Mèola y haciéndole la vida en este pueblo si no imposible, sí muy difícil.

Razón por la que apelo al juicio de las personas liberales, ecuánimes y de buena fe que hay en Italia.

Una pesadilla horrenda pesaba sobre todos nosotros, los montelusanos, desde hacía once años: desde el día nefasto en que monseñor Vitangelo Partanna, a instancias y gracias a malos servicios de poderosos prelados de Roma, obtuvo nuestro obispado.

Habituados como estábamos desde hacía tiempo al fasto, a las maneras alegres y cordiales, a la abundante munificencia del Excmo. nuestro monseñor Vivaldi (¡Que Dios lo tenga en la gloria!), todos nosotros, los montelusanos, sentimos que se nos oprimía el corazón cuando vimos por primera vez bajar desde el alto y vetusto Palacio obispal, a pie entre dos secretarios, frente a la sonrisa de nuestra perenne primavera, el esqueleto engabanado de este obispo nuevo: alto, encorvado sobre su triste delgadez, inclinado el cuello, los hinchados y lívidos labios hacia fuera, con el esfuerzo de mantener derecha la cara de pergamino, con las gafas negras sobre la nariz aguileña.

Los dos secretarios, el viejo don Antonio Sclepis, tío de Mèola, y el joven don Arturo Filomarino (que duró poco en su cargo), estaban un paso detrás y caminaban rígidos y como suspendidos, conscientes de la horrible impresión que Su Excelencia causaba en todo el pueblo.

Y, de hecho, a todos les pareció que el cielo, el alegre aspecto de nuestra blanca ciudad se oscurecía ante aquella aparición hosca, lúgubre. Una agitación sorda, casi de espanto, se propagó a su paso por todos los árboles de la larga y sonriente alameda del Paraíso, orgullo de nuestra Montelusa, rematada por dos azules, el del mar, áspero y denso, y el del cielo, tenue y vano.

Defecto fundamental de nosotros, los montelusanos, es sin duda la impresionabilidad. Las impresiones con las que nos sugestionamos fácilmente vencen durante mucho tiempo a nuestras opiniones, a nuestros sentimientos,  y causan en nuestra alma cambios muy sensibles y duraderos.

¿Un obispo a pie? Desde que el obispado tenía su sede allá arriba como una fortaleza, encima del pueblo, todos los montelusanos habían visto siempre bajar en carroza a sus obispos hasta la alameda del Paraíso. Pero obispado, dijo monseñor Partanna desde el primer día, tomando posesión, es nombre de obra y no de honor. Y dejó la carroza, despidió a los cocheros y lacayos, vendió los caballos y paramentos, inaugurando las más estricta tacañería.

Pensamos al principio:

«Querrá ahorrar. Tiene muchos parientes pobres en su nativa Pisanello.»

Pero un día vino desde Pisanello a Montelusa uno de estos parientes pobres, precisamente un hermano suyo, padre de nueve hijos, a rogarle de rodillas y con las manos juntas, como se ruega a los santos,  que le prestara ayuda, la suficiente al menos como para pagar a los médicos que tenían que operar a la esposa moribunda. No quiso darle siquiera ni con que volver a Pisanello. Y lo vimos todos, todos escuchamos lo que dijo el pobre hombre, con los ojos arrasados de lágrimas y la voz rota por los sollozos, en el Café de Pedoca, apenas bajó del Obispado.

Ahora, la Diócesis de Montelusa – es bueno saberlo – está entre las más ricas de Italia.

¿Qué quería hacer monseñor Partanna con las rentas de ella, si negaba con tanta dureza un socorro tan urgente a su gente de Pisanello?

Marco Mèola nos reveló el secreto.

Lo tengo presente (podría pintarlo) la mañana en que nos llamó a todos, a los liberales de Montelusa, a la plaza delante del Café Pedoca. Le temblaban las manos; los mechones rizados de la cabeza leonina, al erizársele, lo obligaban más de lo normal a aplastarse a manotazos furiosos el sombrerucho flácido, que no quería nunca asentársele en la cabeza. Estaba pálido y furioso. Un temblor de desdén le arrugaba la nariz de vez en cuando.

Vive horrenda todavía en los ánimos de los viejos montelusanos la memoria de la corrupción sembrada en los campos y en todo el pueblo, con la predicación y la confesión, de los Padres Redentoristas,[4] y del espionaje, de las traiciones efectuadas por ellos en los años nefandos de la tiranía borbónica, de la que secretamente se habían hecho instrumento.

Pues bien, los Redentoristas, los Redentoristas quería monseñor Partanna que volvieran a Montelusa, los Redentoristas expulsados por la furia del pueblo cuando estalló la revolución. [5]

Para esto él acumulaba las rentas de la Diócesis.

Y era un desafío para nosotros, los montelusanos, que no habíamos podido mostrar de otro modo el ferviente amor por la libertad, sino con esa expulsión de los hermanos, ya que, a la primera noticia de la entrada de Garibaldi en Palermo, se había disuelto la pandilla de esbirros, y con ella la escasa soldadesca borbónica de presidio en Montelusa.

Ese nuestro único orgullo, pues, quería debilitar monseñor Partanna.

Todos nos miramos a los ojos, temblando de ira y de desdén. Era necesario a toda costa impedir que tal propósito se llevara a cabo. Pero ¿cómo impedirlo?

Pareció que desde aquel día el cielo se enterraba en Montelusa. La ciudad se puso de luto. El obispado, arriba, donde él urdía el plan, y día a día acercaba su realización, lo sentíamos todos como un peñasco sobre el pecho.

Nadie, entonces, incluso sabiendo que Marco Mèola era sobrino de Sclepis, secretario del obispo, dudaba de su fe liberal. Es más, todos admiraban su fuerza de ánimo casi heroica, comprendiendo de cuánta amargura tenía que ser en el fondo la razón de esa fe para él, criado y educado por ese tío cura.

Mis paisanos de Montelusa me preguntaban entonces con aire de broma:

– Pero si verdaderamente le sabía a sal el pan del tío cura, ¿por qué no se liberaba trabajando?

Y olvidan que, por haberse escapado muy joven del seminario, Sclepis, que lo quería a toda costa cura como él, lo había apartado de los estudios; olvidan que todos entonces lamentaban con amargura que por el capricho de un tonsurado airado se tuviese que perder un ingenio de tal suerte.

Recuerdo bien qué coros de aprobación y qué aplausos y cuánta admiración, entonces, desafiando los rayos del obispado y la indignación y la venganza del tío, Marco Mèola, sirviéndose de una mesa del café Pedoca, se puso una hora al día a comentarles a los montelusanos las obras latinas y vulgares de Alfonso María de Ligorio, señaladamente los Discursos sagrados y morales para todos los domingos del año y El libro de las Glorias de María.

Pero nosotros queremos que Mèola pague los engaños de nuestra ilusión, las aberraciones de nuestra muy deplorable impresionabilidad.

Cuando Mèola, un día, con aire feroz, levantando una mano y poniéndosela luego sobre el pecho, nos dijo: – «¡Señores, prometo y juro que los Redentoristas no volverán a Montelusa!» – vosotros, montelusanos, quisisteis a la fuerza imaginar no sé qué diabluras: minas, bombas, trampas, asaltos nocturnos al obispado, y a Marco Mèola como a Pedro Micca, [6] con la mecha en la mano, dispuesto para que saltaran por el aire obispo y Redentoristas.

Ahora esto, con todo el respeto y vuestra paciencia, quiere decir que tenéis una concepción del héroe bastante grotesca. ¿Con tales medios habría podido Mèola alguna vez liberar Montelusa de la invasión de los Redentoristas? El verdadero heroísmo consiste en saber adaptar los medios a la empresa.

Y Marco Mèola lo supo.

Sonaban en el aire embriagador, saturado de todas las fragancias de la nueva primavera, las campanas de las iglesias, entre los gritos festivos de las golondrinas frenéticas en bandadas en el luminoso ardor de esa víspera inolvidable.

Mèola y yo paseábamos por nuestra alameda del Paraíso, mudos y absortos en nuestros pensamientos.

Mèola de pronto se paró y sonrió.

– ¿Oyes – me dijo – estas campanas más próximas? Son de la abadía de Santa Ana. ¡Si supieras quién las toca!

– ¿Quién las toca?

– ¡Tres campanas, tres palomitas!

Me volví para mirarlo, asombrado por el tono y el aire con el que había pronunciado esas palabras.

– ¿Tres monjas?

Negó con la cabeza, y me indicó que esperara.

– Escucha, – añadió bajo. – Ahora, apenas las tres terminen de tocar, la última, la campanita más pequeña y más argentina, dará tres toques, tímidos. Ahí está… ¡escucha bien!

De hecho, lejos, en el silencio del cielo, resonó tres veces – din din din – esa tímida campanita argentina, y pareció que el sonido de los tres tintineos se fundía feliz con la dorada luminosidad del crepúsculo.

– ¿Has entendido? – me preguntó Mèola. – Estos tres toques le dicen a un feliz mortal: «¡Pienso en ti!».

Volví a mirarlo. Había cerrado los ojos, para suspirar, y había levantado la barbilla. Bajo la poblada barba crespa se entreveía el cuello robusto, blanco como el marfil.

– ¡Marco! – le grité, sacudiéndolo por un brazo.

Entonces él estalló de risa; luego, frunciendo las cejas, murmuró:

– ¡Me sacrifico, amigo mío, me sacrifico! Pero estáte seguro que los Redentoristas no vuelven a Montelusa.

No pude arrancarle nada más de la boca por mucho tiempo.

¿Qué relación podía haber entre esos tres toques de campana, que decían «Pienso en ti», y los Redentoristas que no debían volver a Montelusa? ¿Y cuál era el sacrificio por el que se había inmolado Mèola para no permitir que regresaran?

Sabía que en la abadía de Santa Ana tenía una tía, hermana de Sclepis y de su madre; sabía que todas las monjas de las cinco abadías de Montelusa odiaban también de corazón a monseñor Partanna, porque apenas había tomado posesión del obispado, había dado para ellas tres disposiciones, la una más cruel que la otra:

que ya no podían preparar ni vender dulces o licores (¡esos buenos dulces de miel y almendra, aderezados y envueltos en hilos de plata!, ¡esos buenos licores que sabían a anís y a canela!);

que ya no podían bordar (ni siquiera ajuares y paramentos sagrados), sino solo hacer punto;

que ya no podían tener, en fin, un confesor particular, sino que todas, sin distinción,  se servirían del Padre de la comunidad.

¡Cuántos llantos, cuánta angustia desesperada en las cinco abadías de Montelusa, especialmente por esta última disposición!, ¡cuántas intrigas para revocarla!

Pero monseñor Partanna había sido inflexible. Quizás se había jurado a sí mismo hacer todo lo contrario de lo que había hecho su Excmo. Predecesor. Generoso y cordial con las monjas, monseñor Vivaldi (¡Dios lo tenga en la Gloria!), se acercaba a visitarlas al menos una vez a la semana, y aceptaba de muy buena gana sus atenciones, alabando su exquisitez, y se entretenía largamente con ellas en alegres y honestas conversaciones.

Monseñor Partanna, en cambio, nunca se había acercado más de una vez al mes a esa o aquella abadía, siempre acompañado de los dos secretarios, distante y duro, y nunca había querido aceptar no ya una taza de café, sino ni siquiera un vaso de agua. ¡Cuántos reproches habían tenido que hacerles a las monjas y a las educandas las madres abadesas y las vicarias para que se redujesen a la obediencia y para que bajasen al locutorio, cuando la portera, para anunciar la visita de monseñor, sacudía largamente la cadena del campanario que chillaba como un perrito al que alguien le hubiera pisado una pata! ¡Pero si las espantaba a todas con aquellas señales de la cruz!, con aquel vozarrón confuso: – Santa, hija – en respuesta al saludo que cada una le dirigía, acercándose a la doble rejilla, con el rostro rojo y los ojos bajos:

– ¡Vuestra Excelencia me bendiga!

Ningún discurso que no fuera de iglesia. El joven secretario don Arturo Filomarino había perdido el puesto por haberles prometido un día, en el locutorio de Santa Ana, a las educandas y a las monjas más jóvenes, que a través de la rejilla se lo comían con los ojos, una plantita de fresas para plantarla en el jardín de la abadía.

Odiaba ferozmente a las mujeres, monseñor Partanna. Y la mujer, la mujer más peligrosa, la mujer humilde, tierna y fiel, él la descubría bajo el manto y los velos de la monja. Por ello, cada respuesta que les daba era como un golpe de férula en los dedos. Marco Mèola conocía, por su tío secretario, este odio de monseñor Partanna a las mujeres. Y este odio le pareció excesivo y que, como tal, tenía que haber una razón recóndita y particular en el alma y en el pasado de monseñor. Se puso a indagar; pero pronto cortó con las averiguaciones, tras la llegada misteriosa de una nueva educanda a la abadía de Santa Ana, de una pobre jorobadita que ni siquiera podía sostener en su cuello la gran cabeza de ojos ovalados en la debilidad escuálida del rostro. Esta jorobadita era sobrina de monseñor Partanna; pero una sobrina de la que nada sabían los parientes de Pisanello. Y, de hecho, no había venido de Pisanello, sino de otro pueblo del interior, donde hacía años Partanna había sido párroco

El mismo día de la llegada de esta nueva educanda a la abadía de Santa Ana, Marco Mèola nos gritó solemnemente en la plaza a todos nosotros, compañeros de su fe liberal:

– Señores, prometo y juro que los Redentoristas no volverán a Montelusa.

Y vimos, asombrados, poco después de aquel juramento solemne, que Mèola cambiaba de vida; lo vimos cada domingo y todas las fiestas del calendario eclesiástico entrar en la iglesia y escuchar misa; lo vimos de paseo en compañía de curas y viejos beatos; lo vimos muy atareado cada vez que se preparaban las visitas pastorales a la diócesis, que monseñor Partanna hacía con la máxima vigilancia en los tiempos requeridos por los Cánones, a pesar de la gran dificultad de las calles y  la falta de comunicaciones y de vehículos; y lo vimos con el tío tomar parte del séquito en aquellas visitas.

Sin embargo, yo no quise – yo solo – creer en una traición de Mèola. ¿Cómo respondió él a nuestros primeros reproches, a nuestros primeros lamentos? Respondió enérgicamente:

– Señores, ¡dejadme hacer!

Vosotros sacudisteis los hombros, indignados; desconfiasteis de él; os figurasteis y reprendisteis una traición. Yo seguí siendo su amigo y tuve de él esa víspera inolvidable, cuando la tímida campanita dio los tres toques en el cielo luminoso, esa media confesión misteriosa.

Marco Mèola, que nunca había ido más de una vez al año a visitar a esa tía suya monja a Santa Ana, comenzó a visitarla cada semana en compañía de la madre. La tía monja, en la abadía de Santa Ana, era la encargada de la vigilancia de las tres educandas. Las tres educandas, las tres palomitas, querían mucho a su maestra; la seguían siempre como los polluelos a la gallina; la seguían aun cuando a ella la llamaban al locutorio para la visita de la hermana y del sobrino.

Y un día se vio el milagro, monseñor Partanna, que les había negado a las monjas de esa abadía el permiso que ellas siempre habían tenido de entrar dos veces al año en la iglesia, por la mañana, a puertas cerradas, para adornarla con sus manos en las festividades del Corpus Christi y de la Virgen de la  Luz, levantó la prohibición, concedió de nuevo el permiso, ante los ruegos insistentes de las tres educandas y señaladamente de su sobrina, esa pobre jorobadita recién llegada.

Verdaderamente, el milagro se vio después, cuando llegó la fiesta de la Virgen de la Luz.

La tarde de la vigilia, Marco Mèola se escondió en la iglesia, a traición, y durmió en el confesionario del Padre de la comunidad. Al alba, un coche estaba preparado en la plaza delante de la abadía; y cuando las tres educandas, dos hermosas y vivaces como golondrinas enamoradas, la otra jorobada y asmática, bajaron con su maestra para adornar el altar de la Virgen de la Luz…

En fin, decís, Mèola ha robado; Mèola se ha enriquecido; Mèola probablemente mañana se pondrá a practicar la usura. Sí. ¡Pero, pensad, señores míos, pensad que de esas tres educandas no una de las dos hermosas, sino la tercera, la tercera, esa miserable raquítica asmática y legañosa, fue a la que que raptó Marco Mèola, cuando en cambio era amado fervientemente también por las otras dos!, esa, precisamente esa jorobadita, para impedir que los padres Redentoristas volvieran a Montelusa.

Monseñor Partanna, de hecho, – para obligar a Mèola a casarse con la sobrina raptada – debió convertir en dote de esta sobrina el fondo recogido para el regreso de los padres Redentoristas. Monseñor Partanna es viejo y ya no tendrá tiempo de volver a reunir ese fondo.

¿Qué nos había prometido Marco Mèola a los liberales de Montelusa? Que los Redentoristas no volverían.

Pues bien, señores, ¿y no está claro ya que los Redentoristas no volverán a Montelusa?

 

[3] Túnicas de Montelusa: Bajo este subtítulo se recogen este relato y los dos que siguen (Los afortunados y Visto que no llueve). Se trata de un tríptico anticlerical. Montelusa es un topónimo ficticio con el que se refiere a Agrigento.

[4] Comunidad religiosa fundada por Alfonso Maria dei Liguori en 1732. Agrigento fue uno de sus feudos.

[5] La insurrección antiborbónica que siguió al desembarco de 1860 de Los Mil en Sicilia.

[6] El soldado piamontés que en 1706, durante la guerra de sucesión española, salvó Turín, asediada por los franceses, sacrificando su propia vida al hacer que saltara una galería de acceso a la ciudadela.

1.6 I Fortunati
(Tonache di Montelusa)

Una commovente processione in casa del giovine sacerdote don Arturo Filomarino.

isite di condoglianza.

Tutto il vicinato stava a spiare dalle finestre e dagli usci di strada il portoncino stinto imporrito fasciato di lutto, che cosí, mezzo chiuso e mezzo aperto, pareva la faccia rugosa di un vecchio che strizzasse un occhio per accennar furbescamente a tutti quelli che entravano, dopo l’ultima uscita – piedi avanti e testa dietro – del padrone di casa.

La curiosità, con cui il vicinato stava a spiare, faceva nascere veramente il sospetto che quelle visite avessero un significato o, piuttosto, un intento ben diverso da quello che volevano mostrare.

A ogni visitatore che entrava nel portoncino, scattavano qua e là esclamazioni di meraviglia:

– Uh, anche questo?

– Chi, chi?

– L’ingegner Franci!

– Anche lui?

Eccolo là, entrava. Ma come? un massone? un trentatré? Sissignori, anche lui. E prima e dopo di lui, quel gobbo del dottor Niscemi, l’ateo, signori miei, l’ateo; e il repubblicano e libero pensatore avvocato Rocco Turrisi, e il notajo Scimè e il cavalier Preato e il commendator Tino Laspada, consigliere di prefettura, e anche i fratelli Morlesi che, appena seduti, poverini, come se avessero le anime avvelenate di sonno, si mettevano tutt’e quattro a dormire, e il barone Cerrella, anche il barone Cerrella: i meglio, insomma, i pezzi piú grossi di Montelusa: professionisti, impiegati, negozianti…

Don Arturo Filomarino era arrivato la sera avanti da Roma, dove, appena caduto in disgrazia di Monsignor Partanna, per la pianticina di fragole promessa alle monacelle di Sant’Anna, s’era recato a studiare per addottorarsi in lettere e filosofia. Un telegramma d’urgenza lo aveva richiamato a Montelusa per il padre colto da improvviso malore. Era arrivato troppo tardi. Neanche l’amara consolazione di rivederlo per l’ultima volta!

Le quattro sorelle maritate e i cognati, dopo averlo in fretta in furia ragguagliato della sciagura fulminea e avergli rinfacciato con certi versacci di sdegno, anzi di schifo, di abominazione, che i preti suoi colleghi di Montelusa avevano preteso dal moribondo ventimila lire, venti, ventimila lire per amministrargli i santi sacramenti, come se la buon’anima non avesse già donato abbastanza a opere pie, a congregazioni di carità, e lastricato di marmo due chiese, edificato altari, regalato statue e quadri di santi, profuso a piene mani denari per tutte le feste religiose; se n’erano andati via, sbuffanti, indignati, dichiarandosi stanchi morti di tutto quello che avevano fatto in quei due giorni tremendi; e lo avevano lasciato solo, là, solo, santo Dio, con la governante, piuttosto… sí, piuttosto giovine, che il padre, buon’anima, aveva avuto la debolezza di farsi venire ultimamente da Napoli, e che già con collosa amorevolezza lo chiamava don Arturí.

Per ogni cosa che gli andasse attraverso, don Arturo aveva preso il vezzo d’appuntir le labbra e soffiare a due, a tre riprese, pian piano, passandosi le punte delle dita su le sopracciglia. Ora, poverino, a ogni don Arturí…

Ah, quelle quattro sorelle! quelle quattro sorelle! Lo avevano sempre malvisto, fin da piccino, anzi propriamente non lo avevano mai potuto soffrire, forse perché unico maschio e ultimo nato, forse perché esse, poverette, erano tutt’e quattro brutte, una piú brutta dell’altra, mentre lui bello, fino fino, biondo e riccioluto. La sua bellezza doveva parer loro doppiamente superflua, sí perché uomo e sí perché destinato fin dall’infanzia, col piacer suo, al sacerdozio. Prevedeva che sarebbero avvenute scene disgustose, scandali e liti al momento della divisione ereditaria. Già i cognati avevano fatto apporre i suggelli alla cassaforte e alla scrivania nel banco del suocero, morto intestato.

Che c’entrava intanto rinfacciare a lui ciò che i ministri di Dio avevano stimato giusto e opportuno pretendere dal padre perché morisse da buon cristiano? Ahi, per quanto crudele potesse riuscire al suo cuore di figlio, doveva pur riconoscere che la buon’anima aveva per tanti anni esercitato l’usura e senza in parte neppur quella discrezione che può almeno attenuare il peccato. Vero è che con la stessa mano, con cui aveva tolto, aveva poi anche dato, e non poco. Non erano però, a dir proprio, denari suoi. E per questo appunto, forse, i sacerdoti di Montelusa avevano stimato necessario un altro sacrifizio, all’ultimo. Egli, da parte sua, s’era votato a Dio per espiare con la rinunzia ai beni della terra il gran peccato in cui il padre era vissuto e morto. E ora, per quel che gli sarebbe toccato dell’eredità paterna, era pieno di scrupoli e si proponeva di chieder lume e consiglio a qualche suo superiore, a Monsignor Landolina per esempio, direttore del Collegio degli Oblati, sant’uomo, già suo confessore, di cui conosceva bene l’esemplare, fervidissimo zelo di carità.

Tutte quelle visite, intanto, lo imbarazzavano.

Per quel che volevano parere, data la qualità dei personaggi, rappresentavano per lui un onore immeritato; per il fine recondito che le guidava, un avvilimento crudele.

Temeva quasi d’offendere a ringraziare per quell’apparenza d’onore che gli si faceva; a non ringraziare affatto, temeva di scoprir troppo il proprio avvilimento e d’apparir doppiamente sgarbato.

D’altra parte, non sapeva bene che cosa gli volessero dire tutti quei signori, né che cosa doveva rispondere, né come regolarsi. Se sbagliava? se commetteva, senza volerlo, senza saperlo, qualche mancanza?

Egli voleva ubbidire ai suoi superiori, sempre e in tutto. Cosí, ancor senza consiglio, si sentiva proprio sperduto in mezzo a quella folla.

Prese dunque il partito di sprofondarsi su un divanuccio sgangherato in fondo allo stanzone polveroso e sguarnito, quasi bujo, e di fingersi almeno in principio cosí disfatto dal cordoglio e dallo strapazzo del viaggio, da non potere accogliere se non in silenzio tutte quelle visite.

Dal canto loro i visitatori, dopo avergli stretto la mano, sospirando e con gli occhi chiusi, si mettevano a sedere giro giro lungo le pareti e nessuno fiatava e tutti parevano immersi in quel gran cordoglio del figlio. Schivavano intanto di guardarsi l’un l’altro, come se a ciascuno facesse stizza che gli altri fossero venuti là a dimostrare la sua stessa condoglianza.

Non pareva l’ora, a tutti, di andarsene, ma ognuno aspettava che prima se n’andassero via gli altri, per dir sottovoce, a quattr’occhi, una parolina a don Arturo.

E in tal modo nessuno se ne andava.

Lo stanzone era già pieno e i nuovi arrivati non trovavan piú posto da sedere e tutti gonfiavano in silenzio e invidiavano i fratelli Morlesi che almeno non s’avvedevano del tempo che passava, perché, al solito, appena seduti, s’erano addormentati tutt’e quattro profondamente.

Alla fine, sbuffando, s’alzò per primo, o piuttosto scese dalla seggiola il barone Cerrella, piccolo e tondo come una balla, e dri dri dri, con un irritatissimo sgrigliolío delle scarpe di coppale, andò fino al divanuccio, si chinò verso don Arturo, e gli disse piano:

– Con permesso, padre Filomarino, una preghiera.

Quantunque abbattuto, don Arturo balzò in piedi:

– Eccomi, signor barone!

E lo accompagnò, attraversando tutto lo stanzone, fino alla saletta d’ingresso. Ritornò poco dopo, soffiando, a sprofondarsi nel divanuccio; ma non passarono due minuti, che un altro si alzò e venne a ripetergli:

– Con permesso, padre Filomarino, una preghiera.

Dato l’esempio, cominciò la sfilata. A uno a uno, di due minuti in due minuti, s’alzavano, e… ma dopo cinque o sei, don Arturo non aspettò piú che venissero a pregarlo fino al divanuccio in fondo allo stanzone; appena vedeva uno alzarsi, accorreva pronto e servizievole e lo accompagnava fino alla saletta.

Per uno che se n’andava però, ne sopravvenivano altri due o tre alla volta, e quel supplizio minacciava di non aver piú fine per tutta la giornata.

Fortunatamente, quando furono le tre del pomeriggio, non venne piú nessuno. Restavano nello stanzone soltanto i fratelli Morlesi, seduti uno accanto all’altro, tutt’e quattro nella stessa positura, col capo ciondoloni sul petto.

Dormivano lí da circa cinque ore.

Don Arturo non si reggeva piú su le gambe. Indicò con un gesto disperato alla giovine governante napoletana quei quattro dormienti là.

– Voi andate a mangiare, don Arturí, – disse quella.

– Mo’ ci pens’io.

Svegliati, però, dopo aver volto un bel po’ in giro gli occhi sbarrati e rossi di sonno per raccapezzarsi, i fratelli Morlesi vollero dire anch’essi la parolina in confidenza a don Arturo, e invano questi si provò a far loro intendere che non ce n’era bisogno; che già aveva capito e che avrebbe fatto di tutto per contentarli, come gli altri, fin dove gli sarebbe stato possibile. I fratelli Morlesi non volevano soltanto pregarlo come tutti gli altri di fare in modo che venisse a lui la loro cambiale nella divisione dei crediti per non cadere sotto le grinfie degli altri eredi; avevano anche da fargli notare che la loro cambiale non era già, come figurava, di mille lire, ma di sole cinquecento.

