Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Original

Novelle per un anno I, III, V

1884-1936

Testi del primo volume, Scialle nero

        1. Scialle nero 
        2. Prima notte
        3. Il fumo
        4. Il tabernacolo
        5. Difesa del Mèola
        6. I fortunati
        7. Visto che non piove…
        8. Formalità
        9. Lapo Vannetti
        10. Il ventaglino
        11. E due!
        12. Amicissimi
        13.  Se…
        14. Rimedio: la geografia
        15. Risposta
        16. Il pipistrello

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1.1 Scialle nero

I

– Aspetta qua, – disse il Bandi al D’Andrea. – Vado a prevenirla. Se s’ostina ancora, entrerai per forza.

Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l’uno di fronte all’altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando cosí tra loro, l’uno non aggiustasse all’altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse all’altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei volti.

Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino all’Università, dove poi l’uno s’era laureato in legge, l’altro in medicina. Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all’uscita del paese.

Si conoscevano cosí a fondo, che bastava un lieve cenno, uno sguardo, una parola, perché l’uno comprendesse subito il pensiero dell’altro. Dimodoché quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio di frasi e seguitavano poi in silenzio, come se l’uno avesse dato all’altro da ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi; entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva mai la tentazione di volgere un po’ il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista dell’aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, che s’accendeva tutto agli ultimi fuochi del tramonto: vista di tanta bellezza, che pareva perfino incredibile che quei due vi potessero passar davanti cosí, senza neppure voltarsi a guardare.

Giorni addietro il Bandi aveva detto al D’Andrea:

– Eleonora non sta bene.

Il D’Andrea aveva guardato negli occhi l’amico e compreso che il male della sorella doveva esser lieve:

– Vuoi che venga a visitarla?

– Dice di no.

E tutti e due, passeggiando, s’erano messi a pensare con le ciglia aggrottate, quasi per rancore, a quella donna che aveva fatto loro da madre e a cui dovevano tutto.

Il D’Andrea aveva perduto da ragazzo i genitori ed era stato accolto in casa d’uno zio, che non avrebbe potuto in alcun modo provvedere alla riuscita di lui. Eleonora Bandi, rimasta orfana anch’essa a diciotto anni col fratello molto piú piccolo di lei, industriandosi dapprima con minute e sagge economie su quel po’ che le avevano lasciato i genitori, poi lavorando, dando lezioni di pianoforte e di canto, aveva potuto mantenere agli studii il fratello, e anche l’amico indivisibile di lui.

– In compenso però, – soleva dire ridendo ai due giovani – mi son presa tutta la carne che manca a voi due.

Era infatti un donnone che non finiva mai; ma aveva tuttavia dolcissimi i lineamenti del volto, e l’aria ispirata di quegli angeloni di marmo che si vedono nelle chiese, con le tuniche svolazzanti. E lo sguardo dei begli occhi neri, che le lunghe ciglia quasi vellutavano, e il suono della voce armoniosa pareva volessero anch’essi attenuare, con un certo studio che le dava pena, l’impressione d’alterigia che quel suo corpo cosí grande poteva destare sulle prime; e ne sorrideva mestamente.

Sonava e cantava, forse non molto correttamente ma con foga appassionata. Se non fosse nata e cresciuta fra i pregiudizii d’una piccola città e non avesse avuto l’impedimento di quel fratellino, si sarebbe forse avventurata alla vita di teatro. Era stato quello, un tempo, il suo sogno; nient’altro che un sogno però. Aveva ormai circa quarant’anni. La considerazione, del resto, di cui godeva in paese per quelle sue doti artistiche la compensava, almeno in parte, del sogno fallito, e la soddisfazione d’averne invece attuato un altro, quello cioè d’avere schiuso col proprio lavoro l’avvenire a due poveri orfani, la compensava del lungo sacrifizio di se stessa.

Il dottor D’Andrea attese un buon pezzo nel salotto, che l’amico ritornasse a chiamarlo.

Quel salotto pieno di luce, quantunque dal tetto basso, arredato di mobili già consunti, d’antica foggia, respirava quasi un’aria d’altri tempi e pareva s’appagasse, nella quiete dei due grandi specchi a riscontro, dell’immobile visione della sua antichità scolorita. I vecchi ritratti di famiglia appesi alle pareti erano, là dentro, i veri e soli inquilini. Di nuovo, c’era soltanto il pianoforte a mezzacoda, il pianoforte d’Eleonora, che le figure effigiate in quei ritratti pareva guardassero in cagnesco.

Spazientito, alla fine, dalla lunga attesa, il dottore si alzò, andò fino alla soglia, sporse il capo, udí piangere nella camera di là, attraverso l’uscio chiuso. Allora si mosse e andò a picchiare con le nocche delle dita a quell’uscio.

– Entra, – gli disse il Bandi, aprendo. – Non riesco a capire perché s’ostina cosí.

– Ma perché non ho nulla! – gridò Eleonora tra le lagrime.

Stava a sedere su un ampio seggiolone di cuojo, vestita come sempre di nero, enorme e pallida; ma sempre con quel suo viso di bambinona, che ora pareva piú che mai strano, e forse piú ambiguo che strano, per un certo indurimento negli occhi, quasi di folle fissità, ch’ella voleva tuttavia dissimulare.

– Non ho nulla, v’assicuro, – ripeté piú pacatamente. – Per carità, lasciatemi in pace: non vi date pensiero di me.

– Va bene! – concluse il fratello, duro e cocciuto. – Intanto, qua c’è Carlo. Lo dirà lui quello che hai. – E uscí dalla camera, richiudendo con furia l’uscio dietro di sé.

Eleonora si recò le mani al volto e scoppiò in violenti singhiozzi. Il D’Andrea rimase un pezzo a guardarla, fra seccato e imbarazzato; poi domandò:

– Perché? Che cos’ha? Non può dirlo neanche a me?

E come Eleonora seguitava a singhiozzare, le s’appressò, provò a scostarle con fredda delicatezza una mano dal volto:

– Si calmi, via; lo dica a me; ci son qua io.

Eleonora scosse il capo; poi, d’un tratto, afferrò con tutt’e due le mani la mano di lui, contrasse il volto, come per un fitto spasimo, e gemette:

– Carlo! Carlo!

Il D’Andrea si chinò su lei, un po’ impacciato nel suo rigido contegno.

– Mi dica…

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Allora ella gli appoggiò una guancia su la mano e pregò disperatamente, a bassa voce:

– Fammi, fammi morire, Carlo; ajutami tu, per carità! non trovo il modo; mi manca il coraggio, la forza.

– Morire? – domandò il giovane, sorridendo. – Che dice? Perché?

– Morire, sí! – riprese lei, soffocata dai singhiozzi. – Insegnami tu il modo.  Tu sei medico. Toglimi da questa agonia, per carità! Debbo morire. Non c’è altro rimedio per me. La morte sola.

Egli la fissò, stupito. Anche lei alzò gli occhi a guardarlo, ma subito li richiuse, contraendo di nuovo il volto e restringendosi in sé, quasi colta da improvviso, vivissimo ribrezzo.

– Sí, sí, – disse poi, risolutamente. – Io, sí, Carlo: perduta! perduta!

Istintivamente il D’Andrea ritrasse la mano, ch’ella teneva ancora tra le sue.

– Come! Che dice? – balbettò.

Senza guardarlo, ella si pose un dito su la bocca, poi indicò la porta:

– Se lo sapesse! Non dirgli nulla, per pietà! Fammi prima morire; dammi, dammi qualche cosa: la prenderò come una medicina; crederò che sia una medicina, che mi dai tu; purché sia subito! Ah, non ho coraggio, non ho coraggio! Da due mesi, vedi, mi dibatto in quest’agonia, senza trovar la forza, il modo di farla finita. Che ajuto puoi darmi, tu, Carlo, che dici?

– Che ajuto? – ripeté il D’Andrea, ancora smarrito nello stupore.

Eleonora stese di nuovo le mani per prendergli un braccio e, guardandolo con occhi supplichevoli, soggiunse:

– Se non vuoi farmi morire, non potresti… in qualche altro modo… salvarmi?

Il D’Andrea, a questa proposta, s’irrigidí piú che mai, aggrottando severamente le ciglia.

– Te ne scongiuro, Carlo! – insistette lei. – Non per me, non per me, ma perché Giorgio non sappia. Se tu credi che io abbia fatto qualche cosa per voi, per te, ajutami ora, salvami! Debbo finir cosí, dopo aver fatto tanto, dopo aver tanto sofferto? cosí, in questa ignominia, all’età mia? Ah, che miseria! che orrore!

– Ma come, Eleonora? Lei! Com’è stato? Chi è stato? – fece il D’Andrea, non trovando, di fronte alla tremenda ambascia di lei, che questa domanda per la sua curiosità sbigottita.

Di nuovo Eleonora indicò la porta e si coprí il volto con le mani:

– Non mi ci far pensare! Non posso pensarci! Dunque, non vuoi risparmiare a Giorgio questa vergogna?

– E come? – domandò il D’Andrea. – Delitto, sa! Sarebbe un doppio delitto. Piuttosto, mi dica: non si potrebbe in qualche altro modo… rimediare?

– No! – rispose lei, recisamente, infoscandosi. – Basta. Ho capito. Lasciami! Non ne posso piú…

Abbandonò il capo su la spalliera del seggiolone, rilassò le membra: sfinita.

Carlo D’Andrea, con gli occhi fissi dietro le grosse lenti da miope, attese un pezzo, senza trovar parole, non sapendo ancor credere a quella rivelazione, né riuscendo a immaginare come mai quella donna, finora esempio, specchio di virtú, d’abnegazione, fosse potuta cadere nella colpa.  Possibile? Eleonora Bandi? Ma se aveva in gioventú, per amore del fratello rifiutato tanti partiti, uno piú vantaggioso dell’altro! Come mai ora, ora che la gioventú era tramontata… – Eh! ma forse per questo…

La guardò, e il sospetto, di fronte a quel corpo cosí voluminoso, assunse all’improvviso, agli occhi di lui magro, un aspetto orribilmente sconcio e osceno.

– Va’, dunque, – gli disse a un tratto, irritata, Eleonora, che pur senza guardarlo, in quel silenzio, si sentiva addosso l’inerte orrore di quel sospetto negli occhi di lui. – Va’, va’, a dirlo a Giorgio, perché faccia subito di me quello che vuole. Va’.

Il D’Andrea uscí, quasi automaticamente. Ella sollevò un poco il capo per vederlo uscire; poi, appena richiuso l’uscio, ricadde nella positura di prima.

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II

Dopo due mesi d’orrenda angoscia, quella confessione del suo stato la sollevò, insperatamente. Le parve che il piú, ormai, fosse fatto.

Ora, non avendo piú forza di lottare, di resistere a quello strazio, si sarebbe abbandonata, cosí, alla sorte, qualunque fosse.

Il fratello, tra breve, sarebbe entrato e l’avrebbe uccisa? Ebbene: tanto meglio! Non aveva piú diritto a nessuna considerazione, a nessun compatimento. Aveva fatto, sí, per lui e per quell’altro ingrato, piú del suo dovere, ma in un momento poi aveva perduto il frutto di tutti i suoi benefizii.

Strizzò gli occhi, colta di nuovo dal ribrezzo.

Nel segreto della propria coscienza, si sentiva pure miseramente responsabile del suo fallo. Sí, lei, lei che per tanti anni  aveva avuto la forza di resistere agli impulsi della gioventú, lei che aveva sempre accolto in sé sentimenti puri e nobili, lei che aveva considerato il proprio sacrifizio come un dovere: in un momento, perduta! Oh miseria! miseria!

L’unica ragione che sentiva di potere addurre in sua discolpa, che valore poteva avere davanti al fratello? Poteva dirgli: – «Guarda, Giorgio, che sono forse caduta per te»? – Eppure la verità era forse questa.

Gli aveva fatto da madre, è vero? a quel fratello. Ebbene: in premio di tutti i benefizii lietamente prodigati, in premio del sacrifizio della propria vita, non le era stato concesso neanche il piacere di scorgere un sorriso, anche lieve, di soddisfazione su le labbra di lui e dell’amico. Pareva che avessero entrambi l’anima avvelenata di silenzio e di noja, oppressa come da una scimunita angustia. Ottenuta la laurea, s’eran subito buttati al lavoro, come due bestie; con tanto impegno, con tanto accanimento che in poco tempo erano riusciti a bastare a se stessi. Ora, questa fretta di sdebitarsi in qualche modo, come se a entrambi non ne paresse l’ora, l’aveva proprio ferita nel cuore. Quasi d’un tratto, cosí, s’era trovata senza piú scopo nella vita. Che le restava da fare, ora che i due giovani non avevano piú bisogno di lei? E aveva perduto, irrimediabilmente, la gioventú.

Neanche coi primi guadagni della professione era tornato il sorriso su le labbra del fratello. Sentiva forse ancora il peso del sacrifizio ch’ella aveva fatto per lui? si sentiva forse vincolato da questo sacrifizio per tutta la vita, condannato a sacrificare a sua volta la propria gioventú, la libertà dei proprii sentimenti alla sorella? E aveva voluto parlargli a cuore aperto:

– Non prenderti nessun pensiero di me, Giorgio! Io voglio soltanto vederti lieto, contento… capisci?

Ma egli le aveva troncato subito in bocca le parole:

– Zitta, zitta! Che dici? So quel che debbo fare. Ora spetta a me.

– Ma come? cosí? – avrebbe voluto gridargli, lei, che, senza pensarci due volte, s’era sacrificata col sorriso sempre su le labbra e il cuor leggero.

Conoscendo la chiusa, dura ostinazione di lui, non aveva insistito. Ma, intanto, non si sentiva di durare in quella tristezza soffocante.

Egli raddoppiava di giorno in giorno i guadagni della professione; la circondava d’agi; aveva voluto che smettesse di dar lezioni. In quell’ozio forzato, che la avviliva, aveva allora accolto, malauguratamente, un pensiero che, dapprincipio, quasi l’aveva fatta ridere:

«Se trovassi marito!».

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Ma aveva già trentanove anni, e poi con quel corpo… oh via! – avrebbe dovuto fabbricarselo apposta, un marito. Eppure, sarebbe stato l’unico mezzo per liberar sé e il fratello da quell’opprimente debito di gratitudine.

Quasi senza volerlo, s’era messa allora a curare insolitamente la persona, assumendo una cert’aria di nubile che prima non s’era mai data.

Quei due o tre che un tempo l’avevano chiesta in matrimonio, avevano ormai moglie e figliuoli. Prima, non se n’era mai curata; ora, a ripensarci, ne provava dispetto; provava invidia di tante sue amiche che erano riuscite a procurarsi uno stato.

Lei sola era rimasta cosí…

Ma forse era in tempo ancora: chi sa? Doveva proprio chiudersi cosí la sua vita sempre attiva? in quel vuoto? doveva spegnersi cosí quella fiamma vigile del suo spirito appassionato? in quell’ombra?

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E un profondo rammarico l’aveva invasa, inasprito talvolta da certe smanie, che alteravano le sue grazie spontanee, il suono delle sue parole, delle sue risa. Era divenuta pungente, quasi aggressiva nei discorsi. Si rendeva conto lei stessa del cangiamento della propria indole; provava in certi momenti quasi odio per se stessa, repulsione per quel suo corpo vigoroso, ribrezzo dei desiderii insospettati in cui esso, ora, all’improvviso, le s’accendeva turbandola profondamente.

Il fratello, intanto, coi risparmii, aveva di recente acquistato un podere e vi aveva fatto costruire un bel villino.

Spinta da lui, vi era andata dapprima per un mese in villeggiatura; poi, riflettendo che il fratello aveva forse acquistato quel podere per sbarazzarsi di tanto in tanto di lei, aveva deliberato di ritirarsi colà per sempre. Cosí, lo avrebbe lasciato libero del tutto: non gli avrebbe piú dato la pena della sua compagnia, della sua vista, e anche lei a poco a poco, là, si sarebbe tolta quella strana idea dal capo, di trovar marito all’età sua.

I primi giorni eran trascorsi bene, e aveva creduto che le sarebbe stato facile seguitare cosí.

Aveva già preso l’abitudine di levarsi ogni giorno all’alba e di fare una lunga passeggiata per i campi, fermandosi di tratto in tratto, incantata, ora per ascoltare nell’attonito silenzio dei piani, ove qualche filo d’erba vicino abbrividiva alla frescura dell’aria, il canto dei galli, che si chiamavano da un’aja all’altra; ora per ammirare qualche masso tigrato di gromme verdi, o il velluto del lichene sul vecchio tronco stravolto di qualche olivo saraceno.

Ah, lí, cosí vicina alla terra, si sarebbe presto rifatta un’altr’anima, un altro modo di pensare e di sentire; sarebbe divenuta come quella buona moglie del mezzadro che si mostrava cosí lieta di tenerle compagnia e che già le aveva insegnato tante cose della campagna, tante cose pur cosí semplici della vita e che ne rivelano tuttavia un nuovo senso profondo, insospettato.

Il mezzadro, invece, era insoffribile: si vantava d’aver idee larghe, lui: aveva girato il mondo, lui; era stato in America, otto anni a Benossarie; e non voleva che il suo unico figliuolo, Gerlando, fosse un vile zappaterra. Da tredici anni, pertanto, lo manteneva alle scuole; voleva dargli «un po’ di lettera», diceva, per poi spedirlo in America, là, nel gran paese, dove senza dubbio avrebbe fatto fortuna.

Gerlando aveva diciannove anni e in tredici di scuola era arrivato appena alla terza tecnica. Era un ragazzone rude, tutto d’un pezzo. Quella fissazione del padre costituiva per lui un vero martirio. Praticando coi compagni di scuola, aveva preso, senza volere, una cert’aria di città, che però lo rendeva piú goffo.

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A forza d’acqua, ogni mattina, riusciva a rassettarsi i capelli ispidi, a tirarvi una riga da un lato; ma poi quei capelli, rasciugati, gli si drizzavan compatti e irsuti di qua e di là, come se gli schizzassero dalla cute del cranio; anche le sopracciglia pareva gli schizzassero poco piú giú dalla fronte bassa, e già dal labbro e dal mento cominciavano a schizzare i primi peli dei baffi e della barba, a cespuglietti. Povero Gerlando! faceva compassione, cosí grosso, cosí duro, cosí ispido, con un libro aperto davanti. Il padre doveva sudare una camicia, certe mattine, per scuoterlo dai saporiti sonni profondi, di porcellone satollo e pago, e avviarlo ancora intontito e barcollante, con gli occhi imbambolati, alla vicina città; al suo martirio.

Venuta in campagna la signorina, Gerlando le aveva fatto rivolgere dalla madre la preghiera di persuadere al padre che la smettesse di tormentarlo con questa scuola, con questa scuola, con questa scuola! Non ne poteva piú!

E difatti Eleonora s’era provata a intercedere; ma il mezzadro, – ah, nonononò – ossequio, rispetto, tutto il rispetto per la signorina; ma anche preghiera di non immischiarsi. Ed allora essa, un po’ per pietà, un po’ per ridere, un po’ per darsi da fare, s’era messa ad ajutare quel povero giovanotto, fin dove poteva.

Lo faceva, ogni dopo pranzo, venir su coi libri e i quaderni della scuola. Egli saliva impacciato e vergognoso, perché s’accorgeva che la padrona prendeva a goderselo per la sua balordaggine, per la sua durezza di mente; ma che poteva farci? il padre voleva cosí. Per lo studio, eh, sí: bestia; non aveva difficoltà a riconoscerlo; ma se si fosse trattato d’atterrare un albero, un bue, eh perbacco… – e Gerlando mostrava le braccia nerborute, con certi occhi teneri e un sorriso di denti bianchi e forti…

Improvvisamente, da un giorno all’altro, ella aveva troncato quelle lezioni; non aveva piú voluto vederlo; s’era fatto portare dalla città il pianoforte e per parecchi giorni s’era chiusa nella villa a sonare, a cantare, a leggere, smaniosamente. Una sera, in fine, s’era accorta che quel ragazzone, privato cosí d’un tratto dell’ajuto di lei, della compagnia ch’ella gli concedeva e degli scherzi che si permetteva con lui, s’appostava per spiarla, per sentirla cantare o sonare: e, cedendo a una cattiva ispirazione, aveva voluto sorprenderlo, lasciando d’un tratto il pianoforte e scendendo a precipizio la scala della villa.

– Che fai lí?

– Sto a sentire…

– Ti piace?

– Tanto, sí signora… Mi sento in paradiso.

A questa dichiarazione era scoppiata a ridere; ma, all’improvviso, Gerlando, come sferzato in faccia da quella risata, le era saltato addosso, lí, dietro la villa, nel bujo fitto, oltre la zona di luce che veniva dal balcone aperto lassú.

Cosí era stato.

Sopraffatta a quel modo, non aveva saputo respingerlo; s’era sentita mancare – non sapeva piú come – sotto quell’impeto brutale e s’era abbandonata, sí, cedendo pur senza voler concedere.

Il giorno dopo, aveva fatto ritorno in città.

E ora? come mai Giorgio non entrava a svergognarla? Forse il D’Andrea non gli aveva detto ancor nulla: forse pensava al modo di salvarla. Ma come?

Si nascose il volto tra le mani, quasi per non vedere il vuoto che le s’apriva davanti. Ma era pur dentro di lei quel vuoto. E non c’era rimedio. La morte sola. Quando? come?

L’uscio, a un tratto, s’aprí, e Giorgio apparve su la soglia scontraffatto, pallidissimo, coi capelli scompigliati e gli occhi ancora rossi di pianto. Il D’Andrea lo teneva per un braccio.

– Voglio sapere questo soltanto, – disse alla sorella, a denti stretti, con voce fischiante, quasi scandendo le sillabe: – Voglio sapere chi è stato.

Eleonora, a capo chino, con gli occhi chiusi, scosse lentamente il capo e riprese a singhiozzare.

– Me lo dirai, – gridò il Bandi, appressandosi, trattenuto dall’amico. – E chiunque sia, tu lo sposerai!

– Ma no, Giorgio! – gemette allora lei, raffondando vie piú il capo e torcendosi in gremio le mani.- No!, non é possibile, non é possibile!

– È ammogliato? – domandò lui, appressandosi di piú, coi pugni serrati, terribile.

– No, – s’affrettò a risponder lei. – Ma non è possibile, credi!

– Chi è? – riprese il Bandi, tutto fremente, stringendola da presso. – Chi è? subito, il nome!