– E come? perché? – domandò, ingenua-mente, don Arturo.

Si misero a rispondergli tutt’e quattro insieme, correggendosi a vicenda e ajutandosi l’un l’altro a condurre a fine il discorso:

– Perché suo papà, buon’anima, purtroppo…

– No, purtroppo… per… per eccesso di…

– Di prudenza, ecco!

– Già, ecco… ci disse, firmate per mille…

– E tant’è vero che gli interessi…

– Come risulterà dal registro…

– Interessi del ventiquattro, don Arturí! del ventiquattro! del ventiquattro!

– Glieli abbiamo pagati soltanto per cinquecento lire, puntualmente, fino al quindici del mese scorso.

– Risulterà dal registro…

Don Arturo, come se da quelle parole sentisse ventar le fiamme dell’inferno, appuntiva le labbra e soffiava, passandosi la punta delle mani immacolate su le sopracciglia.

Si dimostrò grato della fiducia che essi, come tutti gli altri, riponevano in lui, e lasciò intravedere anche a loro quasi la speranza che egli, da buon sacerdote, non avrebbe preteso la restituzione di quei denari.

Contentarli tutti, purtroppo, non poteva: gli eredi erano cinque, e dunque a piacer suo egli non avrebbe potuto disporre che di un quinto dell’eredità.

Quando in paese si venne a sapere che don Arturo Filomarino, in casa dell’avvocato scelto per la divisione ereditaria, discutendo con gli altri eredi circa gli innumerevoli crediti cambiarii, non si era voluto contentare della proposta dei cognati, che fosse cioè nominato per essi un liquidatore di comune fiducia, il quale a mano a mano, concedendo umanamente comporti e rinnovazioni, li liquidasse agli interessi piú che onesti del cinque per cento, mentreil meno che il suocero soleva pretendere era del ventiquattro; piú che piú si raffermò in tutti i debitori la speranza che egli generosamente, con atto da vero cristiano e degno ministro di Dio, avrebbe non solo abbonato del tutto gl’interessi a quelli che avrebbero avuto la fortuna di cadere in sua mano, ma fors’anche rimessi e condonati i debiti.

E fu una nuova processione alla casa di lui. Tutti pregavano, tutti scongiuravano per esser compresi tra i fortunati, e non rifinivano di porgli sotto gli occhi e di fargli toccar con mano le miserande piaghe della loro esistenza.

Don Arturo non sapeva piú come schermirsi; aveva le labbra indolenzite dal tanto soffiare; non trovava un minuto di tempo, assediato com’era, per correre da Monsignor Landolina a consigliarsi; e gli pareva mill’anni di ritornarsene a Roma a studiare. Aveva vissuto sempre per lo studio, lui, ignaro affatto di tutte le cose del mondo.

Quando alla fine fu fatta la difficilissima ripartizione di tutti i crediti cambiarii, ed egli ebbe in mano il pacco delle cambiali che gli erano toccate, senza neppur vedere di chi fossero per non rimpiangere gli esclusi, senza neppur contare a quanto ammontassero, si recò al Collegio degli Oblati per rimettersi in tutto e per tutto al giudizio di Monsignor Landolina.

Il consiglio di questo sarebbe stato legge per lui.

     

Il Collegio degli Oblati sorgeva nel punto piú alto del paese ed era un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie; tutto bianco, all’incontro, arioso e luminoso, dentro.

Vi erano accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparavano le varie arti e i varii mestieri.

La disciplina era dura, segnatamente sotto Monsignor Landolina, e quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantavano al suono dell’organo nella chiesina del Collegio, le loro preghiere sapevan di pianto e, a udirle da giú, provenienti da quella fabbrica fosca nell’altura, accoravano come un lamento di carcerati.

Monsignor Landolina non pareva affatto che dovesse avere in sé tanta forza di dominio e cosí dura energia.

Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se la gran luce di quella bianca ariosa cameretta in cui viveva, lo avesse non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avesse reso le mani d’una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le palpebre piú esili d’un velo di cipolla.

Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.

– Oh Arturo! – disse, vedendo entrare il giovine: e, come questi gli si buttò sul petto piangendo:

– Ah, già! un gran dolore… Bene bene, figliuolo mio! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio! Tu sai com’io sono per tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Il dolore ti salva, figliuolo! E tu, per tua ventura, hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh… fece tanto, tanto male! Sia il tuo cilizio, figliuolo, il pensiero di tuo padre. E di’, quella donna? quella donna? Tu l’hai ancora in casa?

– Andrà via domani, Monsignore, – s’affrettò a rispondergli don Arturo, finendo d’asciugarsi le lagrime. – Ha dovuto preparar le sue robe…

– Bene bene, subito via, subito via. Che hai da dirmi, figliuolo mio?

Don Arturo trasse fuori il pacco delle cambiali, e subito cominciò a esporre il piato per esse coi parenti, e le visite e le lamentazioni delle vittime.

Ma Monsignor Landolina, come se quelle cambiali fossero armi diaboliche o immagini oscene, appena gli occhi si posavano su esse, tirava indietro il capo e muoveva convulsamente tutte le dita delle gracili mani diafane, quasi per paura di scottarsele, non già a toccarle, ma a vederle soltanto, e diceva al Filomarino che le teneva su le ginocchia:

– Non lí sull’abito, caro, non lí sull’abito…

Don Arturo fece per posarle su la seggiola accanto.

– Ma no, ma no… per carità, dove le posi? Non tenerle in mano, caro, non tenerle in mano…

– E allora? – domandò sospeso, perplesso, avvilito, don Arturo, anche lui con un viso disgustato e tenendole con due dita e scostando le altre, come se veramente avesse in mano un oggetto schifoso.

– Per terra, per terra, – gli suggerí Monsignor Landolina. – Caro mio, un sacerdote, tu intendi…

Don Arturo, tutto invermigliato in volto, le posò per terra e disse:

Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.

– Avevo pensato, Monsignore, di restituirle a quei poveri disgraziati…

– Disgraziati? No, perché? – lo interruppe subito Monsignor Landolina. – Chi ti dice che sono disgraziati?

– Mah… – fece don Arturo. – Il solo fatto, Monsignore, che han dovuto ricorrere a un prestito…

– I vizii, caro, i vizii! – esclamò Monsignor Landolina. – Le donne, la gola, le triste ambizioni, l’incontinenza… Che disgraziati! Gente viziosa, caro, gente viziosa. Vuoi darla a conoscere a me? Tu sei ragazzo inesperto. Non ti fidare. Piangono, si sa! È cosí facile piangere… Difficile è non peccare! Peccano allegramente; e, dopo aver peccato, piangono. Va’ va’! Te li insegno io quali sono i veri disgraziati, caro, poiché Dio t’ha ispirato a venir da me. Sono tutti questi ragazzi sotto la mia custodia qua, frutto delle colpe e dell’infamia di codesti tuoi signori disgraziati. Da’ qua, da’ qua!

E, chinandosi, con le mani fe’ cenno al Filomarino di raccattar da terra il fascio delle cambiali.

Don Arturo lo guardò, titubante. Come, ora sí? Doveva prenderle con le mani?

– Vuoi disfartene? Prendile! Prendile! – s’affrettò a rassicurarlo Monsignor Landolina. – Prendile pure con le mani, sí! Leveremo subito da esse il sigillo del demonio, e le faremo strumento di carità. Puoi ben toccarle ora, se debbono servire per i miei poverini! Tu le dai a me, eh? Le dai a me; e li faremo pagare, li faremo pagare, caro mio; vedrai se li faremo pagare, codesti tuoi signori disgraziati!

Rise, cosí dicendo, d’un riso senza suono, con le bianche labbra appuntite e con uno scotimento fitto fitto del capo.

Don Arturo avvertí, a quel riso, come un friggío per tutto il corpo, e soffiò. Ma di fronte alla sicurezza sbrigativa con cui il superiore si prendeva quei crediti a titolo di carità, non ardí replicare. Pensò a tutti quegli infelici, che si stimavano fortunati d’esser caduti in sua mano e tanto lo avevano pregato e tanto commosso col racconto delle loro miserie. Cercò di salvarli almeno dal pagamento degli interessi.

– E no! E perché? – gli diede subito su la voce Monsignor Landolina. – Dio si serve di tutto, caro mio, per le sue opere di misericordia! Di’ un po’, di’ un po’, che interessi faceva tuo padre? Eh, forti, lo so! Almeno del ventiquattro, mi par d’aver inteso. Bene; li tratteremo tutti con la stessa misura. Pagheranno tutti il ventiquattro per cento.

– Ma… sa, Monsignore… veramente, ecco… – balbettò don Arturo su le spine, – i miei coeredi, Monsignore, hanno stabilito di liquidare i loro crediti con gl’interessi del cinque, e…

– Fanno bene! ah! fanno bene! – esclamò pronto e persuaso Monsignor Landolina. – Loro sí, benissimo, perché questo è denaro che va a loro! Il nostro no, invece. Il nostro andrà ai poveri, figliuolo mio! Il caso è ben diverso, come vedi! È denaro che va ai poveri, il nostro; non a te, non a me! Ti pare che faremmo bene noi, se defraudassimo i poveri di quanto possono pretendere secondo il minimo dei patti stabiliti da tuo padre? Sian pur patti d’usura, li santifica adesso la carità! No no! Pagheranno, pagheranno gli interessi, altro che! gl’interessi del ventiquattro. Non vengono a te; non vengono a me! Denaro dei poveri, sacrosanto! Va’ pur via senza scrupoli, figliuolo mio; ritorna subito a Roma ai tuoi diletti studii, e lascia fare a me, qua. Tratterò io con codesti signori. Denaro dei poveri, denaro dei poveri… Dio ti benedica, figliuolo mio! Dio ti benedica!

E Monsignor Landolina, animato da quell’esemplare, fervidissimo zelo di carità, di cui meritamente godeva fama, arrivò fino al punto di non voler neppure riconoscere che la cambiale dei quattro poveri fratelli Morlesi che dormivano sempre, firmata per mille, fosse in realtà di cinquecento lire; e pretese da loro, come da tutti gli altri, gl’interessi del ventiquattro per cento anche su le cinquecento lire che non avevano mai avute.

E li voleva per giunta convincere, filando tra le labbra bianche que’ suoi grumetti di biascia, che fortunati erano davvero, fortunati, fortunati di fare, anche nolenti, un’opera di carità, di cui certamente il Signore avrebbe loro tenuto conto un giorno, nel mondo di là…

Piangevano?

– Eh! Il dolore vi salva, figliuoli!

1.6 Los afortunados
(Sotanas de Montelusa)

Una conmovedora procesión en casa del joven sacerdote don Arturo Filomarino.

Visitas de pésame.

Toda la vecindad estaba espiando, por las ventanas y puertas de la calle, el portoncito desteñido y podrido con una cinta de luto que así, medio cerrado y medio abierto, parecía la cara arrugada de un viejo que guiñaba un ojo para señalarles astutamente a todos los que entraban, después de la última salida – pies hacia delante y cabeza hacia atrás – del señor de la casa.

La curiosidad con que la vecindad espiaba hacía que naciera verdaderamente la sospecha de que aquellas visitas tenían un significado o, mejor dicho, una intención muy diferente de la que querían mostrar.

A cada visitante que entraba por el portoncito, se le escapaba acá y allá exclamaciones de maravilla:

-¡Uf!, ¿también este?

– ¿Quién, quién?

– ¡El ingeniero Franci!

– ¿También él?

Helo ahí que entraba. Pero ¿cómo?, ¿un masón?, ¿uno del treinta y tres? [7] Sí, señores, también él. Y antes y después de él, ese jorobado del doctor Niscemi, el ateo, señores míos, el ateo; y el republicano y libre pensador, el abogado Rocco Turrisi, y el notario Scimè y el caballero Preato y el comendador Tino Laspada, consejero de la comisaría de policía, e incluso los hermanos Morlesi que, apenas sentados, pobrecitos, como si tuvieran las almas envenenadas de sueño, se quedaban los cuatro dormidos, y el barón Cerrella, incluso el barón Cerrella: lo mejor, en definitiva, los peces gordos de Montelusa: profesionales, empleados, comerciantes…

Don Arturo Filomarino había llegado la tarde anterior de Roma, adonde, apenas caído en desgracia del monseñor Partanna, por la plantita de fresas prometida a las monjitas de Santa Ana, se había dirigido para estudiar y doctorarse en letras y filosofía. Un telegrama urgente lo había llamado a Montelusa porque el padre se había sentido mal de imprevisto. Había llegado demasiado tarde. ¡Ni siquiera el amargo consuelo de volver a verlo por última vez!

Las cuatro hermanas casadas y los cuñados, después de haberlo puesto al corriente deprisa y corriendo de la desgracia fulminante y de haberle reprochado con ciertas burlas de desdén que sus compañeros, los curas de Montelusa, habían pretendido del moribundo veinte mil liras, veinte, veinte mil liras para administrarle los santos sacramentos, como si el difunto no hubiese donado ya bastante a obras piadosas, a congregaciones de caridad, y pavimentado con mármol dos iglesias, edificado altares, regalado estatuas y cuadros de santos, ofrendado a manos llenas para todas las fiestas religiosas; se habían ido resoplando, indignados, declarándose muertos de cansancio por todo lo que habían hecho esos dos días tremendos; y lo habían dejado allí solo, allí, solo, Santo Dios, con la criada, ante todo… sí, ante todo joven, a la que el padre, que en paz descanse, había tenido la debilidad de llamar últimamente de Nápoles, y que ya con melosa ternura lo llamaba don Arturí.

Ante cada cosa que le iba mal, don Arturo había cogido la costumbre de apuntar los labios y soplar dos o tres veces, lentamente, pasándose las puntas de los dedos por las cejas. Ahora, pobrecito, a cada don Arturí…

¡Ay, esas cuatro hermanas!, ¡esas cuatro hermanas! Siempre lo habían mirado mal, desde pequeño, es más, justo no habían podido soportarlo nunca, quizás porque era el único varón y el último nacido, quizás porque ellas, pobrecitas, eran las cuatro feas, una más fea que la otra, mientras que él era hermoso, finísimo, de pelo rubio y rizado. Su hermosura tenía que parecerles a ellas doblemente superflua, porque era hombre y porque estaba destinado desde la infancia, con su consentimiento, al sacerdocio. Preveía que se producirían escenas amargas, escándalos y peleas en el momento del reparto de la herencia. Ya los cuñados habían ordenado que sellaran la caja fuerte y el escritorio del banco del suegro, muerto sin testamento.

¿Qué tenía que ver él, mientras tanto, para que le reprocharan lo que los ministros de Dios habían considerado justo y oportuno pretender del padre para que muriese como un buen cristiano? Ay, por muy cruel que pudiera resultarle a su corazón de hijo, tenía, sin embargo, que reconocer que el difunto había practicado durante muchos años la usura, y sin ni siquiera esa discreción que puede al menos atenuar el pecado. Verdad es que con la misma mano con la que había quitado, había luego también dado, y no poco. No era, sin embargo, a decir la verdad, dinero suyo. Y precisamente por esto, quizás, los sacerdotes de Montelusa habían considerado necesario otro sacrificio, en el último momento. Él, por su parte, se había consagrado a Dios para expiar, con la renuncia a los bienes de la tierra, el gran pecado en el que el padre había vivido y muerto. Y ahora, con respecto a lo que le tocaría de la herencia paterna, estaba lleno de escrúpulos y se proponía pedirle luz y consejo a algún superior, a monseñor Landolina, por ejemplo, director del Colegio de los oblatos, hombre santo, antes confesor suyo, cuyo ejemplar y muy fervoroso esmero caritativo conocía bien.

Todas esas visitas, entretanto, lo turbaban.

Por lo que pretendían parecer, dada la calidad de los personajes, representaban para él un honor inmerecido; por el fin recóndito que los guiaba, una humillación cruel.

Temía casi ofender si agradecía esa apariencia de honor que se le hacía; si, en cambio, no lo agradecía nada, temía mostrar demasiado su humillación y parecer doblemente descortés.

Por otra parte, no sabía bien qué querían decirle todos aquellos señores, ni qué debía responder, ni cómo comportarse. ¿Y si se equivocaba?, ¿y si incurría, sin querer, sin saber, en algún fallo?

Él quería obedecer a sus superiores, siempre y en todo. Así, todavía sin consejo, se sentía precisamente perdido en medio de ese gentío.

Tomó, pues, el partido de hundirse en un sofalucho desvencijado al fondo del salón polvoriento y desguarnecido, casi oscuro, y mostrarse al menos en principio tan deshecho por la aflicción y por la fatiga del viaje, como para no poder acoger sino en silencio todas aquellas visitas.

Por su parte, los visitantes, tras haberle estrechado la mano, suspirando y con los ojos cerrados, se sentaban a lo largo de las paredes, y ninguno abría la boca, y todos parecían inmersos en esa gran aflicción del hijo. Evitaban mirarse, entretanto, los unos a los otros, como si a cada uno le encolerizara que los otros hubieran venido allí a demostrar su misma condolencia.

No veían la hora de irse, pero cada uno esperaba que antes se fueran los otros, para decirle bajo, cara a cara, una palabra a don Arturo.

Y así, ninguno se iba.

El salón ya estaba lleno y los recién llegados no encontraban ningún sitio donde sentarse y todos se inflamaban en silencio y envidiaban a los hermanos Morlesi que, al menos, no se daban cuenta del tiempo que pasaba porque, como siempre, apenas sentados, los cuatro se habían dormido profundamente.

Al fin, resoplando, se levantó el primero, o mejor, bajó de la silla el barón Cerrella, pequeño y redondo como una pelota, y cri cri cri, con un irritadísimo crujido de los zapatos de charol, fue hasta el sofalucho, se inclinó ante don Arturo y le dijo en voz baja:

– Con permiso, padre Filomarino, un ruego.

Aunque abatido, don Arturo se puso en pie:

– ¡Vamos, señor barón!

Y lo acompañó, atravesando todo el salón, hasta la entrada. Regresó poco después, soplando, a hundirse en el sofalucho; pero no pasaron dos minutos antes de que otro se levantara y viniera a repetirle:

– Con permiso, padre Filomarino, un ruego.

Dado el ejemplo, comenzó el desfile. Uno a uno, cada dos minutos, se levantaban, y… pero tras cinco o seis, don Arturo no esperó ya que vinieran a pedírselo hasta el sofalucho al fondo del salón; apenas veía que uno se levantaba, acudía pronto y servicial y lo acompañaba hasta la salita.

Por cada uno que se iba, sin embargo, se añadían otros dos o tres a la vez, y ese suplicio amenazaba con no tener fin en todo el día.

Afortunadamente, cuando fueron las tres de mediodía, ya no vino nadie. Quedaban en el salón solo los hermanos Morlesi, sentados uno al lado del otro, los cuatro en la misma posición, con la cabeza caída sobre el pecho.

Dormían allí desde hacía cerca de cinco horas.

Don Arturo no se mantenía ya sobre las piernas. Le indicó con un gesto desesperado a la joven criada napolitana los cuatro durmientes.

– ¿Usted va a comer, don Arturí? – dijo ella.

– Ahora pienso en eso.

Despertados, sin embargo, tras haber echado una mirada a su alrededor con los ojos cerrados y rojos de sueño para encontrarse, los hermanos Morlesi quisieron decirle también a don Arturo una palabra en confidencia, y en vano este intentó hacerles entender que no era necesario; que ya había comprendido y que haría todo por complacerlos, como a los otros, todo cuanto le fuera posible. Los hermanos Morlesi no querían solo rogarle, como los demás, que intentara que su letra le tocara a él en el reparto de los créditos para no caer en las garras de los otros herederos; también tenían que hacerle ver que su letra no era ya, como figuraba, de mil liras, sino solo de quinientas.

– ¿Y cómo?, ¿por qué? – preguntó, ingenuamente, don Arturo.

Se pusieron a responderle los cuatro juntos, corrigiéndose mutuamente y ayudándose para dar fin al discurso.

– Porque su papá, que en paz descanse, por desgracia…

– No, por desgracia… por… por exceso…

– De prudencia, ¡eso es!

– Ya, claro… nos dijo, firmad por mil…

– Ya, verdad es que los intereses…

– Como constará en el registro…

– ¡Intereses del veinticuatro, don Arturí!, ¡del veinticuatro!, ¡del veinticuatro!

– Se los hemos pagado solo por quinientas liras, puntualmente, hasta el quince del mes pasado.

– Constará en el registro…

Don Arturo, como si en esas palabras oyese que se agitaban las llamas del infierno, apuntaba los labios y soplaba, pasándose la punta de las manos inmaculadas por las cejas.

Se mostró agradecido ante la confianza que ellos, como los demás, ponían en él, y les dejó entrever también a ellos casi la esperanza de que él, como buen sacerdote, no pretendería la restitución de ese dinero.

Complacerlos a todos, desgraciadamente, no podía: los herederos eran cinco, y por tanto él no podría disponer a su gusto sino de una quinta parte de la herencia.

Cuando en el pueblo se supo que don Arturo Filomarino, en casa del abogado elegido para el reparto de la herencia, discutiendo con los otros herederos acerca de las innumerables letras, no había querido contentarse con la propuesta de los cuñados, a saber, que se nombrara a un liquidador de común confianza que poco a poco, concediendo humanamente aplazamientos y renovaciones, las liquidara al interés más que honesto del cinco por ciento, mientras que lo menos que el suegro pretendía era el veinticuatro, más que nunca se reforzó en todos los deudores la esperanza de que él, generosamente, como verdadero cristiano y digno ministro de Dios, no solo les descontaría completamente los intereses a quienes tuvieran la suerte de caer en sus manos, sino que quizás incluso les perdonaría y les condonaría las deudas.

Y fue una nueva procesión a su casa. Todos rogaban, todos suplicaban para ser incluidos entre los afortunados, y no acababan de ponerle ante sus ojos y de hacerle tocar con sus propias manos las lastimosas llagas de su existencia.

Don Arturo no sabía cómo defenderse; tenía los labios doloridos de tanto soplar; no encontraba un minuto de tiempo, asediado como estaba, para ir a pedirle consejo a monseñor Landolina, y le parecía que faltaban mil años para volver a Roma a estudiar. Había vivido siempre para el estudio, él, ignorante completamente de todas las cosas del mundo.

Cuando al final se hizo el dificilísimo reparto de todas las letras, y él tuvo en sus manos el montón de letras que le tocaron, sin siquiera ver de quiénes eran para no sufrir por los excluidos, sin siquiera contar a cuánto ascendían, se dirigió al Colegio de los oblados para someterse, en todo y para todo, al juicio de monseñor Landolina.

El consejo de este sería una ley para él.

El Colegio de los oblados se levantaba en el punto más alto del pueblo y era un vasto, antiquísimo edificio cuadrado y tenebroso por fuera, roído completamente por el tiempo y la intemperie; completamente blanco, por el contrario, aireado y luminoso, dentro.

Estaban allí acogidos huérfanos y bastardos de toda la provincia, de seis a diecinueve años, y allí aprendían las distintas artes y los distintos oficios.

La disciplina era dura, señaladamente bajo monseñor Landolina, y cuando esos pobres oblados, por la mañana y por la tarde, cantaban acompañados por el órgano en la capilla del Colegio, sus oraciones sabían a llanto y, al escucharlos desde abajo, provenientes de esa fábrica tenebrosa en la altura, afligían como un lamento de prisioneros.

Monseñor Landolina no parecía en modo alguno que tuviera en sí tanta fuerza de dominio y tan dura energía.

Era un cura alto y delgado, casi diáfano, como si con la gran luz de esa blanca y aireada habitación en que vivía no solo hubiera perdido el color, sino incluso se hubiera enrarecido, y se le hubieran vuelto las manos de una gracilidad temblorosa y casi transparente y, sobre los ojos claros ovalados, los párpados, más sutiles que una binza de cebolla.

Temblorosa y descolorida tenía también la voz, y vanas, las sonrisas sobre los largos labios blancos, entre los cuales a menudo asomaba alguna gota de saliva.

– ¡Oh, Arturo! – dijo al ver entrar al joven; y, como este se le echó en el pecho:

– ¡Ah, claro! Un gran dolor… ¡Bien, bien, hijo mío! Un gran dolor, me gusta. ¡Dale gracias a Dios! Tú sabes cómo soy para todos los estúpidos que no quieren sufrir. ¡El dolor te salva, hijo! Y tú, por suerte, tienes mucho, mucho que sufrir, pensando en tu padre que, pobrecito, eh… ¡hizo tanto, tanto mal! Que sea tu cilicio, hijo, el recuerdo de tu padre. Y dime, esa mujer, esa mujer, ¿aún la tienes en casa?

– Se irá mañana, monseñor – se apresuró a responderle don Arturo, acabando de secarse las lágrimas. – Ha tenido que preparar sus cosas…

– Bien, bien, que se vaya pronto, que se vaya pronto. ¿Qué quieres decirme, hijo?

Don Arturo sacó el montón de letras, y enseguida empezó a exponerle la disputa por ellas con los parientes, y las visitas y los lamentos de las víctimas.

Pero monseñor Landolina, como si esas letras fueran armas diabólicas o imágenes obscenas, apenas sus ojos se posaban sobre ellas, echaba hacia atrás la cabeza y movía convulsamente todos los dedos de sus gráciles manos diáfanas, casi con miedo de quemarse, no al tocarlas, sino solo al verlas, y le decía a Filomarino que las tenía sobre las rodillas:

– Ahí sobre el hábito, no, querido, ahí sobre el hábito, no…

Don Arturo se dispuso a colocarlas sobre la silla de al lado.

– Que no, que no… por caridad, ¿dónde las pones? No las tengas en la mano, querido, no las tengas en la mano…

– ¿Entonces? – preguntó confuso, perplejo, humillado, don Arturo, también él con el rostro disgustado y sujetándolas con dos dedos y separando los otros, como si verdaderamente tuviera en la mano un objeto asqueroso.

– En el suelo, en el suelo, – le sugirió monseñor Landolina.- Querido, un sacerdote, tú lo comprendes…

Don Arturo, con la cara completamente roja, las colocó en el suelo y dijo:

– Había pensado, monseñor, devolvérselas a esos pobres desgraciados…

– ¿Desgraciados? No, ¿por qué? – lo interrumpió enseguida monseñor Landolina. – ¿Quién te ha dicho que son desgraciados?

– Pues… – dijo don Arturo. – Solo el hecho de que, monseñor, han tenido que recurrir a un préstamo…

– ¡Los vicios, querido, los vicios! – exclamó monseñor Landolina. – Las mujeres, la gula, las tristes ambiciones, la incontinencia… ¡Qué desgraciados! Gente viciosa, querido, gente viciosa. ¿Quieres enseñarme a mí? Tú eres un muchacho inexperto. No te fíes. Lloran, ¡pues claro! Es tan fácil llorar… ¡Lo difícil es no pecar! Pecan alegremente; y, después de pecar, lloran. ¡Vamos, vamos! Te muestro yo enseguida quiénes son los verdaderos desgraciados, querido, puesto que Dios te ha inspirado para que vengas aquí. Son todos estos muchachos que están bajo mi custodia, fruto de las culpas y de la infamia de estos señores desgraciados tuyos. ¡Trae, trae!