Sentendosi addosso la furia del fratello, Eleonora si strinse nelle spalle, si provò a sollevare appena il capo e gemette sotto gli occhi inferociti di lui:

– Non posso dirtelo…

– Il nome, o t’ammazzo! – ruggí allora il Bandi, levando un pugno sul capo di lei.

Ma il D’Andrea s’interpose, scostò l’amico, poi gli disse severamente:

– Tu va’. Lo dirà a me. Va’, va’…

E lo fece uscire, a forza, dalla camera.

     

III

Il fratello fu irremovibile.

Ne’ pochi giorni che occorsero per le pubblicazioni di rito, prima del matrimonio, s’accaní nello scandalo. Per prevenir le beffe  che s’aspettava da tutti, prese ferocemente il partito d’andar sbandendo la sua vergogna, con orribili crudezze di linguaggio. Pareva impazzito; e tutti lo commiseravano.

Gli toccò, tuttavia, a combattere un bel po’ col mezzadro, per farlo condiscendere alle nozze del figliuolo.

Quantunque d’idee larghe, il vecchio, dapprima, parve cascasse dalle nuvole: non voleva creder possibile una cosa simile. Poi disse:

– Vossignoria non dubiti: me lo pesterò sotto i piedi; sa come?, come si pigia l’uva. O piuttosto, facciamo cosí: glielo consegno, legato mani e piedi; e Vossignoria si prenderà tutta quella soddisfazione che vuole. Il nerbo, per le nerbate, glielo procuro io, e glielo tengo prima apposta tre giorni in molle, perché picchi piú sodo.

Quando però comprese che il padrone non intendeva questo, ma voleva altro, il matrimonio, trasecolò di nuovo:

– Come! Che dice, Vossignoria? Una signorona di quella fatta col figlio d’un vile zappaterra?

E oppose un reciso rifiuto.

– Mi perdoni. Ma la signorina aveva il giudizio e l’età; conosceva il bene e il male; non doveva far mai con mio figlio quello che fece. Debbo parlare? Se lo tirava sú in casa tutti i giorni. Vossignoria m’intende… Un ragazzaccio… A quell’età, non si ragiona, non si bada… Ora ci posso perdere cosí il figlio, che Dio sa quanto mi costa? La signorina. Con rispetto parlando, gli può esser madre…

Il Bandi dovette promettere la cessione in dote del podere e un assegno giornaliero alla sorella.

Cosí il matrimonio fu stabilito; e, quando ebbe luogo, fu un vero avvenimento per quella cittaduzza.

Parve che tutti provassero un gran piacere nel far pubblicamente strazio dell’ammirazione, del rispetto per tanti anni tributati a quella donna; come se tra l’ammirazione e il rispetto, di cui non la stimavano piú degna, e il dileggio, con cui ora la accompagnavano a quelle nozze vergognose, non ci potesse esser posto per un po’ di commiserazione.

La commiserazione era tutta per il fratello; il quale, s’intende, non volle prender parte alla cerimonia. Non vi prese parte neanche il D’Andrea, scusandosi che doveva tener compagnia, in quel triste giorno, al suo povero Giorgio.

Un vecchio medico della città, ch’era già stato di casa dei genitori d’Eleonora, e a cui il D’Andrea, venuto di fresco dagli studii, con tutti i fumi e le sofisticherie della novissima terapeutica, aveva tolto gran parte della clientela, si profferse per testimonio e condusse con sé un altro vecchio, suo amico, per secondo testimonio.

Con essi Eleonora si recò in vettura chiusa al Municipio; poi in una chiesetta fuorimano, per la cerimonia religiosa.

In un’altra vettura era lo sposo, Gerlando, torbido e ingrugnato, coi genitori. Questi, parati a festa, stavano su di sé, gonfi e serii, perché, alla fin fine, il figlio sposava una vera signora, sorella d’un avvocato, e gli recava in dote una campagna con una magnifica villa, e denari per giunta. Gerlando, per rendersi degno del nuovo stato, avrebbe seguitato gli studii. Al podere avrebbe atteso lui, il padre, che se n’intendeva. La sposa era un po’ anzianotta? Tanto meglio! L’erede già c’era per via. Per legge di natura ella sarebbe morta prima, e Gerlando allora sarebbe rimasto libero e ricco.

Queste e consimili riflessioni facevano anche, in una terza vettura, i testimonii dello sposo, contadini amici del padre, in compagnia di due vecchi zii materni. Gli altri parenti e amici dello sposo innumerevoli, attendevano nella villa, tutti parati a festa, con gli abiti di panno turchino, gli uomini; con le mantelline nuove e i fazzoletti dai colori piú sgargianti, le donne; giacché il mezzadro, d’idee larghe, aveva preparato un trattamento proprio coi fiocchi.

Al municipio, Eleonora, prima d’entrare nell’aula dello stato civile, fu assalita da una convulsione di pianto; lo sposo che si teneva discosto, in crocchio coi parenti, fu spinto da questi ad accorrere; ma il vecchio medico lo pregò di non farsi scorgere, di star lontano, per il momento.

Non ben rimessa ancora da quella crisi violenta, Eleonora entrò nell’aula; si vide accanto quel ragazzo, che l’impaccio e la vergogna rendevano piú ispido e goffo; ebbe un impeto di ribellione; fu per gridare: – No! No! – e lo guardò come per spingerlo a gridar cosí anche lui. Ma poco dopo dissero sí tutti e due, come condannati a una pena inevitabile. Sbrigata in gran fretta l’altra funzione nella chiesetta solitaria, il triste corteo s’avviò alla villa. Eleonora non voleva staccarsi dai due vecchi amici; ma le fu forza salire in vettura con lo sposo e coi suoceri.

Strada facendo, non fu scambiata una parola nella vettura.

Il mezzadro e la moglie parevano sbigottiti: alzavano di tanto in tanto gli occhi per guardar di sfuggita la nuora; poi si scambiavano uno sguardo e riabbassavano gli occhi. Lo sposo guardava fuori, tutto ristretto in sé, aggrottato.

In villa, furono accolti con uno strepitoso sparo di mortaretti e grida festose e battimani. Ma l’aspetto e il contegno della sposa raggelarono tutti i convitati, per quanto ella si provasse anche a sorridere a quella buona gente, che intendeva farle festa a suo modo, come usa negli sposalizi.

Chiese presto licenza di ritirarsi sola; ma nella camera in cui aveva dormito durante la villeggiatura, trovando apparecchiato il letto nuziale, s’arrestò di botto, su la soglia: – Lí? con lui? No! Mai! Mai! – E, presa da ribrezzo, scappò in un’altra camera: vi si chiuse a chiave; cadde a sedere su una seggiola, premendosi forte, forte, il volto con tutt’e due le mani.

Le giungevano, attraverso l’uscio, le voci, le risa dei convitati, che aizzavano di là Gerlando, lodandogli, piú che la sposa, il buon parentado che aveva fatto e la bella campagna.

Gerlando se ne stava affacciato al balcone e, per tutta risposta, pieno d’onta, scrollava di tratto in tratto le poderose spalle.

Onta sí, provava onta d’esser marito a quel modo, di quella signora: ecco! E tutta la colpa era del padre, il quale, per quella maledetta fissazione della scuola, lo aveva fatto trattare al modo d’un ragazzaccio stupido e inetto dalla signorina, venuta in villeggiatura, abilitandola a certi scherzi che lo avevano ferito. Ed ecco, intanto, quel che n’era venuto. Il padre non pensava che alla bella campagna. Ma lui, come avrebbe vissuto d’ora in poi, con quella donna che gl’incuteva tanta soggezione, e che certo gliene voleva per la vergogna e il disonore? Come avrebbe ardito d’alzar gli occhi in faccia a lei? E, per giunta, il padre pretendeva ch’egli seguitasse a frequentar la scuola! Figurarsi la baja che gli avrebbero data i compagni! Aveva venti anni piú di lui, la moglie, e pareva una montagna, pareva…

Mentre Gerlando si travagliava con queste riflessioni, il padre e la madre attendevano agli ultimi preparativi del pranzo. Finalmente l’uno e l’altra entrarono trionfanti nella sala, dove già la mensa era apparecchiata. Il servizio da tavola era stato fornito per l’avvenimento da un trattore della città che aveva anche inviato un cuoco e due camerieri per servire il pranzo.

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Il mezzadro venne a trovar Gerlando al balcone e gli disse:

– Va’ ad avvertire tua moglie che a momenti sarà pronto.

– Non ci vado, gnornò! – grugní Gerlando, pestando un piede. – Andateci voi.

– Spetta a te, somarone! – gli gridò il padre. – Tu sei il marito: va’!

– Grazie tante… Gnornò! non ci vado! – ripeté Gerlando, cocciuto, schermendosi.

Allora il padre, irato, lo tirò per il bavero della giacca e gli diede uno spintone.

– Ti vergogni, bestione? Ti ci sei messo, prima? E ora ti vergogni? Va’! È tua moglie!

I convitati accorsero a metter pace, a persuadere Gerlando a andare.

– Che male c’è? Le dirai che venga a prendere un boccone…

– Ma se non so neppure come debba chiamarla! – gridò Gerlando, esasperato.

Alcuni convitati scoppiarono a ridere, altri furono pronti a trattenere il mezzadro che s’era lanciato per schiaffeggiare il figlio imbecille che gli guastava cosí la festa preparata con tanta solennità e tanta spesa.

– La chiamerai col suo nome di battesimo, – gli diceva intanto, piano e persuasiva, la madre. – Come si chiama? Eleonora, è vero? e tu chiamala Eleonora. Non è tua moglie? Va’, figlio mio, va’… E, cosí dicendo, lo avviò alla camera nuziale.

Gerlando andò a picchiare all’uscio. Picchiò una prima volta, piano. Attese. Silenzio. Come le avrebbe detto? Doveva proprio darle del tu, cosí alla prima? Ah, maledetto impiccio! E perché, intanto, ella non rispondeva? Forse non aveva inteso. Ripicchiò piú forte. Attese. Silenzio.

Allora, tutto impacciato, si provò a chiamare a bassa voce, come gli aveva suggerito la madre. Ma gli venne fuori un Eneolora cosí ridicolo, che subito, come per cancellarlo, chiamò forte, franco:

– Eleonora!

Intese alla fine la voce di lei che domandava dietro l’uscio di un’altra stanza:

– Chi è?

S’appressò a quell’uscio, col sangue tutto rimescolato.

– Io, – disse – io Ger… Gerlando… È pronto.

– Non posso, – rispose lei. – Fate senza di me.

Gerlando tornò in sala, sollevato da un gran peso.

– Non viene! Dice che non viene! Non può venire!

– Viva il bestione! – esclamò allora il padre, che non lo chiamava altrimenti. – Le hai detto ch’era in tavola? E perché non l’hai forzata a venire?

La moglie s’interpose: fece intendere al marito che sarebbe stato meglio, forse, lasciare in pace la sposa, per quel giorno. I convitati approvarono.

– L’emozione… il disagio… si sa!

Ma il mezzadro che s’era inteso di dimostrare alla nuora che, all’occorrenza, sapeva far l’obbligo suo, rimase imbronciato e ordinò con mala grazia che il pranzo fosse servito.

C’era il desiderio dei piatti fini, ch’ora sarebbero venuti in tavola, ma c’era anche in tutti quei convitati una seria costernazione per tutto quel superfluo che vedevano luccicar sulla tovaglia nuova, che li abbagliava: quattro bicchieri di diversa forma e forchette e forchettine, coltelli e coltellini, e certi pennini, poi, dentro gl’involtini di cartavelina.

Seduti ben discosti dalla tavola, sudavano anche per i grevi abiti di panno della festa, e si guardavano nelle facce dure, arsicce, svisate dall’insolita pulizia; e non osavano alzar le grosse mani sformate dai lavori della campagna per prendere quelle forchette d’argento (la piccola o la grande?) e quei coltelli, sotto gli occhi dei camerieri che, girando coi serviti, con quei guanti di filo bianco incutevano loro una terribile soggezione.

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Il mezzadro, intanto, mangiando, guardava il figlio e scrollava il capo, col volto atteggiato di derisoria commiserazione:

– Guardatelo, guardatelo! – borbottava tra sé. – Che figura ci fa, lí solo, spajato, a capo tavola? Come potrà la sposa aver considerazione per uno scimmione cosí fatto? Ha ragione, ha ragione di vergognarsi di lui. Ah, se fossi stato io al posto suo!

Finito il pranzo fra la musoneria generale, i convitati, con una scusa o con un’altra, andarono via. Era già quasi sera.

– E ora? – disse il padre a Gerlando, quando i due camerieri finirono di sparecchiar la tavola, e tutto nella villa ritornò tranquillo. – Che farai, ora? Te la sbroglierai tu!

E ordinò alla moglie di seguirlo nella casa colonica, ove abitavano, poco discosto dalla villa.

Rimasto solo, Gerlando si guardò attorno, aggrondato, non sapendo che fare.

Sentí nel silenzio la presenza di quella che se ne stava chiusa di là. Forse, or ora, non sentendo piú alcun rumore, sarebbe uscita dalla stanza. Che avrebbe dovuto far lui, allora?

Ah, come volentieri se ne sarebbe scappato a dormire nella casa colonica, presso la madre, o anche giú all’aperto. Sotto un albero, magari!

E se lei intanto s’aspettava d’esser chiamata? Se, rassegnata alla condanna che aveva voluto infliggerle il fratello, si riteneva in potere di lui, suo marito, e aspettava che egli la… sí, la invitasse a…

Tese l’orecchio. Ma no: tutto era silenzio. Forse s’era già addormentata. Era già bujo. Il lume della luna entrava, per il balcone aperto, nella sala.

Senza pensar d’accendere il lume, Gerlando prese una seggiola e si recò a sedere al balcone, che guardava tutt’intorno, dall’alto, l’aperta campagna declinante al mare laggiú in fondo, lontano.

Nella notte chiara splendevano limpide le stelle maggiori; la luna accendeva sul mare una fervida fascia d’argento; dai vasti piani gialli di stoppia si levava tremulo il canto dei grilli, come un fitto, continuo scampanellío. A un tratto, un assiolo, da presso, emise un chiú languido, accorante; da lontano un altro gli rispose, come un’eco, e tutti e due seguitarono per un pezzo a singultar cosí, nella chiara notte.

Con un braccio appoggiato alla ringhiera del balcone, egli allora, istintivamente, per sottrarsi all’oppressione di quell’incertezza smaniosa, fermò l’udito a quei due chiú che si rispondevano nel silenzio incantato dalla luna; poi, scorgendo laggiú in fondo un tratto del muro che cingeva tutt’intorno il podere, pensò che ora tutta quella terra era sua; suoi quegli alberi: olivi, mandorli, carrubi, fichi, gelsi; sua quella vigna.

Aveva ben ragione d’esserne contento il padre, che d’ora in poi non sarebbe stato piú soggetto a nessuno.

Alla fin fine, non era tanto stramba l’idea di fargli seguitare gli studii. Meglio lí, meglio a scuola, che qua tutto il giorno, in compagnia della moglie. A tenere a posto quei compagni che avessero voluto ridere alle sue spalle, ci avrebbe pensato lui. Era un signore, ormai, e non gl’importava piú se lo cacciavano via dalla scuola. Ma questo non sarebbe accaduto. Anzi egli si proponeva di studiare d’ora innanzi con impegno, per potere un giorno, tra breve, figurare tra i «galantuomini» del paese, senza piú sentirne soggezione, e parlare e trattare con loro, da pari a pari. Gli bastavano altri quattro anni di scuola per aver la licenza dell’Istituto tecnico: e poi, perito agronomo o ragioniere. Suo cognato allora, il signor avvocato, che pareva avesse buttato là, ai cani, la sorella, avrebbe dovuto fargli tanto di cappello. Sissignori. E allora egli avrebbe avuto tutto il diritto di dirgli: «Che mi hai dato? A me, quella vecchia? Io ho studiato, ho una professione da signore e potevo aspirare a una bella giovine, ricca e di buoni natali come lei!».

Cosí pensando, s’addormentò con la fronte sul braccio appoggiato alla ringhiera.

I due chiú seguitavano, l’uno qua presso, l’altro lontano, il loro alterno lamentío voluttuoso; la notte chiara pareva facesse tremolar su la terra il suo velo di luna sonoro di grilli, e arrivava ora da lontano, come un’oscura rampogna, il borboglío profondo del mare.

A notte avanzata, Eleonora apparve, come un’ombra, su la soglia del balcone.

Non s’aspettava di trovarvi il giovine addormentato. Ne provò pena e timore insieme. Rimase un pezzo a pensare se le convenisse svegliarlo per dirgli quanto aveva tra sé stabilito e toglierlo di lí; ma, sul punto di scuoterlo, di chiamarlo per nome, sentí mancarsi l’animo e si ritrasse pian piano, come un’ombra, nella camera dond’era uscita.

IV

L’intesa fu facile.

Eleonora, la mattina dopo, parlò maternamente a Gerlando: lo lasciò padrone di tutto, libero di fare quel che gli sarebbe piaciuto, come se tra loro non ci fosse alcun vincolo. Per sé domandò solo d’esser lasciata lí, da canto, in quella cameretta, insieme con la vecchia serva di casa, che l’aveva vista nascere.

Gerlando, che a notte inoltrata s’era tratto dal balcone tutto indurito dall’umido a dormire sul divano della sala da pranzo, ora, cosí sorpreso nel sonno, con una gran voglia di stropicciarsi gli occhi coi pugni, aprendo la bocca per lo sforzo d’aggrottar le ciglia, perché voleva mostrare non tanto di capire, quanto d’esser convinto, disse a tutto di sí, di sí, col capo. Ma il padre e la madre, quando seppero di quel patto, montarono su tutte le furie, e invano Gerlando si provò a far intender loro che gli conveniva cosí, che anzi ne era piú che contento.

Per quietare in certo qual modo il padre, dovette promettere formalmente che, ai primi d’ottobre, sarebbe ritornato a scuola. Ma, per ripicco, la madre gl’impose di scegliersi la camera piú bella per dormire, la camera piú bella per studiare, la camera piú bella per mangiare… tutte le camere piú belle!

– E comanda tu, a bacchetta, sai! Se no, vengo io a farti ubbidire e rispettare.

Giurò infine che non avrebbe mai piú rivolto la parola a quella smorfiosa che le disprezzava cosí il figlio, un cosí bel pezzo di giovanotto, che colei non era neanco degna di guardare.

Da quel giorno stesso, Gerlando si mise a studiare, a riprendere la preparazione interrotta per gli esami di riparazione. Era già tardi, veramente: aveva appena ventiquattro giorni innanzi a sé; ma, chi sa! mettendoci un po’ d’impegno, forse sarebbe riuscito a prendere finalmente quella licenza tecnica, per cui si torturava da tre anni.

Scosso lo sbalordimento angoscioso dei primi giorni, Eleonora, per consiglio della vecchia serva, si diede a preparare il corredino per il nascituro.

Non ci aveva pensato, e ne pianse.

Gesa, la vecchia serva, la ajutò, la guidò in quel lavoro, per cui era inesperta: le diede la misura per le prime camicine, per le prime cuffiette… Ah, la sorte le serbava questa consolazione, e lei non ci aveva ancora pensato; avrebbe avuto un piccino, una piccina a cui attendere, a cui consacrarsi tutta! Ma Dio doveva farle la grazia di mandarle un maschietto. Era già vecchia, sarebbe morta presto, e come avrebbe lasciato a quel padre una femminuccia, a cui lei avrebbe ispirato i suoi pensieri, i suoi sentimenti? Un maschietto avrebbe sofferto meno di quella condizione d’esistenza, in cui fra poco la mala sorte lo avrebbe messo.

Angosciata da questi pensieri, stanca del lavoro, per distrarsi, prendeva in mano uno di quei libri che l’altra volta s’era fatti spedire dal fratello, e si metteva a leggere. Ogni tanto, accennando col capo, domandava alla serva:

– Che fa?

Gesa si stringeva nelle spalle, sporgeva il labbro, poi rispondeva:

– Uhm! Sta con la testa sul libro. Dorme? Pensa? Chi sa!

Pensava, Gerlando: pensava che, tirate le somme, non era molto allegra la sua vita.

Ecco qua: aveva il podere, ed era come se non lo avesse; la moglie, e come se non l’avesse; in guerra coi parenti; arrabbiato con se stesso, che non riusciva a ritener nulla, nulla, nulla di quanto studiava.

E in quell’ozio smanioso, intanto, si sentiva dentro come un fermento d’acri desiderii; fra gli altri, quello della moglie, perché gli s’era negata. Non era piú desiderabile, è vero, quella donna. Ma… che patto era quello? Egli era il marito, e doveva dirlo lui, se mai.

Si alzava; usciva dalla stanza; passava innanzi all’uscio della camera di lei; ma subito, intravedendola, sentiva cadersi ogni proposito di ribellione. Sbuffava e, tanto per non riconoscere che sul punto gliene mancava l’animo, diceva a se stesso che non ne valeva la pena.

Uno di quei giorni, finalmente tornò dalla città sconfitto, bocciato, bocciato ancora una volta agli esami di licenza tecnica. E ora basta! basta davvero! Non voleva piú saperne! Prese libri, quaderni, disegni, squadre, astucci, matite e li portò giú, innanzi alla villa per farne un falò. Il padre accorse per impedirglielo; ma Gerlando, imbestialito, si ribellò:

– Lasciatemi fare! Sono il padrone!

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Sopravvenne la madre; accorsero anche alcuni contadini che lavoravano nella campagna. Una fumicaja prima rada, poi a mano a mano piú densa si sprigionò, tra le grida degli astanti, da quel mucchio di carte; poi un bagliore; poi crepitò la fiamma e si levò. Alle grida, si fecero al balcone Eleonora e la serva.

Gerlando, livido e gonfio come un tacchino, scagliava alle fiamme, scamiciato, furibondo, gli ultimi libri che teneva sotto il braccio, gli strumenti della sua lunga inutile tortura.

Eleonora si tenne a stento di ridere, a quello spettacolo, e si ritrasse in fretta dal balcone. Ma la suocera se ne accorse e disse al figlio:

– Ci prova gusto, sai? la signora; la fai ridere.

– Piangerà! – gridò allora Gerlando, minaccioso, levando il capo verso il balcone.

Eleonora intese la minaccia e impallidí: comprese che la stanca e mesta quiete, di cui aveva goduto finora, era finita per lei. Nient’altro che un momento di tregua le aveva concesso la sorte. Ma che poteva voler da lei quel bruto? Ella era già esausta: un altro colpo, anche lieve, l’avrebbe atterrata.

Poco dopo, si vide innanzi Gerlando, fosco e ansante.

– Si cangia vita da oggi! – le annunziò. – Mi son seccato. Mi metto a fare il contadino, come mio padre; e dunque tu smetterai di far la signora costà. Via, via tutta codesta biancheria! Chi nascerà sarà contadino anche lui, e dunque senza tanti lisci e tante gale. Licenzia la serva: farai tu da mangiare e baderai alla casa, come fa mia madre. Inteso?

Eleonora si levò, pallida e vibrante di sdegno:

– Tua madre è tua madre, – gli disse, guardandolo fieramente negli occhi. – Io sono io, e non posso diventare con te, villano, villana.

– Mia moglie sei! – gridò allora Gerlando, appressandosi violento e afferrandola per un braccio. – E farai ciò che voglio io; qua comando io, capisci?

Poi si volse alla vecchia serva e le indicò l’uscio:

– Via! Voi andate subito via! Non voglio serve per la casa!

– Vengo con te, Gesa! – gridò Eleonora cercando di svincolare il braccio che egli le teneva ancora afferrato.

Ma Gerlando non glielo lasciò; glielo strinse piú forte; la costrinse a sedere.

– No! Qua! Tu rimani qua, alla catena, con me! Io per te mi son prese le beffe: ora basta! Vieni via, esci da codesto tuo covo. Non voglio star piú solo a piangere la mia pena. Fuori! Fuori!

E la spinse fuori della camera.

– E che hai tu pianto finora? – gli disse lei con le lagrime a gli occhi. – Che ho preteso, io da te?

– Che hai preteso? Di non aver molestie, di non aver contatto con me, quasi che io fossi… che non meritassi confidenza da te, matrona! E m’hai fatto servire a tavola da una salariata, mentre toccava a te a servirmi, di tutto punto, come fanno le mogli.

– Ma che n’hai da fare tu, di me? – gli domandò, avvilita, Eleonora. – Ti servirò, se vuoi, con le mie mani, d’ora in poi. Va bene?

Ruppe, cosí dicendo, in singhiozzi, poi sentí mancarsi le gambe e s’abbandonò. Gerlando, smarrito, confuso, la sostenne insieme con Gesa, e tutt’e due la adagiarono su una seggiola.

Verso sera, improvvisamente, fu presa dalle doglie. Gerlando, pentito, spaventato, corse a chiamar la madre: un garzone fu spedito in città per una levatrice; mentre il mezzadro, vedendo già in pericolo il podere, se la nuora abortiva, bistrattava il figlio:

– Bestione, bestione, che hai fatto? E se ti muore, adesso? Se non hai piú figli? Sei in mezzo a una strada! Che farai? Hai lasciato la scuola e non sai neppur tenere la zappa in mano. Sei rovinato!

– Che me ne importa? – gridò Gerlando. – Purché non abbia nulla lei!

Sopravvenne la madre, con le braccia per aria:

– Un medico! Ci vuole subito un medico! La vedo male!

– Che ha? – domandò Gerlando, allibito.

Ma il padre lo spinse fuori:

– Corri! Corri!

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Per via, Gerlando, tutto tremante, s’avvilí, si mise a piangere, sforzandosi tuttavia di correre. A mezza strada s’imbatté nella levatrice che veniva in vettura col garzone.

– Caccia! caccia! – gridò. – Vado pel medico, muore!

Inciampò, stramazzò; tutto impolverato, riprese a correre, disparata-mente, addentandosi la mano che s’era scorticata.

Quando tornò col medico alla villa, Eleonora stava per morire, dissanguata.

– Assassino! assassino! – nicchiava Gesa, attendendo alla padrona. – Lui è stato! Ha osato di metterle le mani addosso.

Eleonora però negava col capo. Si sentiva a mano a mano, col sangue, mancar la vita, a mano a mano le forze raffievolendo scemare; era già fredda… Ebbene: non si doleva di morire; era pur dolce cosí la morte, un gran sollievo, dopo le atroci sofferenze. E, col volto come di cera, guardando il soffitto, aspettava che gli occhi le si chiudessero da sé, pian piano, per sempre. Già non distingueva piú nulla. Come in sogno rivide il vecchio medico che le aveva fatto da testimonio; e gli sorrise.

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V

Gerlando non si staccò dalla sponda del letto, né giorno né notte, per tutto il tempo che Eleonora vi giacque tra la vita e la morte.

Quando finalmente dal letto poté esser messa a sedere sul seggiolone, parve un’altra donna: diafana, quasi esangue. Si vide innanzi Gerlando, che sembrava uscito anch’esso da una mortale malattia, e premurosi attorno i parenti di lui. Li guardava coi begli occhi neri ingranditi e dolenti nella pallida magrezza, e le pareva che ormai nessuna relazione esistesse piú tra essi e lei, come se ella fosse or ora tornata, nuova e diversa, da un luogo remoto, dove ogni vincolo fosse stato infranto, non con essi soltanto, ma con tutta la vita di prima.

Respirava con pena; a ogni menomo rumore il cuore le balzava in petto e le batteva con tumultuosa repenza; una stanchezza greve la opprimeva.

Allora, col capo abbandonato su la spalliera del seggiolone, gli occhi chiusi, si rammaricava dentro di sé di non esser morta. Che stava piú a farci, lí? perché ancora quella condanna per gli occhi di veder quei visi attorno e quelle cose, da cui già si sentiva tanto, tanto lontana? Perché quel ravvicinamento con le apparenze opprimenti e nauseanti della vita passata, ravvicinamento che talvolta le pareva diventasse piú brusco, come se qualcuno la spingesse di dietro, per costringerla a vedere, a sentir la presenza, la realtà viva e spirante della vita odiosa, che piú non le apparteneva?

Credeva fermamente che non si sarebbe rialzata mai piú da quel seggiolone; credeva che da un momento all’altro sarebbe morta di crepacuore. E no, invece; dopo alcuni giorni, poté levarsi in piedi, muovere, sorretta, qualche passo per la camera; poi, col tempo, anche scendere la scala e recarsi all’aperto, a braccio di Gerlando e della serva. Prese infine l’abitudine di recarsi sul tramonto fino all’orlo del ciglione che limitava a mezzogiorno il podere.

S’apriva di là la magnifica vista della piaggia sottostante all’altipiano, fino al mare laggiú. Vi si recò i primi giorni accompagnata, al solito, da Gerlando e da Gesa; poi, senza Gerlando; infine, sola.

Seduta su un masso, all’ombra d’un olivo centenario, guardava tutta la riviera lontana che s’incurvava appena, a lievi lunate, a lievi seni, frastagliandosi sul mare che cangiava secondo lo spirare dei venti; vedeva il sole ora come un disco di fuoco affogarsi lentamente tra le brume muffose sedenti sul mare tutto grigio, a ponente, ora calare in trionfo su le onde infiammate, tra una pompa meravigliosa di nuvole accese; vedeva nell’umido cielo crepuscolare sgorgar liquida e calma la luce di Giove, avvivarsi appena la luna diafana e lieve; beveva con gli occhi la mesta dolcezza della sera imminente, e respirava, beata, sentendosi penetrare fino in fondo all’anima il fresco, la quiete, come un conforto sovrumano.

Intanto, di là, nella casa colonica, il vecchio mezzadro e la moglie riprendevano a congiurare a danno di lei, istigando il figliuolo a provvedere a’ suoi casi.

– Perché la lasci sola? – badava a dirgli il padre. – Non t’accorgi che lei, ora, dopo la malattia, t’è grata dell’affezione che le hai dimostrata? Non la lasciare un momento, cerca d’entrarle sempre piú nel cuore; e poi… e poi ottieni che la serva non si corichi piú nella stessa camera con lei. Ora lei sta bene e non ne ha piú bisogno, la notte.

Gerlando, irritato, si scrollava tutto, a questi suggerimenti.

– Ma neanche per sogno! Ma se non le passa piú neanche per il capo che io possa… Ma che! Mi tratta come un figliuolo… Bisogna sentire che discorsi mi fa! Si sente già vecchia, passata e finita per questo mondo. Che!

– Vecchia? – interloquiva la madre. – Certo, non è piú una bambina; ma vecchia neppure; e tu…

– Ti levano la terra! – incalzava il padre. – Te l’ho già detto: sei rovinato, in mezzo a una strada. Senza figli, morta la moglie, la dote torna ai parenti di lei. E tu avrai fatto questo bel guadagno; avrai perduto la scuola e tutto questo tempo, cosí, senza nessuna soddisfazione… Neanche un pugno di mosche! Pensaci, pensaci a tempo: già troppo ne hai perduto… Che speri?

– Con le buone, – riprendeva, manierosa, la madre. – Tu devi andarci con le buone, e magari dirglielo: «Vedi? che n’ho avuto io, di te? t’ho rispettato, come tu hai voluto; ma ora pensa un po’ a me, tu: come resto io? che farò, se tu mi lasci cosí?». Alla fin fine, santo Dio, non deve andare alla guerra!

– E puoi soggiungere, – tornava a incalzare il padre, – puoi soggiungere: «Vuoi far contento tuo fratello che t’ha trattata cosí? farmi cacciar via di qua come un cane, da lui?». È la santa verità, questa, bada! Come un cane sarai cacciato, a pedate, e io e tua madre, poveri vecchi, con te.

Gerlando non rispondeva nulla. Ai consigli della madre provava quasi un sollievo, ma irritante, come una vellicazione; le previsioni del padre gli movevano la bile, lo accendevano d’ira. Che fare? Vedeva la difficoltà dell’impresa e ne vedeva pure la necessità impellente. Bisognava a ogni modo tentare.

Eleonora, adesso, sedeva a tavola con lui. Una sera, a cena, vedendolo con gli occhi fissi su la tovaglia, pensieroso, gli domandò:

– Non mangi? che hai?

.

Quantunque da alcuni giorni egli s’aspettasse questa domanda provocata dal suo stesso contegno, non seppe sul punto rispondere come aveva deliberato, e fece un gesto vago con la mano.

– Che hai? – insistette Eleonora.

– Nulla, – rispose, impacciato, Gerlando. – Mio padre, al solito…

– Daccapo con la scuola? – domandò lei sorridendo, per spingerlo a parlare.

– No: peggio, – diss’egli. – Mi pone… mi pone davanti tante ombre, m’affligge col… col pensiero del mio avvenire, poiché lui è vecchio, dice, e io cosí, senza né arte né parte: finché ci sei tu, bene; ma poi… poi, niente, dice…

– Di’ a tuo padre, – rispose allora, con gravità, Eleonora, socchiudendo gli occhi, quasi per non vedere il rossore di lui, – di’ a tuo padre che non se ne dia pensiero. Ho provveduto io a tutto, digli, e che stia dunque tranquillo. Anzi, giacché siamo a questo discorso, senti: se io venissi a mancare d’un tratto – siamo della vita e della morte – nel secondo cassetto del canterano, nella mia camera, troverai in una busta gialla una carta per te.

– Una carta? – ripeté Gerlando, non sapendo che dire, confuso di vergogna.

Eleonora accennò di sí col capo, e soggiunse:

– Non te ne curare.

Sollevato e contento, Gerlando, la mattina dopo, riferí ai genitori quanto gli aveva detto Eleonora; ma quelli, specialmente il padre, non ne furono per nulla soddisfatti.

– Carta? Imbrogli!

Che poteva essere quella carta? Il testamento: la donazione cioè del podere al marito. E se non era fatta in regola e con tutte le forme? Il sospetto era facile, atteso che si trattava della scrittura privata d’una donna, senza l’assistenza d’un notajo. E poi, non si doveva aver da fare col cognato, domani, uomo di legge, imbroglione?

– Processi, figlio mio? Dio te ne scampi e liberi! La giustizia non è per i poverelli. E quello là, per la rabbia, sarà capace di farti bianco il nero e nero il bianco.

E inoltre, quella carta, c’era davvero, là, nel cassetto del canterano? O glie l’aveva detto per non esser molestata?

– Tu l’hai veduta? No. E allora? Ma, ammesso che te la faccia vedere, che ne capisci tu? che ne capiamo noi? Mentre con un figliuolo… là! Non ti lasciare infinocchiare: da’ ascolto a noi! Carne! carne! che carta!

Cosí un giorno Eleonora, mentre se ne stava sotto a quell’olivo sul ciglione, si vide all’improvviso accanto Gerlando, venuto furtivamente.

Era tutta avvolta in un ampio scialle nero. Sentiva freddo, quantunque il febbrajo fosse cosí mite, che già pareva primavera. La vasta piaggia, sotto, era tutta verde di biade; il mare, in fondo, placidissimo, riteneva insieme col cielo una tinta rosea un po’ sbiadita, ma soavissima, e le campagne in ombra parevano smaltate.

Stanca di mirare, nel silenzio, quella meravigliosa armonia di colori, Eleonora aveva appoggiato il capo al tronco dell’olivo. Dallo scialle nero tirato sul capo si scopriva soltanto il volto, che pareva anche piú pallido.

– Che fai? – le domandò Gerlando. – Mi sembri una Madonna Addolorata.

– Guardavo…  – gli rispose lei, con un sospiro, socchiudendo gli occhi.

Ma lui riprese:

– Se vedessi come… come stai bene cosí, con codesto scialle nero…

– Bene? – disse Eleonora, sorridendo mestamente. – Sento freddo!

– No, dico, bene di… di… di figura, – spiegò egli, balbettando, e sedette per terra accanto al masso.

Eleonora, col capo appoggiato al tronco, richiuse gli occhi, sorrise per non piangere, assalita dal rimpianto della sua gioventú perduta cosí miseramente. A diciott’anni, sí, era stata pur bella, tanto!

A un tratto, mentre se ne stava cosí assorta, s’intese scuotere leggermente.

– Dammi una mano, – le chiese egli da terra, guardandola con occhi lustri.

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Ella comprese; ma finse di non comprendere.

– La mano? Perché? – gli domandò. – Io non posso tirarti su: non ho piú forza, neanche per me… È già sera, andiamo.

E si alzò.

– Non dicevo per tirarmi su, – spiegò di nuovo Gerlando, da terra. – Restiamo qua, al bujo; è tanto bello…

Cosí dicendo, fu lesto ad abbracciarle i ginocchi, sorridendo nervosamente, con le labbra aride.

– No! – gridò lei. – Sei pazzo? Lasciami!

Per non cadere, s’appoggiò con le braccia a gli omeri di lui e lo respinse indietro. Ma lo scialle, a quell’atto, si svolse, e, com’ella se ne stava curva su lui sorto in ginocchio, lo avvolse, lo nascose dentro.

– No: ti voglio! ti voglio! – diss’egli, allora, com’ebbro, stringendola vieppiú con un braccio, mentre con l’altro le cercava, piú su, la vita, avvolto nell’odore del corpo di lei.

Ma ella, con uno sforzo supremo, riuscí a svincolarsi; corse fino all’orlo del ciglione; si voltò; gridò:

– Mi butto!

In quella, se lo vide addosso, violento; si piegò indietro, precipitò giú dal ciglione.

Egli si rattenne a stento, allibito, urlando, con le braccia levate. Udí un tonfo terribile, giú. Sporse il capo. Un mucchio di vesti nere, tra il verde della piaggia sottostante. E lo scialle, che s’era aperto al vento, andava a cadere mollemente, cosí aperto, piú in là.

Con le mani tra i capelli, si voltò a guardare verso la casa campestre; ma fu colpito negli occhi improvvisamente dall’ampia faccia pallida della Luna sorta appena dal folto degli olivi lassú; e rimase atterrito a mirarla, come se quella dal cielo avesse veduto e lo accusasse.

1.2 Prima notte

     quattro camíce,

     quattro lenzuola,

     quattro sottane,

quattro, insomma, di tutto. E quel corredo della figliuola, messo sú, un filo oggi, un filo domani, con la pazienza d’un ragno, non si stancava di mostrarlo alle vicine.

– Roba da poverelli, ma pulita.

Con quelle povere mani sbiancate e raspose, che sapevano ogni fatica, levava dalla vecchia cassapanca d’abete, lunga e stretta che pareva una bara, piano piano, come toccasse l’ostia consacrata, la bella biancheria, capo per capo, e le vesti e gli scialli doppii di lana: quello dello sposalizio, con le punte ricamate e la frangia di seta fino a terra; gli altri tre, pure di lana, ma piú modesti; metteva tutto in vista sul letto, ripetendo, umile e sorridente: Roba da poverelli… e la gioja le tremava nelle mani e nella voce.

– Mi sono trovata sola sola, – diceva. – Tutto con queste mani, che non me le sento piú. Io sotto l’acqua, io sotto il sole; lavare al fiume e in fontana; smallare mandorle, raccogliere ulive, di qua e di là per le campagne; far da serva e da acquajola… Non importa. Dio, che ha contato le mie lagrime e sa la vita mia, m’ha dato forza e salute. Tanto ho fatto, che l’ho spuntata; e ora posso morire. A quel sant’uomo che m’aspetta di là, se mi domanda di nostra figlia, potrò dirglielo: «Sta’ in pace, poveretto; non ci pensare: tua figlia l’ho lasciata bene; guaj non ne patirà. Ne ho patiti tanti io per lei…». Piango di gioja, non ve ne fate…

.

E s’asciugava le lagrime, Mamm’Anto’, con una cocca del fazzoletto nero che teneva in capo, annodato sotto il mento.

Quasi quasi non pareva piú lei, quel giorno, cosí tutta vestita di nuovo, e faceva una curiosa impressione a sentirla parlare come sempre.

Le vicine la lodavano, la commiseravano a gara. Ma la figlia Marastella, già parata da sposa con l’abito grigio di raso (una galanteria!) e il fazzoletto di seta celeste al collo, in un angolo della stanzuccia addobbata alla meglio per l’avvenimento della giornata, vedendo pianger la madre, scoppiò in singhiozzi anche lei.

– Maraste’, Maraste’, che fai? – Le vicine le furono tutte intorno, premurose, ciascuna a dir la sua:

– Allegra! Oh! Che fai? Oggi non si piange… Sai come si dice? Cento lire di malinconia non pagano il debito d’un soldo.

– Penso a mio padre! – disse allora Marastella, con la faccia nascosta tra le mani.

Morto di mala morte, sett’anni addietro! Doganiere del porto, andava coi luntri, di notte, in perlustrazione. Una notte di tempesta, bordeggiando presso le Due Riviere, il luntro s’era capovolto e poi era sparito, coi tre uomini che lo governavano.

Era ancora viva, in tutta la gente di mare, la memoria di questo naufragio. E ricordavano che Marastella, accorsa con la madre, tutt’e due urlanti, con le braccia levate, tra il vento e la spruzzaglia dei cavalloni, in capo alla scogliera del nuovo porto, su cui i cadaveri dei tre annegati erano stati tratti dopo due giorni di ricerche disperate, invece di buttarsi ginocchioni presso il cadavere del padre, era rimasta come impietrita davanti a un altro cadavere, mormorando, con le mani incrociate sul petto:

– Ah! Amore mio! amore mio! Ah, come ti sei ridotto…

Mamm’Anto’, i parenti del giovane annegato, la gente accorsa, erano restati, a quell’inattesa rivelazione. E la madre dell’annegato che si chiamava Tino Sparti (vero giovane d’oro, poveretto!) sentendola gridar cosí, le aveva subito buttato le braccia al collo e se l’era stretta al cuore, forte forte, in presenza di tutti, come per farla sua, sua e di lui, del figlio morto, chiamandola con alte grida:

– Figlia! Figlia!

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Per questo ora le vicine, sentendo dire a Marastella: «Penso a mio padre», si scambiarono uno sguardo d’intelligenza, commiserandola in silenzio. No, non piangeva per il padre, povera ragazza. O forse piangeva, sí, pensando che il padre, vivo, non avrebbe accettato per lei quel partito, che alla madre, nelle misere condizioni in cui era rimasta, sembrava ora una fortuna.

Quanto aveva dovuto lottare Mammm’Anto’ per vincere l’ostinazione della figlia!

– Mi vedi? sono vecchia ormai: piú della morte che della vita. Che speri? che farai sola domani, senz’ajuto, in mezzo a una strada?

Sí. La madre aveva ragione. Ma tant’altre considerazioni faceva lei, Marastella, dal suo canto. Brav’uomo, sí, quel don Lisi Chírico che le volevano dare per marito, non lo negava ma quasi vecchio, e vedovo per giunta. Si riammogliava, poveretto, piú per forza che per amore, dopo un anno appena di vedovanza, perché aveva bisogno d’una donna lassú, che badasse alla casa e gli cucinasse la sera. Ecco perché si riammogliava.

– E che te n’importa? – le aveva risposto la madre. – Questo anzi deve affidarti: pensa da uomo sennato. Vecchio? Non ha ancora quarant’anni. Non ti farà mancare mai nulla: ha uno stipendio fisso, un buon impiego. Cinque lire al giorno: una fortuna!

– Ah sí, bell’impiego! bell’impiego!

Qui era l’intoppo: Mamm’Anto’ lo aveva capito fin da principio: nella qualità dell’impiego del Chírico.

E una bella giornata di maggio aveva invitato alcune vicine? lei, poveretta!? a una scampagnata lassú, sull’altipiano sovrastante il paese.

Don Lisi Chírico, dal cancello del piccolo, bianco cimitero che sorge lassú, sopra il paese, col mare davanti e la campagna dietro, scorgendo la comitiva delle donne, le aveva invitate a entrare.

– Vedi? Che cos’è? Pare un giardino, con tanti fiori… – aveva detto Mamm’Anto’ a Marastella, dopo la visita al camposanto. – Fiori che non appassiscono mai. E qui, tutt’intorno, campagna. Se sporgi un po’ il capo dal cancello, vedi tutto il paese ai tuoi piedi; ne senti il rumore, le voci… E hai visto che bella cameretta bianca, pulita, piena d’aria? Chiudi porta e finestra, la sera; accendi il lume; e sei a casa tua: una casa come un’altra. Che vai pensando?

E le vicine, dal canto loro:

– Ma si sa! E poi, tutto è abitudine; vedrai: dopo un pajo di giorni, non ti farà piú impressione. I morti, del resto, figliuola, non fanno male; dai vivi devi guardarti. E tu che sei piú piccola di noi, ci avrai tutte qua, a una a una. Questa è la casa grande, e tu sarai la padrona e la buona guardiana.