E, inclinándose, con las manos le indicó a Filomarino que recogiera del suelo el montón de letras.

Don Arturo lo miró, titubeante. ¿Cómo?, ¿ahora, sí? ¿Tenía que cogerlas con las manos?

– ¿Quieres librarte de ellas? ¡Cógelas! ¡Cógelas! – se apresuró a tranquilizarlo monseñor Landolina. – ¡Cógelas con las manos, sí! Les quitaremos enseguida el sello del demonio, y las haremos instrumento de caridad. ¡Ahora, bien puedes tocarlas, si tienen que servirles a mis pobres! Me las das, ¿no? Me las das; y los haremos pagar, los haremos pagar, querido; ¡verás si haremos que paguen estos desgraciados señores tuyos!

Y se rio mientras decía esto, con una risa sin sonido, con los labios blancos apuntados y con una sacudida continua de la cabeza.

Don Arturo notó, ante esa risa, como un temblor por todo el cuerpo, y sopló. Pero frente a la seguridad audaz con que el superior cogía esas letras a título de caridad, no osó replicar. Pensó en todos esos infelices que se creían afortunados por haber caído en sus manos y que tanto le habían rogado y tanto le habían conmovido con la historia de sus miserias. Intentó salvarlos de pagar los intereses.

– ¡Pues no! ¿Por qué? – le llegó la voz de monseñor Landolina. – ¡Dios se sirve de todo, querido mío, para sus obras de misericordia! Dime, dime, ¿qué interés fijaba tu padre? ¡Eh, muy alto, lo sé! Al menos del veinticuatro, creo haber oído. Bien; los trataremos a todos de igual modo. Todos pagarán el veinticuatro por ciento.

– Pero… sabe, monseñor… verdaderamente, pues… – farfulló don Arturo desazonado, – mis familiares, monseñor, han decidido liquidar sus créditos al interés del cinco, y…

– ¡Y hacen bien, claro, hacen bien! – exclamó preparado y persuadido monseñor Landolina. – ¡Ellos, sí, muy bien, porque este dinero es para ellos! El nuestro, en cambio, no. ¡El nuestro será para los pobres, hijo mío! ¡El caso es muy diferente, como ves!  ¡Es dinero de los pobres, el nuestro; no tuyo ni mío! ¿Te parece que actuaríamos bien si les quitáramos a los pobres cuanto pueden pretender según el mínimo de los pactos establecidos por tu padre? ¡Si son pactos de usura, ahora los santifica la caridad! ¡No, no! Pagarán, pagarán los intereses, ¡faltaría más!, los intereses del veinticuatro. ¡No son para ti; no son para mí! ¡Dinero sagrado de los pobres! Vete sin escrúpulos, hijo mío; vuelve pronto a Roma, a tus queridos estudios, y déjame hacer a mí, aquí. Trataré yo con estos señores. Dinero de los pobres, dinero de los pobres… ¡Dios te bendiga, hijo mío! ¡Dios te bendiga!

Y monseñor Landolina, animado por ese ejemplar y muy ferviente esmero caritativo, del que merecidamente tenía fama, llegó hasta el punto de no querer ni siquiera reconocer que la letra de los cuatro pobres hermanos Morlesi que dormían siempre, firmada por mil, era en realidad de quinientas liras; y pretendió de ellos, como de todos los demás, los intereses del veinticuatro por ciento incluso sobre las quinientas liras que nunca habían recibido.

Y, además, quería convencerlos, mientras le asomaban a los labios blancos esas gotas suyas de saliva, que eran afortunados verdaderamente, afortunados de hacer, aun contra su voluntad, una obra de caridad, que ciertamente el Señor tendría en cuenta algún día, en el mundo de allá…

¿Lloraban?

– ¡Eh! ¡El dolor os salva, hijos!

[7] Del grado trigésimo tercero de la Masonería de rito escocés antiguo.

1.7 Visto che non piove…
(Tonache di Montelusa)

Era ogni anno una sopraffazione indegna, una sconcia prepotenza di tutto il contadiname di Montelusa contro i poveri canonici della nostra gloriosa Cattedrale.

La statua della SS. Immacolata, custodita tutto l’anno dentro un armadio a muro nella sagrestia della chiesa di S. Francesco d’Assisi, il giorno otto dicembre, tutta parata d’ori e di gemme, col manto azzurro di seta stellato d’argento, dopo le solenni funzioni in chiesa, era condotta sul fercolo in processione per le erte vie di Montelusa, tra le vecchie casupole screpolate, pigiate, quasi l’una sull’altra; sú, sú, fino alla Cattedrale in cima al colle; e lí lasciata, la sera, ospite del patrono S. Gerlando.

Nella Cattedrale, la SS. Immacolata avrebbe dovuto rimanere dalla sera del giovedí alla mattina della domenica: due giorni e mezzo. Ma ormai, per consuetudine, parendo troppo breve questo tempo, si lasciava stare per quella prima domenica dopo la festa, e si aspettava la domenica seguente per ricondurla con una nuova e piú pomposa processione alla chiesa di S. Francesco.

Se non che, quasi ogni anno avveniva che il trasporto, quella seconda domenica, non si potesse fare per il cattivo tempo e si dovesse rimandare a un’altra domenica; e, di domenica in domenica, talvolta per piú mesi di seguito.

Ora, questo prolungamento d’ospitalità, per se stesso, non sarebbe stato niente, se la SS. Immacolata non avesse goduto per antichissimo privilegio d’una prebenda durante tutto il tempo della sua permanenza alla Cattedrale. Per tutti i giorni che la SS. Immacolata vi stava, era come se nel Capitolo ci fosse un canonico in piú: tirava, su le esequie e su tutto, proprio quanto un canonico; e i deputati della Congregazione sorvegliavano con tanto d’occhi perché nulla Le fosse detratto di quanto Le spettava, affinché piú splendida, anche coi frutti di quella prebenda, potesse ogni anno riuscire la festa in Suo onore. Questo, oltre a tutte le altre spese che gravavano sul Capitolo per quella permanenza; spese e fatiche: cioè, funzioni ogni giorno, ogni giorno predica, e spari di mortaretti e di razzi e, anche per il povero sagrestano, lunghe scampanate tutte le mattine e tutte le sere.

Forse, per amore della SS. Vergine, i canonici della Cattedrale avrebbero sopportato in pace e sottrazione e spese e fatiche, se nel contadiname di Montelusa non si fosse radicata la credenza che la SS. Immacolata volesse rimanere nella Cattedrale uno e due mesi a loro marcio dispetto; e che essi ogni anno pregassero a mani giunte il cielo che non piovesse almeno la domenica che si doveva fare il trasporto.

Giusto in quel tempo accadeva che i contadini per i loro seminati non fossero mai paghi dell’acqua che il cielo mandava; e se davvero qualche anno non pioveva, ecco che la colpa era dei canonici della Cattedrale, a cui non pareva l’ora di levarsi d’addosso la SS. Immacolata.

Ebbene, a lungo andare e a furia di sentirselo ripetere, i canonici della Cattedrale in verità s’erano presi a dispetto, non propriamente la Vergine, ma quegli zotici villanacci, e piú quei mezzi signori della Congregazione che, non contenti di tener desta nell’animo dei contadini quella sconcia credenza del loro dispetto per la Vergine, spingevano la tracotanza fino a spedirne tre o quattro ogni sabato, sul far della sera, tra i piú sfrontati, su alla piazza innanzi alla Cattedrale, con l’incarico di mettersi a passeggiare con le mani dietro la schiena e il naso all’aria, in attesa che uno del Capitolo uscisse dalla chiesa, per domandargli con un riso scemo su le labbra:

– Scusi, signor Canonico, che prevede? pioverà o non pioverà domani?

Era, come si vede, anche un’intollerabile irriverenza.

Monsignor Partanna avrebbe dovuto farla cessare a ogni costo. Tanto piú ch’era notorio a tutti che quei fratelloni della Congregazione, nella frenesia di far denari comunque, arrivavano fino a speculare indegnamente su la Madonna, mettendo anche in pegno alla banca cattolica di San Gaetano gli ori, le gemme e finanche il manto stellato, che la Madonna aveva ricevuto in dono dai fedeli divoti.

Monsignor Vescovo avrebbe dovuto ordinare che il ritorno della SS. Immacolata alla chiesa di San Francesco non andasse mai oltre la seconda domenica dopo la festa, comunque fosse il tempo, piovesse o non piovesse. Tanto, non c’era pericolo che si bagnasse sotto il magnifico baldacchino sorretto a turno dai seminaristi di piú robusta complessione.

Erano invece le donne dei contadini, le femmine dei popolo o – come ripetevano i reverendi canonici del Capitolo – le sgualdrinelle, le sgualdrinelle, che avevano paura di bagnarsi; e dicevano la Vergine! Non volevano sciuparsi gli abiti di seta, con cui si paravano per quella processione dando uno spettacolo di sacrilega vanità atteggiate tutte come la SS. Immacolata, con le mani un po’ levate e aperte innanzi al seno, piene d’anelli in tutte le dita, con lo scialle di seta appuntato con gli spilli alle spalle, gli occhi volti al cielo, e tutti i pendagli e tutti i lagrimoni degli orecchini e delle spille e dei braccialetti, ciondolanti a ogni passo.

 

Ma Monsignor Vescovo non se ne voleva dar per inteso.

Forse, ora ch’era vecchio e cadente, aveva paura di bagnarsi anche lui e di prendere un malanno, seguendo a capo scoperto il fercolo, sotto la pioggia; e poco gl’importava che il povero vicario capitolare, Monsignor Lentini, fosse ridotto, quell’anno, per le tante prediche, una al giorno, sempre su lo stesso argomento, in uno stato da far compassione finanche alle panche della chiesa.

Erano già undici domeniche, undici, dall’otto dicembre, che il pover’uomo, levando il capo dal guanciale, chiedeva con voce lamentosa alla Piconella, sua vecchia casiera, la quale ogni mattina veniva a recargli a letto il caffè:

– Piove?

E la Piconella non sapeva piú come rispondergli. Perché pareva veramente che il tempo si fosse divertito a straziare quel brav’uomo con una incredibile raffinatezza di crudeltà. Qualche domenica era aggiornato sereno, e allora la Piconella era corsa tutta esultante a darne l’annunzio al suo Monsignor Vicario:

– Il sole, il sole! Monsignor Vicario, il sole!

E il sagrestano della Cattedrale dàgli a sonare a festa le campane, din don dan, din don dan, ché certo la SS. Immacolata quella mattina, prima di mezzogiorno, se ne sarebbe andata via.

Se non che, quando già alla piazza della Cattedrale era cominciata ad affluir la gente per la processione e s’era finanche aperta la porta di ferro su la scalinata presso il seminario, donde la SS. Vergine soleva uscire ogni anno, e dal seminario erano arrivati a due a due in lungo ordine i seminaristi parati coi camici trapunti, e tutt’in giro alla piazza erano stati disposti i mortaretti, ecco sopravvenire in gran furia dal mare fra lampi e tuoni una nuova burrasca.

Il sagrestano, dàgli di nuovo a sonar tutte le campane per scongiurarla, sul fermento della folla che s’era messa intanto a protestare, indignata perché sotto quella incombente minaccia del tempo i canonici volessero mandar via a precipizio la Madonna.

E fischi e urli e invettive sotto il palazzo vescovile, finché Monsignor Vescovo, per rimettere la calma, non aveva fatto annunziare da uno de’ suoi segretarii che la processione era rimandata alla domenica seguente, tempo permettendo.

Per ben cinque domeniche su undici s’era ripetuta questa scena.

Quell’undicesima domenica, appena la piazza fu sgombra, tutti i canonici del Capitolo irruppero furenti nella casa del vicario capitolare, Monsignor Lentini. A ogni costo, a ogni costo bisognava trovare un rimedio contro quella soperchieria brutale!

Il povero vicario capitolare si reggeva la testa con le mani e guardava tutti in giro come se fosse intronato.

S’erano avventati contro lui, piú che contro gli altri, i fischi, gli urli, le minacce della folla. Ma non era intronato per questo il povero vicario capitolare. Dopo undici settimane, un’altra settimana di prediche su la SS. Immacolata! In quel momento il pover’uomo non poteva pensare ad altro, e a questo pensiero, si sentiva proprio levar di cervello.

 

Il rimedio lo trovò Monsignor Landolina, il rettore terribile del Collegio degli Oblati. Bastò che egli proferisse un nome, perché d’improvviso si sedasse l’agitazione di tutti quegli animi.

– Il Mèola! Qua ci vuole il Mèola! Amici miei, bisogna ricorrere al Mèola!

Marco Mèola, il feroce tribuno anticlericale, che quattr’anni addietro aveva giurato di salvar Montelusa da una temuta invasione di padri Liguorini, aveva ormai perduto ogni popolarità. Perché, pur essendo vero da una parte che il giuramento era stato mantenuto, non era men vero dall’altra che i mezzi adoperati e le arti che aveva dovuto usare per mantenerlo, e poi quel ratto, e poi la ricchezza che glien’era derivata, non erano valsi a dar credito alla dimostrazione ch’egli voleva fare, che il suo, cioè, era stato un sacrifizio eroico. Se la nipote di Monsignor Partanna, infatti, la educanda rapita, era brutta e gobba, belli e ballanti e sonanti erano i denari della dote che il Vescovo era stato costretto a dargli; e, in fondo, i pezzi grossi del clero montelusano, ai quali non era mai andata a sangue quella promessa del loro Vescovo di far tornare i padri Liguorini, se non amici apertamente, avevano di nascosto, anche dopo quella scappata, anzi appunto per quella scappata, seguitato a veder di buon occhio Marco Mèola.

 

Tuttavia, ora, a costui doveva senza dubbio piacere che, senza rischio di guastarsi coi segreti amici, gli si offrisse un’occasione per riconquistar la stima degli antichi compagni, il prestigio perduto di tribuno anticlericale.

 

Orbene, bisognava mandar furtivamente al Mèola due fidati amici a proporgli a nome dell’intero Capitolo di tenere per la ventura domenica una conferenza contro le feste religiose in genere, contro le processioni sacre in ispecie, togliendo a pretesto i deplorati disordini delle scorse domeniche, quegli urli, quei fischi, quelle minacce del popolo per impedire il trasporto della SS. Immacolata dalla Cattedrale alla chiesa di S. Francesco.

 

Sparso per tutto il paese con molto rumore l’annunzio di quella conferenza, si sarebbe facilmente indotto il Vescovo a pubblicare un’indignata protesta contro la patente violazione che della libertà del culto  avevano in animo di tentare i liberali di Montelusa, nemici della fede, e un invito sacro a tutti i fedeli della diocesi perché la ventura domenica, con qualunque tempo, piovesse o non piovesse, si raccogliessero nella piazza della Cattedrale a difendere da ogni possibile ingiuria la venerata immagine della SS. Immacolata.

Questa proposta di Monsignor Landolina fu accolta e approvata unanimemente dai canonici del Capitolo.

Solo quel sant’uomo del vicario, Monsignor Lentini, osò invitare i colleghi a considerare se non fosse imprudente sollevar disordini anche dall’altra parte, andare a stuzzicar quel vespajo. Ma, suggeritagli l’idea che da quella conferenza del Mèola avrebbe tratto argomento di predica per la settimana ventura contro l’intolleranza che voleva impedire ai fedeli di manifestare la propria divozione alla Vergine, con parecchi: – «Capisco, ma… capisco, ma…» – alla fine si arrese.

La trovata di Monsignor Landolina ebbe un effetto di gran lunga superiore a quello che gli stessi canonici del Capitolo se ne ripromettessero.

Dopo quattr’anni di silenzio, Marco Mèola si scagliò in piazza con le furie d’un leone affamato. Dopo due giorni di vociferazioni nel circolo degli impiegati civili, nel caffè di Pedoca, riuscí a promuovere una tale agitazione, che Monsignor Vescovo fu costretto veramente a rispondere con una fierissima pastorale e, nell’invito sacro, chiamò a raccolta per la ventura domenica non solo tutti i fedeli di Montelusa ma anche quelli dei paesi vicini.

«Piova pure a diluvio,- concludeva l’invito, – noi siamo sicuri che la piú fiera tempesta non smorzerà d’un punto il vostro sacro e fervidissimo ardore. Piova pure a diluvio, domenica ventura la SS. Immacolata uscirà dalla nostra gloriosa Cattedrale, e scortata e difesa da tutti i fedeli della Diocesi, la SS. Ospite rientrerà nella sua sede.»

Ma, neanche a farlo apposta, quella dodicesima domenica recò, dopo tanta e cosí lunga intemperie, il riso della primavera, il primo riso, e con tale dolcezza, che ogni turbolenza cadde d’un tratto, come per incanto, dagli animi.

Al suono festivo delle campane, nell’aria chiara, tutti i Montelusani uscirono a inebriarsi del voluttuoso tepore del primo sole della nuova stagione; ed era su tutte le labbra un liquido sorriso di beatitudine e in tutte le membra un delizioso languore, un’accorata voglia d’abbandonarsi in cordiali abbracci fraterni.

Allora il vicario capitolare Monsignor Lentini, che dal lunedí al sabato di quella dodicesima settimana aveva dovuto fare altre sei prediche su la SS. Immacolata, con un filo di voce chiamò attorno a sé i canonici del Capitolo e domandò loro, se non si potesse in qualche modo impedire lo scandalo ormai inutile di quella conferenza anticlericale del Mèola, per cui si sentiva come una spina nel cuore.

Si poteva esser certi che né per quel giorno sarebbe piovuto, né piú per mesi. Non poteva il Mèola darsi per ammalato e rimandar la conferenza ad altro tempo, all’anno venturo magari, per la seconda domenica di pioggia dopo l’otto dicembre?

– Eh già! Sicuro! – riconobbero subito i canonici. – Cosí il rimedio non andrebbe sciupato!

I due fidati amici dell’altra volta furono rimandati in gran fretta dal Mèola. Un raffreddore, una costipazione, un attacco di gotta, un improvviso abbassamento di voce:

– Visto che non piove…

Il Mèola recalcitrò, inferocito. Rinunziare? rimandare? Ah no, perdio, si pretendeva troppo da lui, ora ch’era riuscito a riacciuffare il favore dei liberali di Montelusa!

– Va bene, – gli dissero quei due amici. – Se pioveva… Ma visto che non piove…

– Visto che non piove, – tuonò il Mèola – il signor Prefetto della provincia che fa? Potrebbe lui solo, lui solo per ragioni d’ordine pubblico, proibire ormai la conferenza! Andate subito dal Prefetto, visto che non piove, e io potrò anche ricevere a letto, fra un’ora, con un febbrone da cavallo, l’annunzio della proibizione!

Cosí la SS. Immacolata ritornò, senz’alcun disordine, alla chiesa di S. Francesco d’Assisi dopo dodici domeniche di permanenza alla Cattedrale, il giorno 25 di febbrajo. E il giubilo del popolo fu quell’anno veramente straordinario per la sconfitta data dal bel tempo ai liberali di Montelusa.

1.7 Visto que no llueve
(Sotanas de Montelusa)

Era cada año un atropello indigno, una indecente prepotencia de todo el campesinado de Montelusa contra los pobres canónigos de nuestra gloriosa Catedral.

La estatua de la Sma. Inmaculada, custodiada todo el año en un armario empotrado en la sacristía de la iglesia de San Francesco d´Assisi, el ocho de diciembre, toda adornada con oros y perlas, con el manto azul de seda, sembrado de estrellas de plata, tras las solemnes funciones en la iglesia, era llevada en andas en procesión por las empinadas calles de Montelusa, entre las viejas casuchas desconchadas, aplastadas casi una por otra;  arriba, arriba, hasta la Catedral, sobre la colina; y allí la dejaban, huésped del patrón San Gerlando.

En la Catedral, la Sma. Inmaculada habría tenido que quedarse desde la tarde del jueves hasta el domingo: dos días y medio. Pero ahora, por costumbre, pareciendo demasiado breve este tiempo, se dejaba durante aquel primer domingo después de la fiesta, y se esperaba hasta el domingo siguiente para devolverla con una nueva y más pomposa procesión a la iglesia de San Francesco.

A no ser, como sucedía casi cada año, que el traslado, ese segundo domingo, no pudiera hacerse por el mal tiempo y tuviera que posponerse a otro domingo; y de domingo en domingo, a veces durante varios meses seguidos.

Esta prolongación de la hospitalidad, por sí misma, no habría importado nada, si la Sma. Inmaculada no hubiera gozado por antiquísimo privilegio de una prebenda durante todo el tiempo en que permanecía en la Catedral. Todos los días en que la Sma. Inmaculada estaba allí, era como si en el capítulo hubiera un canónigo más: recababa, sobre las exequias y sobre todo, justo lo mismo que un canónigo; y los miembros de la congregación vigilaban con atención para que no se Le detrajera nada de cuanto Le correspondía, con el fin de que más espléndida, incluso con los frutos de esa prebenda, pudiese salir bien cada año la fiesta en Su honor.  Esto, además de los demás gastos que gravaban sobre el capítulo por esa permanencia. Gastos y fatigas, es decir, funciones cada día,  predicación cada día, y disparos de mortero y fuegos artificiales, e incluso, para el pobre sacristán, largas campanadas todas las mañanas y todas las tardes.

Quizás, por amor a la Sma. Virgen, los canónigos de la Catedral habrían soportado en paz la sustracción y los gastos y las fatigas, si en el campesinado de Montelusa no hubiera arraigado la creencia de que la Sma. Inmaculada quería quedarse en la catedral uno o dos meses a despecho de ellos; y de que ellos le pidieran cada año con las manos juntas al cielo que no lloviese al menos la semana que tenía que hacerse el traslado.

Justo en ese tiempo sucedía que los campesinos no estaban nunca satisfechos con el agua que el cielo les enviaba a sus sembrados; y si verdaderamente un año no llovía, pues la culpa era de los canónigos de la Catedral, que no veían la hora de quitarse de encima a la Sma. Inmaculada.

Pues bien, con el paso del tiempo y a fuerza de escuchar cómo se les repetía eso, los canónigos de la Catedral se despecharon de verdad, no precisamente contra la Virgen, sino contra esos brutos villanos,  y más contra esos señores de la congregación que, no contentos con mantener despierta esa indecente creencia de su desdén por la Virgen, empujaban la jactancia hasta enviarles a tres o cuatro de entre los más brutos cada sábado, al atardecer,  a la plaza frente a la Catedral, con el encargo de ponerse a pasear con las manos tras la espalda, a la espera de que uno del capítulo saliera de la iglesia, para preguntarle con una risa estúpida en los labios:

– Perdone, señor canónigo, ¿qué se prevé?, ¿lloverá o no lloverá mañana?

Era, como se ve, incluso una intolerable irreverencia.

Monseñor Partanna tendría que haber acabado con ello a cualquier precio. Tanto más, cuanto que era notorio para todos que esos frailengos de la congregación, en el frenesí de hacer dinero de cualquier modo, llegaban incluso a especular indignamente con la Virgen, empeñando en la banca católica de San Cayetano, hasta los oros, las perlas, y hasta el manto estrellado que la Virgen había recibido como regalo de sus fieles devotos.

El señor obispo habría tenido que ordenar que el regreso de la Sma. Inmaculada a la iglesia de San Francesco no se prolongase más allá del segundo domingo después de la fiesta, hiciera el tiempo que hiciera, lloviera o no lloviera. Además, no había peligro de que se mojase bajo el magnífico palio llevado a turno por los seminaristas de más robusta complexión.

Eran, en cambio, las mujeres de los campesinos, las mujeres del pueblo o – como repetían los reverendos canónigos del capítulo – las pelanduscas, las pelanduscas, que tenían miedo de mojarse. ¡Y decían que era por la Virgen! No querían que se les estropearan los vestidos de seda con que se arreglaban para esa procesión dando un espectáculo de sacrílega vanidad, imitando todas a la Sma.  Inmaculada, con las manos un poco levantadas y abiertas delante del pecho, llenos de anillos todos sus dedos, con el mantón de seda abrochado con alfileres en los hombros, los ojos vueltos al cielo, y todos los colgantes y lagrimones de los zarcillos y de los broches y de los brazaletes, oscilando a cada paso.

Pero el señor obispo no quería darse por enterado.

Quizás, ahora que era viejo y decrépito, tenía miedo de mojarse también él y de resfriarse, al seguir con la cabeza descubierta las andas bajo la lluvia; y poco le importaba que el pobre vicario capitular, monseñor Lentini, se hubiera visto reducido, ese año, a fuerza de predicar cada día siempre sobre el mismo tema, a un estado tal, que despertaba compasión incluso en los bancos de la iglesia.

Eran ya once domingos, once, desde el ocho de diciembre, los que el pobre hombre, al levantar la cabeza de la almohada, preguntaba con voz lamentosa a Piconella, su vieja ama, quien cada mañana venía a traerle a la cama el café:

– ¿Llueve?

Y Piconella no sabía ya cómo responderle. Porque parecía verdadera-mente que el tiempo estuviera divirtiéndose al lastimar a este buen hombre con una increíble y refinada crueldad. Algún domingo había amanecido sereno, y entonces Piconella había ido corriendo toda exultante a darle la noticia al señor vicario:

– ¡El sol, el sol! ¡Señor vicario, el sol!

Y el sacristán de la Catedral dale a las campanas con sonido de fiesta, din don dan, din don dan, pues ciertamente esa mañana la Sma. Inmaculada, antes de mediodía, se marcharía.

A no ser que, cuando ya en la plaza de la Catedral había comenzado a llegar la gente para la procesión, e incluso se había abierto la cancela que daba a la escalinata cerca del seminario, por donde la Sma. Virgen solía salir cada año, y del seminario habían llegado de dos en dos en una larga fila los seminaristas arreglados con sotanas bordadas, y cuando alrededor de la plaza se habían colocado los morteros, he aquí que sobreviene con gran furor del mar, entre relámpagos y truenos, una nueva borrasca.

El sacristán, dale de nuevo a las campanas para conjurarla, sobre la agitación de la multitud que entretanto se había puesto a protestar, indignada porque bajo esa eminente amenaza del tiempo los canónigos querían expulsar precipitadamente a la Virgen.

Y silbidos y gritos e invectivas bajo el palacio obispal, hasta que el señor obispo, para que volviera la calma, anunció a través de uno de sus secretarios que la procesión se posponía hasta el domingo siguiente, si el tiempo lo permitía.

Hasta cinco domingos de los once se repitió esta escena.

Ese undécimo domingo, apenas fue despejada la plaza, todos los canónigos del capítulo irrumpieron furiosos en la casa del vicario capitular, monseñor Lentini. ¡A toda costa, a toda costa era necesario encontrar un remedio contra aquella superchería brutal!

El pobre vicario capitular se sujetaba la cabeza con las manos y los miraba a todos a su alrededor como si estuviese aturdido.

Se habían lanzado contra él, más que contra los demás, los silbidos, los gritos, las amenazas de la multitud. Pero no estaba aturdido por esto el pobre vicario capitular. Después de once semanas, ¡una semana más de predicaciones sobre la Sma. Inmaculada! En ese momento el pobre hombre no podía pensar en otra cosa, y con este pensamiento, sentía precisamente que se le iba la cabeza.