Quella visita lassú, nella bella giornata di maggio, era rimasta nell’anima di Marastella come una visione consolatrice, durante gli undici mesi del fidanzamento: a essa s’era richiamata col pensiero nelle ore di sconforto, specialmente al sopravvenire della sera, quando l’anima le si oscurava e le tremava di paura.

S’asciugava ancora le lagrime, quando don Lisi Chírico si presentò su la soglia con due grossi cartocci su le braccia quasi irriconoscibile.

– Madonna! – gridò Mamm’Anto’. – E che avete fatto, santo cristiano?

– Io? Ah sí… La barba… – rispose don Lisi con un sorriso squallido che gli tremava smarrito sulle larghe e livide labbra nude.

Ma non s’era solamente raso, don Lisi: s’era anche tutto incicciato, tanto ispida e forte aveva radicata la barba in quelle gote cave, che or gli davano l’aspetto d’un vecchio capro scorticato.

– Io, io, gliel’ho fatta radere io, – s’affrettò a intromettersi, sopravvenendo tutta scalmanata, donna Nela, la sorella dello sposo, grassa e impetuosa.

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Recava sotto lo scialle alcune bottiglie, e parve, entrando, che ingombrasse tutta quanta la stanzuccia, con quell’abito di seta verde pisello, che frusciava come una fontana.La seguiva il marito, magro come don Lisi, taciturno e imbronciato.

– Ho fatto male? – seguitò quella, liberandosi dello scialle. – Deve dirlo la sposa. Dov’è? Guarda, Lisi: te lo dicevo io? Piange… Hai ragione, figliuola mia. Abbiamo troppo tardato. Colpa sua, di Lisi. «Me la rado? Non me la rado?» Due ore per risolversi. Di’ un po’, non ti sembra piú giovane cosí? Con quei pelacci bianchi, il giorno delle nozze…

– Me la farò ricrescere, – disse Chírico interrompendo la sorella e guardando triste la giovane sposa. – Sembro vecchio lo stesso e, per giunta, piú brutto.

– L’uomo è uomo, asinaccio, e non è né bello né brutto! – sentenziò allora la sorella stizzita. – Guarda intanto: l’abito nuovo! Lo incigni adesso, peccato!

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E cominciò a dargli manacciate su le maniche per scuoterne via la sfarinatura delle paste ch’egli reggeva ancora nei due cartocci.

Era già tardi; si doveva andar prima al Municipio, per non fare aspettar l’assessore, poi in chiesa; e il festino doveva esser finito prima di sera. Don Lisi, zelantissimo del suo ufficio, si raccomandava, tenuto su le spine specialmente dalla sorella intrigante e chiassona, massime dopo il pranzo e le abbondanti libazioni.

– Ci vogliono i suoni! S’è mai sentito uno sposalizio senza suoni? Dobbiamo ballare! Mandate per Sidoro l’orbo… Chitarre e mandolini!

Strillava tanto, che il fratello dovette chiamarsela in disparte.

– Smettila, Nela, smettila! Avresti dovuto capirlo che non voglio tanto chiasso.

La sorella gli sgranò in faccia due occhi cosí.

– Come? Anzi! Perché?

Don Lisi aggrottò le ciglia e sospirò profondamente:

– Pensa che è appena un anno che quella poveretta…

– Ci pensi ancora davvero? – lo interruppe donna Nela con una sghignazzata. – Se stai riprendendo moglie! Oh povera Nunziata!

– Riprendo moglie, – disse don Lisi socchiudendo gli occhi e impallidendo, – ma non voglio né suoni né balli. Ho tutt’altro nel cuore.

E quando parve a lui che il giorno inchinasse al tramonto, pregò la suocera di disporre tutto per la partenza.

– Lo sapete, debbo sonare l’avemaria, lassú.

Prima di lasciar la casa, Marastella, aggrappata al collo della madre, scoppiò di nuovo a piangere, a piangere, che pareva non la volesse finir piú. Non se la sentiva, non se la sentiva di andar lassú, sola con lui…

– T’accompagneremo tutti noi, non piangere, – la confortava la madre. – Non piangere, sciocchina!

Ma piangeva anche lei e piangevano anche tant’altre vicine. Partenza amara!

Solo donna Nela, la sorella del Chírico, piú rubiconda che mai, non era commossa: diceva d’aver assistito a dodici sposalizii e che le lagrime alla fine, come i confetti, non erano mancate mai.

– Piange la figlia nel lasciare la madre; piange la madre nel lasciare la figlia. Si sa! Un altro bicchierotto per sedare la commozione, e andiamo via ché Lisi ha fretta.

Si misero in via. Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi per via, sospirava: – Povera sposa!

Lassú, sul breve spiazzo innanzi al cancello, gl’invitati si trattennero un poco, prima di prender commiato, a esortare Marastella a far buon animo. Il sole tramontava, e il cielo era tutto rosso, di fiamma, e il mare, sotto, ne pareva arroventato. Dal paese sottostante saliva un vocio incessante, indistinto, come d’un tumulto lontano, e quelle onde di voci rissose vanivano contro il muro bianco, grezzo, che cingeva il cimitero perduto lassú nel silenzio.

Lo squillo aereo argentino della campanella sonata da don Lisi per annunziar l’ave, fu come il segnale della partenza per gli invitati. A tutti parve piú bianco, udendo la campanella, quel muro del camposanto. Forse perché l’aria s’era fatta piú scura. Bisognava andar via per non far tardi. E tutti presero a licenziarsi, con molti augurii alla sposa.

Restarono con Marastella, stordita e gelata, la madre e due fra le piú intime amiche. Su in alto, le nuvole, prima di fiamma, erano divenute ora fosche, come di fumo.

– Volete entrare? – disse don Lisi alle donne, dalla soglia del cancello.

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Ma subito Mamm’Anto’ con una mano gli fece segno di star zitto e d’aspettare. Marastella piangeva, scongiurandola tra le lagrime di riportarsela giú in paese con sé.

– Per carità! per carità!

Non gridava; glielo diceva cosí piano e con tanto tremore nella voce, che la povera mamma si sentiva strappare il cuore. Il tremore della figlia  lei lo capiva era perché dal cancello aveva intraveduto l’interno del camposanto, tutte quelle croci là, su cui calava l’ombra della sera.

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Don Lisi andò ad accendere il lume nella cameretta, a sinistra dell’entrata; volse intorno uno sguardo per vedere se tutto era in ordine, e rimase un po’ incerto se andare o aspettare che la sposa si lasciasse persuadere dalla madre a entrare.

Comprendeva e compativa. Aveva coscienza che la sua persona triste, invecchiata, imbruttita, non poteva ispirare alla sposa né affetto né confidenza: si sentiva anche lui il cuore pieno di lagrime.

Fino alla sera avanti s’era buttato ginocchioni a piangere come un bambino davanti a una crocetta di quel camposanto, per licenziarsi dalla sua prima moglie. Non doveva pensarci piú. Ora sarebbe stato tutto di quest’altra, padre e marito insieme; ma le nuove cure per la sposa non gli avrebbero fatto trascurare quelle che da tant’anni si prendeva amorosamente di tutti coloro,amici o ignoti, che dormivano lassú sotto la sua custodia.

Lo aveva promesso a tutte le croci in quel giro notturno, la sera avanti.

Alla fine Marastella si lasciò persuadere a entrare. La madre chiuse subito la porta quasi per isolar la figlia nell’intimità della cameretta, lasciando fuori la paura del luogo. E veramente la vista degli oggetti familiari parve confortasse alquanto Marastella.

– Su, levati lo scialle, – disse Mamm’Anto’. – Aspetta, te lo levo io. Ora sei a casa tua…

– La padrona, – aggiunse don Lisi, timidamente, con un sorriso mesto e affettuoso.

– Lo senti? – riprese Mamm’Anto’ per incitare il genero a parlare ancora.

– Padrona mia e di tutto, – continuò don Lisi. – Lei deve già saperlo. Avrà qui uno che la rispetterà e le vorrà bene come la sua stessa mamma. E non deve aver paura di niente.

– Di niente, di niente, si sa! – incalzò la madre. – Che è forse una bambina piú? Che paura! Le comincerà tanto da fare, adesso… È vero? È vero?

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Marastella chinò piú volte il capo, affermando; ma appena Mamm’Anto’ e le due vicine si mossero per andar via, ruppe di nuovo in pianto, si buttò di nuovo al collo della madre, aggrappandosi. Questa, con dolce violenza si sciolse dalle braccia della figlia, le fece le ultime raccomandazioni d’aver fiducia nello sposo e in Dio, e andò via con le vicine piangendo anche lei.

Marastella restò presso la porta, che la madre, uscendo, aveva raccostata, e con le mani sul volto si sforzava di soffocare i singhiozzi irrompenti, quando un alito d’aria schiuse un poco, silenziosamente, quella porta.

Ancora con le mani sul volto, ella non se n’accorse: le parve invece che tutt’a un tratto ? chi sa perché ? le si aprisse dentro come un vuoto delizioso, di sogno; sentí un lontano, tremulo scampanellío di grilli, una fresca inebriante fragranza di fiori. Si tolse le mani dagli occhi: intravide nel cimitero un chiarore, piú che d’alba, che pareva incantasse ogni cosa, là immobile e precisa.

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Don Lisi accorse per richiudere la porta. Ma, subito, allora, Marastella, rabbrividendo e restringendosi nell’angolo tra la porta e il muro, gli gridò:

– Per carità, non mi toccate!

Don Lisi, ferito da quel moto istintivo di ribrezzo, restò.

– Non ti toccavo, – disse. – Volevo richiudere la porta.

– No, no, – riprese subito Marastella, per tenerlo lontano. – Lasciatela pure aperta. Non ho paura!

– E allora?… – balbettò don Lisi, sentendosi cader le braccia.

Nel silenzio, attraverso la porta semichiusa, giunse il canto lontano d’un contadino che ritornava spensierato alla campagna, lassú, sotto la luna, nella frescura tutta impregnata dell’odore del fieno verde, falciato da poco.

– Se vuoi che passi, – riprese don Lisi avvilito, profondamente amareggiato, – vado a richiudere il cancello che è rimasto aperto.

Marastella non si mosse dall’angolo in cui s’era ristretta. Lisi Chírico si recò lentamente a richiudere il cancello; stava per rientrare, quando se la vide venire incontro, come impazzita tutt’a un tratto.

– Dov’è, dov’è mio padre? Ditemelo! Voglio andare da mio padre.

– Eccomi, perché no? è giusto; ti ci conduco, – le rispose egli cupamente. – Ogni sera, io faccio il giro prima d’andare a letto. Obbligo mio. Questa sera non lo facevo per te. Andiamo. Non c’è bisogno di lanternino. C’è la lanterna del cielo.

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E andarono per i vialetti inghiajati, tra le siepi di spigo fiorite.

Spiccavano bianche tutt’intorno, nel lume della luna, le tombe gentilizie e nere per terra, con la loro ombra da un lato, come a giacere, le croci di ferro dei poveri.

Piú distinto, piú chiaro, veniva dalle campagne vicine il tremulo canto dei grilli e, da lontano, il borboglío continuo del mare.

– Qua, – disse il Chírico, indicando una bassa, rustica tomba, su cui era murata una lapide che ricordava il naufragio e le tre vittime del dovere. – C’è anche lo Sparti, – aggiunse, vedendo cader Marastella in ginocchio innanzi alla tomba, singhiozzante. – Tu piangi qua… Io andrò piú là; non è lontano…

La luna guardava dal cielo il piccolo camposanto su l’altipiano. Lei sola vide quelle due ombre nere su la ghiaja gialla d’un vialetto presso due tombe, in quella dolce notte d’aprile.

Don Lisi, chino su la fossa della prima moglie, singhiozzava:

– Nunzia’, Nunzia’, mi senti?

1.3  Il fumo

I

Appena i zolfatari venivan sú dal fondo della «buca» col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde là della collina lontana, che chiudeva a ponente l’ampia vallata.

Qua, le coste aride, livide di tufi arsicci, non avevano piú da tempo un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare come da tanti enormi formicaj e bruciate tutte dal fumo.

Sul verde di quella collina, gli occhi infiammati, offesi dalla luce dopo tante ore di tenebra laggiú, si riposavano.

A chi attendeva a riempire di minerale grezzo i forni o i calcheroni, a chi vigilava alla fusione dello zolfo, o s’affaccendava sotto i forni stessi a ricevere dentro ai giornelli che servivan da forme lo zolfo bruciato che vi colava lento come una densa morchia nerastra, la vista di tutto quel verde lontano alleviava anche la pena del respiro, l’agra oppressura del fumo che s’aggrappava alla gola, fino a promuovere gli spasimi piú crudeli e le rabbie dell’asfissia.

I carusi, buttando giú il carico dalle spalle peste e scorticate, seduti su i sacchi, per rifiatare un po’ all’aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della «buca», grattandosi la testa e guardando a quella collina attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai «calcheroni» accesi o dai forni, pensavano alla vita di campagna, vita lieta per loro, senza rischi, senza gravi stenti là all’aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini.

– Beati loro!

.

Per tutti, infine, era come un paese di sogno quella collina lontana. Di là veniva l’olio alle loro lucerne che a mala pena rompevano il crudo tenebrore della zolfara; di là il pane, quel pane solido e nero che li teneva in piedi per tutta la giornata, alla fatica bestiale; di là il vino, l’unico loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare: parevano, sottoterra, tanti morti affaccendati.

I contadini della collina, all’incontro, perfino sputavano: – Puh! – guardando a quelle coste della vallata.

Era là il loro nemico: il fumo devastatore.

E quando il vento spirava di là, recando il lezzo asfissiante dello zolfo bruciato, guardavano gli alberi come a difenderli e borbottavano imprecazioni contro quei pazzi che s’ostinavano a scavar la fossa alle loro fortune e che, non contenti d’aver devastato la vallata, quasi invidiosi di quell’unico occhio di verde, avrebbero voluto invadere coi loro picconi e i loro forni anche le belle campagne.

Tutti, infatti, dicevano che anche sotto la collina ci doveva esser lo zolfo. Quelle creste in cima, di calcare siliceo e, piú giú, il briscale degli affioramenti lo davano a vedere; gl’ingegneri minerarii avevano piú volte confermato la voce.

Ma i proprietarii di quelle campagne, quantunque tentati insistentemente con ricche profferte, non solo non avevan voluto mai cedere in affitto il sottosuolo, ma neanche alla tentazione di praticar loro stessi per curiosità qualche assaggio, cosí sopra sopra.

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La campagna era lí, stesa al sole, che tutti potevano vederla: soggetta sí alle cattive annate, ma compensata poi anche dalle buone; la zolfara, all’incontro, cieca, e guaj a scivolarci dentro. Lasciare il certo per l’incerto sarebbe stata impresa da pazzi.

Queste considerazioni, che ciascuno di quei proprietarii della collina ribadiva di continuo nella mente dell’altro, volevano essere come un impegno per tutti di resistere uniti alle tentazioni, sapendo bene che se uno di loro avesse ceduto e una zolfara fosse sorta là in mezzo, tutti ne avrebbero sofferto; e allora, cominciata la distruzione, altre bocche d’inferno si sarebbero aperte e, in pochi anni, tutti gli alberi, tutte le piante sarebbero morti, attossicati dal fumo, e addio campagne!

II

Tra i piú tentati era don Mattia Scala che possedeva un poderetto con un bel giro di mandorli e d’olivi a mezza costa della collina, ove, per suo dispetto, affiorava con piú ricca promessa il minerale.

Parecchi ingegneri del R. Corpo delle Miniere eran venuti a osservare, a studiare quegli affioramenti e a far rilievi. Lo Scala li aveva accolti come un marito geloso può accogliere un medico, che gli venga in casa a visitare qualche segreto male della moglie.

Chiudere la porta in faccia a quegli ingegneri governativi che venivan per dovere d’ufficio, non poteva. Si sfogava in compenso a maltrattare quegli altri che, o per conto di qualche ricco produttore di zolfo o di qualche società mineraria, venivano a proporgli la cessione o l’affitto del sottosuolo.

– Corna, vi cedo! – gridava. – Neanche se m’offriste i tesori di Creso; neanche se mi diceste: Mattia, raspa qua con un piede, come fanno le galline; ci trovi tanto zolfo, che diventi d’un colpo piú ricco di… che dico? di re Fàllari! Non rasperei, parola d’onore.

E se, poco poco, quelli insistevano:

– Insomma, ve n’andate, o chiamo i cani?

Gli avveniva spesso di ripetere questa minaccia dei cani, perché il suo poderetto aveva il cancello su la trazzera, cioè su la via mulattiera che traversava la collina, accavalcandola, e che serviva da scorciatoja agli operai delle zolfare, ai capimastri, a gl’ingegneri direttori, che dalla prossima città si recavano alla vallata o ne tornavano. Ora, quest’ultimi segnatamente pareva avessero preso gusto a farlo stizzire; e, almeno una volta la settimana, si fermavano innanzi al cancello, vedendo don Mattia lí presso, per domandargli:

– Niente, ancora?

– Tè, Scampirro! Tè, Regina!

Don Mattia, per chiasso, chiamava davvero i cani.

Aveva avuto anche lui un tempo la mania delle zolfare, per cui s’era ridotto – eccolo là – scannato miserabile! Ora non poteva veder neanche da lontano un pezzo di zolfo che subito, con rispetto parlando, non si sentisse rompere lo stomaco.

– E che è, il diavolo? – gli domandavano.

E lui:

– Peggio! Perché vi danna l’anima, il diavolo, ma vi fa ricchi, se vuole! Mentre lo zolfo vi fa piú poveri di Santo Giobbe; e l’anima ve la danna lo stesso!

Parlando, pareva il telegrafo. (Il telegrafo s’intende come usava prima, ad asta.) Lungo lungo, allampanato, sempre col cappellaccio bianco in capo, buttato indietro, a spera; e portava agli orecchi un paio di catenaccetti d’oro, che davano a vedere quello che, del resto, egli non si curava di nascondere, come fosse cioè venuto sú da una famiglia mezzo popolana e mezzo borghese.

Nel volto raso, pallido, di quel pallore proprio dei biliosi, gli spiccavano stranamente le sopracciglia enormi, spioventi, come un gran pajo di baffi che si fosse sfogato a crescer lí, visto che giú, sul labbro, non gli era nemmen permesso di spuntare. E sotto, all’ombra di quelle sopracciglia, gli lampeggiavano gli occhi chiari, taglienti, vivi vivi, mentre le narici del gran naso aquilino, energico, gli si dilatavano di continuo e fremevano.

Tutti i possidenti della collina gli volevano bene.

Ricordavano com’egli, molto ricco un giorno, fosse venuto lí a pigliar possesso di quei pochi ettari di terra comperati dopo la rovina, col denaro ricavato dalla vendita della casa in città e di tutte le masserizie di essa e delle gioje della moglie morta di crepacuore; ricordavano come si fosse prima rintanato nelle quattro stanze della casa rustica annessa al podere, senza voler vedere nessuno, insieme con una ragazza di circa sedici anni, Jana, che tutti in principio avevano creduto sua figlia e che poi s’era saputo esser la sorella minore d’un tal Dima Chiarenza, cioè proprio di quell’infame che lo aveva tradito e rovinato.

C’era tutta una storia sotto.

Lo Scala aveva conosciuto questo Chiarenza ragazzo, e lo aveva sempre ajutato, sapendolo orfano di padre e di madre, con quella sorellina molto piú piccola di lui; se l’era anzi preso con sé per farlo lavorare; poi, avendolo sperimentato veramente esperto e amante del lavoro, aveva voluto averlo anche socio nell’affitto d’una zolfara. Tutte le spese per la lavorazione se l’era accollate lui; Dima Chiarenza doveva soltanto star lí, sul posto, vigilare all’amministrazione e ai lavori.

Intanto Jana (Januzza, come la chiamavano) gli cresceva in casa. Ma don Mattia aveva anche un figlio (unico!) quasi della stessa età, che si chiamava Neli. Si sa, presto padre e madre s’erano accorti che i due ragazzi avevano preso a volersi bene, non come fratello e sorella; e per non tener la paglia accanto al fuoco e dare tempo al tempo, avevano pensato giudiziosamente d’allontanare dalla casa Neli, che non aveva ancora diciotto anni, e lo avevano mandato alla zolfara, a tener compagnia e a prestare ajuto al Chiarenza. Fra due, tre anni, li avrebbero sposati, se tutto, come pareva, fosse andato bene.

Poteva mai sospettare don Mattia Scala che Dima Chiarenza, di cui si fidava come di se stesso, Dima Chiarenza, ch’egli aveva raccolto dalla strada, trattato come un figliuolo e messo a parte degli affari, Dima Chiarenza lo dovesse tradire, come Giuda tradí Cristo?

Proprio cosí! S’era messo d’accordo, l’infame, con l’ingegnere direttore della zolfara, d’accordo coi capimastri, coi pesatori, coi carrettieri, per rubarlo a man salva su le spese d’amministrazione, su lo zolfo estratto, finanche sul carbone che doveva servire ad alimentar le macchine per l’eduzione delle acque sotterranee. E la zolfara, una notte, gli s’era allagata, irreparabilmente, distruggendo l’impianto del piano inclinato, che allo Scala costava piú di trecento mila lire.

Neli, che in quella notte d’inferno s’era trovato sul luogo e aveva partecipato agl’inutili sforzi disperati per impedire il disastro, presentendo l’odio che il padre da quell’ora avrebbe portato al Chiarenza, e in cui forse avrebbe coinvolto Jana, la sorella innocente, la sua Jana; >>>> temendo che avrebbe chiamato anche lui, forse, responsabile della rovina per non essersi accorto o per non aver denunziato a tempo il tradimento di quel Giuda che doveva esser tra poco suo cognato; nella stessa notte, era fuggito come un pazzo, in mezzo alla tempesta; e scomparso, senza lasciar nessuna traccia di sé.

Pochi giorni dopo la madre era morta, assistita amorosamente da Jana, e lo Scala s’era trovato solo, in casa, rovinato, senza piú la moglie, senza piú il figlio, solo con quella ragazza, la quale, come impazzita dall’onta e dal cordoglio, s’era stretta a lui, non aveva voluto lasciarlo, aveva minacciato di buttarsi da una finestra s’egli la avesse respinta in casa del fratello.

Vinto da quella fermezza e reprimendo la repulsione che la sua vista ora gli destava, lo Scala aveva condisceso a condurla con sé, vestita di nero, come una figliuola due volte orfana, là, nel poderetto acquistato allora.

Uscendo a poco a poco, con l’andar del tempo, dal suo lutto, s’era messo a scambiare qualche parola coi vicini e a dar notizie di sé e della ragazza.

– Ah, non è figlia vostra?

– No. Ma come se fosse.

Si vergognava dapprima a dir chi era veramente. Del figlio, non diceva nulla. Era una spina troppo grande. E del resto, che notizie poteva darne? Non ne aveva. Se n’era tanto occupata la questura, ma senza venire a capo di nulla.

Dopo alcuni anni, però, Jana, stanca d’aspettar cosí senza speranza il ritorno del fidanzato, aveva voluto tornarsene in città, in casa del fratello, il quale, sposata una vecchia di molti denari, famigerata usuraja, s’era messo a far l’usurajo anche lui, ed era adesso tra i piú ricchi del paese.

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Cosí lo Scala era restato solo, lí, nel poderetto. Otto anni erano già trascorsi e, almeno apparentemente, aveva ripreso l’umore di prima; era divenuto amico di tutti i proprietarii della collina che, spesso, sul tramonto venivano a trovarlo dai poderi vicini.

Pareva che la campagna avesse voluto compensarlo dei danni della zolfara.

Era pure stata una fortuna l’aver potuto acquistare quei pochi ettari di terra, perché uno dei proprietarii dei sei poderi in cui era frazionata la collina, il Butera, riccone, s’era fitto in capo di diventar col tempo padrone di tutte quelle terre. Prestava denaro e andava a mano a mano allargando i confini del suo fondo. Già s’era annesso quasi metà del podere di un certo Nino Mo; e aveva ridotto un altro proprietario, il Làbiso, a vivere in un pezzettino di terra largo quanto un fazzoletto da naso, anticipandogli la dote per cinque figliuole; teneva da un pezzo gli occhi anche su le terre del Lopes; ma questi, per bizza, dovendo disfarsi dopo una serie di male annate d’una parte della sua tenuta, s’era contentato di venderla, anche a minor prezzo, a un estraneo: allo Scala.

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In pochi anni, buttatosi tutto al lavoro, per distrarsi dalle sue sciagure, don Mattia aveva talmente beneficato quei pochi ettari di terra, che ora gli amici, il Lopes stesso, quasi stentavano a riconoscerli; e ne facevano le meraviglie.

Il Lopes, veramente, si rodeva dentro dalla gelosia. Rosso di pelo, dal viso lentigginoso, e tutto sciamannato, teneva di solito il cappello buttato sul naso, come per non veder piú niente, né nessuno; ma sotto la falda di quel cappello qualche occhiata obliqua gli sguisciava di tanto in tanto, come nessuno s’aspettava da quei grossi occhi verdastri che pareva covassero il sonno.

Girato il podere, gli amici si riducevano su lo spiazzetto innanzi alla cascina.

Là, lo Scala li invitava a sedere sul murello che limitava giro giro, sul davanti, la scarpata su cui la cascina era edificata. Ai piedi di quella scarpata, dalla parte di dietro, sorgevano, come a proteggere la cascina, certe pioppe nere, alte alte, di cui don Mattia non si sapeva dar pace, perché il Lopes ce l’avesse piantate.

– Che stanno a farci? Me lo dite? Non danno frutto e ingombrano.

– E voi buttatele a terra e fatene carbone, – gli rispondeva, indolente, il Lopes.

Ma il Butera consigliava:

– Vedete un po’, prima di buttarle giú, se qualcuno ve le prende.

– E chi volete che le prenda?

– Mah! Quelli che fanno i Santi di legno.

– Ah! I Santi! Guarda, guarda! Ora capisco, – concludeva don Mattia – se li fanno di questo legno, perché non fanno piú miracoli i Santi!

Su quelle pioppe, al vespro, si davano convegno tutti i passeri della collina, e col loro fitto, assordante cinguettío disturbavano gli amici che si trattenevano lí a parlare, al solito, delle zolfare e dei danni delle imprese minerarie.

Moveva quasi sempre il discorso Nocio Butera, il quale, com’era il possidente piú ricco, cosí era anche la piú grossa pancia di tutte quelle contrade. Era avvocato, ma una volta sola in vita sua, poco dopo ottenuta la laurea, s’era provato a esercitar la professione: s’era impappinato nel bel meglio della sua prima arringa; smarrito; con le lagrime in pelle, come un bambino, lí, davanti ai giurati e alla Corte aveva levato le braccia, a pugni chiusi, contro la Giustizia raffigurata nella volta con tanto di bilancia in mano, gemendo, esasperato: – «Eh che! Santo Dio!» – perché, povero giovine, aveva sudato una camicia a cacciarsi l’arringa a memoria e credeva di poterla recitare proprio bene, tutta filata, senza impuntature.

Ogni tanto, ancora, qualcuno gli ricordava quel fiasco famoso:

– Eh che, don No’, santo Dio!

E Nocio Butera figurava di sorriderne anche lui, ora, masticando: – Già… già… – mentre si grattava con le mani paffute le fedine nere su le guance rubiconde o s’aggiustava sul naso a gnocco o su gli orecchi il sellino o le staffe degli occhiali d’oro. Veramente avrebbe potuto riderne di cuore, perché, se come avvocato aveva fatto quella pessima prova, come coltivatore di campi e amministratore di beni, via, portava bandiera. Ma l’uomo, si sa, l’uomo non si vuol mai contentare, e Nocio Butera pareva godesse soltanto nel sapere che altri, come lui, aveva fatto cilecca in qualche impresa. Veniva nel fondo dello Scala unicamente per annunziar la rovina prossima o già accaduta di questo o di quello, e per spiegarne le ragioni e dimostrare cosí, che a lui non sarebbe certo accaduta.

Tino Làbiso, lungo lungo, rinfichito, tirava dalla tasca dei calzoni un pezzolone a dadi rossi e neri, vi strombettava dentro col naso che pareva una buccina marina; poi ripiegava diligentemente il pezzolone, se lo ripassava, cosí ripiegato, parecchie volte sotto il naso, e se lo rimetteva in tasca; infine, da uomo prudente, che non si lascia mai scappar giudizii avventati, diceva:

– Può essere.

– Può essere? È è è! – scattava Nino Mo, che non poteva soffrire quell’aria flemmatica del Làbiso.

Il Lopes accennava di scuotersi dalla cupa noja e, sotto al cappellaccio buttato sul naso, consigliava con voce sonnolenta:

– Lasciate parlare don Mattia che se n’intende piú di voi.

Ma don Mattia, ogni volta, prima di mettersi a parlare, si recava in cantina per offrire agli amici un buon boccale di vino.

– Aceto, avvelenatevi!

Beveva anche lui, sedeva, s’attortigliava le gambe e domandava:

– Di che si tratta?

– Si tratta, – prorompeva al solito Nino Mo, – che sono tante bestie, tutti, a uno a uno!

– Chi?

– Ma quei figli di cane! I zolfatari. Scavano, scavano, e il prezzo dello zolfo giú, giú, giú! Senza capire che fanno la loro e la nostra rovina; perché tutti i danari vanno a finir là, in quelle buche, in quelle bocche d’inferno sempre affamate, bocche che ci mangiano vivi!

– E il rimedio, scusate? – tornava a domandare lo Scala.

– Limitare, – rispondeva allora placidamente Nocio Butera – limitare la produzione dello zolfo. L’unica, per me, sarebbe questa.

– Madonna, che locco! – esclamava subito don Mattia Scala sorgendo in piedi per gestire piú liberamente: – Scusate, don Nocio mio, locco, sí, locco e ve lo provo! Dite un po’: quante, tra mille zolfare, credete che siano coltivate direttamente, in economia, dai proprietarii? Duecento appena! Tutte le altre sono date in affitto. Tu, Tino Làbiso, ne convieni?

– Può essere, – ripeteva Tino Làbiso, intento e grave.

E Nino Mo:

– Può essere? È è è!

Don Mattia protendeva le mani per farlo tacere.

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– Ora, don Nocio mio, quanto vi pare che duri, per l’ingordigia e la prepotenza dei proprietarii panciuti come voi, l’affitto d’una zolfara? Dite su! dite su!

– Dieci anni? – arrischiava, incerto, il Butera, sorridendo con aria di condiscendente superiorità.

– Dodici, – concedeva lo Scala – venti, anzi, qualche volta. Bene, e che ve ne fate? che frutto potete cavarne in cosí poco tempo? Per quanto lesti e fortunati si sia, in venti anni non c’è modo neanche di rifarsi delle spese che ci vogliono per coltivare come Dio comanda una zolfara. Questo, per dirvi che, data in commercio una minore domanda, se è possibile che il proprietario coltivatore rallenti la produzione per non rinvilire la merce, non sarà mai possibile per l’affittuario a breve scadenza, il quale, facendolo, sacrificherebbe i proprii interessi a beneficio del successore. Dunque l’impegno, l’accanimento dell’affittuario nel produrre quanto piú gli sia possibile, mi spiego? Poi, sprovvisto com’è quasi sempre di mezzi, deve per forza smerciar subito il suo prodotto, a qualunque prezzo, per seguitare il lavoro; perché, se non lavora – voi lo sapete – il proprietario gli toglie la zolfara. E, per conseguenza, come dice Nino Mo: lo zolfo giú, giú, giú, come se fosse pietraccia vile. Ma, del resto, voi don Nocio che avete studiato, e tu Tino Làbiso: sapreste dirmi che diavolo sia lo zolfo e a che cosa serva?

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Finanche il Lopes, a questa domanda speciosa, si voltava a guardare con gli occhi sbarrati. Nino Mo si cacciava in tasca le mani irrequiete, come se volesse cercarvi rabbiosamente la risposta; mentre Tino Làbiso tirava al solito daccapo il pezzolone per soffiarsi il naso e prender tempo, da uomo prudente.

– Oh bella! – esclamava intanto Nocio Butera, imbarazzato anche lui. – Serve… serve per… per inzolfare le viti, serve.

– E… e anche per… già, per i fiammiferi di legno, mi pare, – aggiungeva Tino Làbiso ripiegando con somma diligenza il fazzoletto.

– Mi pare… mi pare… – si metteva a sghignazzare don Mattia Scala. – Che vi pare? È proprio cosí! Questi due soli usi ne conosciamo noi. Domandatene a chi volete: nessuno vi saprà dire per che altro serva lo zolfo. E intanto lavoriamo, ci ammazziamo a scavarlo, poi lo trasportiamo giú alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingojarselo; ci tirano una bella fischiata, e addio! Che ne faranno, di là, nei loro paesi? Nessuno lo sa; nessuno si cura di saperlo! E la ricchezza nostra, intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via cosí dalle vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qua, come tanti ciechi, come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico guadagno: le nostre campagne bruciate dal fumo.

I quattro amici, a questa vivace, lampantissima dimostrazione della cecità con cui si esercitava l’industria e il commercio di quel tesoro concesso dalla natura alle loro contrade e intorno a cui pur ferveva tanta briga, tanta guerra di lucro, insidiosa e spietata, restavano muti, come oppressi da una condanna di perpetua miseria.

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Allora lo Scala, riprendendo il primo discorso, si metteva a rappresentar loro tutti gli altri pesi, a cui doveva sottostare un povero affittuario di zolfare. Li sapeva tutti, lui, per averli purtroppo sperimentati. Ed ecco, oltre l’affitto breve, l’estaglio, cioè la quota d’affitto che doveva esser pagata in natura, sul prodotto lordo, al proprietario del suolo, il quale non voleva affatto sapere se il giacimento fosse ricco o povero, se le zone sterili fossero rare o frequenti, se il sotterraneo fosse asciutto o invaso dalle acque, se il prezzo fosse alto o basso, se insomma l’industria fosse o no remunerativa. E, oltre l’estaglio, le tasse governative d’ogni sorta; e poi l’obbligo di costruire, non solo le gallerie inclinate per l’accesso alla zolfara e quella per la ventilazione e i pozzi per l’estrazione e l’eduzione delle acque; ma anche i calcheroni, i forni, le strade, i caseggiati e quanto mai potesse occorrere alla superficie per l’esercizio della zolfara. E tutte queste costruzioni, alla fine del contratto, dovevano rimanere al proprietario del suolo, il quale, per giunta, esigeva che tutto gli fosse consegnato in buon ordine e in buono stato. Come se le spese fossero state a suo carico. Né bastava! Neppur dentro le gallerie sotterranee l’affittuario era padrone di lavorare a suo modo, ma ad archi, o a colonne, o a pasture, come il proprietario imponeva, talvolta anche contro le esigenze stesse del terreno.

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Si doveva esser pazzi o disperati, no?, per accettar siffatte condizioni, per farsi mettere cosí i piedi sul collo. Chi erano, infatti, per la maggior parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d’un quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivar la zolfara presa in affitto, dai mercanti di zolfo delle marine, che li assoggettavano ad altre usure, ad altre soperchierie.

Tirati i conti, che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiú, esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti; per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore alle loro forze, su e giú per le gallerie e le scale della buca.

Quando lo Scala terminava di parlare e i vicini si alzavano per tornarsene alle loro abitazioni rurali, la luna, alta e come smarrita nel cielo, quasi non fosse di quella notte, ma la luna d’un tempo lontano lontano, dopo il racconto di tante miserie, illuminando le due coste della vallata ne faceva apparir piú squallida e piú lugubre la desolazione.

E ciascuno, avviandosi, pensava che là, sotto quelle coste cosí squallidamente rischiarate, cento, duecento metri sottoterra, c’era gente che s’affannava ancora a scavare, a scavare, poveri picconieri sepolti laggiú, a cui non importava se sú fosse giorno o notte, poiché notte era sempre per loro.

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III

Tutti, a sentirlo parlare, credevano che lo Scala avesse già dimenticato i dolori passati e non si curasse piú di nulla ormai, tranne di quel suo pezzetto di terra, da cui non si staccava piú da anni, nemmeno per un giorno.

Del figliuolo scomparso, sperduto per il mondo – se qualche volta ne parlava, perché qualcuno gliene moveva il discorso – si sfogava a dir male, per l’ingratitudine che gli aveva dimostrata, per il cuor duro di cui aveva dato prova.

– Se è vivo, – concludeva – è vivo per sé; per me, è morto, e non ci penso piú.

Diceva cosí, ma, intanto, non partiva per l’America da tutti quei dintorni un contadino, dal quale non si recasse di nascosto, alla vigilia della partenza, per consegnargli segretamente una lettera indirizzata a quel suo figliuolo.

– Non per qualche cosa, oh! Se niente niente t’avvenisse di vederlo o d’averne notizia, laggiú.

Molte di quelle lettere gli eran tornate indietro, con gli emigranti rimpatriati dopo quattro o cinque anni, gualcite, ingiallite, quasi illeggibili ormai. Nessuno aveva visto Neli, né era riuscito ad averne notizia, né all’Argentina, né al Brasile, né agli Stati Uniti.

Egli ascoltava, poi scrollava le spalle:

– E che me n’importa? Da’ qua, da’ qua. Non mi ricordavo piú neanche d’averti dato questa lettera per lui.

Non voleva mostrare agli estranei la miseria del suo cuore, l’inganno in cui sentiva il bisogno di persistere ancora: che il figlio, cioè, fosse là, in America, in qualche luogo remoto, e che dovesse un giorno o l’altro ritornare, venendo a sapere ch’egli s’era adattato alla nuova condizione e possedeva una campagna, dove viveva tranquillo, aspettandolo.

Era poca, veramente, quella terra; ma da parecchi anni don Mattia covava, di nascosto al Butera, il disegno d’ingrandirla, acquistando la terra d’un suo vicino, col quale già s’era messo a prezzo e accordato. Quante privazioni, quanti sacrifizii non s’era imposti, per metter da parte quanto gli bisognava per attuare quel suo disegno! Era poca, sí, la sua terra; ma da un pezzo egli, affacciandosi al balcone della cascina, s’era abituato a saltar con gli occhi il muro di cinta tra il suo podere e quello del vicino e a considerar come sua tutta quanta quella terra. Raccolta la somma convenuta, aspettava solamente che il vicino si risolvesse a firmare il contratto e a sloggiare di là.

Gli sapeva mill’anni, allo Scala; ma, per disgrazia, gli era toccato ad aver da fare con un benedett’uomo! Buono, badiamo, quieto, garbato, remissivo, don Filippino Lo Cícero, ma senza dubbio un po’ svanito di cervello. Leggeva dalla mattina alla sera certi libracci latini, e viveva solo in campagna con una scimmia che gli avevano regalata.

La scimmia si chiamava Tita; era vecchia e tisica per giunta. Don Filippino la curava come una figliuola, la carezzava, s’assoggettava senza mai ribellarsi a tutti i capricci di lei; con lei parlava tutto il giorno, certissimo d’esser compreso. E quando essa, triste per la malattia, se ne stava arrampicata su la trabacca del letto, ch’era il suo posto preferito, egli, seduto su la poltrona, si metteva a leggerle qualche squarcio delle Georgiche o delle Bucoliche:

Tityre, tu patulae...

Ma quella lettura era di tratto in tratto interrotta da certi soprassalti d’ammirazione curiosissimi: a qualche frase, a qualche espressione, talvolta anche per una semplice parola, di cui don Filippino comprendeva la squisita proprietà o gustava la dolcezza, posava il libro su le ginocchia, socchiudeva gli occhi e si metteva a dire celerissimamente:- Bello! bello! bello! bello! bello! – abbandonandosi man mano su la spalliera, come se svenisse dal piacere. Tita allora scendeva dalla trabacca e gli montava sul petto, angustiata, costernata; don Filippino la abbracciava e le diceva, al colmo della gioja:

– Senti, Tita, senti… Bello! bello! bello! bello! bello…

Ora don Mattia Scala voleva la campagna: aveva fretta, cominciava a essere stufo, e aveva ragione: la somma convenuta era pronta – e notare che quel denaro a don Filippino avrebbe fatto tanto comodo; ma, Dio benedetto, come avrebbe poi potuto in città gustar la poesia pastorale e campestre del suo divino Virgilio?

– Abbi pazienza, caro Mattia!

La prima volta che lo Scala s’era sentito rispondere cosí, aveva sbarrato tanto d’occhi:

– Mi burlate, o dite sul serio?

Burlare? Ma neanche per sogno! Diceva proprio sul serio, don Filippino.

Certe cose lo Scala, ecco, non le poteva capire. E poi c’era Tita, Tita ch’era abituata a vivere in campagna, e che forse non avrebbe piú saputo farne a meno, poverina.

Nei giorni belli don Filippino la conduceva a passeggio, un po’ facendola camminare pian pianino coi suoi piedi, un po’ reggendola in braccio, come fosse una bambina; poi sedeva su qualche masso a piè d’un albero; Tita allora s’arrampicava sui rami e, spenzolandosi, afferrata per la coda, tentava di ghermirgli la papalina per il fiocco o di acciuffargli la parrucca o di strappargli il Virgilio dalle mani.

– Bonina, Tita, bonina! Fammi questo piacere, povera Tita!

Povera, povera, sí, perché era condannata, quella cara bestiola. E Mattia Scala, dunque, doveva avere ancora un po’ di pazienza.

– Aspetta almeno, – gli diceva don Filippino – che questa povera bestiola se ne vada. Poi la campagna sarà tua. Va bene?

Ma era già passato piú d’un anno di comporto, e quella brutta bestiaccia non si risolveva a crepare.

– Vogliamo farla invece guarire? – gli disse un giorno lo Scala. – Ho una ricetta coi fiocchi!

Don Filippino lo guardò sorridente, ma pure con una cert’ansia, e domandò:

– Mi burli?

– No. Sul serio. Me l’ha data un veterinario che ha studiato a Napoli: bravissimo.

– Magari, caro Mattia!

– Dunque fate cosí. Prendete quanto un litro d’olio fino. Ne avete, olio fino? ma fino, proprio fino?

– Lo compro, anche se dovessi pagarlo sangue di papa.

– Bene. Quanto un litro. Mettetelo a bollire, con tre spicchi d’aglio, dentro.

– Aglio?

– Tre spicchi. Date ascolto a me. Quando l’olio comincerà a muoversi, prima che alzi il bollo, toglietelo dal fuoco. Prendete allora una buona manata di farina di Majorca e buttatecela dentro.

– Farina di Majorca?

– Di Majorca, gnorsí. Mestate; poi, quando si sarà ridotta come una pasta molle, oleosa, applicatela, ancora calda, sul petto e su le spalle di quella brutta bestia; ricopritela ben bene di bambagia, di molta bambagia, capite?

– Benissimo: di bambagia; e poi?

– Poi aprite una finestra e buttatela giú.

– Ohooo! – miaolò don Filippino. – Povera Tita!

– Povera campagna, dico io! Voi non ci badate; io debbo guardarla da lontano, e intanto, pensate: non c’è piú vigna; gli alberi aspettano da una diecina d’anni almeno, la rimonda; i frútici crescono senza innesti, coi polloni sparpagliati, che si succhian la vita l’un l’altro e par che chiedano ajuto da tutte le parti; di molti olivi non resta che da far legna. Che debbo comperarmi, alla fine? Possibile seguitare cosí?

Don Filippino, a queste rimostranze, faceva una faccia talmente afflitta, che don Mattia non si sentiva piú l’animo d’aggiunger altro.

Con chi parlava, del resto? Quel pover’uomo non era di questo mondo. Il sole, il sole vero, il sole della giornata non era forse mai sorto per lui: per lui sorgevano ancora i soli del tempo di Virgilio.

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Aveva vissuto sempre là, in quella campagna, prima insieme con lo zio prete, che, morendo, gliel’aveva lasciata in eredità, poi sempre solo. Orfano a tre anni, era stato accolto e cresciuto da quello zio, appassionato latinista e cacciatore per la vita. Ma di caccia don Filippino non s’era mai dilettato, forse per l’esperienza fatta su lo zio, il quale – quantunque prete – era terribilmente focoso: l’esperienza cioè, di due dita saltate a quella buon’anima, dalla mano sinistra, nel caricare il fucile. Si era dato tutto al latino, lui, invece, con passione quieta, contentandosi di svenire dal piacere, parecchie volte, durante la lettura;  mentre l’altro, lo zio prete, si levava in piedi, nei suoi soprassalti d’ammirazione, infocato in volto, con le vene della fronte cosí gonfie che pareva gli volessero scoppiare, e leggeva ad altissima voce e in fine prorompeva, scaraventando il libro per terra o su la faccia rimminchionita di don Filippino:

– Sublime, santo diavolo!