El remedio lo encontró monseñor Landolina, el rector terrible del Colegio de los oblatos. Bastó con que él profiriese un nombre para que de improviso se aplacase la agitación de todos los ánimos.

– ¡Mèola! ¡Aquí necesitamos a Mèola! ¡Amigos míos, es preciso recurrir a Mèola!

Marco Mèola, el feroz tribuno anticlerical, que cuatro años atrás había jurado que salvaría a Montelusa de una temida invasión de los padres redentoristas, había perdido por entonces toda la popularidad. Pues, si era cierto por un lado que el juramento se había mantenido, no era, por otro lado, menos cierto que los medios utilizados y las artes que había tenido que usar para mantenerlo, y además aquel secuestro, y la posterior riqueza que se granjeó con ello, no habían servido para dar crédito a la demostración que él quería hacer, es decir, que el suyo había sido un sacrificio heroico. Si la sobrina de monseñor Partanna, de hecho, la educanda secuestrada, era fea y jorobada, hermoso, contante y sonante era el dinero de la dote que el obispo se había visto obligado a darle; y, en el fondo, los peces gordos del clero montelusano, a quienes nunca les había agradado esa promesa de su obispo de hacer que regresaran los padres redentoristas, si no como amigos abiertamente, sí a escondidas, incluso después de esa escapada, es más, precisamente por esa escapada, habían seguido viendo con buenos ojos a Marco Mèola.

Con todo, ahora, a este tenía sin duda que complacerle, sin riesgo de enemistarse con los secretos amigos, que se le ofreciera una ocasión para reconquistar la estima de los antiguos compañeros, el prestigio perdido de tribuno anticlerical.

Por tanto, era necesario enviarle furtivamente a Mèola a dos amigos de confianza para proponerle en nombre de todo el capítulo que diera el domingo siguiente una conferencia contra las fiestas religiosas en general, contra las procesiones sagradas en particular, usando como pretexto los deplorables desórdenes de los domingos pasados, esos gritos, esos silbidos, esas amenazas del pueblo para impedir el traslado de la Sma. Inmaculada a la iglesia de San Francesco.

Divulgada por todo el pueblo con mucho ruido la noticia de esa conferencia, fácilmente se induciría al obispo a que publicara una indignada protesta contra la patente violación de la libertad de culto que tenían intención de perpetrar los liberales de Montelusa, enemigos de la fe, y una invitación sagrada a todos los fieles de la diócesis para que el domingo siguiente, hiciera el tiempo que hiciera, lloviera o no lloviera, se reunieran en la plaza de la Catedral para defender de toda posible injuria a la venerada imagen de la Sma. Inmaculada.

Esta propuesta de monseñor Landolina fue acogida y aprobada unánimemente por los canónigos del capítulo.

Solo ese santo hombre del vicario, monseñor Lentini, se atrevió a invitar a los colegas a considerar si no era imprudente levantar desórdenes también en la otra parte, ir a molestar ese avispero. Pero, habiéndosele sugerido que de esa conferencia de Mèola podría obtener temas para sus predicaciones de la semana siguiente contra la intolerancia que quería impedir que los fieles manifestaran su propia devoción a la Virgen, repitiendo: – “Comprendo, pero… comprendo, pero…”- se rindió al final.

El hallazgo de monseñor Landolina tuvo un efecto muy superior al que los mismos canónigos del capítulo se habían propuesto.

Después de cuatro años de silencio, Marco Mèola se lanzó a la plaza con la furia de un león hambriento. Después de dos días de vociferaciones en el círculo de los empleados civiles, en le café de Pedoca, logró promover una agitación tal, que el señor obispo se vio verdaderamente obligado a responder con una fierísima pastoral y, en la invitación sagrada, convocó para el domingo siguiente no solo a todos los fieles de Montelusa, sino incluso a todos los de los pueblos vecinos.

“Incluso si diluvia – concluía la invitación – estamos seguros de que ni la más fiera tempestad atenuará ni un punto vuestro sagrado y muy fervoroso ardor. Incluso si diluvia, el próximo domingo la Sma. Inmaculada saldrá de nuestra gloriosa catedral, y escoltada y defendida por todos los fieles de la diócesis, la Sma. Huésped regresará a su sede.”

Pero, ni que lo hubiera hecho aposta, ese duodécimo domingo trajo, después de tantas y tan largas intemperies, la risa de la primavera, la primera risa, y con una dulzura tal, que cada turbulencia cayó de los ánimos de golpe, como por encanto.

Al sonido festivo de las campanas, en el aire claro, todos los montelusanos salieron a emborracharse de la voluptuosa tibieza del primer sol de la nueva estación; y había en todos los labios una líquida sonrisa de felicidad y en todos los miembros una deliciosa languidez, un intenso deseo de abandonarse en cordiales abrazos fraternales.

Entonces, el vicario capitular monseñor Lentini, que del lunes al sábado de esa duodécima semana había tenido que hacer otros seis sermones sobre la Sma. Inmaculada, con un hilo de voz les dijo a los canónigos que se acercaran y les preguntó, si no se podía de algún modo impedir el escándalo ya inútil de esa conferencia anticlerical de Mèola, por la que sentía como una espina en el corazón.

Podían estar seguros que no llovería ni ese día, ni durante meses. ¿No podía Meola fingirse enfermo y posponer la conferencia a otro momento, al año siguiente quizás, al segundo domingo de lluvia después del ocho de diciembre?

– ¡Claro! ¡Seguro! – reconocieron enseguida los canónigos. – ¡Así no se estropearía el remedio!

Los dos amigos de confianza de la otra vez fueron enviados de nuevo y de prisa a la casa de Meola. Un resfriado, un constipado, un ataque de gota, una imprevista ronquera:

– Visto que no llueve…

Mèola se opuso, furioso. ¿Renunciar? ¿Posponer? ¡Ah, no, por Dios, se le pedía demasiado, ahora que había logrado volver a ganar el favor de los liberales de Montelusa!

– ¡Está bien! – le dijeron esos dos amigos. – Si lloviera… Pero visto que no llueve…

– Visto que no llueve, – tronó Mèola – ¿qué hace el señor prefecto de la provincia? ¡Ya solo él, solo él y por razones de orden público, podría prohibir la conferencia! ¡Id rápidos a casa del prefecto, visto que no llueve, y yo podré incluso recibir desde la cama, dentro de una hora, con una fiebre de caballo, la noticia de la prohibición!

Así la Sma. Inmaculada regresó, sin ningún desorden, a la iglesia de San Francesco d´Assisi tras doce domingos de permanencia en la Catedral, el 25 de febrero. Y el júbilo del pueblo fue ese año en verdad extraordinario debido a la derrota dada por el buen tiempo a los liberales de Montelusa.

1.8 Formalità

Nell’ampio scrittojo del Banco Orsani, il vecchio commesso Carlo Bertone con la papalina in capo, le lenti su la punta del naso come per spremere dalle narici quei due ciuffetti di peli grigi, stava a fare un conto assai difficile in piedi innanzi a un’alta scrivania, su cui era aperto un grosso libro mastro. Dietro a lui, Gabriele Orsani, molto pallido e con gli occhi infossati, seguiva l’operazione, spronando di tratto in tratto con la voce il vecchio commesso, a cui, a mano a mano che la somma ingrossava, pareva mancasse l’animo d’arrivare in fondo.

– Queste lenti… maledette! – esclamò a un certo punto, con uno scatto d’impazienza, facendo saltare con una ditata le lenti dalla punta del naso sul registro.

Gabriele Orsani scoppiò a ridere:

– Che ti fanno vedere codeste lenti? Povero vecchio mio, vah! Zero via zero, zero…

Allora il Bertone, stizzito, prese dalla scrivania il grosso libro:

– Vuol lasciarmi andare di là? Qua, con lei che fa cosí, creda, non è possibile… Calma ci vuole!

– Bravo Carlo, sí, – approvò l’Orsani ironicamente. – Calma, calma… E intanto – aggiunse, indicando il registro, – ti porti appresso codesto mare in tempesta.

Andò a buttarsi su una sedia a sdrajo presso la finestra e accese una sigaretta.

La tenda turchina, che teneva la stanza in una grata penombra, si gonfiava a quando a quando a un buffo d’aria che veniva dal mare. Entrava allora con la subita luce piú forte il fragore del mare che si rompeva alla spiaggia.

Prima d’uscire, il Bertone propose al principale di dare ascolto a un signore «curioso» che aspettava di là: nel frattempo lui avrebbe atteso in pace a quel conto molto complicato.

– Curioso? – domandò Gabriele. – E chi è?

– Non so: aspetta da mezz’ora. Lo manda il dottor Sarti.

– E allora fallo passare.

Entrò, poco dopo, un ometto su i cinquant’anni, dai capelli grigi, pettinati a farfalla, svolazzanti. Sembrava un fantoccio automatico, a cui qualcuno di là avesse dato corda per fargli porgere quegli inchini e trinciar quei gesti comicissimi.

Mani, ne aveva ancora due; occhi, uno solo; ma egli forse credeva sul serio di dare a intendere d’averne ancora due, riparando l’occhio di vetro con una caramella, la quale pareva stentasse terribilmente a correggergli quel piccolo difetto di vista.

Presentò all’Orsani il suo biglietto da visita cosí concepito:

LAPO VANNETTI
Ispettore della
London Life Assurance Society Limited
(Capit. sociale L. 4.500.000 – Capit. versato L. 2.559.400)

– Prezatissimo signore! – cominciò, e non la finí piú.

Oltre al difetto di vista, ne aveva un altro di pronunzia; e come cercava di riparar quello dietro la caramella, cercava di nasconder questo appoggiando una risatina sopra ogni zeta ch’egli pronunziava in luogo della c e della g.

Invano l’Orsani si provò piú volte a interromperlo.

– Son di passazzo per questa rispettabilissima provinzia, – badava a dir l’ometto imperterrito, con vertiginosa loquela, – dove che per merito della nostra Sozietà, la piú antica, la piú autorevole di quante ne esistano  su lo stesso zenere, ho concluso ottimi, ottimi contratti, sissignore, in tutte le spezialissime combinazioni che essa offre ai suoi assoziati, senza dire dei vantazzi ezzezionali, che brevemente le esporrò per ogni combinazione, a sua scelta.

Gabriele Orsani si avvilí; ma il signor Vannetti vi pose subito riparo: cominciò a far tutto da sé: domande e risposte, a proporsi dubbii e a darsi schiarimenti:

– Qui Lei, zentilissimo signore, eh, lo so! potrebbe dirmi, obbiettarmi: Ecco, sí, caro Vannetti, d’accordo: piena fiduzia nella vostra Compagnia; ma, come si fa? per me è un po’ troppo forte, poniamo, codesta tariffa; non ho tanto marzine nel mio bilanzio, e allora… (ognuno sa gli affari di casa sua, e qui Lei dize benissimo: Su questo punto, caro Vannetti, non ammetto discussioni). Ecco, io però, zentilissi-mo signore, mi permetto di farle osservare: E gli spezialissimi vantazzi che offre la nostra Compagnia? Eh, lo so, dize Lei: tutte le Compagnie, qual piú qual meno, ne offrono. No, no, mi perdoni, signore, se oso mettere in dubbio codesta sua asserzione. I vantazzi…

A questo punto, l’Orsani, vedendogli trarre da una cartella di cuojo un fascio di prospettini a stampa, protese le mani, come in difesa:

– Scusi, – gridò. – Ho letto in un giornale che una Compagnia ha assicurato non so per quanto la mano d’un celebre violinista: è vero?

Il signor Lapo Vannetti rimase per un istante sconcertato: poi sorrise e disse:

– Americanate! Sissignore. Ma noi…

– Glielo domando, – riprese, senza perder tempo, Gabriele, – perché anch’io, una volta, sa?…

E fece segno di sonare il violino.

Il Vannetti, ancora non ben rimesso, credette opportuno congratularsene:

– Ah, benissimo! benissimo! Ma noi, scusi, veramente, non fazziamo di queste operazioni.

– Sarebbe molto utile, però! – sospirò l’Orsani levandosi in piedi. – Potersi assicurare tutto ciò che si lascia o si perde lungo il cammino della vita: i capelli! i denti, per esempio! E la testa? La testa che si perde cosí facilmente… Ecco: il violinista, la mano; uno zerbinotto, i capelli; un crapulone, i denti; un uomo d’affari, la testa… Ci pensi! È una trovata.

Si recò a premere un campanello elettrico alla parete, presso la scrivania, soggiungendo:

– Permetta un momento, caro signore.

Il Vannetti, mortificato, s’inchinò. Gli parve che l’Orsani, per cavarselo dai piedi, avesse voluto fare un’allusione, veramente poco gentile, al suo occhio di vetro.

Rientrò nello scrittojo il Bertone, con un’aria vie piú smarrita.

– Nel casellario del palchetto della tua scrivania, – gli disse Gabriele, – alla lettera Z…

– I conti della zolfara? – domandò il Bertone.

– Gli ultimi, dopo la costruzione del piano inclinato…

Carlo Bertone chinò piú volte il capo:

– Ne ho tenuto conto.

L’Orsani scrutò negli occhi del vecchio commesso; rimase accigliato, assorto; poi gli domandò:

– Ebbene?

Il Bertone, impacciato, guardò il Vannetti.

Questi allora comprese ch’era di troppo, in quel momento; e, riprendendo il suo fare cerimonioso, tolse commiato.

– Non z’è bisogno d’altro, con me. Capisco a volo. Mi ritiro. Vuol dire che, se non Le dispiaze, io vado a prendere un bocconzino qui presso, e ritorno. Non se ne curi. Stia comodo, per carità! So la via. A rivederla.

Ancora un inchino, e via.

 

II  

– Ebbene? – domandò di nuovo Gabriele Orsani al vecchio commesso, appena uscito il Vannetti.

– Quella… quella costruzione… giusto adesso, – rispose, quasi balbettando, il Bertone.

Gabriele s’adirò.

– Quante volte me l’hai detto? Che volevi che facessi, d’altra parte? Rescindere il contratto, è vero? Ma se per tutti i creditori quella zolfara rappresenta ancora la speranza della mia solvibilità… Lo so! lo so! Sono state piú di centotrenta mila lire buttate lí, in questo momento, senza frutto… Lo so meglio di te!… Non mi far gridare.

Il Bertone si passò piú volte le mani su gli occhi stanchi; poi, dandosi buffetti su la manica, dove non c’era neppur l’ombra della polvere, disse piano, come a se stesso:

– Ci fosse modo, almeno, d’aver danaro per muovere ora tutto quel macchinario, che… che non è neanche interamente pagato. Ma abbiamo anche le scadenze delle cambiali alla Banca…

Gabriele Orsani, che s’era messo a passeggiare per lo scrittojo, con le mani in tasca, accigliato, s’arrestò:

– Quanto?

– Eh… – sospirò il Bertone.

– Eh… – rifece Gabriele; poi, scattando: – Oh, insomma! Dimmi tutto. Parla franco: è finita? capitombolo? Sia lodata e ringraziata la buona e santa memoria di mio padre! Volle mettermi qua, per forza: io ho fatto quello che dovevo fare: tabula rasa: non se ne parli piú!

– Ma no, non si disperi, ora… – disse il Bertone, commosso. – Certo lo stato delle cose… Mi lasci dire!

Gabriele Orsani posò le mani su le spalle del vecchio commesso:

– Ma che vuoi dire, vecchio mio, che vuoi dire? Tremi tutto. Non cosí, ora; prima, prima, con l’autorità che ti veniva da codesti capelli bianchi, dovevi opporti a me, ai miei disegni, consigliarmi allora, tu che mi sapevi inetto agli affari. Vorresti illudermi, ora, cosí? Mi fai pietà!

– Che potevo io?… – fece il Bertone, con le lagrime agli occhi.

– Nulla! – esclamò l’Orsani. – E neanche io. Ho bisogno di pigliarmela con qualcuno, non te ne curare. Ma, possibile? io, io, qua, messo agli affari? Se non so vedere ancora quali siano stati, in fondo, i miei sbagli… Lascia quest’ultimo della costruzione del piano inclinato, a cui mi son veduto costretto con l’acqua alla gola… Quali sono stati i miei sbagli?

Il Bertone si strinse nelle spalle, chiuse gli occhi e aprí le mani, come per dire: Che giova adesso?

– Piuttosto, i rimedii… – suggerí con voce opaca, di pianto.

Gabriele Orsani scoppiò di nuovo a ridere.

– Il rimedio lo so! Riprendere il mio vecchio violino, quello che mio padre mi tolse dalle mani per dannarmi qua, a questo bel divertimento, e andarmene come un cieco, di porta in porta, a far le sonatine per dare un tozzo di pane ai miei figliuoli. Che te ne pare?

– Mi lasci dire, – ripeté il Bertone, socchiudendo gli occhi. – Tutto sommato, se possiamo superare queste prossime scadenze, restringendo, naturalmente, tutte, tutte le spese (anche quelle… mi scusi!… su, di casa), credo che… almeno per quattro o cinque mesi potremo far fronte agli impegni. Nel frattempo…

Gabriele Orsani scrollò il capo, sorrise; poi, traendo un lungo sospiro, disse:

– Fra Tempo è un monaco, vecchio mio, che vuol crearmi illusioni!

Ma il Bertone insistette nelle sue previsioni e uscí dallo scrittojo per finir di stendere l’intero quadro dei conti.

– Glielo farò vedere. Mi permetta un momento.

Gabriele andò a buttarsi di nuovo su la sedia a sdrajo presso la finestra e, con le mani intrecciate dietro la nuca, si mise a pensare.

Nessuno ancora sospettava di nulla; ma per lui, ormai, nessun dubbio: qualche mese ancora di disperati espedienti, e poi il crollo, la rovina.

 

Da circa venti giorni, non si staccava piú dallo scrittojo. Come se lí, dal palchetto della scrivania, dai grossi libri di cassa, aspettasse al varco qualche suggerimento. La violenta, inutile tensione del cervello a mano a mano però, contro ogni sforzo, gli s’allentava, la volontà gli s’istupidiva; ed egli se ne accorgeva sol quando, alla fine, si ritrovava attonito o assorto in pensieri alieni, lontani dall’assiduo tormento.

Tornava allora a rimpiangere, con crescente esasperazione, la sua cieca, supina obbedienza alla volontà del padre, che lo aveva tolto allo studio prediletto delle scienze matematiche, alla passione per la musica, e gettato lí in quel torbido mare insidioso dei negozii commerciali. Dopo tanti anni, risentiva ancor vivo lo strazio che aveva provato nel lasciar Roma. Se n’era venuto in Sicilia con la laurea di dottore in scienze fisiche e matematiche, con un violino e un usignuolo. Beata incoscienza! Aveva sperato di potere attendere ancora alla scienza prediletta, al prediletto strumento, nei ritagli di tempo che i complicati negozii del padre gli avrebbero lasciato liberi. Beata incoscienza! Una volta sola, circa tre mesi dopo il suo arrivo, aveva cavato dalla custodia il violino, ma per chiudervi dentro, come in una degna tomba, l’usignoletto morto e imbalsamato.

E ancora domandava a se stesso come mai il padre, tanto esperto nelle sue faccende, non si fosse accorto dell’assoluta inettitudine del figliuolo. Gli aveva forse fatto velo la passione ch’egli aveva del commercio, il desiderio che l’antica ditta Orsani non venisse a cessare, e s’era forse lusingato che, con la pratica degli affari, con l’allettamento dei grossi guadagni, a poco a poco il figlio sarebbe riuscito ad adattarsi e a prender gusto a quel genere di vita.

Ma perché lagnarsi del padre, se egli si era piegato ai voleri di lui senza opporre la minima resistenza, senza arrischiar neppure la piú timida osservazione, come a un patto fin dalla nascita stabilito e concluso e ormai non piú discutibile?, se egli stesso, proprio per sottrarsi alle tentazioni che potevano venirgli dall’ideale di vita ben diverso, fin allora vagheggiato, s’era indotto a prender moglie, a sposar colei che gli era stata destinata da gran tempo: la cugina orfana, Flavia?

Come tutte le donne di quell’odiato paese, in cui gli uomini, nella briga, nella costernazione assidua degli affari rischiosi, non trovavan mai tempo da dedicare all’amore, Flavia, che avrebbe potuto essere per lui l’unica rosa lí tra le spine, s’era invece acconciata subito, senza rammarico, come d’intesa, alla parte modesta di badare alla casa, perché nulla mancasse al marito dei comodi materiali, quando stanco, spossato, ritornava dalle zolfare o dal banco o dai depositi di zolfo lungo la spiaggia, dove, sotto il sole cocente, egli aveva atteso tutto il giorno all’esportazione del minerale.

Morto il padre quasi repentinamente, era rimasto a capo dell’azienda, nella quale ancora non sapeva veder chiaro. Solo, senza guida, aveva sperato per un momento di poter liquidare tutto e ritirarsi dal commercio. Ma sí! Quasi tutto il capitale era impegnato nella lavorazione delle zolfare. E s’era allora rassegnato ad andare innanzi per quella via, togliendo a guida quel buon uomo del Bertone, vecchio scritturale del banco, a cui il padre aveva sempre accordato la massima fiducia.

Che smarrimento sotto il peso della responsabilità piombatagli addosso d’improvviso, resa anche piú grave dal rimorso d’aver messo al mondo tre figliuoli, minacciati ora dalla sua inettitudine nel benessere, nella vita! Ah egli, fino allora, non ci aveva pensato: bestia bendata, alla stanga d’una macina. Era stato sempre doglioso il suo amore per la moglie, pe’ figliuoli, testimonii viventi della sua rinunzia a un’altra vita; ma ora gli attossicava il cuore d’amara compassione. Non poteva piú sentir piangere i bambini o che si lamentassero minimamente; diceva subito a se stesso:

– «Ecco, per causa mia!» – e tanta amarezza gli restava chiusa in petto, senza sfogo. Flavia non s’era mai curata nemmeno di cercar la via per entrargli nel cuore; ma forse, nel vederlo mesto, assorto e taciturno, non aveva mai neppur supposto ch’egli chiudesse in sé qualche pensiero estraneo agli affari. Anch’ella forse si rammaricava in cuor suo dell’abbandono in cui egli la lasciava; ma non sapeva muovergliene rimprovero, supponendo che vi fosse costretto dalle intricate faccende, dalle cure tormentose della sua azienda.

E certe sere vedeva la moglie appoggiata alla ringhiera dell’ampio terrazzo della casa, alle cui mura veniva quasi a battere il mare.

Da quel terrazzo che pareva il cassero d’una nave, ella guardava assorta nella notte sfavillante di stelle, piena del cupo eterno lamento di quell’infinita distesa d’acque, innanzi a cui gli uomini avevano con fiducia animosa costruito le lor piccole case, ponendo la loro vita quasi alla mercé d’altre lontane genti. Veniva di tanto in tanto dal porto il fischio roco, profondo, malinconico di qualche vapore che s’apparecchiava a salpare. Che pensava in quell’atteggiamento? Forse anche a lei il mare, col lamento delle acque irrequiete, confidava oscuri presagi.

Egli non la richiamava: sapeva, sapeva bene che ella non poteva entrare nel mondo di lui, giacché entrambi a forza erano stati spinti a lasciar la propria via. E lí, nel terrazzo, sentiva riempirsi gli occhi di lagrime silenziose. Cosí, sempre, fino alla morte, senza nessun mutamento? Nell’intensa commozione di quelle tetre sere, l’immobilità della condizione della propria esistenza gli riusciva intollerabile, gli suggeriva pensieri subiti, strani, quasi lampi di follia. Come mai un uomo, sapendo bene che si vive una volta sola, poteva acconciarsi a seguire per tutta la vita una via odiosa? E pensava a tanti altri infelici, costretti dalla sorte a mestieri piú aspri e piú ingrati. Talvolta, un noto pianto, il pianto di qualcuno dei figliuoli lo richiamava d’improvviso a sé. Anche Flavia si scoteva dal suo fantasticare; ma egli si affrettava a dire: – Vado io! – Toglieva dal lettuccio il bambino e si metteva a passeggiare per la camera, cullandolo tra le braccia, per riaddormentarlo e quasi per addormentare insieme la sua pena. A poco a poco, col sonno della creaturina, la notte diveniva piú tranquilla anche per lui; e, rimesso sul lettuccio il bambino, si fermava un tratto a guardare attraverso i vetri della finestra, nel cielo, la stella che brillava di piú…

 

Erano passati cosí nove anni. Sul principio di quest’anno, proprio quando la posizione finanziaria cominciava a infoscarsi, Flavia s’era messa a eccedere un po’ troppo in certe spese di lusso; aveva voluto anche per sé una carrozza; ed egli non aveva saputo opporsi.

Ora il Bertone gli consigliava di limitar tutte le spese e anche, anzi specialmente, quelle di casa.

Certo il dottor Sarti, suo intimo amico fin dall’infanzia, aveva consigliato a Flavia di cangiar vita, di darsi un po’ di svago, per vincere la depressione nervosa che tanti anni di chiusa, monotona esistenza le avevano cagionato. A questa riflessione, Gabriele si scosse, si levò dalla sedia a sdrajo e si mise a passeggiare per lo scrittojo, pensando ora all’amico Lucio Sarti, con un sentimento d’invidia e con dispetto.

Erano stati insieme a Roma, studenti.

Tanto l’uno che l’altro, allora, non potevano stare un sol giorno senza vedersi; e, fino a poco tempo addietro, quel legame antico di fraterna amicizia non si era affatto rallentato. Egli si vietava assolutamente di fondar la ragione di tal cambiamento su una impressione avuta durante l’ultima malattia d’uno dei suoi bambini: che il Sarti cioè avesse mostrato esagerate premure per sua moglie: impressione e null’altro, conoscendo a prova la rigidissima onestà dell’amico e della moglie.

Era vero e innegabile tuttavia che Flavia s’accordava in tutto e per tutto col modo di pensare del dottore: nelle discussioni, da qualche tempo molto frequenti, ella assentiva sempre col capo alle parole di lui, ella che, di solito, in casa, non parlava mai. Se n’era stizzito. O se ella approvava quelle idee, perché non gliele aveva manifestate prima? perché non s’era messa a discutere con lui intorno all’educazione dei figliuoli, per esempio, se approvava i rigidi criterii del dottore, anziché i suoi? Ed era arrivato finanche ad accusar la moglie di poco affetto pe’ figli. Ma doveva pur dire cosí, se ella, stimando in coscienza che egli educasse male i figliuoli, aveva sempre taciuto, aspettando che un altro ne movesse il discorso.

Il Sarti, del resto, non avrebbe dovuto immischiarsene. Da un pezzo in qua, pareva a Gabriele che l’amico dimenticasse troppe cose: dimenticasse per esempio di dover tutto, o quasi tutto, a lui.

Chi, se non lui, infatti, lo aveva sollevato dalla miseria in cui le colpe dei genitori lo avevano gettato? Il padre gli era morto in galera, per furti; dalla madre, che lo aveva condotto con sé nella prossima città, era fuggito, non appena con l’uso della ragione aveva potuto intravedere a quali tristi espedienti era ricorsa per vivere. Ebbene, egli lo aveva tolto da un misero caffeuccio in cui s’era ridotto a prestar servizio e gli aveva trovato un posticino nel banco del padre; gli aveva prestato i suoi libri, i suoi appunti di scuola, per farlo studiare; gli aveva insomma aperto la via, schiuso l’avvenire.