Morto di colpo questo zio, don Filippino era rimasto padrone della campagna; ma padrone per modo di dire.

In vita, lo zio prete aveva anche posseduto una casa nella vicina città, e questa casa aveva lasciato nel testamento al figliuolo di un’altra sua sorella, il quale si chiamava Saro Trigona. Ora forse, costui, considerando la propria condizione di sfortunato sensale di zolfo, di sfortunatissimo padre di famiglia con una caterva di figliuoli, s’aspettava che lo zio prete lasciasse tutto a lui, la casa e la campagna, con l’obbligo, si capisce, di prendere con sé e di mantenere, vita natural durante, il cugino Lo Cícero, il quale, cresciuto sempre come un figlio di famiglia, sarebbe stato inetto, per altro, ad amministrar da sé quella campagna. Ma, poiché lo zio non aveva avuto per lui questa considerazione, Saro Trigona, non potendo per diritto, cercava di trar profitto in tutte le maniere anche dell’eredità del cugino, e mungeva spietatamente il povero don Filippino. Quasi tutti i prodotti della campagna andavano a lui: frumento, fave, frutta, vino, ortaggi; e, se don Filippino ne vendeva qualche parte di nascosto, come se non fosse roba sua, il cugino Saro, scoprendo la vendita, gli piombava in campagna su le furie, quasi avesse scoperto una frode a suo danno, e invano don Filippino gli dimostrava umilmente che quel denaro gli serviva per i molti lavori di cui la campagna aveva bisogno. Voleva il denaro:

– O mi uccido! – gli diceva, accennando di cavar la rivoltella dal fodero sotto la giacca. – Mi uccido qua, davanti a te Filippino, ora stesso! Perché non ne posso piú, credimi! Nove figliuoli, Cristo sacrato, nove figliuoli che mi piangono per il pane!

E meno male quando veniva solo, in campagna, a far quelle scenate! Certe volte conduceva con sé la moglie e la caterva dei figliuoli. A don Filippino, abituato a vivere sempre solo, gli pareva d’andar via col cervello. Quei nove nipoti, tutti maschi, il maggiore dei quali non aveva ancora quattordici anni, quantunque «piangenti per il pane» prendevano d’assalto, come nove demonii scatenati, la tranquilla casa campestre dello zio; gli mettevano tutto sossopra: ballavano, ballavano proprio quelle stanze, dagli urli, dalle risa, dai pianti, dalle corse sfrenate; poi s’udiva, immancabilmente, il fracasso, il rovinío di qualche grossa rottura, almeno almeno di qualche specchio d’armadio andato in briciole; allora Saro Trigona balzava in piedi, gridando:

– Faccio l’organo! faccio l’organo!

Rincorreva, acciuffava quelle birbe; distribuiva calci, schiaffi, pugni, sculacciate; poi, com’essi si mettevano a strillare in tutti i toni, li disponeva in fila, per ordine d’altezza, e cosí facevano l’organo.

– Fermi là! Belli… belli davvero, guarda, Filippino! Non sono da dipingere? Che sinfonia!

Don Filippino si turava gli orecchi, chiudeva gli occhi e si metteva a pestare i piedi dalla disperazione.

– Mandali via! Rompano ogni cosa; si portino via casa, alberi, tutto; ma lasciatemi in pace per carità!

Aveva torto, però, don Filippino. Perché la cugina, per esempio, non veniva mai con le mani vuote a trovarlo in campagna: gli portava qualche papalina ricamata, con un bel fiocco di seta: come no? quella che teneva in capo; o un pajo di pantofole gli portava, pur ricamate da lei: quelle che teneva ai piedi. E la parrucca? Dono e attenzione del cugino, per guardarlo dai raffreddori frequenti, a cui andava soggetto, per la calvizie precoce. Parrucca di Francia! Gli era costata un occhio, a Saro Trigona. E la scimmia, Tita? Anch’essa, regalo della cugina: regalo di sorpresa, per rallegrare gli ozii e la solitudine del buon cugino esiliato in campagna. Come no?

– Somarone, scusate, somarone! – gli gridava don Mattia Scala. – O perché mi fate ancora aspettare a pigliar possesso? Firmate il contratto, levatevi da questa schiavitú! Col denaro che vi do io, voi senza vizii, voi con cosí pochi bisogni, potreste viver tranquillo, in città, gli anni che vi restano. Siete pazzo? Se perdete ancora altro tempo per amore di Tita e di Virgilio, vi ridurrete all’elemosina, vi ridurrete!

Perché don Mattia Scala, non volendo che andasse in malora il podere ch’egli considerava già come suo, s’era messo ad anticipare al Lo Cícero parte della somma convenuta.

– Tanto, per la potatura; tanto per gl’innesti; tanto per la concimazione… Don Filippino, diffalchiamo! –

Diffalchiamo! – sospirava don Filippino. – Ma lasciami stare qui. In città, vicino a quei demonii, morirei dopo due giorni. Tanto a te non do ombra. Non sei tu qua il padrone, caro Mattia? Puoi far quello che ti pare e piace. Io non ti dico niente. Basta che tu mi lasci star tranquillo…

– Sí. Ma intanto, – gli rispondeva lo Scala – i beneficii se li gode vostro cugino!

– Che te ne importa? – gli faceva osservare il Lo Cícero. – Questo denaro tu dovresti darmelo tutto in una volta, è vero? Me lo dai invece cosí, a spizzico; e ci perdo io, in fondo, perché, diffalcando oggi, diffalcando domani, mi verrà un giorno a mancare, mentre tu lo avrai speso qua, a beneficar la terra che allora sarà tua.

IV

Il ragionamento di don Filippino era senza dubbio convincente; ma che sicuro aveva intanto lo Scala di quei denari spesi nel fondo di lui? E se don Filippino fosse venuto a mancare d’un colpo, Dio liberi! senza aver tempo e modo di firmar l’atto di vendita, per quel tanto che oramai gli toccava, Saro Trigona, suo unico erede, avrebbe poi riconosciuto quelle spese e il precedente accordo col cugino?

Questo dubbio sorgeva di tanto in tanto nell’animo di don Mattia; ma poi pensava che, a voler forzare don Filippino a cedergli il possesso del fondo, a volerlo mettere alle strette per quei denari anticipati, poteva correre il rischio di sentirsi rispondere: «O infine, chi t’ha costretto ad anticiparmeli? Per me, il fondo poteva restar bene com’era e andar anche in malora: non me ne sono mai curato. Non puoi mica, ora, cacciarmi di casa mia, se io non voglio». – Pensava inoltre lo Scala che aveva da fare con un vero galantuomo, incapace di far male, neanche a una mosca. Quanto al pericolo che morisse d’un colpo, questo pericolo non c’era: senza vizii, e viveva cosí morigeratamente, sempre sano e vegeto, che prometteva anzi di campar cent’anni. Del resto, il termine del comporto era già fissato: alla morte della scimmia, che poco piú ormai si sarebbe fatta aspettare.

Era tal fortuna, infine, per lui, il potere acquistar quella terra a cosí modico prezzo, che gli conveniva star zitto e fidare; gli conveniva tenervi cosí, anzi, la mano sopra, con quei denari che ci veniva spendendo a mano a mano, quietamente, e come gli pareva e piaceva. Il vero padrone, lí, era lui; stava piú lí, si può dire, che nel suo podere.

– Fate questo; fate quest’altro.

Comandava; s’abbelliva la campagna, e non pagava tasse. Che voleva di piú?

Tutto poteva aspettarsi il povero don Mattia, tranne che quella scimmia maledetta, che tanto lo aveva fatto penare, gli dovesse far l’ultima!

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Era solito lo Scala di levarsi prima dell’alba, per vigilare ai preparativi del lavoro prestabilito la sera avanti col garzone; non voleva che questi, dovendo, per esempio, attendere alla rimonda, tornasse due o tre volte dalla costa alla cascina o per la scala, o per la pietra d’affilare, la ronca o l’accetta, o per l’acqua o per la colazione: doveva andarsene munito e provvisto di tutto punto, per non perder tempo inutilmente.

– Lo ziro, ce l’hai? Il companatico? Tieni, ti do una cipolla. E svelto, mi raccomando.

Passava quindi, prima che il sole spuntasse, nel podere del Lo Cícero.

Quel giorno, a causa d’una carbonaja a cui si doveva dar fuoco, lo Scala fece tardi. Erano già passate le dieci. Intanto, la porta della cascina di don Filippino era ancora chiusa, insolitamente. Don Mattia picchiò: nessuno gli rispose: picchiò di nuovo, invano; guardò sú ai balconi e alle finestre: chiusi per notte, ancora.

«Che novità?» pensò, avviandosi alla casa colonica lí vicino, per aver notizie dalla moglie del garzone.

Ma anche lí trovò chiuso. Il podere pareva abbandonato.

Lo Scala allora si portò le mani alla bocca per farsene portavoce e, rivolto verso la campagna, chiamò forte il garzone. Come questi, poco dopo, dal fondo della piaggia, gli diede la voce, don Mattia gli domandò se don Filippino fosse là con lui. Il garzone gli rispose che non s’era visto. Allora, già con un po’ d’apprensione, lo Scala tornò a picchiare alla cascina; chiamò piú volte: – Don Filippino! Don Filippino! – e, non avendo risposta, né sapendo che pensarne, si mise a stirarsi con una mano quel suo nasone palpitante.

La sera avanti egli aveva lasciato l’amico in buona salute. Malato, dunque, non poteva essere, almeno fino al punto di non poter lasciare il letto per un minuto. Ma forse, ecco, s’era dimenticato di aprir le finestre delle camere poste sul davanti, ed era uscito per la campagna con la scimmia: il portone forse lo aveva chiuso, vedendo che nella casa colonica non c’era alcuno di guardia.

Tranquillatosi con questa riflessione, si mise a cercarlo per la campagna, ma fermandosi di tratto in tratto qua e là, dove con l’occhio esperto e previdente dell’agricoltore scorgeva a volo il bisogno di qualche riparo; di tratto in tratto chiamando:

– Don Filippino, oh don Filippííí…

Si ridusse cosí in fondo alla piaggia, dove il garzone attendeva con tre giornanti a zappare la vigna.

– E don Filippino? Che se n’è fatto? Io non lo trovo.

Ripreso dalla costernazione, di fronte all’incertezza di quegli uomini, a cui pareva strano ch’egli avesse trovata chiusa la villa com’essi la avevano lasciata nell’avviarsi al lavoro, lo Scala propose di ritornar sú tutti insieme a vedere che fosse accaduto.

– Ho bell’e capito! Questa mattina è infilata male!

– Quando mai, lui! – badava a dire il garzone. – Di solito cosí mattiniero…

– Ma gli starà male la scimmia, vedrete! – disse uno dei giornanti. – La terrà in braccio, e non vorrà muoversi per non disturbarla.

– Neanche a sentirsi chiamato, come l’ho chiamato io, non so piú quante volte? – osservò don Mattia. – Va’ là! Qualcosa dev’essergli accaduto! 

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Pervenuti su lo spiazzo innanzi alla cascina, tutti e cinque, ora l’uno ora l’altro, si provarono a chiamarlo, inutilmente; fecero il giro della cascina; dal lato di tramontana, trovarono una finestra con gli scuri aperti; si rincorarono:

– Ah! esclamò il garzone. – Ha aperto, finalmente! È la finestra della cucina.

– Don Filippino! – gridò lo Scala. – Mannaggia a voi! Non ci fate disperare!

Attesero un pezzo coi nasi per aria; tornarono a chiamarlo in tutti i modi; alla fine, don Mattia, ormai costernatissimo e infuriato, prese una risoluzione.

– Una scala!

Il garzone corse alla casa colonica e ritornò poco dopo con la scala.

– Monto io! – disse don Mattia, pallido e fremente al solito, scostando tutti.

Pervenuto all’altezza della finestra, si tolse il cappellaccio bianco, vi cacciò il pugno e infranse il vetro, poi aprí la finestra e saltò dentro.

Il focolare, lí, in cucina, era spento. Non s’udiva nella casa alcun rumore. Tutto, là dentro, era ancora come se fosse notte: soltanto dalle fessure delle imposte traspariva il giorno.

– Don Filippino! – chiamò ancora una volta lo Scala: ma il suono della sua stessa voce, in quel silenzio strano, gli suscitò un brivido, dai capelli alla schiena.

Attraversò, a tentoni, alcune stanze; giunse alla camera da letto, anch’essa al bujo. Appena entrato, s’arrestò di botto. Al tenue barlume che filtrava dalle imposte, gli parve di scernere qualcosa, come un’ombra, che si moveva sul letto, strisciando, e dileguava. I capelli gli si drizzarono su la fronte; gli mancò la voce per gridare. Con un salto fu al balcone, lo aprí, si voltò e spalancò gli occhi e la bocca, dal raccapriccio, scotendo le mani per aria. Senza fiato, senza voce, tutto tremante e ristretto in sé dal terrore, corse alla finestra della cucina.

– Sú… sú, salite! Ammazzato! Assassinato!

– Assassinato? Come! Che dice? – esclamarono quelli che attendevano ansiosamente, slanciandosi tutti e quattro insieme per montare. Il garzone volle andare innanzi agli altri, gridando:

– Piano per la scala! A uno a uno!

Sbalordito, allibito, don Mattia si teneva con tutt’e due le mani la testa, ancora con la bocca aperta e gli occhi pieni di quell’orrenda vista.

Don Filippino giaceva sul letto col capo rovesciato indietro, affondato nel guanciale, come per uno stiramento spasmodico, e mostrava la gola squarciata e sanguinante: teneva ancora alzate le mani, quelle manine che non gli parevano nemmeno, orrende ora a vederle, cosí scompostamente irrigidite e livide.

Don Mattia e i quattro contadini lo mirarono un pezzo, atterriti; a un tratto, trabalzarono tutt’e cinque, a un rumore che venne di sotto al letto: si guardarono negli occhi; poi, uno di loro si chinò a guardare.

– La scimmia! – disse con un sospiro di sollievo, e quasi gli venne di ridere.

Gli altri quattro, allora, si chinarono anch’essi a guardare.

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Tita, accoccolata sotto il letto, con la testa bassa e le braccia incrociate sul petto, vedendo quei cinque che la esaminavano, giro giro, cosí chinati e stravolti, tese le mani alle tavole del letto e saltò piú volte a balziculi, poi accomodò la bocca ad o, ed emise un suono minaccioso:

– Chhhh…

– Guardate! – gridò allora lo Scala. – Sangue… Ha le mani… il petto insanguinati… essa lo ha ucciso!

Si ricordò di ciò che gli era parso di scernere, entrando, e raffermò, convinto:

– Essa, sí! l’ho veduta io, con gli occhi miei! Stava sul letto…

E mostrò ai quattro contadini inorriditi le scigrigne su le gote e sul mento del povero morto:

– Guardate!

Ma come mai? La scimmia? Possibile? Quella bestia ch’egli teneva da tanti anni con sé, notte e giorno?

– Fosse arrabbiata? – osservò uno dei giornanti, spaventato.

Tutt’e cinque, a un tempo, con lo stesso pensiero si scostarono dal letto.

– Aspettate! Un bastone… – disse don Mattia.

E cercò con gli occhi nella camera, se ce ne fosse qualcuno, o se ci fosse almeno qualche oggetto che potesse farne le veci.

Il garzone prese per la spalliera una seggiola e si chinò; ma gli altri, cosí inermi, senza riparo, ebbero paura e gli gridarono:

– Aspetta! Aspetta!

Si munirono di seggiole anche loro. Il garzone allora spinse la sua piú volte sotto il letto: Tita balzò fuori dall’altra parte, s’arrampicò con meravigliosa agilità su per la trabacca del letto, andò ad accoccolarsi in cima al padiglione, e lassú, pacificamente, come se nulla fosse, si mise a grattarsi il ventre, poi a scherzar con le cocche d’un fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato alla gola.

I cinque uomini stettero a mirare quell’indifferenza bestiale, rimbecilliti.

– Che fare, intanto? – domandò lo Scala, abbassando gli occhi sul cadavere; ma subito alla vista di quella gola squarciata, voltò la faccia. – Se lo coprissimo con lo stesso lenzuolo?

– Nossignore! – disse subito il garzone. – Vossignoria dia ascolto a me. Bisogna lasciarlo cosí come si trova. Io sono qua, di casa, e non voglio impicci con la giustizia, io. Anzi mi siete tutti testimoni.

– Che c’entra adesso! – esclamò don Mattia, dando una spallata.

Ma il garzone riprese ponendo avanti le mani:

– Non si sa mai, con la giustizia, padrone mio! Siamo poveretti, nojaltri, e con noi… so io quel che mi dico…

– Io penso, invece, – gridò don Mattia, esasperato, – penso che lui, là, povero pazzo, è morto come un minchione, per la sua stolidaggine, e che io, intanto, piú pazzo e piú stolido di lui, son bell’e rovinato! Oh, ma – tutti testimoni davvero, voi qua – che in questa campagna io ho speso i miei denari, il sangue mio: lo direte… Ora andate ad avvertire quel bel galantuomo di Saro Trigona e il pretore e il delegato, che vengano a vedere le prodezze di questa… Maledetta! – urlò, con uno scatto improvviso, strappandosi dal capo il cappellaccio e lanciandolo contro la scimmia.

Tita lo colse al volo, lo esaminò attentamente, vi stropicciò la faccia, come per soffiarsi il naso, poi se lo cacciò sotto e vi si pose a sedere. I quattro contadini scoppiarono a ridere, senza volerlo.

V

Niente: né un rigo di testamento, né un appunto pur che fosse in qualche registro o in qualche pezzetto di carta volante.

E non bastava il danno: toccavano per giunta a don Mattia Scala le beffe degli amici. Eh già, perché infatti, Nocio Butera, per esempio, avrebbe facilmente immaginato, che don Filippino Lo Cícero sarebbe morto a quel modo, ucciso dalla scimmia.

– Tu, Tino Làbiso, che ne dici, eh? Può essere, è vero? Che bestia! che bestia! che bestia!

E don Mattia si calcava fin sopra gli occhi con le mani afferrate alla tesa il cappellaccio bianco, e pestava i piedi dalla rabbia.

Saro Trigona, finché il cugino non fu sotterrato, dopo gli accertamenti del medico e del pretore, non gli volle dare ascolto, protestando che la disgrazia non gli consentiva di parlar d’affari.

– Sí! Come se la scimmia non gliel’avesse regalata lui, apposta! – si sfogava a dire lo Scala, di nascosto.

Avrebbe dovuto farle coniare una medaglia d’oro, a quella scimmia, e invece – ingrato, – l’aveva fatta fucilare: proprio cosí, fu-ci-la-re, il giorno dopo, non ostante che il giovane medico, venuto in campagna insieme col pretore, avesse trovato una graziosa spiegazione del delitto incosciente della bestia. Tita, malata di tisi, si sentiva forse mancare il respiro, anche a causa, probabilmente, di quel fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato al collo, forse un po’ troppo stretto, o perché se lo fosse stretto lei stessa tentando di slegarselo. Ebbene: forse era saltata sul letto per indicare al padrone dove si sentiva mancare il respiro, lí, al collo, e gliel’aveva preso con le mani; poi, nell’oppressura, non riuscendo a tirare il fiato, esasperata, forse s’era messa a scavare con le unghie, lí, nella gola del padrone. Ecco fatto! Bestia era, infine. Che capiva?

E il pretore, serio serio, accigliato, col testone calvo, rosso, sudato, aveva fatto ripetuti segni d’approvazione alla rara perspicacia del giovine medico – tanto carino!

Basta. Sotterrato il cugino, fucilata la scimmia, Saro Trigona si mise a disposizione di don Mattia Scala.

– Caro don Mattia, discorriamo.

C’era poco da discorrere. Lo Scala, con quel suo fare a scatti, gli espose brevemente il suo accordo col Lo Cícero, e come, aspettando di giorno in giorno che quella maledetta bestiaccia morisse per pigliar possesso, avesse speso nel podere, in piú stagioni, col consenso del Lo Cícero stesso, beninteso, parecchie migliaja di lire, che dovevano per conseguenza detrarsi dalla somma convenuta. Chiaro, eh?

– Chiarissimo! – rispose il Trigona, che aveva ascoltato con molta attenzione il racconto dello Scala, approvando col capo, serio serio, come il pretore. – Chiarissimo! E io, dal canto mio, caro don Mattia, sono disposto a rispettare l’accordo. Fo il sensale; e, voi lo sapete: tempacci! Per collocare una partita di zolfo ci vuol la mano di Dio: la senseria se ne va in francobolli e in telegrammi. Questo, per dirvi che io, con la mia professione, non potrei attendere alla campagna, di cui non so proprio che farmi. Ho poi, come sapete, caro don Mattia, nove figliuoli maschi, che debbono andare a scuola: bestie, uno piú dell’altro: ma vanno a scuola. Debbo, dunque, per forza stare in città. Veniamo a noi. C’è un guajo, c’è. Eh, caro don Mattia, pur troppo! Guajo grosso. Nove figliuoli, dicevamo, e voi non sapete, non potete farvi un’idea di quanto mi costino: di scarpe soltanto… ma già, è inutile che stia a farvi il conto! Impazzireste. Per dirvi, caro don Mattia…

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– Non me lo dite piú, per carità, caro don Mattia, – proruppe lo Scala, irritato di quell’interminabile discorso che non veniva a capo di  nulla. – Caro don Mattia… caro don Mattia… basta! concludiamo! Ho già perso troppo tempo con la scimmia e con don Filippino!

– Ecco, – riprese il Trigona, senza scomporsi. – Volevo dirvi che ho avuto sempre bisogno di ricorrere a certi messeri, che Dio ne scampi e liberi, per… mi spiego? e, si capisce, mi hanno messo i piedi sul collo. Voi sapete chi porta la bandiera, nel nostro paese, in questa specie d’operazioni…

– Dima Chiarenza? – esclamò subito lo Scala scattando in piedi, pallidissimo. Scaraventò il cappello per terra, si passò furiosamente una mano sui capelli; poi, rimanendo con la mano dietro la nuca, sbarrando gli occhi e appuntando l’indice dell’altra mano, come un’arma, verso il Trigona:

– Voi? – aggiunse. – Voi, da quel boja? da quell’assassino, che mi ha mangiato vivo? Quanto avete preso?