E ora, ecco: il Sarti s’era fatto uno stato tranquillo e sicuro col suo lavoro, con le sue doti naturali, senza dover rinunziare a nulla: era un uomo; mentre lui… lui, all’orlo di un abisso!

Due colpi all’uscio a vetri, che dava nelle stanze riserbate all’abitazione, riscossero Gabriele da queste amare riflessioni.

– Avanti, – disse.

E Flavia entrò.

 

III

Indossava un vestito azzurro cupo, che pareva dipinto su la flessibile e formosa persona, alla cui bellezza bionda dava un meraviglioso risalto. Portava in capo un ricco e pur semplice cappello scuro; si abbottonava ancora i guanti.

– Volevo domandarti, – disse, – se non ti occorreva la carrozza, perchè il bajo oggi non si può attaccare alla mia.

Gabriele la guardò, come se ella venisse, cosí elegante e leggera, da un mondo fittizio, vaporoso, di sogno, dove si parlasse un linguaggio ormai per lui del tutto incomprensibile.

– Come? – disse. – Perché?

– Mah, pare che l’abbiano inchiodato, poverino. Zoppica da un piede.

– Chi?

– Il bajo, non senti?

– Ah, – fece Gabriele, riscotendosi. – Che disgrazia, perbacco!

– Non pretendo che te ne affligga, – disse Flavia, risentita. – Ti ho domandato la carrozza. Andrò a piedi.

E s’avviò per uscire.

– Puoi prenderla; non mi serve, – s’affrettò allora a soggiungere Gabriele. – Esci sola?

– Con Carluccio, Aldo e la Titti sono in castigo.

– Poveri piccini! – sospirò Gabriele, quasi senza volerlo.

Parve a Flavia che questa commiserazione fosse un rimprovero per lei, e pregò il marito di lasciarla fare.

– Ma sí, sí, se hanno fatto male, – diss’egli allora. – Pensavo che, senza aver fatto nulla, si sentiranno forse, tra qualche mese, cader sul capo un ben piú grosso castigo.

Flavia si voltò a guardarlo.     

– Sarebbe?

– Nulla, cara. Una cosa lievissima, come il velo o una piuma di codesto cappello. La rovina, per esempio, della nostra casa. Ti basta?

– La rovina?

– La miseria, sí. E peggio forse, per me.

– Che dici?

– Ma sí, fors’anche… Ti fo stupire?

Flavia s’appressò, turbata, con gli occhi fissi sul marito, come in dubbio ch’egli non dicesse sul serio.

Gabriele, con un sorriso nervoso su le labbra, rispose piano, con calma, alle trepide domande di lei, come se non si trattasse della propria rovina; poi nel veder la moglie sconvolta:

– Eh, mia cara! – esclamò. – Se ti fossi curata un tantino di me, se avessi, in tanti anni, cercato d’intendere che piacere mi procurava questo mio grazioso lavoro, non proveresti ora tanto stupore. Non tutti i sacrifizi sono possibili. E quando un pover’uomo è costretto a farne uno superiore alle proprie forze…

– Costretto? Chi t’ha costretto? – disse Flavia, interrompendolo, poiché egli con la voce aveva pigiato su quella parola.

Gabriele guardò la moglie, come frastornato dall’interruzione e dall’atteggiamento di sfida, ch’ella, dominando ora l’interna agitazione, assumeva di fronte a lui. Sentí come un rigurgito di bile salirgli alla gola e inaridirgli la bocca. Riaprendo tuttavia le labbra al sorriso nervoso di prima, ora piú squallido, domandò:

– Spontaneamente, allora?

– Io, no! – soggiunse con forza Flavia, guardandolo negli occhi. – Se per me, avresti potuto risparmiartelo, codesto sacrifizio. La miseria piú squallida io l’avrei mille volte preferita…

– Sta’ zitta! – gridò egli infastidito. – Non lo dire, finché non sai che cosa sia!

– La miseria? Ma che n’ho avuto io, della vita?

– Ah, tu? E io?

Rimasero un pezzo accesi e vibranti, l’uno di fronte all’altra, quasi sgomenti del loro odio intimo reciproco, covato per tanti anni nascostamente e scoppiato ora, all’improvviso, senza la loro volontà.

– Perché dunque ti lagni di me? – riprese Flavia con impeto. – Se io di te non mi sono mai curata, e tu quando di me? Mi rinfacci ora il tuo sacrificio, come se non fossi stata sacrificata anch’io, e condannata qua a rappresentare per te la rinunzia alla vita che tu sognavi! E per me doveva esser questa, la vita? Non dovevo sognar altro, io? Tu, nessun dovere d’amarmi. La catena che t’imprigionava qua, a un lavoro forzato. Si può amar la catena? E io dovevo esser contenta, è vero? che tu lavorassi, e non pretendere altro da te. Non ho mai parlato. Ma tu mi provochi, ora.

Gabriele s’era nascosto il volto con le mani, mormorando di tratto in tratto: – Anche questo!… anche questo!… – Alla fine proruppe:

– E anche i miei figli, è vero? verranno qua, adesso, a buttarmi in faccia, come uno straccio inutile, il mio sacrifizio?

– Tu falsi le mie parole, – rispose ella, scrollando una spalla.

– Ma no! – seguitò Gabriele con foga mordace. – Non merito altro ringraziamento. Chiamali! Chiamali! Io li ho rovinati; e me lo rinfacceranno con ragione!

– No! – s’affrettò a dir Flavia, intenerendosi per i figliuoli. – Poveri piccini, non ti rinfacceranno la miseria… no!

Strizzò gli occhi, s’afferrò le mani e le scosse in aria.

– Come faranno? – esclamò. – Cresciuti cosí…

– Come? – scattò egli. – Senza guida, è vero? Anche questo mi butteranno in faccia? Va’, va’ ad imbeccarli! Anche i rimproveri di Lucio Sarti, per giunta?

– Che c’entra Lucio Sarti? – fece Flavia, stordita da quell’improvvisa domanda.

– Ripeti le sue parole, – incalzò Gabriele, pallidissimo, sconvolto. – Non ti resta che da metterti sul naso le sue lenti da miope.

Flavia trasse un lungo sospiro e, socchiudendo gli occhi con calmo disprezzo, disse:

– Chiunque sia per poco entrato nell’intimità della nostra casa, ha potuto accorgersi…

– No, lui! – la interruppe Gabriele, con maggior violenza. – Lui soltanto! lui che è cresciuto come un aguzzino di se stesso, perché suo padre…

S’arrestò, pentito di ciò che stava per dire, e riprese:

– Non gliene fo carico; ma dico che lui aveva ragione di vivere com’ha vissuto, vigilando, pauroso, rigido, ogni suo minimo atto: doveva sollevarsi, sotto gli occhi della gente, dalla miseria, dall’ignominia, in cui lo avevano gettato i suoi genitori. Ma i miei figliuoli, perché? Perché avrei dovuto essere un tiranno, io, per i miei figliuoli?

– Chi dice tiranno? – si provò a osservare Flavia.

– Ma liberi, liberi! – proruppe egli. – Io volevo che crescessero liberi i miei figliuoli, poiché io ero stato dannato qua da mio padre, a questo supplizio! E come un premio mi ripromettevo, unico premio! di godere della loro libertà, almeno, procacciata a costo del mio sacrifizio, della mia esistenza spezzata… inutilmente, ora, inutilmente spezzata…

A questo punto, come se l’orgasmo a mano a mano cresciuto gli si fosse a un tratto spezzato dentro, egli scoppiò in irrefrenabili singhiozzi; poi, in mezzo a quel pianto strano, convulso, quasi rabbioso, alzò le braccia tremanti, soffocato, e s’abbandonò, privo di sensi.

Flavia, smarrita, atterrita, chiamò ajuto. Accorsero dalle stanze del banco il Bertone e un altro scritturale. Gabriele fu sollevato e adagiato sul canapè, mentre Flavia, vedendogli il volto soffuso d’un pallore cadaverico e bagnato del sudore della morte, smaniava, disperata:

– Che ha? che ha? Dio, ma guardi… Ajuto!… Ah, per causa mia!…

Lo scritturale corse a chiamare il dottor Sarti, che abitava lí vicino.

– Per causa mia!… per causa mia!… – ripeteva Flavia.

– No, signora, – le disse il Bertone, tenendo amorosamente un braccio sotto il capo di Gabriele. – Da stamattina… Ma già, da un pezzo, qua… Povero figliuolo… Se lei sapesse!

– So! so!

– E che vuole, dunque? Per forza!

Intanto urgeva, urgeva un rimedio. Che fare? Bagnargli le tempie? Sí… ma meglio forse un po’ d’etere. Flavia sonò il campanello; accorse un cameriere:

– L’etere! la boccetta dell’etere: su, presto!

– Che colpo… che colpo, povero figliuolo! – si rammaricava piano il Bertone, contemplando tra le lagrime il volto del padrone.

– La rovina… proprio? – gli domandò Flavia, con un brivido.     

– Se m’avesse dato ascolto!… – sospirò il vecchio commesso. – Ma egli, poverino, non era nato per stare qui…

Ritornò di corsa il cameriere, con la boccetta dell’etere.

– Nel fazzoletto?

– No: meglio nella stessa boccetta! Qua… qua… – suggerí il Bertone. – Vi metta il dito sú… cosí, che possa aspirare pian piano…

Sopravvenne poco dopo, ansante, Lucio Sarti, seguito dallo scritturale.

Alto, dall’aspetto rigido, che toglieva ogni grazia alla fine bellezza dei lineamenti quasi femminili, il Sarti portava, molto aderenti a gli occhi acuti, un pajo di piccole lenti. Quasi senza notare la presenza di Flavia, egli scostò tutti, e si chinò a osservare Gabriele; poi, rivolto a Flavia che affollava di domande e d’esclamazioni la sua ansia angosciosa, disse con durezza:

– Non fate cosí, vi prego. Lasciatemi ascoltare.

Scoprí il petto del giacente, e vi poggiò l’orecchio, dalla parte del cuore. Ascoltò un pezzo; poi si sollevò, turbato, e si tastò in petto, come per cercare nelle tasche interne qualcosa.

– Ebbene? – chiese ancora Flavia.

Egli trasse lo stetoscopio, e domandò:

– C’è caffeina, in casa?

– No… io non so, – s’affrettò a rispondere Flavia. – Ho mandato a prender l’etere…

– Non giova.

S’appressò alla scrivania, scrisse una ricetta, la porse allo scritturale.

– Ecco. Presto.

Subito dopo, anche il Bertone fu spedito di corsa alla farmacia per una siringhetta da iniezioni, che il Sarti non aveva con sé.

– Dottore… – supplicò Flavia.

Ma il Sarti, senza darle retta, s’appressò di nuovo al canapè. Prima di chinarsi a riascoltare il giacente, disse, senza voltarsi:

– Fate disporre per portarlo sú.

– Va’, va’! – ordinò Flavia al cameriere: poi, appena uscito questi, afferrò per un braccio il Sarti e gli domandò, guardandolo negli occhi: – Che ha? È grave? Voglio saperlo!

– Non lo so bene ancora neanche io, – rispose il Sarti con calma forzata.

Poggiò lo stetoscopio sul petto del giacente e vi piegò l’orecchio per ascoltare. Ve lo tenne a lungo, a lungo, serrando di tratto in tratto gli occhi, contraendo il volto, come per impedirsi di precisare i pensieri, i sentimenti che lo agitavano, durante quell’esame. La sua coscienza turbata, sconvolta da ciò che percepiva nel cuore dell’amico, era in quel punto incapace di riflettere in sé quei pensieri e quei sentimenti, né egli voleva che vi si riflettessero, come se ne avesse paura.

Quale un febbricitante che, abbandonato al bujo, in una camera, senta d’improvviso il vento sforzar le imposte della finestra, rompendone con fracasso orribile i vetri, e si trovi d’un tratto smarrito, vaneggiante, fuor del letto, contro i lampi e la furia tempestosa della notte, e pur tenti con le deboli braccia di richiudere le imposte; egli cercava d’opporsi affinché il pensiero veemente dell’avvenire, la luce sinistra d’una tremenda speranza non irrompessero in lui, in quel momento: quella stessa speranza, di cui tanti e tanti anni addietro, liberatosi dall’incubo orrendo della madre, lusingato dall’incoscienza giovanile, s’era fatta come una meta luminosa, alla quale gli era parso d’aver qualche diritto d’aspirare per tutto quello che gli era toccato soffrire senza sua colpa. Allora, ignorava che Flavia Orsani, la cugina del suo amico e benefattore, fosse ricca, e che il padre di lei, morendo, avesse affidato al fratello le sostanze della figliuola: la credeva un’orfana accolta per carità in casa dello zio. E dunque, forte della testimonianza di ogni atto della sua vita, intesa tutta a cancellare il marchio d’infamia che il padre e la madre gli avevano inciso su la fronte; quando sarebbe ritornato in paese, con la laurea di medico, e si sarebbe formata un’onesta posizione, non avrebbe potuto chiedere agli Orsani, in prova dell’affetto che gli avevano sempre dimostrato, la mano di quell’orfana, di cui già si lusingava di goder la simpatia? Ma Flavia, poco dopo il ritorno di lui dagli studii, era diventata moglie di Gabriele, a cui egli, è vero, non aveva mai dato alcun motivo di sospettare il suo amore per la cugina. Sí; ma gliel’aveva pur tolta; e senza fare la propria felicità, né quella di lei. Ah, non per lui soltanto quelle nozze, ma per se stesse erano state un delitto; datava da allora la sciagura di tutti e tre. Per tanti anni, come se nulla fosse stato, egli aveva assistito in qualità di medico, in ogni occasione, la nuova famigliuola dell’amico, celando sotto una rigida maschera impassibile lo strazio che la triste intimità di quella casa senza amore gli cagionava, la vista di quella donna abbandonata a se stessa, che pur dagli occhi lasciava intendere quale tesoro d’affetti serbasse in cuore, non richiesti e neppur forse sospettati dal marito; la vista di quei bambini che crescevano senza guida paterna. E si era negato perfino di scrutar negli occhi di Flavia o d’avere da qualche parola di lei un cenno fuggevole, una prova anche lieve che ella, da fanciulla, si fosse accorta dell’affetto che gli aveva ispirato. Ma questa prova, non cercata, non voluta, gli s’era offerta da sé in una di quelle occasioni, in cui la natura umana spezza e scuote ogni imposizione, infrange ogni freno sociale e si scopre qual è, come un vulcano che per tanti inverni si sia lasciato cader neve e neve e neve addosso, a un tratto rigetta quel gelido mantello e scopre al sole le fiere viscere infocate. E l’occasione era stata appunto la malattia del bambino. Tutto immerso negli affari, Gabriele non aveva neppur sospettato la gravità del male e aveva lasciato sola la moglie a trepidare per la vita dei figliuolo; e Flavia in un momento di suprema angoscia, quasi delirante, aveva parlato, s’era sfogata con lui, gli aveva lasciato intravedere che ella aveva tutto compreso, sempre, sempre, fin dal primo momento.

 

E ora?

– Ditemi, per carità, dottore! – insistette Flavia, esasperata, nel vederlo cosí sconvolto e taciturno. – È grave assai?

– Sí, – rispose egli, cupo, bruscamente.

– Il cuore? Che male? Cosí all’improvviso? Ditemelo!

– Vi giova saperlo? Termini di scienza: che c’intendereste?

Ma ella volle sapere.

– Irreparabile? – chiese poi.

Egli si tolse le lenti, strizzò gli occhi, poi esclamò:

– Ah, non cosí, non cosí, credetemi! Vorrei potergli dare la mia vita.

Flavia diventò pallidissima; guardò il marito, e disse piú col cenno che con la voce:

– Tacete.

– Voglio che lo sappiate, – aggiunse egli. – Ma già m’intendete, non è vero? Tutto, tutto quello che mi sarà possibile… Senza pensare a me, a voi…

– Tacete, – ripeté ella, come inorridita.

Ma egli seguitò:

– Abbiate fiducia in me. Non abbiamo nulla da rimproverarci. Del male ch’egli mi fece, non ha sospetto, e non ne avrà. Avrà tutte le cure che potrà prestargli l’amico piú devoto.

Flavia, ansante, vibrante, non staccava gli occhi dal marito.

– Si riscuote! – esclamò a un tratto.

Il Sarti si volse a guardare.

– No…

– Sí, s’è mosso, – aggiunse ella piano.

Rimasero un pezzo sospesi, a spiare. Poi egli si accostò al canapè, si chinò sul giacente, gli prese il polso e chiamò:

– Gabriele… Gabriele…

IV

Pallido, ancora un po’ affannato per tutti i respiri che s’era affrettato a trarre appena rinvenuto, Gabriele pregò la moglie di andarsene.

– Non mi sento piú nulla. Prendi, prendi la carrozza e vai pure a passeggio, – disse, per rassicurarla. – Voglio parlare con Lucio. Va’.

Flavia, per non dargli sospetto della gravità del male, finse d’accettar l’invito; gli raccomandò tuttavia di non agitarsi troppo, salutò il dottore e rientrò in casa.

Gabriele rimase un pezzo assorto, guardando la bussola per cui ella era uscita; poi si recò una mano al petto, sul cuore, e seguitando a tener fissi gli occhi, mormorò:

– Qua, è vero? Tu mi hai ascoltato… Io… Che cosa buffa! Mi pareva che quel signor… come si chiama?… Lapo, sí: quell’ometto dall’occhio di vetro, mi tenesse legato, qua; e non potevo svincolarmi; tu ridevi e dicevi: Insufficienza… è vero?… insufficienza delle valvole aortiche…

Lucio Sarti, nel sentir proferire quelle parole da lui dette a Flavia, allibí. Gabriele si scosse, si voltò a guardarlo e sorrise:

– T’ho sentito, sai?

– Che… che hai sentito? – balbettò il Sarti, con un sorriso squallido su le labbra, dominandosi a stento.

– Quello che hai detto a mia moglie, – rispose, calmo, Gabriele, fissando di nuovo gli occhi, senza sguardo. – Vedevo… mi pareva di vedere, come se avessi gli occhi aperti… sí! Dimmi, ti prego, – aggiunse, riscotendosi, – senza ambagi, senza pietose bugie: quanto posso vivere ancora? Quanto meno, tanto meglio.

Il Sarti lo spiava, oppresso di stupore e di sgomento, turbato specialmente da quella calma. Ribellandosi con uno sforzo supremo all’angoscia che lo istupidiva, scattò.

– Ma che ti salta in mente?

– Un’ispirazione! – esclamò Gabriele, con un lampo negli occhi. – Ah, perdio!

E sorse in piedi. Si recò ad aprir l’uscio che dava nella stanza del banco e chiamò il Bertone.

– Senti, Carlo: se tornasse quell’ometto che è venuto stamattina, fallo aspettare. Anzi manda subito a chiamarlo, o meglio: va’ tu stesso! Subito, eh?

Richiuse l’uscio e si voltò a guardare il Sarti, stropicciandosi le mani, allegramente:

– Me l’hai mandato tu. Ah, l’acciuffo per quei capelli svolazzanti e lo pianto qua, tra me e te. Dimmi, spiegami subito come si fa. Voglio assicurarmi. Tu sei il medico della Compagnia, è vero?

Lucio Sarti, angosciato dal dubbio tremendo che l’Orsani avesse inteso tutto quello ch’egli aveva detto a Flavia, rimase stordito a quella subitanea risoluzione; gli parve senza nesso, ed esclamò, sollevato per il momento da un gran peso:

– Ma è una pazzia!

– No, perché? – rispose, pronto, Gabriele. – Posso pagare, per quattro o cinque mesi. Non vivrò piú a lungo, lo so!

– Lo sai? – fece il Sarti, forzandosi a ridere. – E chi ti ha prescritto i termini cosí infallibilmente? Va’ là! va’ là!

Rinfrancato, pensò che fosse una gherminella per fargli dire quel che pensasse della sua salute. Ma Gabriele, assumendo un’aria grave, si mise a parlargli del suo prossimo crollo inevitabile. Il Sarti sentí gelarsi. Ora vedeva il nesso e la ragione di quella risoluzione improvvisa, e si sentí preso al laccio, a una terribile insidia, ch’egli stesso, senza saperlo, si era tesa quella mattina, inviando all’Orsani quell’ispettore della Compagnia d’Assicurazione, di cui era il medico. Come dirgli, adesso, che non poteva in coscienza prestarsi ad ajutarlo, senza fargli intendere nello stesso tempo la disperata gravità del male, che gli s’era cosí d’un colpo rivelato?

– Ma tu, col tuo male, – disse, – puoi vivere ancora a lungo, a lungo, mio caro, purché t’abbi un po’ di riguardo…

– Riguardo? Come? – gridò Gabriele. – Son rovinato, ti dico! Ma tu ritieni che io possa vivere ancora a lungo? Bene. E allora, se è vero questo, non avrai difficoltà…

– E i tuoi calcoli allora? – osservò il Sarti con un sorriso di soddisfazione, e aggiunse, quasi per il piacere di chiarire a se stesso quella felice scappatoja, che gli era balenata all’improvviso: – Se dici che per tre o quattro mesi soltanto potresti far fronte…

Gabriele rimase un po’ sopra pensiero.

– Bada, Lucio! Non ingannarmi, non mettermi davanti questa difficoltà per avvilirmi, per non farmi commettere un’azione che tu disapprovi, è vero? e a cui non vorresti partecipare, sia pure con poca o nessuna tua responsabilità…

– T’inganni! – scappò detto al Sarti.

Gabriele sorrise allora amaramente.

– Dunque è vero, – disse, – dunque tu sai che io sono condannato, tra poco, forse prima ancora del tempo calcolato da me. Ma già, ti ho sentito. Basta, dunque! Si tratta ora di salvare i miei figliuoli. E li salverò!   Se m’ingannassi, non dubitare, saprei procurarmi a tempo la morte, di nascosto.

Lucio Sarti si alzò, scrollando le spalle, e cercò con gli occhi il cappello.

– Vedo che tu non ragioni, mio caro. Lascia che me ne vada.

– Non ragiono? – disse Gabriele, trattenendolo per un braccio. – Vieni qua! Ti dico che si tratta di salvare i miei figliuoli! Hai capito?

– Ma come vuoi salvarli? Vuoi salvarli sul serio, cosí?

– Con la mia morte.

– Pazzie! Ma scusa, vuoi ch’io stia qua a sentir codesti discorsi?

– Sí – disse con violenza Gabriele, senza lasciargli il braccio. – Perché tu devi ajutarmi.

– A ucciderti? – domandò il Sarti, con tono derisorio.

– No: a questo, se mai, ci penserò io…

– E allora… a ingannare? a… a rubare, scusa?

– Rubare? A chi rubo? Rubo per me? Si tratta d’una Società esposta per se stessa al rischio di siffatte perdite… Lasciami dire! Quel che perde con me, lo guadagnerà con cento altri. Ma chiamalo pur furto… Lascia fare! Ne renderò conto a Dio. Tu non c’entri.

– T’inganni! – ripeté con piú forza il Sarti.

– Viene forse a te quel danaro? – gli domandò allora Gabriele, figgendogli gli occhi negli occhi. – L’avrà mia moglie e quei tre poveri innocenti. Quale sarebbe la tua responsabilità?

 

D’un tratto, sotto lo sguardo acuto dell’Orsani, Lucio Sarti comprese tutto: comprese che Gabriele aveva bene udito e che si frenava ancora perché voleva prima raggiungere il suo scopo: porre cioè un ostacolo insormontabile fra lui e la moglie, facendolo suo complice in quella frode. Egli, infatti, medico della Compagnia, dichiarando ora sano Gabriele, non avrebbe poi potuto far piú sua Flavia, vedova, a cui sarebbe venuto il premio dell’assicurazione, frutto del suo inganno. La Società avrebbe agito, senza dubbio, contro di lui. Ma perché tanto e cosí feroce odio fin oltre la morte? Se egli aveva udito, doveva pur sapere che nulla, nulla aveva da rimproverare né a lui, né alla moglie. Perché, dunque?

Sostenendo lo sguardo dell’Orsani, risoluto a difendersi fino all’ultimo, gli domandò con voce mal ferma:

– La mia responsabilità, tu dici, di fronte alla Compagnia?

– Aspetta! – riprese Gabriele, come abbagliato dall’efficacia stringente del suo ragionamento. – Devi pensare che io sono tuo amico da prima assai che tu diventassi il medico di codesta Compagnia. È vero?

– È vero… ma… – balbettò Lucio.

– Non turbarti! Non voglio rinfacciarti nulla; ma solo farti osservare che tu, in questo momento, in queste condizioni, pensi, non a me, come dovresti, ma alla Compagnia…

– Al mio inganno! – replicò il Sarti, fosco.

– Tanti medici s’ingannano! – ribatté subito Gabriele. – Chi te ne può accusare? Chi può dire che in questo momento io non sia sano? Vendo salute! Morrò di qui a cinque o sei mesi. Il medico non può prevederlo. Tu non lo prevedi. D’altra parte, il tuo inganno, per te, per la tua coscienza, è carità d’amico.

Annichilito, col capo chino, il Sarti si tolse le lenti, si stropicciò gli occhi; poi, losco, con le palpebre semichiuse, tentò con voce tremante l’estrema difesa:

– Preferirei – disse, – dimostrartela altrimenti, questa che tu chiami carità d’amico.

– E come?

– Ricordi dove morí mio padre e perché?

Gabriele lo guatò, stordito; bisbigliò tra sé:

– Che c’entra?

– Tu non sei al mio posto, – rispose il Sarti, risoluto, aspro, rimettendosi le lenti. – Non puoi giudicarne. Ricordati come sono cresciuto. Ti prego, lasciami agire correttamente, senza rimorsi.

– Non capisco, – rispose Gabriele con freddezza, – che rimorso potrebbe essere per te l’aver beneficato i miei figliuoli…

– Col danno altrui?

– Io non l’ho cercato.

– Sai di farlo!

– So qualche altra cosa che mi sta piú a cuore e che dovrebbe stare a cuore anche a te. Non c’è altro rimedio! Per un tuo scrupolo, che non può essere anche mio ormai, vuoi che rigetti questo mezzo che mi si offre spontaneo, quest’ancora che tu, tu stesso m’hai gettata?

S’appressò all’uscio, ad origliare, facendo cenno al Sarti di non rispondere.

– Ecco, è venuto!

– No, no, è inutile, Gabriele! – gridò allora il Sarti, risolutamente. – Non costringermi!

L’Orsani lo afferrò per un braccio:

– Bada, Lucio! È l’ultima mia salvezza.

– Non questa, non questa! – protestò il Sarti. – Senti, Gabriele: quest’ora sia sacra per noi. Io ti prometto che i tuoi figliuoli…

Ma Gabriele non lo lasciò finire:

– L’elemosina? – disse, con un ghigno.

– No! – rispose Lucio, pronto. – Renderei a loro quel che m’ebbi da te!

– A qual titolo? Come vorresti provvedere ai miei figliuoli? Tu? Hanno una madre! A qual titolo? Non di semplice gratitudine, è vero? Tu menti! Per altro fine ti ricusi, che non puoi confessare.

Cosí dicendo, lo afferrò per le spalle e lo scosse, intimandogli di parlar piano e domandandogli fino a che punto avesse osato ingannarlo. Il Sarti tentò di svincolarsi, difendendo dall’atroce accusa sé e Flavia e rifiutandosi ancora di cedere a quella violenza.

– Voglio vederti! – ruggí a un tratto fra i denti l’Orsani.

D’un balzo aprí l’uscio e chiamò il Vannetti, mascherando subito l’estrema concitazione con una tumultuosa allegria:

– Un premio, un premio, – gridò, investendo l’ometto cerimonioso, – un grosso premio, signor ispettore, all’amico nostro, al nostro dottore, che non è soltanto il medico della Compagnia, ma il suo piú eloquente avvocato. M’ero quasi pentito; non volevo saperne… Ebbene, lui, lui mi ha persuaso, mi ha vinto… Gli dia, gli dia subito da firmare la dichiarazione medica: ha premura, deve andar via. Poi noi stabiliremo il quanto e il come…

Il Vannetti, felicissimo, tra uno scoppiettío di esclamazioni ammirative e di congratulazioni, trasse dalla cartella un modulo a stampa, e ripetendo: – Formalità… formalità… – lo porse a Gabriele.

– Ecco, scrivi, – disse questi, rimettendo il modulo al Sarti, che assisteva come trasognato a quella scena e vedeva ora in quell’omiciattolo sbricio, quasi artefatto, estremamente ridicolo, la personificazione del suo sconcio destino.

1.8 Formalidades

En el amplio escritorio del Banco Orsani, el viejo empleado Carlo Bertone, con el bonete en la cabeza, las gafas en la punta de la nariz como para expulsar de ella los dos mechones de pelos grises, estaba haciendo una cuenta bastante difícil en pie, delante de una alta escribanía sobre la cual había un gran libro maestro. Detrás de él, Gabriele Orsani, muy pálido y con los ojos hundidos, seguía la operación, azuzando de vez en cuando con la voz al viejo empleado, al que, conforme la suma aumentaba, parecía faltarle la fuerza para llegar hasta el fondo.

– ¡Estas malditas gafas! – exclamó en cierto momento, en un pronto de impaciencia, haciendo que las gafas saltaran, con un golpe de los dedos, de la punta de la nariz al registro.

Gabriele Orsani rompió a reír:

– ¿Qué te dejan ver estas gafas? ¡Pobre viejo mío, vaya! Cero, ¡hombre!, cero, cero…

Entonces, Bertone, irritado, cogió de la escribanía el gran libro:

– ¿Deja que me vaya allí?? Aquí, con usted así, no es posible… ¡Se necesita calma!

– Buen Carlo, sí, – aprobó Orsani irónicamente. – Calma, calma… Y entretanto – añadió, indicando el registro, – te llevas encima este mar en tempestad.

Fue a echarse en una silla reclinable cerca de la ventana y encendió un cigarrillo.

La cortina azul, que mantenía la sala en una agradable penumbra, se hinchaba de vez en cuando con el soplo de aire que llegaba del mar. Entraba más fuerte entonces, con la súbita luz, el fragor del mar que rompía en la playa.

Antes de salir, Bertone le propuso al jefe que escuchara a un «curioso» señor que esperaba allí: mientras tanto, él haría en paz esa cuenta tan complicada.

– ¿Curioso? – preguntó Gabriele. – ¿Y quién es?

– No sé: espera desde hace media hora. Lo manda el doctor Sarti.

– Entonces, hazlo pasar.

Entró poco después un hombrecillo de unos cincuenta años, con los cabellos grises, peinados en dos crenchas, agitados. Parecía un fantoche automático al que alguien le hubiera dado cuerda para que hiciera esas reverencias y gesticulara de modo tan cómico.

Manos, aún tenía dos; ojos, solo uno; pero él tal vez en serio creía insinuar que todavía tenía dos, ocultando el ojo de vidrio tras un monóculo que parecía luchar terriblemente para corregirle ese pequeño defecto de la vista.

Presentó a Orsani su tarjeta de visita, concebida así:

LAPO VANNETTI
Inspector de la
London Life Assurance Society Limited
(Capit. social 4.500.000 liras – Capit. depositado 2.559.400 liras)

– ¡Muy apreciado señor! – comenzó, y no terminaba.

Además del defecto de la vista, tenía otro de pronunciación; y del mismo modo que intentaba disimular aquél tras el monóculo, intentaba esconder éste apoyando una risita en cada g que pronunciaba en lugar de la rr.

En vano Orsani intentó interrumpirlo varias veces.

– Estoy de paso por esta gespetabilísima provincia, – intentaba decir el hombrecillo, con vertiginoso lenguaje, – donde que, por mérito de nuestra Sociedad, la más antigua, la más prestigiosa de cuantas existen de este tipo, he gealizado contratos muy buenos, muy buenos, sí señor, en todas las combinaciones especiales que esta les ofrece a sus asociados, y esto sin hablar de las ventajas excepcionales que brevemente expondré para cada combinación, a su elección.

Gabriel Orsani se sintió humillado; pero el señor Vannetti lo remedió enseguida: él solo comenzó a hacerlo todo, preguntas y respuestas, a plantear dudas y a dar aclaraciones:

– Aquí usted, amabilísimo señor, ¡eh, lo sé! Podría decirme, objetarme: Pues, sí, querido Vannetti, de acuerdo: plena confianza en vuestra compañía; pero, ¿cómo se hace? Para mí es un poco demasiado fuerte, pongamos, esta tarifa; no tengo tanto margen en mi balanza, y entonces… (cada uno conoce los asuntos de su casa, y aquí usted dice muy bien: en este punto, querido Vannetti, no admito discusiones). He aquí que yo, sin embargo, muy amable señor, me permito hacerle una observación: ¿Y las ventajas especiales que ofrece nuestra Compañía? Eh, lo sé, dice usted: todas las Compañías, una más que otra, las ofrecen. No, no, perdóneme, señor, si me atrevo a poner en duda esta afirmación. Las ventajas…

A este punto, Orsani, viéndolo sacar de una carpeta de cuero un haz de prospectos impresos, extendió las manos, como para defenderse:

– Perdone, – gritó. – He leído en un periódico que una Compañía ha asegurado no sé por cuánto la mano de un célebre violinista: ¿es verdad?

El señor Lapo Vannetti se quedó un instante desconcertado; luego sonrió y dijo:

– ¡Americanadas! Sí, señor. Pero nosotros…

– Se lo pregunto, – reanudó, sin perder tiempo, Gabriel, – porque también yo, una vez, ¿sabe?…

E hizo como que tocaba el violín.

Vannetti, aún sin reponerse del todo, creyó oportuno congratularse de ello:

– ¡Ah, muy bien!, ¡muy bien! Pero nosotros, perdone, en verdad, no hacemos estas operaciones.

– ¡Sería muy útil, sin embargo! – suspiró Orsani poniéndose en pie. – Poder asegurar todo lo que dejamos o perdemos a lo largo de la vida: ¡los cabellos o los dientes, por ejemplo! ¿Y la cabeza? La cabeza se pierde tan fácilmente… He aquí: el violinista, la mano; un petimetre, los cabellos; un tragaldabas, los dientes; un hombre de negocios, la cabeza… ¡Piénselo! Es una idea genial…

Se dirigió para tocar un timbre eléctrico en la pared, cerca de la escribanía, añadiendo:

– Disculpe un momento, querido señor.

Vannetti, mortificado, se inclinó. Le pareció que Orsani, para quitárselo de en medio, había querido hacer una alusión, verdaderamente poco amable, a su ojo de cristal.

Volvió a entrar en el escritorio Bertone, con un aire más que perdido.

– En el casillero del estante de tu escribanía, – le dijo Gabriel, – en la letra A…

– ¿Las cuentas de la azufrera? – preguntó Bertone.

– Las últimas, después de la construcción del plano inclinado…

Carlo Bertone bajó varias veces la cabeza:

– Lo he tenido en cuenta.

Orsani escrutó los ojos del viejo empleado; se quedó con el entrecejo fruncido, absorto; luego, le preguntó:

– ¿Y bien?

Bertone, aturdido, miró a Vannetti.

Este comprendió entonces que estaba de más en ese momento; y retomando su actitud ceremoniosa, se despidió.

– No es preciso nada más, conmigo. Comprendo al vuelo. Me retiro. Quiere decir que, si no le molesta, voy a tomar algo aquí cerca, y vuelvo. No se preocupe. No se moleste, ¡por favor! Conozco el camino. Hasta la vista.

Otra reverencia más, y fuera.

II

– ¿Y bien? – le preguntó de nuevo Gabriele Orsani al viejo empleado, apenas Vannetti hubo salido.

– Esa… esa construcción… justo ahora, – respondió, casi balbuciendo, Bertone.

Gabriele se enfureció.

– ¿Cuántas veces me lo has dicho? ¿Qué querías que hiciera, por lo demás? ¿Rescindir el contrato, verdad? Pero si, para todos los acreedores, esa azufrera representa aún la esperanza de mi solvencia… ¡Lo sé! ¡Lo sé! Han sido más de ciento treinta mil liras tiradas ahí, en este momento, sin fruto… ¡Lo sé mejor que tú!… No me hagas gritar.

Bertone se pasó varias veces las manos por los ojos cansados; luego, sacudiéndose la manga, donde no había ni huella de polvo, dijo lentamente, como si se hablara a sí mismo:

– Ojalá hubiera un modo, al menos, de conseguir dinero para mover ahora toda esa maquinaria que… que ni siquiera está completamente pagada. Pero tenemos también los plazos de las letras en el banco…

Gabriele Orsani, que se había puesto a pasear por el escritorio, con las manos en los bolsillos, ceñudo, se detuvo:

– ¿Cuánto?

– Eh… – suspiró Bertone.

– Eh… – repitió Gabriele; luego, estallando: – ¡Oh, en suma! Cuéntamelo todo. Habla francamente: ¿está terminado?, ¿desplome? ¡Sea alabada y agradecida la buena y santa memoria de mi padre! Quiso ponerme aquí, a la fuerza: yo he hecho lo que tenía que hacer: tabla rasa, ¡no se hable más!

– Pero no, no se desespere, ahora… – dijo Bertone, conmovido. – Ciertamente el estado de las cosas… ¡Déjeme hablar!

Gabriele Orsani puso las manos en los hombros del viejo empleado:

– Pero ¿qué quieres decir, viejo mío, qué quieres decir? Estás temblando completamente. No así, ahora; antes, antes, con la autoridad que te daban tus cabellos blancos, tenías que haberte opuesto a mí, a mis proyectos, tenías que haberme aconsejado entonces, tú que sabías que yo era un inepto para los negocios. ¿Quisiste ilusionarme así? ¡Me das pena!

– ¿Qué podía yo?… – dijo Bertone, con las lágrimas en los ojos.

– ¡Nada! – exclamó Orsani. – Ni siquiera yo. Necesito enfadarme con alguien, no te preocupes. Pero ¿es posible?, ¿yo, yo, aquí, metido en negocios? Si no sé ver aún cuáles han sido, en el fondo, mis errores…    Además de esto último de la construcción del plano inclinado, al que me he visto obligado con el agua a la garganta… ¿Cuáles han sido mis errores?

Bertone se encogió de hombros, cerró los ojos y abrió las manos, como para decir: ¿De qué sirve ahora?

– Mejor, los remedios… – sugirió con voz opaca, de llanto.

Gabriele Orsani prorrumpió de nuevo en risas.

– ¡El remedio lo sé! Volver a coger mi viejo violín, el que mi padre me quitó de las manos para condenarme aquí, a esta hermosa diversión, e irme como un ciego, de puerta en puerta, a tocar sonatinas para darles un pedazo de pan a mis hijos. ¿Qué te parece?

– Déjeme hablar, – repitió Bertone, entornando los ojos. – En definitiva, si podemos superar estos próximos plazos, restringiendo, naturalmente, todos, todos los gastos (incluso… ¡perdone!… los de la casa), creo que… al menos durante cuatro o cinco meses podremos hacer frente a los compromisos. Entretanto…

Gabriele Orsani sacudió la cabeza, sonrió; después, suspirando profundamente, dijo:

– ¡El Hermano Tiempo es un monje, viejo mío, que quiere ilusionarme!

Pero Bertone insistió en sus previsiones y salió del escritorio para acabar de precisar el cuadro completo de las cuentas.

– Se lo mostraré. Permítame un momento.

Gabriele fue a tirarse de nuevo en la tumbona, cerca de la ventana y, con las manos cruzadas detrás de la nuca, se puso a pensar.

Nadie sospechaba todavía nada; pero, para él, ya no había ninguna duda: algún mes más de desesperados remedios, y luego, el hundimiento, la ruina.

Desde hacía cerca de veinte días no se alejaba del escritorio. Como si ahí, del estante de la escribanía, de los grandes libros de la caja, esperara alguna sugerencia. La violenta, inútil tensión del cerebro poco a poco, sin embargo, en contra de todo esfuerzo, se le debilitaba, la voluntad se le aturdía; y él se daba cuenta solo cuando, al fin, se encontraba atónito o absorto en pensamientos ajenos, distantes del tormento habitual.

Volvía entonces a lamentarse, con creciente exasperación, de su ciega, supina obediencia a la voluntad del padre que lo había apartado de su amado estudio de las ciencias matemáticas, de la pasión por la música, y que lo había arrojado allí, a ese turbio mar insidioso de los negocios comerciales. Después de tantos años, sentía aún el desgarro que había sentido al dejar Roma. Había vuelto a Sicilia con el título de doctor en ciencias físicas y matemáticas, con un violín y un ruiseñor. ¡Feliz inconsciencia! Había esperado poder dedicarse aún a sus amadas ciencias, a su amado instrumento, en el tiempo libre que los complicados negocios del padre le dejaran. ¡Feliz inconsciencia! Una sola vez, cerca de tres meses después de su llegada, sacó de su estuche el violín, pero para guardar dentro, como en una tumba digna, el ruiseñor muerto y embalsamado.

Y aún se preguntaba a sí mismo cómo el padre, tan experto en sus asuntos, no se había dado cuenta de la absoluta ineptitud del hijo. Quizás le había cegado la pasión que tenía por el comercio, el deseo de que la antigua empresa Orsani no cesara, y quizás se había ilusionado con que, con la práctica de los negocios, con la seducción de las grandes ganancias, poco a poco, el hijo lograría adaptarse y tomarle gusto a ese género de vida.

Pero ¿para qué lamentarse del padre, si él se había doblegado a sus deseos sin oponer la más mínima resistencia, sin arriesgar la más tímida observación, como en un pacto establecido desde el nacimiento y no discutible ya? ¿Si él mismo, precisamente para librarse de las tentaciones que podían llegarle del ideal de una vida tan diferente, soñado hasta entonces, había resuelto casarse, desposar a aquella que le habían destinado desde hacía tanto tiempo: la prima huérfana, Flavia?

Como todas las mujeres de ese odiado pueblo en el que los hombres, en medio de la fatiga y de la consternación habitual de los negocios arriesgados, no encontraban tiempo para dedicárselo al amor, Flavia, que podría haber sido para él la única rosa entre las espinas, se había amoldado rápidamente, sin pesar, como colaborando, a la parte modesta de atender la casa, para que ningún bien material le faltara al marido cuando, cansado, agotado, llegaba de las azufreras o del banco o de los depósitos de azufre a lo largo de la llanura, donde, todo el día, bajo un sol ardiente, había atendido la exportación del mineral.

Muerto el padre casi repentinamente, se había quedado a cargo de la empresa, en la que aún no podía ver claro. Solo, sin guía, había esperado un tiempo para poder liquidarlo todo y retirarse del comercio. ¡Pero sí! Casi todo el capital estaba empeñado en la producción de las azufreras. Y se resignó de nuevo a continuar por ese camino, tomando como guía a aquel buen hombre de Bertone, viejo escribiente del banco, en el que el padre siempre había depositado la mayor confianza.

Qué desorientación bajo el peso de la responsabilidad que se le había desplomado encima de improviso, vuelta aún más grave por el remordimiento de haber puesto en el mundo tres hijos, amenazados ahora por su ineptitud en el bienestar, ¡en la vida! Ah, él, hasta ahora, no había pensado en eso; un animal vendado en la traba de un molino. Había sido siempre doloroso su amor por la mujer, por los hijos, testimonios vivos de su renuncia a otra vida; pero ahora le envenenaba el corazón de amarga compasión. Ya no podía oír a los niños llorar o lamentarse mínimamente; se decía enseguida a sí mismo:

– ¡Esto, por mi culpa! – y la amargura se le quedaba encerrada dentro del pecho, sin desahogo. Flavia no se había preocupado ni siquiera de buscar el modo de entrar en su corazón; pero, quizás, al verlo triste, absorto y taciturno, tampoco había supuesto que él guardase dentro algún pensamiento que no fuera los negocios. También ella, quizás, se lamentaba en su corazón del abandono en que él la dejaba; pero no sabía reprochárselo, suponiendo que se veía obligado a ello por los complicados negocios, por las preocupaciones angustiosas de su empresa.

Algunas tardes veía a la mujer apoyada en la baranda de la amplia terraza de la casa, hasta cuyas paredes el mar casi llegaba azotando.

Desde aquella terraza que parecía el alcázar de un barco, ella miraba absorta la noche centelleante de estrellas, llena del negro y eterno lamento de aquella infinita extensión de aguas, ante la cual los hombres, con confianza valiente, habían construido sus pequeñas casas, poniendo su vida casi a merced de lejanas gentes. Llegaba de vez en cuando del puerto el silbido ronco, profundo, melancólico de algún vapor que se disponía a zarpar. ¿Qué pensaba en esa actitud? Quizás también a ella el mar, con el lamento de las aguas inquietas, le confiaba oscuros presagios.

Él no la llamaba; sabía, sabía bien que ella no podía entrar en su mundo, pues ambos, a la fuerza, habían sido empujados a dejar sus propios caminos. Y allí, en la terraza, sentía que se le llenaban los ojos de lágrimas silenciosas. ¿Así siempre, hasta la muerte, sin cambio alguno?  En la intensa conmoción de esas tétricas tardes, la inmovilidad de la condición de la propia existencia le resultaba intolerable, le sugería pensamientos súbitos, extraños, casi barruntos de locura. ¿Cómo un hombre, sabiendo que solo se vive una vez, podía resignarse a seguir durante toda la vida un camino odioso? Y pensaba en otros muchos infelices, obligados por la suerte a trabajos más duros y más ingratos. Alguna vez, un llanto conocido, el llanto de alguno de sus hijos, le hacía volver en sí de improviso. Incluso Flavia se sacudía de sus fantasías; pero él se apresuraba a decir: – ¡Voy yo! – Sacaba del lecho al niño, y se ponía a pasear por la habitación, meciéndolo entre los brazos, para dormirlo y casi para dormir a la vez su pena. Poco a poco, con el sueño de la criaturita, la noche se volvía más tranquila también para él; y, puesto el niño de nuevo en la camita, se detenía un rato a mirar a través de los cristales de la ventana, en el cielo, la estrella que brillaba más…

Habían pasado así nueve años. Al principio de este año, precisamente cuando la posición financiera empezaba a ensombrecerse, Flavia había comenzado a excederse demasiado en ciertos gastos de lujo; había querido incluso para ella una carroza; y él no había sabido oponerse.

Ahora Bertone le aconsejaba que limitara todos los gastos y también, incluso de modo especial, los de la casa.

Ciertamente el doctor Sarti, su íntimo amigo desde la infancia, le había aconsejado a Flavia que cambiara de vida, que se divirtiera un poco, para vencer la depresión nerviosa que tantos años de encerrada, monótona existencia le habían causado. Ante esta reflexión, Gabriele se sacudió, se levantó de la tumbona y se puso a pasear por el escritorio, pensando ahora en el amigo Luigi Sarti, con un sentimiento de envidia y despecho.

Habían estado juntos en Roma, de estudiantes.

Tanto el uno como el otro, entonces, no podían estar un solo día sin verse; y, hasta poco tiempo atrás, esa unión antigua de fraterna amistad no se había debilitado, de hecho. Él se impedía absolutamente fundar la razón de tal cambio en una impresión que tuvo durante la última enfermedad de uno de sus hijos, o sea, que Sarti hubiera mostrado exageradas atenciones por su mujer: una impresión y nada más, conociendo por experiencia la rigidísima honestidad del amigo y de la mujer.

Era verdadero e innegable, sin embargo, que Flavia concordaba en todo y por todo con el modo de pensar del doctor: en las discusiones, tan frecuentes desde hacía algún tiempo, ella asentía siempre con la cabeza a las palabras de él, ella que habitualmente, en casa, no hablaba nunca. Se había irritado. Si ella aprobaba esas ideas, ¿por qué no se las había manifestado antes? ¿Por qué se había puesto a discutir con él sobre la educación de los hijos, por ejemplo, si aprobaba los rígidos criterios del doctor, antes que los suyos? Y había llegado incluso a acusar a la mujer de querer poco a los hijos. Pero debía hablar precisamente así, si ella, considerando en conciencia que él educaba mal a los hijos, se había callado siempre, esperando que otro iniciara esa conversación.

Sarti, por lo demás, no habría debido entrometerse. Desde hacía algún tiempo, a Gabriele le parecía que el amigo olvidaba demasiadas cosas: olvidaba, por ejemplo, que se lo debía todo, o casi todo, a él.

¿Quién, si no él, de hecho, lo había sacado de la miseria en que las culpas de los padres lo habían arrojado? El padre había muerto en la cárcel, por robos; de la madre, que se lo había llevado consigo a la ciudad vecina, se había escapado apenas pudo entrever con el uso de la razón a qué tristes medios había recurrido para vivir. Pues bien, él lo había quitado de un miserable café en que se había reducido a trabajar y le había encontrado un puesto en el banco del padre; le había prestado sus libros, sus apuntes de la escuela, para que estudiara; en definitiva, le había abierto el camino, le había franqueado el futuro.

Y ahora, en fin, Sarti había logrado una posición tranquila y segura con su trabajo, con sus dotes naturales, sin tener que renunciar a nada: era un hombre; mientras que él… ¡él estaba al borde de un abismo!

Dos golpes en la puerta de cristales que daba a las habitaciones reservadas a la vivienda sacudieron a Gabriele de estas amargas reflexiones.

– Adelante – dijo.

Y Flavia entró.

III

Llevaba un vestido azul oscuro que parecía pintado sobre su flexible y hermosa persona, a cuya belleza rubia le daba un maravilloso resalte. Llevaba en la cabeza un rico pero simple sombrero oscuro; se estaba abotonando aún los guantes.

– Quería preguntarte, – dijo – si necesitas la carroza, porque el bayo no se puede enganchar hoy a la mía.

Gabriele la miró como si ella viniese, tan elegante y ligera, de un mundo ficticio, vaporoso, de sueño, donde se hablara un lenguaje ya para él completamente incomprensible.

– ¿Cómo? – dijo. – ¿Por qué?

– Bah, parece que lo han enclavado, pobrecito. Cojea de un pie.

– ¿Quién?

– El bayo, ¿no oyes?

– Ah, dijo Gabriele, volviendo en sí. – ¡Qué desgracia, por Dios!

– No pretendo que te aflijas, – dijo Flavia, resentida. – Te he pedido la carroza. Iré a pie.

Y se dispuso a salir.

– Puedes cogerla; no la necesito – se apresuró entonces a añadir Gabriele. – ¿Vas sola?

– Con Carluccio. Aldo y Titti están castigados.

– ¡Pobres pequeño! – suspiró Gabriele, casi sin querer.

A Flavia le pareció que esta conmiseración era un reproche para ella, y le rogó al marido que la dejara hacer.

– Claro, claro, si se han comportado mal – dijo él entonces. – Pensaba que, sin haber hecho nada, sentirán quizás, dentro de algunos meses, que sobre sus cabezas cae un castigo más grande.

Flavia se volvió a mirarlo.

– ¿Cuál?

– Nada, querida. Una cosa levísima, como el velo o una pluma de este sombrero. La ruina, por ejemplo, de nuestra casa. ¿Te basta?

– ¿La ruina?

– La miseria, sí. Y quizás peor, para mí.

– ¿Qué dices?

– Pues sí, quizás incluso… ¿Te sorprendes?

Flavia se acercó, turbada, con los ojos fijos en el marido, como dudando que él estuviera hablando en serio.

Gabriele, con una sonrisa nerviosa en los labios, respondió lentamente, con calma, a sus rápidas preguntas, como si no se tratara de su propia ruina; luego, al ver a la mujer trastornada:

– ¡Eh, querida mía! – exclamó. – Si te hubieras ocupado un poquito de mí, si hubieses intentado, en tantos años, entender qué placer me suscitaba este gracioso trabajo, no sentirías ahora tanto asombro. No todos los sacrificios son posibles. Y cuando un pobre hombre se ve obligado a hacer uno superior a sus propias fuerzas…

– ¿Obligado? ¿Quién te ha obligado? – dijo Flavia, interrumpiéndolo, puesto que él había acentuado esa palabra.

Gabriele miró a su mujer, como trastornado por la interrupción y por la actitud de desafío que ella, dominando ahora su agitación interior, asumía frente a él. Sintió que un vómito de bilis le subía a la garganta y le secaba la boca. Sin embargo, abriendo de nuevo los labios con la sonrisa nerviosa de antes, ahora más escuálida, preguntó:

– ¿Espontáneamente, entonces?

– ¡Yo, no! – añadió con fuerza Flavia, mirándole a los ojos. – Si es por mí, habrías podido ahorrártelo, este sacrificio. La miseria más escuálida la habría preferido mil veces…

– ¡Cállate! – gritó él fastidiado.  ¡No hables hasta que no sepas de qué se trata!

– ¿Miseria? ¿Y qué he tenido yo de la vida?

– ¿Ah, tú? ¿Y yo?

Se quedaron un momento encendidos y vibrantes, uno frente al otro, casi aturdidos por su recíproco odio íntimo, encubado durante tantos años a escondidas, y que había estallado ahora, de improviso, sin su voluntad.

– ¿Por qué, pues, te lamentas de mí? – retomó Flavia con ímpetu. – Si yo no me he preocupado por ti, ¿cuándo lo has hecho tú por mí? Me echas en cara ahora tu sacrificio, ¡como si yo no me hubiera sacrificado por ti, y no estuviera condenada aquí a representar para ti la renuncia a la vida que soñabas! ¿Y esta tenía que ser para mí la vida? Tú, ningún deber de amarme. La cadena te aprisionaba aquí, a un trabajo forzado. ¿Se puede amar la cadena? Y yo tenía que estar contenta, ¿no es verdad?, con que tú trabajaras, y no pretender nada más de ti. No he hablado nunca. Pero tú me provocas, ahora.

Gabriele se había escondido el rostro entre las manos, murmurando de vez en cuando: – ¡También esto!… ¡también esto!… – Al fin prorrumpió:

– Incluso mis hijos vendrán aquí ahora a reprocharme, como a un trapo inútil, mi sacrificio, ¿no es verdad?