– Aspettate, vi dirò, – rispose il Trigona, con calma dolente, ponendo innanzi una mano. – Non io! perché quel boja, come voi dite benissimo, della mia firma non ha mai voluto saperne…

– E allora… don Filippino? – domandò lo Scala coprendosi il volto con le mani, come per non veder le parole che gli uscivano di bocca.

– L’avallo… – sospirò il Trigona, tentennando il capo amaramente.

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Don Mattia si mise a girar per la stanza, esclamando, con le mani per aria:

– Rovinato! Rovinato! Rovinato!

– Aspettate, – ripeté il Trigona. – Non vi disperate. Vediamo di rimediarla. Quanto intendevate di dare voi, a Filippino, per la terra?

– Io? – gridò lo Scala, fermandosi di botto, con le mani sul petto. – Diciotto mila lire, io: contanti! Son circa sei ettari di terra: tre salme giuste, con la nostra misura: sei mila lire a salma, contanti! Dio sa quel che ho penato per metterle insieme: e ora, ora mi vedo sfuggir l’affare, la terra sotto i piedi, la terra che già consideravo mia!

Mentre don Mattia si sfogava cosí, Saro Trigona si toccava le dita, accigliato, per farsi i conti:

– Diciotto mila… oh, dunque, si dice…

– Piano, – lo interruppe lo Scala. – Diciotto mila, se la buon’anima m’avesse lasciato subito il possesso del fondo. Ma piú di sei mila già ce l’ho spese. E questo è conto che si può far subito, sul luogo. Ho i testimoni: quest’anno stesso, ho piantato due migliaja di vitigni americani, spaventosi! e poi…

Saro Trigona si levò in piedi per troncare quella discussione, dichiarando:

– Ma dodici mila non bastano, caro don Mattia. Gliene debbo piú di venti mila a quel boja, figuratevi!

– Venti mila lire? – esclamò lo Scala, trasecolando. – E che avete mangiato, denari, voi e i vostri figliuoli?

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Il Trigona trasse un lunghissimo sospiro e, battendo una mano sul braccio dello Scala, disse:

– E le mie disgrazie, don Mattia? Non è ancora un mese, che mi è toccato a pagar nove mila lire a un negoziante di Licata, per differenza di prezzo su una partita di zolfo. Lasciatemi stare! Furono le ultime cambiali che mi avallò il povero Filippino, Dio l’abbia in gloria!

Dopo altre inutili rimostranze, convennero di recarsi quel giorno stesso, con le dodici mila lire in mano, dal Chiarenza, per tentare un accordo.

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VI

La casa di Dima Chiarenza sorgeva su la piazza principale del paese. Era una casa antica, a due piani, annerita dal tempo, innanzi alla quale solevano fermarsi con le loro macchinette fotografiche i forestieri, inglesi e tedeschi che si recavano a veder le zolfare, destando una certa meraviglia mista di dileggio o di commiserazione negli abitanti del paese, per i quali quella casa non era altro che una cupa decrepita stamberga, che guastava l’armonia della piazza, col palazzo comunale di fronte, stuccato e lucido, che pareva di marmo, e maestoso anche, con quel loggiato a otto colonne; la Matrice di qua, il Palazzo della Banca Commerciale di là, che aveva a pianterreno uno splendido Caffè da una parte, dall’altra il Circolo di Compagnia.

Il Municipio, secondo i soci di questo Circolo, avrebbe dovuto provvedere a quello sconcio, obbligando il Chiarenza a dare almeno un intonaco decente alla sua casa. Avrebbe fatto bene anche a lui, dicevano: gli si sarebbe forse schiarita un po’ la faccia che, da quando era entrato in quella casa, gli era diventata dello stesso colore. – Però – soggiungevano – volendo esser giusti, gliel’aveva recata in dote la moglie, quella casa, ed egli, proferendo il sí sacramentale, s’era forse obbligato a rispettare la doppia antichità.

Don Mattia Scala e Saro Trigona trovarono nella vasta anticamera quasi buja una ventina di contadini, vestiti tutti, su per giú, allo stesso modo, con un greve abito di panno turchino scuro; scarponi di cuojo grezzo imbullettati, ai piedi; in capo, una berretta nera a calza con la nappina in punta: alcuni portavano gli orecchini; tutti, essendo domenica, rasi di fresco.

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– Annunziami, – disse il Trigona al servo che se ne stava seduto presso la porta, innanzi a un tavolinetto, il cui piano era tutto segnato di cifre e di nomi.

– Abbiano pazienza un momento, – rispose il servo, che guardava stupito lo Scala, conoscendo l’antica inimicizia di lui per il suo padrone. – C’è dentro don Tino Làbiso.

– Anche lui? Disgraziato! – borbottò don Mattia, guardando i contadini in attesa, stupiti come il servo della presenza di lui in quella casa.

Poco dopo, dall’espressione dei loro volti lo Scala poté facilmente argomentare chi fra essi veniva a saldare il suo debito, chi recava soltanto una parte della somma tolta in prestito e aveva già negli occhi la preghiera che avrebbe rivolta all’usurajo perché avesse pazienza per il resto fino al mese venturo; chi non portava nulla e pareva schiacciato sotto la minaccia della fame, perché il Chiarenza lo avrebbe senza misericordia spogliato di tutto e buttato in mezzo a una strada.

A un tratto, l’uscio del banco s’aprí, e Tino Làbiso, col volto infocato, quasi paonazzo, con gli occhi lustri, come se avesse pianto, scappò via senza veder nessuno, tenendo in mano il suo pezzolone a dadi rossi e neri: l’emblema della sua sfortunata prudenza.

Lo Scala e il Trigona entrarono nella sala del banco.

Era anch’essa quasi buja, con una sola finestra ferrata, che dava su un angusto vicoletto. Di pieno giorno, il Chiarenza doveva tenere su la scrivania il lume acceso, riparato da un mantino verde.

Seduto su un vecchio seggiolone di cuojo innanzi alla scrivania, il cui palchetto a casellario era pieno zeppo di carte, il Chiarenza teneva su le spalle uno scialletto, in capo una papalina, e un pajo di mezzi guanti di lana alle mani orribilmente deformate dall’artritide. Quantunque non avesse ancora quarant’anni, ne mostrava piú di cinquanta, la faccia gialla, itterica, i capelli grigi, fitti, aridi che gli si allungavano come a un malato su le tempie. Aveva, in quel momento, gli occhiali a staffa rialzati su la fronte stretta, rugosa, e guardava innanzi a sé con gli occhi torbidi, quasi spenti sotto le grosse palpebre gravi. Evidentemente, si sforzava di dominare l’interna agitazione e di apparir calmo di fronte allo Scala.

La coscienza della propria infamità, non gl’ispirava ora che odio, odio cupo e duro, contro tutti e segnatamente contro il suo antico benefattore, sua prima vittima. Non sapeva ancora che cosa lo Scala volesse da lui; ma era risoluto a non concedergli nulla, per non apparire pentito d’una colpa ch’egli aveva sempre sdegnosamente negata, rappresentando lo Scala come un pazzo.

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Questi, che da anni e anni non lo aveva piú riveduto, neanche da lontano, rimase dapprima stupito, a mirarlo. Non lo avrebbe riconosciuto, ridotto in quello stato, se lo avesse incontrato per via.

«Il castigo di Dio» pensò; e aggrottò le ciglia, comprendendo subito che, cosí ridotto, quell’uomo doveva credere d’aver già scontato il delitto e di non dovergli piú, perciò, nessuna riparazione.

Dima Chiarenza, con gli occhi bassi, si pose una mano dietro le reni per tirarsi sú, pian piano, dal seggiolone di cuojo, col volto atteggiato di spasimo; ma Saro Trigona lo costrinse a rimaner seduto e, subito, col suo solito opprimente garbuglio di frasi, cominciò a esporre lo scopo della visita: egli, vendendo la campagna ereditata dal cugino al caro don Mattia lí presente, avrebbe pagato, subito, dodici mila lire, a scomputo del suo debito, al carissimo don Dima, il quale, dal canto suo, doveva obbligarsi di non muovere nessuna azione giudiziaria contro l’eredità Lo Cícero, aspettando…

– Piano, piano, figliuolo, – lo interruppe a questo punto il Chiarenza, riponendosi gli occhiali sul naso. – Già l’ho mossa oggi stesso, protestando le cambiali a firma di vostro cugino, scadute da un pezzo. Le mani avanti!

– E il mio denaro? – scattò allora lo Scala. – Il fondo del Lo Cícero non valeva piú di diciotto mila lire; ma ora io ce ne ho spese piú di sei mila; dunque, facendolo stimare onestamente, tu non potresti averlo per meno di ventiquattro mila.

– Bene – rispose, calmissimo, il Chiarenza. – Siccome il Trigona me ne deve venticinque mila, vuol dire che io, prendendomi il podere, vengo a perdercene mille, oltre gl’interessi.

– Dunque… venticinque? – esclamò allora don Mattia, rivolto al Trigona, con gli occhi sbarrati.

Questi si agitò su la seggiola, come su un arnese di tortura, balbettando:

– Ma… co… come?

– Ecco, figlio mio: ve lo faccio vedere, – rispose senza scomporsi il Chiarenza, ponendosi di nuovo la mano dietro le reni e tirandosi su con pena. – Ci sono i registri. Parlano chiaro.

– Lascia stare i registri! – gridò lo Scala, facendosi avanti. – Qua ora si tratta de’ miei denari: quelli spesi da me nel podere…

– E che ne so io? – fece il Chiarenza, stringendosi nelle spalle e chiudendo gli occhi. – Chi ve li ha fatti spendere?

Don Mattia Scala ripeté, su le furie, al Chiarenza il suo accordo col Lo Cícero.

– Male, – soggiunse, richiudendo gli occhi, il Chiarenza, per la pena che gli costava la calma che voleva dimostrare; ma quasi non tirava piú fiato. – Male. Vedo che voi, al solito, non sapete trattare gli affari.

– E me lo rinfacci tu? – gridò lo Scala, – tu!

– Non rinfaccio nulla; ma, santo Dio, avreste dovuto almeno sapere, prima di spendere codesti denari che voi dite, che il Lo Cícero non poteva piú vendere a nessuno il podere, perché aveva firmato a me tante cambiali per un valore che sorpassava quello del podere stesso.

– E cosí, – riprese lo Scala – tu ti approfitterai anche del mio denaro?

– Non mi approfitto di nulla, io, – rispose, pronto, il Chiarenza. – Mi pare di avervi dimostrato che, anche secondo la stima che voi fate della terra, io vengo a perderci piú di mille lire.

Saro Trigona cercò d’interporsi, facendo balenare al Chiarenza le dodici mila lire contanti che don Mattia aveva nel portafogli.

– Il denaro è denaro!

– E vola! – aggiunse subito il Chiarenza. – Il meglio impiego del denaro oggi è su terre, sappiatelo, caro mio. Le cambiali, armi da guerra, a doppio taglio: la rendita sale e scende; la terra, invece, è là, che non si muove.

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Don Mattia ne convenne e, cangiando tono e maniera, parlò al Chiarenza del suo lungo amore per quella campagna contigua, soggiungendo che non avrebbe saputo acconciarsi mai a vedersela tolta, dopo tanti stenti durati per essa. Si contentasse, dunque, il Chiarenza, per il momento, del denaro ch’egli aveva con sé; avrebbe avuto il resto, fino all’ultimo centesimo, da lui, non piú dal Trigona, tenendo anche ferma la stima di ventiquattro mila lire, come se quelle sei mila lui non ce le avesse spese, e anche fino al saldo delle venticinque mila, se voleva, cioè dell’intero debito del Trigona.

– Che posso dirti di piú?

Dima Chiarenza ascoltò, con gli occhi chiusi, impassibile, il discorso appassionato dello Scala. Poi gli disse, assumendo anche lui un altro tono, piú funebre e piú grave:

– Sentite, don Mattia. Vedo che vi sta molto a cuore quella terra, e volentieri ve la lascerei, per farvi piacere, se non mi trovassi in queste condizioni di salute. Vedete come sto? I medici mi hanno consigliato riposo e aria di campagna…

– Ah! – esclamò lo Scala fremente. – Te ne verresti là, dunque, accanto a me?

– Per altro, – riprese il Chiarenza – voi ora non mi dareste neanche la metà di quanto io debbo avere. Chi sa dunque fino a quando dovrei aspettare per esser pagato; mentre ora, con un lieve sacrificio, prendendomi quella terra, posso riavere subito il mio e provvedere alla mia salute. Voglio lasciar tutto in regola, io, ai miei eredi.

– Non dir cosí! – proruppe lo Scala, indignato e furente. – Tu pensi agli eredi? Non hai figli, tu! Pensi ai nipoti? Giusto ora? Non ci hai mai pensato. Di’ franco: Voglio nuocerti, come t’ho sempre nociuto! Ah non t’è bastato d’avermi distrutta la casa, d’avermi quasi uccisa la moglie e messo in fuga per disperazione l’unico figlio, non t’è bastato d’avermi ridotto là, misero, in ricompensa del bene ricevuto; anche la terra ora vuoi levarmi, la terra dove io ho buttato il sangue mio? Ma perché, perché cosí feroce contro di me? Che t’ho fatto io? Non ho nemmeno fiatato dopo il tuo tradimento da Giuda: avevo da pensare alla moglie che mi moriva per causa tua, al figlio scomparso per causa tua: prove, prove materiali del furto non ne avevo, per mandarti in galera; e dunque, zitto; me ne sono andato là, in quei tre palmi di terra; mentre qua tutto il paese, a una voce, t’accusava, ti gridava: Ladro! Giuda! Non io, non io! Ma Dio c’è, sai? e t’ha punito: guarda le tue mani ladre come sono ridotte… Te le nascondi? Sei morto! sei morto! e ti ostini ancora a farmi del male? Oh ma, sai? questa volta, no: tu non ci arrivi! Io t’ho detto i sacrificii che sarei disposto a fare per quella terra. Alle corte, dunque, rispondi: – Vuoi lasciarmela?

– No! – gridò, pronto, rabbiosamente, il Chiarenza, torvo, stravolto.

– E allora, né io né tu!

E lo Scala s’avviò per uscire.

– Che farete? – domandò il Chiarenza, rimanendo seduto e aprendo le labbra a un ghigno squallido.

Lo Scala si voltò, alzò la mano a un violento gesto di minaccia e rispose, guardandolo fieramente negli occhi:

– Ti brucio!

VII

Uscito dalla casa del Chiarenza e sbarazzatosi con una furiosa scrollata di spalle del Trigona che voleva dimostrargli, tutto dolente, la sua buona intenzione, don Mattia Scala si recò prima in casa d’un suo amico avvocato per esporgli il caso di cui era vittima e domandargli se, potendo agire giudiziariamente per il riconoscimento del suo credito, sarebbe riuscito a impedire al Chiarenza di pigliar possesso del podere.

L’avvocato non comprese nulla in principio, sopraffatto dalla concitazione con cui lo Scala aveva parlato. Si provò a calmarlo, ma invano. 

– Insomma, prove, documenti, ne avete?

– Non ho un corno!

– E allora andate a farvi benedire! Che volete da me?

– Aspettate, – gli disse don Mattia, prima d’andarsene. – Sapreste, per caso, indicarmi dove sta di casa l’ingegnere Scelzi, della Società delle Zolfare di Comitini?

L’avvocato gl’indicò la via e il numero della casa, e don Mattia Scala, ormai deciso, vi andò difilato.

Lo Scelzi era uno di quegli ingegneri che, passando ogni mattina per la via mulattiera innanzi al cancello della villa per recarsi alle zolfare della vallata, lo avevano con maggior insistenza sollecitato per la cessione del sottosuolo. Quante volte lo Scala, per chiasso, non lo aveva minacciato di chiamare i cani per farlo scappare!

Quantunque di domenica lo Scelzi non ricevesse per affari, si affrettò a lasciar passare nello studio l’insolito visitatore.

– Voi, don Mattia? Qual buon vento?

Lo Scala con le enormi sopracciglia aggrottate si piantò di fronte al giovine ingegnere sorridente, lo guardò negli occhi, e rispose:

– Sono pronto.

– Ah! benissimo! Cedete?

– Non cedo. Voglio contrattare. Sentiamo i patti.

– E non li sapete? – esclamò lo Scelzi. – Ve li ho ripetuti tante volte…

– Avete bisogno di far altri rilievi lassú? – domandò don Mattia, cupo, impetuoso.

– Eh no! Guardate… – rispose l’ingegnere indicando la grande carta geologica appesa alla parete, ov’era tracciato per cura del R. Corpo delle Miniere tutto il campo minerale della regione. Fissò col dito un punto nella carta e aggiunse: – È qui: non c’è bisogno d’altro…

– E allora possiamo contrattare subito?

– Subito?… Domani. Domattina stesso io ne parlerò al Consiglio d’Amministrazione. Intanto, se volete, qua, ora, possiamo stendere insieme la proposta, che sarà senza dubbio accettata, se voi non ponete avanti altri patti.

– Ho bisogno di legarmi subito! – scattò lo Scala. – Tutto, tutto distrutto, è vero?… sarà tutto distrutto lassú?

Lo Scelzi lo guardò meravigliato: conosceva da un pezzo l’indole strana, impulsiva, dello Scala; ma non ricordava d’averlo mai veduto cosí.

– Ma i danni del fumo, – disse saranno previsti nel contratto e compensati…

– Lo so! Non me n’importa! – soggiunse lo Scala. – Le campagne, dico, le campagne, tutte distrutte… è vero?

– Eh… – fece lo Scelzi, stringendosi nelle spalle.

– Questo, questo cerco! questo voglio! – esclamò allora don Mattia, battendo un pugno sulla scrivania. – Qua, ingegnere: scrivete, scrivete! Né io né lui! Lo brucio… Scrivete. Non vi curate di quello che dico.

Lo Scelzi sedette innanzi alla scrivania e si mise a scrivere la proposta, esponendo prima, man mano, i patti vantaggiosi, tante volte già respinti sdegnosamente dallo Scala, che ora, invece, cupo, accigliato, annuiva col capo, a ognuno.

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Stesa finalmente la proposta, l’ingegnere Scelzi non seppe resistere al desiderio di conoscere il perché di quella risoluzione improvvisa, inattesa.

– Mal’annata?

– Ma che mal’annata! Quella che verrà, – gli rispose lo Scala – quando avrete aperto la zolfara!

Sospettò allora lo Scelzi che don Mattia Scala avesse ricevuto tristi notizie del figliuolo scomparso: sapeva che, alcuni mesi addietro, egli aveva rivolto una supplica a Roma perché, per mezzo degli agenti consolari, fossero fatte ricerche dovunque. Ma non volle toccar quel tasto doloroso.

Lo Scala, prima d’andarsene, raccomandò di nuovo allo Scelzi di sbrigar la faccenda con la massima sollecitudine.

– A tamburo battente, e legatemi bene!

Ma dovettero passar due giorni per la deliberazione del Consiglio della Società delle zolfare, per la scrittura dell’atto presso il notajo, per la registrazione dell’atto stesso: due giorni tremendi per don Mattia Scala. Non mangiò, non dormí, fu come in un continuo delirio, andando di qua e di là dietro allo Scelzi, a cui ripeteva di continuo:

– Legatemi bene! Legatemi bene!

– Non dubiti, – gli rispondeva sorridendo l’ingegnere. – Adesso non ci scappa piú!

Firmato alla fine e registrato il contratto di cessione, don Mattia Scala uscí come un pazzo dallo studio notarile; corse al fondaco, all’uscita del paese, dove, nel venire, tre giorni addietro, aveva lasciato la giumenta; cavalcò e via.

Il sole era al tramonto. Per lo stradone polveroso don Mattia s’imbatté in una lunga fila di carri carichi di zolfo, i quali dalle lontane zolfare della vallata, di là dalla collina che ancora non si scorgeva, si recavano, lenti e pesanti, alla stazione ferroviaria sotto il paese.

Dall’alto della giumenta, lo Scala lanciò uno sguardo d’odio a tutto quello zolfo che cigolava e scricchiolava continuamente agli urti, ai sobbalzi dei carri senza molle.

Lo stradone era fiancheggiato da due interminabili siepi di fichidindia, le cui pale, per il continuo transito di quei carri, eran tutte impolverate di zolfo.

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Alla loro vista, la nausea di don Mattia si accrebbe. Non si vedeva che zolfo, da per tutto, in quel paese! Lo zolfo era anche nell’aria che si respirava, e tagliava il respiro, e bruciava gli occhi.

Finalmente, a una svolta dello stradone, apparve la collina tutta verde. Il sole la investiva con gli ultimi raggi.

Lo Scala vi fissò gli occhi e strinse nel pugno le briglie fino a farsi male. Gli parve che il sole salutasse per l’ultima volta il verde della collina. Forse egli, dall’alto di quello stradone, non avrebbe mai piú riveduto la collina, come ora la vedeva. Fra vent’anni, quelli che sarebbero venuti dopo di lui, da quel punto dello stradone, avrebbero veduto là un colle calvo, arsiccio, livido, sforacchiato dalle zolfare.

«E dove sarò io, allora?» pensò, provando un senso di vuoto, che subito lo richiamò al pensiero del figlio lontano, sperduto, randagio per il mondo, se pure era ancor vivo. Un impeto di commozione lo vinse, e gli occhi gli s’empirono di lagrime. Per lui, per lui egli aveva trovato la forza di rialzarsi dalla miseria in cui lo aveva gettato il Chiarenza, quel ladro infame che ora gli toglieva la campagna.

– No, no! – ruggí, tra i denti, al pensiero del Chiarenza. – Né io né lui!

E spronò la giumenta, come per volare là a distruggere d’un colpo la campagna che non poteva piú esser sua.

Era già sera, quando pervenne ai piedi della collina. Dové girarla per un tratto, prima d’imboccar la via mulattiera. Ma era sorta la luna, e pareva che a mano a mano raggiornasse. I grilli, tutt’intorno, salutavano freneticamente quell’alba lunare.

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Attraversando le campagne, lo Scala si sentí pungere da un acuto rimorso, pensando ai proprietarii di quelle terre, tutti suoi amici, i quali in quel momento non sospettavano certo il tradimento ch’egli aveva fatto loro.

Ah, tutte quelle campagne sarebbero scomparse tra breve: neppure un filo d’erba sarebbe piú cresciuto lassú; e lui, lui sarebbe stato il devastatore della verde collina! Si riportò col pensiero al balcone della sua prossima cascina, rivide il limite della sua angusta terra, pensò che gli occhi suoi ora avrebbero dovuto arrestarsi là, senza piú scavalcare quel muro di cinta e spaziar lo sguardo nella terra accanto: e si sentí come in prigione, quasi piú senz’aria, senza piú libertà in quel campicello suo, col suo nemico che sarebbe venuto ad abitare là. No! No!