– Malinterpretas mis palabras – respondió ella, sacudiendo un hombro.

– ¡Claro que no! – continuó Gabriele con aire mordaz. – No merezco otro agradecimiento. ¡Llámalos! ¡Llámalos! ¡Los he arruinado, y con toda razón me lo reprocharán!

– ¡No! – se apresuró a decir Flavia, enterneciéndose por los niños.- Pobres pequeños, no te reprocharán la miseria… ¡ no!

Apretó los ojos, se agarró las manos y las sacudió en el aire.

– ¿Y cómo? – exclamó. – Han crecido así…

– ¿Cómo? – saltó él. – ¿Sin guía, no es verdad? ¿También esto me lo echarán en cara? ¡Ve, ve a aleccionarlos! ¿Incluso los reproches de Lucio Sarti, por añadidura?

– ¿Qué tiene que ver Lucio Sarti? – dijo Flavia, aturdida ante esa imprevista pregunta.

– Repites sus palabras – continuó Gabriele, palidísimo, trastornado. – No te queda sino ponerte en la nariz sus gafas de miope.

Flavia suspiró largamente y, entrecerrando los ojos con tranquilo desprecio, dijo:

– Quienquiera que haya entrado un poco en la intimidad de nuestra casa ha podido darse cuenta…

– ¡No, él! – la interrumpió Gabriele con mayor violencia. – ¡Solo él! Él que ha crecido como un verdugo de sí mismo, porque su padre…

Se detuvo, arrepentido de lo que estaba a punto de decir, y continuó:

– No le echo las culpas; pero digo que él no se equivocaba al vivir como ha vivido, vigilando, temeroso, rígido, su más mínimo acto: tenía que salir, ante los ojos de la gente, de la miseria, de la ignominia, en la que lo habían arrojado sus padres. Pero mis hijos, ¿por qué? ¿Por qué tenía yo que ser un tirano, yo, para mis hijos?

– ¿Qué tirano? – intentó observar Flavia.

– ¡Libres, libres! – prorrumpió él. – ¡Yo quería que mis hijos crecieran libres, puesto que yo había sido condenado por mi padre a este suplicio! Y, como un premio me prometía, ¡como único premio!, gozar de su libertad, al menos, lograda a costa de mi sacrificio, de mi existencia rota… inútilmente, ahora, inútilmente rota…

A este punto, como si la excitación crecida poco a poco se le hubiera roto dentro de pronto, él estalló en irrefrenables sollozos; luego, en medio de aquel llanto extraño, convulso, casi rabioso, levantó los brazos temblorosos, sofocado, y se abandonó, desmayado.

Flavia, perdida, aterrada, pidió ayuda. Acudieron de las habitaciones del banco Bertone y otro escribiente. A Gabriele lo levantaron y lo tendieron sobre el canapé, mientras Flavia, viéndole la cara invadida por una palidez cadavérica y mojada por el sudor de la muerte, se agitaba, desesperada:

– ¿Qué tiene?, ¿qué tiene? Dios, pero mire… ¡Ayuda!… ¡Ay, por mi culpa!…

El escribiente corrió a llamar al doctor Sarti, que vivía allí cerca.

– ¡Por mi culpa!… ¡por mi culpa!… – repetía Flavia.

– No, señora – le dijo Bertone, teniendo amorosamente un brazo bajo la cabeza de Gabriele. – Desde esta mañana… Pero ya desde hace un tiempo, aquí… Pobre hijo… ¡Si usted supiese!

– ¡Lo sé! ¡Lo sé!

– ¿Y qué quiere, entonces? ¡Por fuerza!

Entretanto, urgía, urgía el remedio. ¿Qué hacer? ¿Mojarle la frente? Sí… pero quizás mejor un poco de éter. Flavia tocó el timbre, acudió un criado:

– ¡El éter! ¡El tarro del éter, allí, rápido!

– ¡Qué golpe… qué golpe, pobre hijo! – se lamentaba lentamente Bertone, contemplando entre lágrimas el rostro del señor.

– ¿La ruina… justo? – le preguntó Flavia, con un escalofrío.

– ¡Si me hubiera escuchado!… – suspiró el viejo empleado. – Pero él, pobrecillo, no había nacido para estar aquí…

Volvió corriendo el criado, con el tarro del éter.

– ¿En el pañuelo?

– ¡No, mejor en el mismo tarro! Aquí… aquí… – sugirió Bertone. – Levante el dedo… así, para que pueda aspirar lentamente…

Llegó poco después, jadeando, Lucio Sarti, seguido por el escribiente.

Alto, con aspecto rígido, lo que le quitaba toda la gracia a la fina belleza de sus rasgos casi femeninos, Sarti llevaba, muy pegadas a los ojos agudos, unas gafas pequeñas. Casi sin notar la presencia de Flavia, él los apartó a todos, y se inclinó para observar a Gabriele; luego, volviéndose a Flavia, que colmaba con preguntas y exclamaciones su ansia angustiosa, dijo duramente:

– No esté así, se lo ruego. Déjeme escuchar.

Descubrió el pecho del yacente, y apoyó en él el oído, en la parte del corazón. Escuchó un rato; luego se levantó, turbado, y se tocó el pecho, como buscando algo en los bolsillos interiores.

– ¿Y bien? – preguntó de nuevo Flavia.

Él extrajo el estetoscopio, y preguntó:

– ¿Tiene cafeína en casa?

– No… yo no sé, – se apresuró a responder Flavia. – He pedido que traigan el éter…

– No sirve.

Se acercó al escritorio, escribió una receta, y se la dio al escribiente.

– Tome. Rápido.

Poco después, también Bertone fue enviado deprisa a la farmacia por una jeringa de inyecciones que Sarti no llevaba.

– Doctor… – suplicó Flavia.

Pero Sarti, sin prestarle atención, se acercó de nuevo al canapé. Antes de inclinarse a escuchar al yacente, dijo, sin volverse:

– Disponga para que lo lleven arriba.

– ¡Ve, ve! – le ordenó Flavia al criado: luego, apenas salió este, agarró por un brazo a Sarti y le preguntó, mirándole a los ojos: – ¿Qué tiene? ¿Es grave? ¡Quiero saberlo!

– Aún no lo sé bien ni siquiera yo, – respondió Sarti con calma forzada.

Apoyó el estetoscopio en el pecho del yacente y apoyó el oído para escuchar. Lo tuvo así largo, largo tiempo, entrecerrando de vez en cuando los ojos, contrayendo el rostro, como para impedirse precisar los pensamientos, los sentimientos que lo agitaban, durante ese examen. Su conciencia turbada, trastornada por lo que percibía en el corazón del amigo, era en ese momento incapaz de reflejar esos pensamientos y esos sentimientos, ni quería que se reflejaran, como si tuviera miedo.

Como una persona febril que, abandonada a la oscuridad, en una habitación, siente de improviso que el viento fuerza las hojas de la ventana rompiendo con ruido horrible los cristales, y se encuentra de pronto perdida, delirando, fuera de la cama, contra los relámpagos y la furia tempestuosa de la noche, y, sin embargo, intenta con los débiles brazos volver a cerrar las hojas, él intentaba oponerse para que el pensamiento vehemente del futuro, la luz siniestra de una tremenda esperanza, no irrumpieran en él en ese momento: esa misma esperanza de la que tantos años atrás cuando, libre de la pesadilla horrenda de la madre y halagado por la inconsciencia juvenil, se había hecho como una meta luminosa a la que él creyó que tenía algún derecho a aspirar por todo lo que le había tocado sufrir sin culpa.  Entonces, ignoraba que Flavia Orsani, la prima de su amigo y benefactor, era rica, y que su padre, al morir, le había confiado al hermano la herencia de la hija: la creía una huérfana acogida por caridad en casa del tío. Y por tanto, fortalecido por el testimonio de cada acto de su vida, ideada toda para borrar la marca de infamia que el padre y la madre le habían grabado en la frente, cuando volviera al pueblo, con la licenciatura de medicina, y se formara una honesta posición, ¿no les podría pedir a los Orsani, como prueba del afecto que le habían mostrado siempre, la mano de esa huérfana, de cuya simpatía ya creía gozar? Pero Flavia, poco después de su regreso de los estudios, se había casado con Gabriele, al que él, es verdad, no le había dado nunca ningún motivo para que sospechara de su amor por la prima. Sí, pero de todos modos se la había quitado, y sin lograr siquiera su propia felicidad, ni la de ella. Ah, esa boda había sido un delito, no solo por él, sino por sí misma; se remontaba a entonces la desgracia de los tres. Durante muchos años, como si nada hubiera pasado, él había asistido, en calidad de médico, en cada ocasión, a la nueva familia del amigo, ocultando bajo una rígida máscara impasible el desgarro que la triste intimidad con esa casa sin amor le causaba; la vista de esa mujer abandonada a sí misma, que incluso en los ojos dejaba entender qué tesoro de afectos guardaba su corazón, no solicitados y ni siquiera imaginados por el marido; la vista de esos niños que crecían sin una guía paterna. E incluso se había negado a escrutar en los ojos de Flavia, o a tener por alguna palabra de ella una señal huidiza, una prueba incluso leve de que ella, de muchacha, se hubiera dado cuenta del afecto que le había inspirado. Pero esta prueba, no buscada, no querida, se le había presentado sola en una de esas ocasiones en que la naturaleza humana rompe y sacude toda imposición, destroza todo freno social y se descubre tal cual es, como un volcán sobre el que durante muchos inviernos se ha dejado caer más y más nieve encima, y de pronto vomita ese gélido manto y descubre al sol las feroces vísceras de fuego. Y la ocasión había sido precisamente la enfermedad del niño. Completamente inmerso en los negocios, Gabriele no había sospechado siquiera la gravedad del mal, y había dejado sola a la mujer temiendo por la vida del hijo; y Flavia, en un momento de suprema angustia, casi delirando, había hablado, se había desahogado con él, le había dejado entrever que ella lo había comprendido todo, siempre, siempre, desde el primer momento.

Y ¿entonces?

– ¡Dígame, por caridad, doctor! – insistió Flavia, exasperada, al verlo tan trastornado y taciturno. – ¿Es muy grave?

– Sí – respondió él, preocupado, bruscamente.

– ¿El corazón? ¿Qué enfermedad? ¿Así, de pronto? ¡Dígamelo!

– ¿Necesita saberlo? Términos científicos, ¿qué entendería?

Pero ella quiso saberlo.

– ¿Irreparable? – preguntó luego.

Él se quitó las gafas, apretó los ojos, luego exclamó:

– ¡Ah, así no, así no, créame! Quisiera poder darle mi vida.

Flavia se puso muy pálida, miró al marido y dijo más con la expresión que con la voz:

– Calle.

– Quiero que lo sepa – añadió él.  – Pero ya me entiende, ¿no es verdad? Todo, todo lo que sea posible… Sin pensar en mí, en usted…

– Calle – repitió ella, como horrorizada.

Pero él siguió:

– Tenga confianza en mí. No tenemos nada que reprocharnos. Del mal que me hizo no sabe nada y no lo sabrá. Tendrá todos los cuidados que pueda prestarle el amigo más devoto.

Flavia, jadeando, vibrando, no separaba los ojos del marido.

– ¡Se despierta! – exclamó de pronto.

Sarti se volvió a mirarlo.

– No…

– Sí, se ha movido, – añadió ella lentamente.

Se quedaron un rato suspendidos, vigilando. Luego, ella se acercó al canapé, se inclinó sobre el yacente, le tomó el pulso y llamó:

– Gabriele… Gabriele…

IV

Pálido, aún un poco jadeante por haberse apresurado a respirar apenas había vuelto en sí, Gabriele le rogó a su mujer que se marchara.

– Ya no siento nada. Coge, coge la carroza y da un paseo – dijo, para tranquilizarla. – Quiero hablar con Lucio. Ve.

Flavia, para no dejarle ver la gravedad del mal, fingió que aceptaba la invitación; le recomendó, sin embargo, que no se agitara demasiado, se despidió del doctor y volvió a casa.

Gabriele se quedó un tiempo absorto, mirando la puerta por la que ella había salido; luego, se llevó la mano al pecho, al corazón, y manteniendo los ojos fijos, murmuró:

– Aquí, ¿no? Tú me has escuchado… Yo… ¡Qué ridiculez! Me parecía que ese señor… ¿cómo se llama? Lapo, eso es, ese hombrecillo con un ojo de cristal, me tenía atado, aquí; y no podía soltarme; tú reías y decías: Insuficiencia… ¿no?… insuficiencia de las válvulas aórticas…

Lucio Sarti, al escuchar proferir esas palabras que él le había dicho a Flavia, palideció. Gabriele se sacudió, se volvió a mirarlo y sonrió:

– Te he escuchado, ¿sabes?

– ¿Qué has escuchado? – balbució Sarti, con una sonrisa escuálida en los labios, dominándose con dificultad.

– Lo que le has dicho a mi mujer – respondió, tranquilo, Gabriele, fijando de nuevo los ojos, con la mirada perdida. – Veía… me parecía ver, como si tuviera los ojos abiertos… ¡sí! Dime, te lo ruego – añadió, reanimándose – sin rodeos, sin piadosas mentiras: ¿cuánto puedo vivir aún? Cuanto menos, mejor.

Sarti lo espiaba, oprimido por el estupor y la consternación, turbado especialmente por esa calma. Rebelándose con un esfuerzo supremo ante la angustia que lo atontaba, saltó:

– Pero ¿qué te está pasando por la mente?

– ¡Una inspiración! – exclamó Gabriele, con luz en los ojos. – ¡Ah, por Dios!

Y se puso de pie. Se acercó a abrir la puerta que daba a la habitación del banco, y llamó a Bertone.

– Oye, Carlo: si vuelve ese hombrecillo que vino esta mañana, hazlo esperar. No, manda rápidamente que lo llamen, o mejor, ¡ve tú mismo! Pronto, ¿eh?

Volvió a cerrar la puerta y se volvió para mirar a Sarti, frotándose las manos, alegremente:

– Me lo has mandado tú. Ah, lo agarro por esos pelos agitados y lo clavo aquí, entre tú y yo. Dime, explícame rápido cómo se hace. Quiero estar seguro. Tú eres el médico de la Compañía, ¿no?

Lucio Sarti, angustiado por la tremenda duda de que Orsani hubiera oído todo lo que le había dicho a Flavia, se quedó aturdido ante esa súbita decisión; le pareció sin nexo, y exclamó, aliviado por el momento de un gran peso:

– ¡Pero es una locura!

– No, ¿por qué? – respondió rápido Gabriele. – Puedo pagar, cuatro o cinco meses. No viviré mucho tiempo más, ¡lo sé!

– ¿Lo sabes? – dijo Sarti, esforzándose por reír. – ¿Y quién te ha prescrito los términos de modo tan infalible? ¡Vamos! ¡Vamos!

Una vez sereno, pensó que era una fullería para hacerle decir lo que pensaba de su salud. Pero Gabriele, asumiendo un aire grave, se puso a hablarle de su próxima ruina inevitable. Sarti sintió que se quedaba helado. Ahora veía el nexo y la razón de esa resolución improvisa, y se sintió atrapado por un lazo en una terrible insidia que él mismo, sin saberlo, se había tendido esa mañana, al enviarle a Orsani ese inspector de la compañía aseguradora, de la cual era el médico. ¿Cómo decirle, ahora, que no podía en conciencia prestarle ayuda, sin dejarle entender al mismo tiempo la desesperada gravedad del mal, que se le había revelado así, de pronto?

 – Pero tú, con tu mal – dijo – puedes vivir aún mucho, mucho tiempo, querido mío, con tal de que te cuides un poco…

– ¿Cuidarme? ¿Cómo? – gritó Gabriele. – ¡Te estoy diciendo que estoy arruinado! ¿Y tú consideras que yo puedo vivir aún mucho tiempo? Bien. Entonces, si esto es verdad, no tendrás dificultad…

– ¿Y tus cálculos, entonces? – observó Sarti, con una sonrisa de satisfacción, y añadió, casi por el placer de aclararse a sí mismo esa feliz escapatoria, que se le había ocurrido de improviso: – Si dices que durante tres o cuatro meses solo podrías hacer frente…

Gabriele se quedó un poco preocupado.

– ¡Cuidado, Lucio! No me engañes, no me pongas ante esta dificultad para humillarme, para no dejarme cometer un acto que desapruebas, ¿no?, y en el que no quisieras participar, sea con poca o ninguna responsabilidad…

– ¡Te engañas! – se le escapó a Sarti.

Gabriele sonrió entonces amargamente.

– Así que es verdad – dijo -, así que sabes que estoy condenado, dentro de poco, quizás antes aún de lo que he calculado. Pero ya, te he escuchado. ¡Basta, pues! Se trata ahora de salvar a mis hijos. ¡Y los salvaré! Si me engañas, no lo dudes, sabré procurarme a tiempo la muerte, a escondidas.

Lucio Sarti se levantó, moviendo los hombros, y buscó con los ojos el sombrero.

– Veo que no razonas, querido mío. Deja que me vaya.

– ¿Que no razono? – dijo Gabriele, sujetándolo por un brazo. – ¡Ven aquí! ¡Te digo que se trata de salvar a mis hijos! ¿Has comprendido?

– Pero ¿cómo quieres salvarlos? ¿Quieres salvarlos en serio así?

– Con mi muerte.

– ¡Locuras! Pero disculpa, ¿quieres que yo me quede a escuchar estos discursos?

– Sí – dijo con violencia Gabriele, sin soltarle el brazo. – Porque debes ayudarme.

– ¿A suicidarte? – preguntó Sarti, con un tono burlón.

– No, en esto, si acaso, pensaré yo…

– ¿Y entonces… a engañar?, ¿a… a robar, disculpa?

– ¿Robar? ¿A quién le robo? ¿Robo para mí? Se trata de una Sociedad expuesta por sí misma al riesgo de dichas pérdidas… ¡Déjame hablar! Lo que pierde conmigo, lo ganará con creces con otros cien. Pero llámalo robo… ¡Deja que lo haga! Le rendiré cuentas a Dios. Tú nada tienes que ver con ello.

– ¡Te engañas! – repitió con más fuerza Sarti.

– ¿Acaso te llegará a ti ese dinero? – le preguntó entonces Gabriele, clavándole sus ojos en sus ojos. – Lo tendrán mi mujer y esos tres pobres inocentes. ¿Cuál sería tu responsabilidad?

De pronto, bajo la mirada aguda de Orsani, Lucio Sarti lo comprendió todo: comprendió que Gabriele había oído bien y que se frenaba aún porque quería antes alcanzar su objetivo, es decir, colocar un obstáculo insuperable entre él y su mujer, haciéndolo su cómplice en ese fraude. Él, de hecho, médico de la Compañía, declarando ahora sano a Gabriele, no podría casarse con Flavia, viuda, a la que le llegaría el premio del seguro, fruto de su engaño. La Sociedad actuaría, sin duda, contra él. Pero ¿por qué tanto y tan feroz odio hasta más allá de la muerte? Si había oído, tenía que saber que nada, nada tenía que reprocharles, ni a él ni a su mujer… ¿Por qué, entonces?

Resistiendo la mirada de Orsani, decidido a defenderse hasta el final, le preguntó con voz no muy firme:

– ¿Me preguntas por mi responsabilidad frente a la Compañía?

– ¡Espera! – reanudó Gabriele, como cegado por la eficacia persuasiva de su razonamiento. – Tienes que pensar que yo soy tu amigo desde mucho antes de que tú llegaras a ser médico de esta Compañía. ¿No?

– Es verdad… pero… – balbució Lucio.

– ¡No te turbes! No quiero reprocharte nada; solo quiero hacerte ver que tú, en este momento, en estas condiciones, piensas, no en mí, como deberías, sino en la Compañía…

– ¡En mi engaño! – replicó Sarti, hosco.

– ¡Muchos médicos se engañan! – rebatió en seguida Gabriele. – ¿Quién te puede acusar? ¿Quién puede decir que en este momento no estoy sano? ¡Vendo salud! Moriré de aquí a cinco o seis meses. Tú no lo prevés. Por otro lado, tu engaño, para ti, para tu conciencia, es caridad de amigo.

Anulado, con la cabeza inclinada, Sarti se quitó las gafas, se restregó los ojos; luego, torvo, con los párpados medio cerrados, intentó con voz temblorosa la extrema defensa:

– Preferiría – dijo – demostrar de otro modo eso que tú llamas caridad de amigo.

– ¿Y cómo?

– ¿Recuerdas dónde y por qué murió mi padre?

Gabriele lo miró aturdido; murmuró para sí mismo:

– ¿Eso qué tiene que ver?

– Tú no estás en mi lugar – respondió Sarti, resuelto, áspero, poniéndose de nuevo las gafas. – No puedes juzgarme. Recuerda cómo he crecido. Te lo ruego, déjame actuar correctamente, sin remordimientos.

– No comprendo – respondió Gabriele con frialdad, – ¿qué remordimiento podría causarte haber beneficiado a mis hijos…?

– ¿Con el perjuicio de otros?

– Yo no lo he buscado.

– ¡Sabes que lo estás haciendo!

– Sé otra cosa que me preocupa más y que a ti debería preocuparte más. ¡No hay otro remedio! ¿Por un escrúpulo tuyo, que ya no puede ser mío, quieres que rechace este medio que se me presenta espontáneamente, esta ancla que tú, tú mismo me has arrojado?

Se acercó a la puerta a espiar, indicándole a Sarti que no le respondiera.

– ¡Ya ha llegado!

– ¡No, no, es inútil, Gabriele! – gritó entonces Sarti con resolución. – ¡No me obligues a esto!

Orsani lo aferró por un brazo:

– ¡Ten cuidado, Lucio! Es mi última oportunidad.

– ¡Esta, no; esta, no! – protestó Sarti. – Escucha, Gabriele: que esta hora sea sagrada para nosotros. Te prometo que tus hijos…

Pero Gabriele no lo dejó terminar:

– ¿Una limosna?

–  ¡No! – respondió Lucio rápidamente. – ¡Devolverles a ellos lo que tú me diste!

– ¿En razón de qué? ¿Cómo querrías asistir a mis hijos? ¿Tú? ¡Tienen una madre! ¿En razón de qué? Por simple gratitud, ¿no? ¡Mientes! Por otro fin que no puedes confesar te niegas.

Diciendo tales cosas lo aferró por los hombros y lo sacudió, intimándole a hablar bajo y preguntándole hasta qué punto había osado engañarle. Sarti intentó soltarse, defendiendo a Flavia de la atroz acusación, y negándose aún a ceder a esa violencia.

– ¡Quiero verte! – masculló repentinamente Orsani.

De un salto, abrió la puerta y llamó a Vannetti, enmascarando rápidamente la extrema agitación con una tumultuosa alegría:

– Un premio, un premio – gritó, invistiendo al hombrecillo ceremonioso – un gran premio, señor inspector, a nuestro amigo, a nuestro doctor, que no solo es el médico de la Compañía, sino el más elocuente abogado. Casi me había arrepentido; no quería saber nada de ello… Pues bien, él, él me ha persuadido, me ha ganado… Dele, dele enseguida la declaración médica que debe firmar: tiene prisas, debe marcharse. Luego estableceremos nosotros la cantidad y el modo…

Vannetti, contentísimo, en medio de un chisporroteo de exclamaciones y de felicitaciones, sacó de la carpeta un impreso, y repitiendo: – Pura formalidad, pura formalidad… – se lo extendió a Gabriele.

– Toma, escribe – dijo este, pasándole el impreso a Sarti, quien asistía como ausente a esta escena y veía ahora en ese hombrecillo mezquino, casi artificioso, extremadamente ridículo, la personificación de su infame destino.

1.9  Il Ventaglino

Il giardinetto pubblico, meschino e polveroso, in quel torrido pomeriggio d’agosto era quasi deserto, in mezzo alla vasta piazza cinta tutt’intorno da alte case giallicce, assopite nell’afa.

Tuta vi entrò, col bambino in braccio.

Su un sedile in ombra, un vecchietto magro, perduto in un abito grigio d’alpagà, teneva in capo un fazzoletto. Sul fazzoletto, il cappelluccio di paglia ingiallito. Aveva rimboccato diligentemente le maniche sui polsi e leggeva un giornale.

Accanto, sullo stesso sedile, un operajo disoccupato dormiva con la testa tra le braccia, appoggiato di traverso.

Di tanto in tanto, il vecchietto interrompeva la lettura e si voltava a osservare con una certa ambascia il suo vicino, a cui stava per cader dal capo il cappellaccio unto, ingessato. Evidentemente quel cappellaccio, chi sa da quanto tempo cosí in bilico, cado e non cado, cominciava a esasperarlo: avrebbe voluto rassettarglielo sul capo o buttarglielo giú con una ditata. Sbuffava; poi volgeva un’occhiata ai sedili intorno, chi sa gli avvenisse di scoprirne qualche altro in ombra. Ce n’era uno solo poco discosto; ma vi stava seduta una vecchia grassa, cenciosa, la quale, ogni volta che lui si voltava a guardare, spalancava la bocca sdentata a un formidabile sbadiglio.

Tuta s’appressò sorridente, pian pianino, in punta di piedi. Si pose un dito su le labbra, per segno di far silenzio; poi, adagio adagio, prese con due dita il cappellaccio al dormente e glielo rimise a posto sul capo.

Il vecchio stette a seguir con gli occhi tutti quei movimenti, prima sorpreso, poi aggrondato.

Co’ la bona grazia, signo’, – gli disse Tuta, ancora sorridente e inchinandosi, come se il servizio lo avesse reso a lui e non all’operajo che dormiva. – Da’ ‘n sordo a sta pôra creatura.

– No! – rimbeccò subito il vecchietto con stizza (chi sa perché), e abbassò gli occhi sul giornale.

Tiramo a campà! – sospirò Tuta. – Dio pruvede.

E andò a sedere di là, su l’altro sedile, accanto alla vecchia cenciosa, con la quale attaccò subito discorso.

Aveva appena vent’anni; bassotta, formosa, bianchissima di carnagione, coi capelli lucidi, neri, spartiti sul capo, stirati sulla fronte e annodati in fitte treccioline dietro la nuca. Gli occhi furbi le brillavano, quasi aggressivi. Si mordeva di tanto in tanto le labbra. E il nasino all’insú, un po’ storto, le fremeva.

Raccontava alla vecchia la sua sventura. Il marito…

Fin da principio la vecchia le rivolse un’occhiata, che poneva i patti della conversazione, cioè: uno sfogo, sí, era disposta a offrirglielo; ma ingannata, no, non voleva essere, ecco.

Marito vero?

Semo sposati co’ la chiesa.

Ah, be’, co’ la chiesa.

E ched’è? nun è marito?

No, fija: nun serve.

Come nun serve?

Lo sai, nun serve.

Eh sí, difatti, la vecchia aveva ragione. Non serviva. Da un pezzo, difatti, qull’uomo voleva liberarsi di lei, e per forza l’aveva mandata a Roma, perché cercasse di allogarsi per bàlia. Ella non voleva venire; capiva ch’era troppo tardi, poiché il bambino aveva già circa sette mesi. Era stata quindici giorni in casa d’un sensale, la cui moglie, per rifarsi delle spese e per aver pagato l’alloggio, aveva osato alla fine di proporle…

Capischi? A me!

 

Dalla «collera» le era andato addietro il latte. E ora non ne aveva piú, neanche per la sua creatura. La moglie del sensale le aveva preso gli orecchini e s’era tenuto anche il fagottello con cui era venuta dal paese. Da quella mattina era in mezzo alla strada.

Pe’ davero, sa’!

Tornare al paese non poteva e non voleva: il marito non se la sarebbe ripresa. Che fare, intanto, con quel bambino che le legava le braccia? Certo, non avrebbe trovato neppure da mettersi per serva.

La vecchia l’ascoltava con diffidenza, perché ella diceva quelle cose, come se non ne fosse affatto disperata; anzi, ripetendo spesso quel suo: – Pe’ davero, sa’! – sorrideva.

– Di dove sei? – le domandò la vecchia.

– De Core.

E restò un pezzo come se rivedesse col pensiero il paesello lontano. Poi si scosse; guardò il piccino e disse:

Addo’ lo lascio? Qua pe’ tera? Pôro cocco mio saporito!

Lo sollevò su le braccia e lo baciò forte forte, piú volte.

La vecchia disse:

L’hai fatto? Te lo piagni.

Io l’ho fatto? – si rivoltò la giovane. – Be’, l’ho fatto e Dio m’ha castigato. Ma patisce pure lui, pôro innocente! E c’ha fatto, lui? Va’, Dio nun fa le cose giuste. E si nun le fa lui, figúrete noi. Tiramo a campà!

Mondo, mondo! – sospirò la vecchia, levandosi in piedi a stento.

È ‘n gran penà! – aggiunse, scrollando il capo, un’altra vecchia asmatica, corpulenta, che passava di lí, appoggiandosi a un bastoncino.

L’altra cavò fuori di tra i cenci un sacchetto sudicio che le pendeva dalla cintola, nascosto sotto la veste, e ne trasse un tozzo di pane.

Tiè, lo vuoi?

Sí. Dio te lo paghi, – s’affrettò a risponderle Tuta. – Me lo magno. Ce credi che so’ digiuna da stamattina?

Ne fece due pezzi: uno, piú grosso, per sé; cacciò l’altro fra gli esili ditini rosei del bimbo, che non si volevano aprire.

Pappa, Nino. Bono, sa’! ‘Na sciccheria! Pappa, pappa.

La vecchia se n’andò, strascicando i piedi, insieme con l’altra dal bastoncino.

Il giardinetto s’era già un po’ animato. Il custode annaffiava le piante. Ma neppure alle trombate d’acqua si volevano destare dal sogno in cui parevano assorti – sogno d’una tristezza infinita – quei poveri alberi sorgenti dalle ajuole rade, fiorite di bucce, di gusci d’uovo, di pezzetti di carta, e riparate da stecchi e spuntoni qua e là sconnessi o da un giro di roccia artificiale, in cui s’incavavano i sedili.

 

Tuta si mise a guardar la vasca bassa, rotonda, che sorgeva in mezzo, la cui acqua verdastra stagnava sotto un velo di polvere, che si rompeva a quando a quando al tonfo di qualche buccia lanciata dalla gente che sedeva attorno.

Già il sole stava per tramontare, e quasi tutti i sedili erano ormai in ombra.

In uno lí accanto venne a sedere una signora su i trent’anni, vestita di bianco. Aveva i capelli rossi, come di rame, arruffati, e il viso lentigginoso. Come se non ne potesse piú dal caldo, cercava di scostarsi dalle gambe un ragazzo scontroso, giallo come la cera, vestito alla marinara; e intanto guardava di qua e di là, impaziente, strizzando gli occhi miopi, come se aspettasse qualcuno; e tornava di tratto in tratto a spingere il ragazzo, perché si trovasse piú là qualche compagno di giuoco. Ma il ragazzo non si moveva; teneva gli occhi fissi su Tuta che mangiava il pane. Anche Tuta guardava e osservava intenta la signora e quel ragazzo; a un tratto disse:

Lei, signo’, co’ la bona grazia, si tante vorte je servisse ‘na donna pe’ fa’ er bucato o a mezzo servizio… No? Embè!

Poi, vedendo che il ragazzo malaticcio non staccava gli occhi da lei e non voleva cedere ai ripetuti inviti della madre, lo chiamò a sé:

Vôi vede er pupetto? Viello a vede, carino, vie’.

 

Il ragazzo, spinto violentemente dalla madre, s’accostò; guardò un pezzo il bambino con gli occhi invetrati come quelli d’un gatto fustigato; poi gli strappò dalla manina il tozzo di pane. Il bambino si mise a strillare.

No! pôro pupo! – esclamò Tuta. – J’hai levato er pane? Piagne mo’, vedi? Ha fame… Dàjene armeno un pezzetto.

Alzò gli occhi per chiamare la madre del ragazzo, ma non la vide piú sul sedile: parlava là in fondo, concitatamente, con un omaccione barbuto che l’ascoltava disattento, con un curioso sorriso sulle labbra, le mani dietro la schiena e il cappellaccio bianco buttato su la nuca. Il bambino intanto seguitava a strillare.

– Be’, – fece Tuta, – te lo levo io un pezzetto…

Allora anche il ragazzo si mise a strillare. Accorse la madre, a cui Tuta, co’ la bona grazia, spiegò ciò che era accaduto. Il ragazzo stringeva con le due mani al petto il tozzo di pane, senza volerlo cedere, neppure alle esortazioni della madre.

– Lo vuoi davvero? E te lo mangi, Ninní? – disse la signora rossa. – Non mangia niente, sapete, niente: sono disperata! Magari lo volesse davvero… Sarà un capriccio… Lasciateglielo, per piacere.

Be’, sí, volentieri, – fece Tuta. – Tiello, cocco, magnalo tu…

Ma il ragazzo corse alla vasca e vi buttò il tozzo di pane.

Ai pescetti, eh Ninní? – esclamò allora Tuta, ridendo. – E sta pôra creatura mia ch’è digiuna… Nun ciò latte, nun ciò casa, nun ciò gnente… Pe’ davero, sape’, signo’… Gnente!

 

La signora aveva fretta di ritornare a quell’uomo che l’aspettava di là: trasse dalla borsetta due soldi e li diede a Tuta.

– Dio te lo paghi, – le disse dietro, questa. – Sú, sú, sta’ bono, cocco mio: te ce crompo la bobbona, sa’! Ci avemo fatto du’ bajocchi cor pane de la vecchia. Zitto, Nino mio! Mo’ semo ricchi…

Il bimbo si quietò. Ella rimase, coi due soldi stretti in una mano, a guardar la gente che già popolava il giardinetto: ragazzi, balie, bambinaje, soldati…

Era un gridío continuo.

Tra le ragazze che saltavano la corda, e i ragazzi che si rincorrevano, e i bambini strillanti in braccio alle balie che chiacchieravano placidamente tra loro, e le bambinaie che facevano all’amore coi soldati, si aggiravano i venditori di lupini, di ciambelle o d’altre golerie.

Gli occhi di Tuta s’accendevano, talvolta, e le labbra le s’aprivano a uno strano sorriso.

Proprio nessuno voleva credere che ella non sapeva piú come fare, dove andare? Stentava a crederlo lei stessa. Ma era proprio cosí. Era entrata là, in quel giardinetto, per cercarvi un po’ d’ombra; vi si tratteneva da circa un’ora; poteva rimanervi fino a sera; e poi? dove passar la notte, con quella creatura in braccio? e il giorno dopo? e l’altro appresso? Non aveva nessuno, nemmeno là al paese, tranne quell’uomo che non voleva piú saperne di lei; e, del resto, come tornarci? – Ma allora? Nessuna via di scampo? Pensò a quella vecchia strega che le aveva tolto gli orecchini e il fagotto. Tornare da lei? Il sangue le montò alla testa. Guardò il suo piccino, che s’era addormentato.

Eh, Nino, ar fiume tutt’e dua? Cosí…

Sollevò le braccia, come per buttarlo. E lei, appresso. – Ma che, no! – Rialzò il capo e sorrise, guardando la gente che le passava davanti.

Il sole era tramontato, ma il caldo persisteva, soffocante. Tuta si sbottonò il busto alla gola, rimboccò in dentro le due punte, scoprendo un po’ del petto bianchissimo.

– Caldo?

Se more!

Le stava davanti un vecchietto con due ventagli di carta infissi nel cappello, altri due in mano, aperti, sgargianti, e una cesta al braccio, piena di tant’altri ventaglini alla rinfusa, rossi, celesti, gialli.

Du’ bajocchi!

Vattene! – disse Tuta, dando una spallata. – De che so? de carta?

E de che lo vôi? de seta?

– Mbè, perché no? – fece Tuta, guardandolo con un sorriso di sfida; poi schiuse la mano in cui teneva i due soldi, e aggiunse: – Ciò questi du’ bajocchi soli. Pe’ ‘n sordo me lo dai?

Il vecchio scosse il capo, dignitosamente.

Du’ bajocchi. Manco pe’ fallo!

Be’, mannaggia a tene! Dammelo. Moro de callo. Er pupo dorme… Tiramo a campà. Dio pruvede.

Gli diede i due soldi, prese il ventaglino e, tirandosi piú giú la rimboccatura sul petto, cominciò a farsi vento vento vento lí sul seno quasi scoperto, e a ridere e a guardare, spavalda, con gli occhi lucenti, invitanti, aizzosi, i soldati che passavano.

1.9  El pequeño abanico

El pequeño jardín público, mezquino y polvoriento, estaba, esa tórrida tarde de agosto, casi desierto, en medio de la vasta plaza ceñida a todo su alrededor por altas casas amarillentas, somnolientas en el bochorno.

Tuta entró con el niño en brazos.

En un banco a la sombra, un viejecito delgado, perdido en un traje gris de alpaca, tenía un pañuelo en la cabeza. Y encima del pañuelo, un sombrerucho de paja amarillento. Se había remangado diligentemente los puños sobre las muñecas, y leía un periódico.

Al lado, en el mismo banco, un obrero desocupado dormía con la cabeza entre los brazos, apoyado de través.

De vez en cuando, el viejecito interrumpía la lectura y se volvía para observar con cierta angustia a su vecino, a quien estaba a punto de caérsele el sombrero grasiento, enyesado. Evidentemente, ese sombrerucho – quién sabe desde cuánto tiempo en vilo, caigo y no caigo – comenzaba a exasperarlo: hubiera querido asegurárselo en la cabeza o tirárselo de un papirotazo. Resoplaba, luego echaba una ojeada a los bancos de alrededor, quién sabe si tendría la suerte de encontrar otro a la sombra. Había solo uno un poco separado, pero en él estaba sentada una vieja gruesa, harapienta que, cada vez que él se volvía a mirarla, abría la boca desdentada en un formidable bostezo.

Tuta se acercó sonriente, muy lentamente, de puntillas. Se llevó un dedo a los labios, como indicando silencio; luego, tranquilamente, le cogió el sombrerucho al durmiente con dos dedos, y se lo puso bien en la cabeza.

El viejo siguió con la mirada todos esos movimientos, primero sorprendido, luego, ceñudo.

– Con su permiso, señor – dijo Tuta, aún sonriente e inclinándose, como si el favor se lo hubiera hecho a él y no al obrero que dormía. –  Dele alguna moneda a esta pobre criatura.

– ¡No! – replicó enseguida el vijecillo con rabia (quién sabe por qué), y hundió los ojos en el periódico.

– ¡Intentamos sobrevivir! – suspiró Tuta. – Dios provee.

Y fue a sentarse al otro asiento, al lado de la vieja harapienta, con la que enseguida empezó a hablar.

Apenas tenía veinte años; bajita, hermosa, de tez blanquísima, con los cabellos luminosos, negros, separados en la cabeza, lisos en la frente y recogidos en apretadas trencitas tras la nuca. Los ojos astutos le brillaban, casi agresivos. Se mordía de vez en cuando los labios. Y la nariz respingona, un poco torcida, le temblaba.

Le contaba a la vieja su desventura. El marido…

Desde el principio, la vieja le dirigió una mirada que establecía las condiciones de la conversación, es decir: un desahogo, sí, estaba dispuesta a ofrecérselo; pero que la engañaran, no, eso no lo quería, así era.

– ¿Marido, no?

– Estamos casados por la iglesia.

– Ah, bien, por la iglesia.

– ¿Y qué pasa?, ¿no es un marido?

– No, hija: no sirve.

– ¿Cómo que no sirve?

– Lo sabes, no sirve.

Pues sí, de hecho, la vieja tenía razón. No servía. Desde hacía tiempo, de hecho, ese hombre quería librarse de ella, y a la fuerza la había mandado a Roma para que buscara trabajo como nodriza. Ella no quería ir; comprendía que era demasiado tarde, pues el niño tenía ya cerca de siete meses. Había estado quince días en casa de un corredor cuya mujer, para rehacerse de los gastos y por haberle pagado el alojamiento, había osado al final proponerle…

– ¿Comprendes? ¡A mí!

Con la cólera había perdido la leche. Y ahora no tenía ni siquiera para su criatura. La mujer del corredor le había quitado los pendientes y se había quedado incluso con el hatillo con que había llegado del pueblo. Desde esa mañana estaba en la calle.

– ¡Y esta es la verdad!

No podía ni quería volver al pueblo: el marido no la aceptaría. ¿Qué iba a hacer, mientras tanto, con ese niño que le ataba los brazos? Cierto, no encontraría trabajo ni siquiera de sirvienta.

La vieja la escuchaba con recelo, porque ella decía esas cosas como si en modo alguno estuviera desesperada; es más, sonreía al repetir a menudo la frase: – ¡Y esta es la verdad!

– ¿De dónde eres? – le preguntó la vieja.

– De Core.

Y se quedó un tiempo como si viera con el pensamiento el pueblo lejano. Luego se sacudió, miró al pequeño y dijo:

– ¿Dónde lo dejo? ¿Aquí en el suelo? ¡Pobre angelito mío!

Lo levantó en brazos y lo besó muy fuerte varias veces.

La vieja dijo:

– ¿No lo has hecho tú? Pues llora por él.

– ¿Yo lo he hecho? – respondió la joven. – Bueno, lo he hecho, y Dios me ha castigado. Pero también sufre él, ¡pobre inocente! ¿Y qué ha hecho él? Vamos, Dios no hace las cosas bien. Y si no las hace él, figúrate nosotros. ¡Intentamos sobrevivir!

– ¡Este mundo, este mundo! – suspiró la vieja, poniéndose en pie con dificultad.

– ¡Es una pena! – añadió, sacudiendo la cabeza, otra vieja asmática, corpulenta, que pasaba por allí, apoyándose en un bastón.

La otra sacó de los harapos una bolsita sucia que le colgaba de la cintura, escondida bajo el vestido, y cogió un pedazo de pan.

– Toma, ¿lo quieres?

– Sí. Dios te lo pague, – se apresuró a responder Tuta. – Me lo como. ¿Crees que estoy en ayunas desde esta mañana?

Hizo dos pedazos: el más grande, para ella; el otro lo puso entre los dedos rosados del niño, que no querían abrirse.

– Es papa, Nino. ¡Sé bueno! ¡Un lujo! Papa, papa.

La vieja se marchó arrastrando los pies, junto a la del bastón.

El jardín ya se había animado un poco. El guarda regaba las plantas. Pero ni siquiera ante las trombas de agua querían despertarse del sueño en que parecían absortos – sueño de una tristeza infinita – esos pobres árboles que brotaban en los escasos parterres, sembrados de mondaduras, cáscaras de huevo, trozos de papel, y protegidos por varas y picas aquí y allá sueltas o por un círculo de roca artificial en donde se hundían los asientos.

Tuta se puso a mirar la pila baja, redonda que surgía en medio, y cuya agua verdosa  estaba estancada bajo un velo de polvo que se rompía de vez en cuando con el golpetazo de alguna mondadura lanzada por la gente que se sentaba a su alrededor.

Ya estaba el sol a punto de ponerse, y casi en todos los bancos daba ahora la sombra.

En uno allí al lado vino a sentarse una señora de unos treinta años, vestida de blanco. Tenía los cabellos rojos, como de cobre, despeinados, y el rostro lleno de pecas. Como si no pudiera más con el calor, trataba de apartar de sus piernas a un chaval malhumorado, amarillo como la cera, vestido de marinero; y mientras tanto miraba aquí y allá, impaciente, apretando los ojos miopes, como si esperara a alguien, y volvía de cuando en cuando a empujar al chaval para que buscara en otro lado a algún compañero de juegos. Pero el chaval no se movía; tenía los ojos fijos en Tuta, que estaba comiéndose el pan. También Tuta miraba y observaba atenta a la señora y al chaval; y de pronto dijo:

– Usted, señora, con su permiso, si alguna vez necesitara una mujer que le hiciera la colada o a medio servicio… ¿No? ¡Bueno!

Luego, viendo que el chaval enfermizo no separaba los ojos de ella y no quería ceder a las repetidas invitaciones de la madre, lo llamó:

– ¿Quieres ver a este muñeco? Ven a verlo, pequeño, ven a verlo.

El chaval, empujado violentamente por la madre, se acercó; miró un poco al niño con los ojos vidriosos como los de un gato fustigado; luego, le quitó el trozo de pan de la manita. El niño se puso a gritar.

– ¡No! ¡Pobre muñeco! – exclamó Tuta. – ¿Le has quitado el pan? Llora, ¿no ves? Tiene hambre… Dale al menos un pedacito.

Alzó la mirada para llamar a la madre del chaval, pero no la vio en el asiento: hablaba allá al fondo, nerviosamente, con un hombretón barbudo que la escuchaba desatento, con una curiosa sonrisa en los labios, las manos en la espalda y el sombrerucho blanco echado en la nuca. El niño, mientras tanto, seguía gritando.

– Bueno, – dijo Tuta – te cojo yo un pedacito.

Entonces el chaval rompió a gritar. Acudió la madre, a quien Tuta, con su permiso, le explicó lo que había pasado. El chaval se apretaba sobre el pecho, con las dos manos, el pedazo de pan, sin querer soltarlo, ni siquiera ante las exhortaciones de la madre.

– ¿Lo quieres de verdad? ¿Vas a comértelo, Ninni? – le dijo la señora roja. – No come nada, sépalo, nada: ¡estoy desesperada! Ojalá lo quiera de verdad… Será un capricho… Déjeselo, por favor.

– Sí, con mucho gusto – dijo Tuta. – Toma, angelito, cómetelo tú…

Pero el chaval se fue corriendo hasta la pila y arrojó allí el pedazo de pan.

– ¿A los pececitos, eh, Ninni? – exclamó entonces Tuta, riendo. – Esta pobre criatura mía que está en ayunas… Yo no tengo leche, no tengo casa, no tengo a nadie… de verdad, sépalo, señora… ¡A nadie!

La señora tenía prisas por volver con aquel hombre que la esperaba allí: sacó de la cartera dos monedas y se las dio a Tuta.

– Dios se lo pague – le dijo detrás, esta. – Vamos, vamos, sé bueno, angelito mío: ¡te compro golosinas! Hemos ganado dos blancas con el pan de la vieja. ¡Calla, Nino mío! Somos ricos…

El niño se tranquilizó. Ella se quedó con las dos monedas apretadas en la mano, mirando a la gente que estaba en el jardín: muchachos, ayas, niñeras, soldados…

Era un barullo continuo.

Entre las muchachas que saltaban a la cuerda, y los chavales que se perseguían, y los niños que gritaban en los brazos de las ayas que charlaban tranquilamente entre ellas, y las niñeras que ligaban con los soldados, había vendedores de altramuces, de rosquillas y otras golosinas.

Los ojos de Tuta se encendían, a veces, y los labios se le abrían en una extraña sonrisa.

¿Nadie quería creer que ella no sabía qué hacer ni adónde ir? Incluso a ella misma le resultaba difícil creérselo. Pero era precisamente así. Había entrado allí, en ese jardincito, para buscar un poco de sombra; se había entretenido allí desde hacía cerca de una hora; podía quedarse hasta por la noche, ¿y después?, ¿dónde pasaría la noche con esa criatura en los brazos?, ¿y el día siguiente?, ¿y el otro? No tenía a nadie, ni siquiera allí en el pueblo, excepto a aquel hombre que no quería saber nada de ella; y por lo demás, ¿cómo podría volver?  – ¿Y entonces? ¿Ninguna salida? Pensó en esa vieja bruja que le había quitado los pendientes y el hato. ¿Volver a su casa? La sangre se le subió a la cabeza. Miró a su pequeño, que se había dormido.

– ¿Eh, Nino, al río los dos? Así…

Levantó los brazos, como para tirarlo. Y ella, después. – ¡Qué va, no! – Alzó de nuevo la cabeza y sonrió, mirando a la gente que pasaba delante.

El sol se había puesto, pero el calor persistía, sofocante. Tuta se desabrochó el busto hasta la garganta, dobló hacia dentro las dos puntas, dejando al descubierto un poco del pecho blanquísimo.

– ¿Calor?

– ¡Me muero!

Tenía delante a un viejecito con dos abanicos de papel clavados en el sombrero, otros dos en la mano, abiertos, vistosos, y una cesta en el brazo, llena de muchos abanicos en desorden, rojos, celestes, amarillos.

– ¡Dos blancas!

– ¡Márchate! – dijo Tuta, haciéndose la desinteresada. – ¿De qué son?, ¿de papel?

– ¿Y de qué lo quieres?, ¿de seda?

– Bueno, ¿por qué no? – dijo Tuta, mirándolo con una sonrisa de desafío; luego, abrió la mano en la que tenía las dos monedas, y añadió: – Solo tengo estas dos blancas. ¿Me lo das por una?

El viejo sacudió la cabeza, con dignidad.

– ¡Dos blancas! ¡Menos, ni de de broma!

– ¡Bien, maldito seas! Dámelo. Me muero de calor. El chico duerme… Intentamos sobrevivir. Dios provee.

Le dio las dos monedas, cogió el pequeño abanico y, echándose hacia abajo el escote, comenzó a echarse viento y más viento en el seno casi descubierto, y a reír y a mirar, descarada, con los ojos brillantes, cautivadores, instigadores, a los soldados que pasaban.

1.10. E due!

Dopo aver vagato a lungo per il quartiere addormentato dei Prati di Castello, rasentando i muri delle caserme, sfuggendo istintivamente il lume dei lampioni sotto gli alberi dei lunghissimi viali, pervenuto alla fine sul Lungotevere dei Mellini, Diego Bronner montò, stanco, sul parapetto dell’argine deserto e vi si pose a sedere, volto verso il fiume, con le gambe penzoloni nel vuoto.

Non un lume acceso nelle case di fronte, della Passeggiata di Ripetta, avvolte nell’ombra e stagliate nere nel chiaror lieve e ampio che, di là da esse, la città diffondeva nella notte. Immobili, le foglie degli alberi del viale, lungo l’argine. Solo, nel gran silenzio, s’udiva un lontanissimo zirlío di grilli e – sotto – il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui, con un tremolío continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell’argine opposto.

Correva per il cielo una trama fitta d’infinite nuvolette lievi, basse, cineree, come se fossero chiamate in fretta di là, di là, verso levante, a un misterioso convegno, e pareva che la luna, dall’alto, le passasse in rassegna.

Il Bronner stette un pezzo col volto in sú a contemplar quella fuga, che animava con cosí misteriosa vivacità il silenzio luminoso di quella notte di luna. A un tratto udí un rumor di passi sul vicino ponte Margherita e si volse a guardare.

Il rumore dei passi cessò.

Forse qualcuno, come lui, s’era messo a contemplare quelle nuvolette e la luna che le passava in rassegna, o il fiume con quei tremuli riflessi dei lumi nell’acqua nera fluente.

 

Trasse un lungo sospiro e tornò a guardare in cielo, un po’ infastidito della presenza di quell’ignoto, che gli turbava il triste piacere di sentirsi solo. Ma egli, qua, era nell’ombra degli alberi: pensò che colui, dunque, non avrebbe potuto scorgerlo; e quasi per accertarsene, si voltò di nuovo a guardare.

Presso un fanale imbasato sul parapetto del ponte scorse un uomo in ombra. Non comprese dapprima che cosa colui stesse a far lí, silenziosamente. Gli vide posare come un involto su la cimasa, a piè del fanale. – Involto? No: era il cappello. E ora? che! Possibile? Ora scavalcava il parapetto. Possibile?

Istintivamente il Bronner si trasse indietro col busto, protendendo le mani e strizzando gli occhi; si restrinse tutto in sé; udí il tonfo terribile nel fiume.

Un suicidio? Cosí?

Riaprí gli occhi, riaffondò lo sguardo nel bujo. Nulla. L’acqua nera. Non un grido. Nessuno. Si guardò attorno. Silenzio, quiete. Nessuno aveva veduto? nessuno udito? E quell’uomo intanto affogava… E lui non si moveva, annichilito. Gridare? Troppo tardi, ormai. Raggomitolato nell’ombra, tutto tremante, lasciò che la sorte atroce di quell’uomo si compisse, pur sentendosi schiacciare dalla complicità del suo silenzio con la notte, e domandandosi di tratto in tratto: – Sarà finito? sarà finito? – come se con gli occhi chiusi vedesse quell’infelice dibattersi nella lotta disperata col fiume.

Riaprendo gli occhi, risollevandosi, dopo quel momento d’orribile angoscia, la quiete profonda della città dormente, vegliata dai fanali, gli parve un sogno. Ma come guizzavano ora quei riflessi dei lumi nell’acqua nera! Rivolse paurosamente lo sguardo al parapetto del ponte: vide il cappello lasciato lí da quell’ignoto. Il fanale lo illuminava sinistramente. Fu scosso da un lungo brivido alle reni, e col sangue che gli frizzava ancora per le vene, in preda a un tremito convulso di tutti i muscoli, come se quel cappello là potesse accusarlo, scese e, cercando l’ombra, s’avviò rapidamente verso casa.

– Diego, che hai?

– Nulla, mamma. Che ho?

– No, mi pareva… È già tardi…

– Non voglio che tu m’aspetti, lo sai; te l’ho detto tante volte. Lasciami rincasare quando mi fa comodo.

– Sí, sí. Ma vedi, stavo a cucire… Vuoi che t’accenda il lumino da notte?

– Dio, me lo domandi ogni sera!

 

La vecchia madre, come sferzata da questa risposta alla domanda superflua, corse, curva, trascinando un po’ una gamba, ad accendergli in camera il lumino da notte e a preparargli il letto.

Egli la seguí con gli occhi, quasi con rancore; ma, com’ella scomparve dietro l’uscio, trasse un sospiro di pietà per lei. Subito però il fastidio lo riprese.

E rimase lí ad aspettare, senza saper perché, né che cosa, in quella tetra saletta d’ingresso che aveva il soffitto basso basso, di tela fuligginosa, qua e là strappata e con lo strambello pendente, in cui le mosche s’eran raccolte e dormivano a grappoli.

Vecchi arredi decaduti, mescolati con rozzi mobili e oggetti nuovi di sartoria, stipavano quella salet