– Distruzione! distruzione! Né io né lui! Brucino!

E guardò attorno gli alberi, con la gola stretta d’angoscia: quegli olivi centenarii, dal grigio poderoso tronco stravolto, immobili, come assorti in un sogno misterioso nel chiarore lunare. Immaginò come tutte quelle foglie, ora vive, si sarebbero aggricciate ai primi fiati agri della zolfara, aperta lí come una bocca d’inferno; poi sarebbero cadute; poi gli alberi nudi si sarebbero anneriti, poi sarebbero morti, attossicati dal fumo dei forni. L’accetta, lí, allora. Legna da ardere, tutti quegli alberi…

Una brezza lieve si levò, salendo la luna. E allora le foglie di tutti quegli alberi, come se avessero sentito la loro condanna di morte, si scossero quasi in un brivido lungo, che si ripercosse su la schiena di don Mattia Scala, curvo su la giumenta bianca.

1.4  Il tabernacolo

I

Coricatosi accanto alla moglie, che già dormiva, voltata verso il lettuccio, su cui giacevano insieme i due figliuoli, Spatolino disse prima le consuete orazioni, s’intrecciò poi le mani dietro la nuca; strizzò gli occhi, e – senza badare a quello che faceva – si mise a fischiettare, com’era solito ogni qual volta un dubbio o un pensiero lo rodevano dentro.

– Fififí… fififí… fififí…

Non era propriamente un fischio, ma uno zufolío sordo, piuttosto; a fior di labbra, sempre con la medesima cadenza.

A un certo punto, la moglie si destò:

– Ah! ci siamo? Che t’è accaduto?

– Niente. Dormi. Buona notte.

Si tirò giú, voltò le spalle alla moglie e si raggricchiò anche lui da fianco, per dormire. Ma che dormire!

– Fififí… fififí… fififí…

La moglie allora gli allungò un braccio sulla schiena, a pugno chiuso.

– Ohé, la smetti? Bada che mi svegli i piccini!

– Hai ragione. Sta’ zitta! M’addormento.

Si sforzò davvero di scacciare dalla mente quel pensiero tormentoso che diventava cosí, dentro di lui, come sempre, un grillo canterino. Ma, quando già credeva d’averlo scacciato:

– Fififí… fififí… fififí…

Questa volta non aspettò neppure che la moglie gli allungasse un altro pugno piú forte del primo; saltò dal letto, esasperato.

– Che fai? dove vai? – gli domandò quella.

E lui:

– Mi rivesto, mannaggia! Non posso dormire. Mi metterò a sedere qua davanti la porta, su la strada. Aria! Aria!

– Insomma, – riprese la moglie – si può sapere che diavolo t’è accaduto?

– Che? Quella canaglia, – proruppe allora Spatolino, sforzandosi di parlar basso, – quel farabutto, quel nemico di Dio…

– Chi? chi?

– Ciancarella.

– Il notajo?

– Lui. M’ha fatto dire che mi vuole domani alla villa.

– Ebbene?

– Ma che può volere da me un uomo come quello, me lo dici? Porco, salvo il santo battesimo! porco, e dico poco! Aria! aria!

Afferrò, cosí dicendo, una seggiola, riaprí la porta, la riaccostò dietro di sé e si pose a sedere sul vicoletto addormentato, con le spalle appoggiate al muro del suo casalino.

Un lampione a petrolio, lí presso, sonnecchiava languido, verberando del suo lume giallastro l’acqua putrida d’una pozza, seppure era acqua, giú tra l’acciottolato, qua gobbo là avvallato, tutto sconnesso e logoro.

Dall’interno delle casupole in ombra veniva un tanfo grasso di stalla e, a quando a quando, nel silenzio, lo scalpitare di qualche bestia tormentata dalle mosche.

Un gatto, che strisciava lungo il muro, s’arrestò, obliquo, guardingo.

Spatolino si mise a guardare in alto, nella striscia di cielo, le stelle che vi fervevano; e, guardando, si recava alla bocca i peli dell’arida barbetta rossiccia.

Piccolo di statura, quantunque fin da ragazzo avesse impastato terra e calcina, aveva un che di signorile nell’aspetto.

A un tratto, gli occhi chiari rivolti al cielo gli si riempirono di lagrime. Si scosse su la seggiola e, asciugandosi il pianto col dorso della mano, mormorò nel silenzio della notte:

– Ajutatemi voi, Cristo mio!           

II

Dacché nel paese la consorteria clericale era stata battuta e il partito nuovo, degli scomunicati, aveva invaso i seggi del Comune, Spatolino si sentiva come in mezzo a un campo nemico.

Tutti i suoi compagni di lavoro, come tante pecore, s’erano messi dietro ai nuovi caporioni; e stretti ora in corporazione, spadroneggiavano.

Con pochi altri operai rimasti fedeli alla santa Chiesa, Spatolino aveva fondato una Società Cattolica di Mutuo Soccorso tra gl’Indegni Figli della Madonna Addolorata.

Ma la lotta era impari; e le beffe dei nemici (e anche degli amici) e la rabbia dell’impotenza avevano fatto perdere a Spatolino il lume degli occhi.

S’era intestato, come presidente di quella Società Cattolica, a promuovere processioni e luminarie e girandole, nella ricorrenza delle feste religiose, osservate prima e favorite dall’antico Consiglio Comunale, e tra i fischi, gli urli e le risate del partito avversario ci aveva rimesso le spese, per S. Michele Arcangelo, per S. Francesco di Paola, per il Venerdí Santo, per il Corpus Domini e insomma per tutte le feste principali del calendario ecclesiastico.

Cosí il capitaluccio, che gli aveva finora permesso d’assumer qualche lavoro in appalto, s’era talmente assottigliato, ch’egli prevedeva non lontano il giorno che da capomastro muratore si sarebbe ridotto a misero giornante.

La moglie, già da un pezzo, non aveva piú per lui né rispetto né considerazione: s’era messa a provvedere da sé ai suoi bisogni e a quelli dei figliuoli, lavando, cucendo per conto d’altri, facendo ogni sorta di servizii.

Come se lui stesse in ozio per piacere! Ma se la corporazione di quei figli di cane assumeva tutti i lavori! Che pretendeva la moglie? ch’egli rinunziasse alla fede, rinnegasse Dio, e andasse a iscriversi al partito di quelli? Ma si sarebbe fatto tagliar le mani piuttosto!

L’ozio intanto lo divorava, gli faceva di giorno in giorno crescere l’orgasmo e il puntiglio, e lo inveleniva contro tutti.

Ciancarella, il notajo, non aveva mai parteggiato per nessuno; ma era pur notoriamente nemico di Dio; ne faceva professione, dacché non esercitava piú quell’altra del notajo. Una volta, aveva osato finanche d’aizzare i cani contro un santo sacerdote, don Lagàipa, che s’era recato da lui per intercedere in favore d’alcuni parenti poveri, che morivano addirittura di fame, mentr’egli, nella splendida villa che s’era fatta costruire all’uscita del paese, viveva da principe, con la ricchezza accumulata chi sa come e accresciuta da tant’anni d’usura.

Tutta la notte Spatolino (per fortuna era d’estate), un po’ seduto, un po’ passeggiando per il vicoletto deserto, meditò (fififí… fififí… fififí…) su quell’invito misterioso del Ciancarella.

Poi, sapendo che questi era solito lasciare il letto per tempo, e sentendo che la moglie già s’era levata, con l’alba, e sfaccendava per casa, pensò d’avviarsi, lasciando lí fuori la seggiola ch’era vecchia, e nessuno se la sarebbe presa.

III

La villa del Ciancarella era tutta murata come una fortezza, e aveva il cancello su lo stradone provinciale.

Il vecchio, che pareva un rospaccio calzato e vestito, oppresso da una cisti enorme su la nuca, che lo obbligava a tener sempre giú e piegato da un lato il testone raso, vi abitava solo, con un servitore; ma aveva molta gente di campagna ai suoi ordini, armata, e due mastini che incutevano paura, solo a vederli.

Spatolino sonò la campana. Subito quelle due bestiacce s’avventarono furibonde alle sbarre del cancello, e non si quietarono neppure quando il servitore accorse a rincorare Spatolino che non voleva entrare. Bisognò che il padrone, il quale prendeva il caffè nel chioschetto d’edera, a un lato della villa, in mezzo al giardino, li chiamasse col fischio.

– Ah, Spatolino! Bravo, – disse il Ciancarella. – Siedi lí.

E gl’indicò uno degli sgabelli di ferro disposti, giro giro, nel chioschetto.

Ma Spatolino rimase in piedi, col cappelluccio roccioso e ingessato tra le mani.

– Tu sei un indegno figlio, è vero?

– Sissignore, e me ne vanto: della Madonna Addolorata. Che comandi ha da darmi?

– Ecco, – disse Ciancarella; ma, invece di seguitare, si recò la tazza alle labbra e trasse tre sorsi di caffè. – Un tabernacolo – (e un altro sorso).

– Come dice?

– Vorrei costruito da te un tabernacolo – (ancora un sorso).

– Un tabernacolo, Vossignoria?

– Sí, su lo stradone, di fronte al cancello – (altro sorso, l’ultimo; posò la tazza, e – senza asciugarsi le labbra – si levò in piedi. Una goccia di caffè gli scese da un angolo della bocca di tra gl’irti peli della barba non rifatta da parecchi giorni). – Un tabernacolo, dunque, non tanto piccolo, perché ci ha da entrare una statua, grande al vero, di Cristo alla colonna. Alle pareti laterali ci voglio allogare due bei quadri, grandi: di qua, un Calvario; di là, una Deposizione. Insomma, come un camerotto agiato, su uno zoccolo alto un metro, col cancelletto di ferro davanti, e la croce sú, s’intende. Hai capito?

Spatolino chinò piú volte il capo, con gli occhi chiusi; poi, riaprendo gli occhi e traendo un sospiro, disse:

– Ma Vossignoria scherza, è vero?

– Scherzo? Perché?

– Io credo che Vossignoria voglia scherzare. Mi perdoni. Un tabernacolo, Vossignoria, all’Ecce Homo?

Ciancarella si provò ad alzare un po’ il testone raso, se lo tenne con una mano e rise in un suo modo speciale, curiosissimo, come se frignasse, per via di quel malanno che gli opprimeva la nuca.

– Eh che! – disse. – Non ne son forse degno, secondo te?

– Ma nossignore, scusi! – s’affrettò a negare Spatolino, stizzito, infiammandosi. – Perché dovrebbe Vossignoria commettere cosí, senza ragione, un sacrilegio? Si lasci pregare, e mi perdoni se parlo franco. Chi vuol gabbare, Vossignoria? Dio, no; Dio non lo gabba; Dio vede tutto, e non si lascia gabbare da Vossignoria. Gli uomini? Ma vedono anche loro e sanno che Vossignoria…

– Che sanno, imbecille? – gli gridò il vecchio, interrompendolo. – E che sai tu di Dio, verme di terra? Quello che te n’hanno detto i preti! Ma Dio… Vah, vah, vah, io mi metto a ragionare con te, adesso… Hai fatto colazione?

– Nossignore.

– Brutto vizio, caro mio! dovrei dartela io, ora, eh?

– Nossignore. Non prendo nulla.

– Ah, – esclamò Ciancarella con uno sbadiglio. – Ah! I preti, figliuolo, i preti ti hanno sconcertato il cervello. Vanno predicando, è vero? che io non credo in Dio. Ma sai perché? perché non do loro da mangiare. Ebbene, sta’ zitto: ne avranno, quando verranno a consacrare il nostro tabernacolo. Voglio che sia una bella festa, Spatolino. Perché mi guardi cosí? Non credi? O vuoi sapere come mi sia venuto in mente? In sogno, figliuolo! Ho avuto un sogno, l’altra notte. Ora certo i preti diranno che Dio m’ha toccato il cuore. Dicano pure; non me n’importa nulla! Dunque, siamo intesi, eh? Parla… smuoviti… Sei allocchito?

– Sissignore, – confessò Spatolino, aprendo le braccia.

Ciancarella, questa volta, si prese la testa con tutt’e due le mani, per ridere a lungo.

– Bene, – poi disse. – Tu sai com’io tratto. Non voglio impicci di nessun genere. So che sei un bravo operajo e che fai le cose ammodo e onestamente.  Fa’ da te, spese e tutto, senza seccarmi. Quando avrai finito, faremo i conti. Il tabernacolo… hai capito come lo voglio?

– Sissignore.

– Quando ti metterai all’opera?

– Per me, anche domani.

– E quando potrà esser finito?

Spatolino stette un po’ a pensare.

– Eh, – poi disse, – se dev’essere cosí grande, ci vorrà almeno…, che so, un mese.

– Sta bene. Andiamo ora a vedere insieme il posto.

La terra, dall’altra parte dello stradone, apparteneva pure al Ciancarella, che la lasciava incolta, in abbandono: l’aveva acquistata per non aver soggezioni lí davanti alla villa; e permetteva che i pecoraj vi conducessero le loro greggiole a pascolare, come se fosse terra senza padrone. Per costruirvi il tabernacolo non si doveva dunque chieder licenza a nessuno. Stabilito il posto, lí, proprio dirimpetto al cancello, il vecchio rientrò nella villa, e Spatolino, rimasto solo, – fififí… fififí… fififí… – non la finí piú. Poi s’avviò. Cammina e cammina, si ritrovò, quasi senza saperlo, dinanzi la porta di don Lagàipa, ch’era il suo confessore. Si ricordò, dopo aver bussato, che il prete era da parecchi giorni a letto, infermo: non avrebbe dovuto disturbarlo con quella visita mattutina; ma il caso era grave; entrò.

           

IV

Don Lagàipa era in piedi e, tra la confusione delle sue donne, la serva e la nipote, che non sapevano come obbedire agli ordini ch’egli impartiva, stava, in calzoni e maniche di camicia, in mezzo alla camera a pulire le canne d’un fucile.

Il naso vasto e carnoso, tutto bucherato dal vajuolo come una spugna, pareva gli fosse divenuto, dopo la malattia, piú abbondante. Di qua e di là, divergenti quasi per lo spavento di quel naso, gli occhi lucidi, neri, pareva volessero scappargli dalla faccia gialla, disfatta.

–  Mi rovinano, Spatolino, mi rovinano! È venuto poco fa il garzone, baccalà, a dirmi che la mia campagna è diventata proprietà comune, già! roba di tutti. I socialisti, capisci? mi rubano l’uva ancora acerba; i fichidindia, tutto! Il tuo è mio, capisci? Il tuo è mio! Gli mando questo fucile. Alle gambe! gli ho detto; tira loro alle gambe: cura di piombo, ci vuole! (Rosina, papera, papera, papera, un altro po’ d’aceto t’ho detto, e una pezzuola  pulita.) Che volevi dirmi, figliuolo mio?

Spatolino non sapeva piú da che parte cominciare. Appena gli uscí di bocca il nome di Ciancarella, una furia di male parole; all’accenno della costruzione del tabernacolo, vide don Lagàipa trasecolare.

– Un tabernacolo?

– Sissignore: all’Ecce Homo. Vorrei sapere da Vostra Reverenza se debbo farglielo.

– Lo domandi a me? Pezzo d’asino, che gli hai risposto?

Spatolino ripeté quanto aveva detto al Ciancarella e altro aggiunse che non aveva detto, infervorandosi alle lodi del prete battagliero.

– Benissimo! E lui? Muso di cane!

– Ha avuto un sogno, dice.

– Imbroglione! Non starci a credere! Imbroglione! Se Dio veramente gli avesse parlato in sogno, gli avrebbe suggerito piuttosto di ajutare un po’ quei poveretti dei Lattuga, che non vuol riconoscere per parenti solo perché son divoti e fedeli a noi, mentre protegge i Montoro, capisci? quegli atei socialisti, a cui lascerà tutte le sue ricchezze. Basta. Che vuoi da me? Fagli il tabernacolo. Se non glielo fai tu, glielo farà un altro. Tanto, per noi, sarà sempre bene, che un tal peccatore dia segno di volere in qualche modo riconciliarsi con Dio. Imbroglione! Muso di cane!

Tornato a casa, Spatolino, per tutto quel giorno, disegnò tabernacoli. Verso sera si recò a provvedere i materiali, due manovali, un ragazzo calcinajo. E il giorno appresso, all’alba, si mise all’opera.

 

V

La gente che passava a piedi o a cavallo o coi carri per lo stradone polveroso, si fermava a domandare a Spatolino che cosa facesse.

– Un tabernacolo.

– Chi ve l’ha ordinato?

E lui, cupo, alzando un dito al cielo:

– L’Ecce Homo.

Non rispose altrimenti, per tutto il tempo che durò la fabbrica. La gente rideva o scrollava le spalle.

– Giusto qua? – gli domandava però qualcuno, guardando verso il cancello della villa. A nessuno veniva in mente che il notajo potesse avere ordinato quel tabernacolo: tutti, invece, ignorando che quel pezzo di terra appartenesse pure al Ciancarella, e conoscendo il fanatismo religioso di Spatolino, pensavano che questi, o per incarico del vescovo o per voto della Società Cattolica, costruisse lí quel tabernacolo, per far dispetto al vecchio usurajo. E ne ridevano.

Intanto, come se Dio veramente fosse sdegnato di quella fabbrica, capitarono a Spatolino, lavorando, tutte le disgrazie. Già, quattro giorni a sterrare, prima di trovare il pancone per le fondamenta; poi liti lassú alla cava, per la pietra; liti per la calce, liti col fornaciajo; e infine, nell’assettar la centina per costruir l’arco, cade la centina e per miracolo non accoppa il ragazzo calcinajo.

All’ultimo, la bomba. Il Ciancarella, proprio nel giorno che Spatolino doveva mostrargli il tabernacolo bell’e finito, un colpo apoplettico, di quelli genuini, e in capo a tre ore, morto.

Nessuno allora poté piú levar dal capo a Spatolino che quella morte improvvisa del notajo fosse la punizione di Dio sdegnato. Ma non credette, dapprima, che lo sdegno divino dovesse rovesciarsi anche su lui, che – pur di contraggenio – s’era prestato a innalzare quella fabbrica maledetta.

Lo credette quando, recatosi dai Montoro, eredi del notajo, per aver pagata l’opera sua, s’udí rispondere che nulla essi ne sapevano e che non volevano perciò riconoscere quel debito non comprovato da nessun documento.

– Come! – esclamò Spatolino. – E il tabernacolo dunque per chi l’ho fatto io?

– Per l’Ecce Homo.

– Di testa mia?

– Oh insomma, – gli dissero quelli, per cavarselo di torno. – Noi crederemmo di mancare di rispetto alla memoria di nostro zio supponendo anche per un momento ch’egli abbia potuto davvero darti un incarico cosí contrario al suo modo di pensare e di sentire. Non risulta da nulla. Che vuoi dunque da noi? Tienti il tabernacolo; e, se non t’accomoda, ricorri al tribunale.

Ma subito, come no? ricorse al tribunale, Spatolino. Poteva forse perdere? Potevano forse credere sul serio i giudici che egli avesse costruito di testa sua un tabernacolo? E poi c’era il servo, per testimonio, il servo del Ciancarella appunto, ch’era venuto a chiamarlo per incarico del padrone; e don Lagàipa c’era, con cui era andato a consigliarsi quel giorno stesso; c’era la moglie poi, a cui egli l’aveva detto, e i manovali che avevano lavorato con lui, tutto quel tempo. Come poteva perdere?

Perdette, perdette, sissignori. Perdette, perché il servo del Ciancarella, passato ora al servizio dei Montoro, andò a deporre che aveva chiamato sí Spatolino per incarico del padrone, sant’anima; ma non certo perché il padrone, sant’anima, avesse in mente di dargli l’incarico di costruire quel tabernacolo lí, bensí perché dal giardiniere, ora morto, (guarda combinazione!) aveva sentito dire che Spatolino aveva lui l’intenzione di costruire un tabernacolo proprio lí, dirimpetto al cancello, e aveva voluto avvertirlo che il pezzo di terra dall’altra parte dello stradone gli apparteneva, e che dunque si fosse guardato bene dal costruirvi una minchioneria di quel genere. Soggiunse che anzi, avendo egli un giorno detto al padrone, sant’anima, che Spatolino, non ostante il divieto, scavava di là con tre manovali, il padrone, sant’anima, gli aveva risposto:

– E lascialo scavare, non lo sai ch’è matto? Cerca forse il tesoro per terminare la chiesa di Santa Caterina! – A nulla giovò la testimonianza di don Lagàipa, notoriamente ispiratore a Spatolino di tante altre follie. Che piú? Gli stessi manovali deposero che non avevano veduto mai il Ciancarella e che la mercede giornaliera l’avevano ricevuta sempre dal capomastro.

Spatolino scappò via dalla sala del tribunale come levato di cervello; non tanto per la perdita del suo capitaluccio, buttato lí, nella costruzione di quel tabernacolo; non tanto per le spese del processo a cui, per giunta, era stato condannato; quanto per il crollo della sua fede nella giustizia divina.

– Ma dunque, – andava dicendo, – dunque non c’è piú Dio?

Istigato da don Lagàipa, s’appellò. Fu il tracollo. Il giorno che gli arrivò la notizia che anche in Corte d’appello aveva perduto, Spatolino non fiatò: con gli ultimi soldi che gli erano rimasti in tasca, comprò un metro e mezzo di tela bambagina rossa, tre sacchi vecchi e ritornò a casa.

– Fammi una tonaca! – disse alla moglie, buttandole i tre sacchi in grembo.

La moglie lo guardò, come se non avesse inteso.

– Che vuoi fare?

– T’ho detto: fammi una tonaca… No? Me la faccio da me.

In men che non si dica, sfondò due sacchi e li cucí insieme, per lungo; fece, a quello di su, uno spacco davanti; col terzo sacco fece le maniche e le cucí intorno a due buchi praticati nel primo sacco, a cui chiuse la bocca per un tratto di qua e di là, per modo che vi restasse il largo per il collo. Ne fece un fagottino, prese la tela bambagina rossa e, senza salutar nessuno, se n’andò.

Circa un’ora dopo, si sparse per tutto il paese la notizia che Spatolino, impazzito, s’era impostato da statua di Cristo alla colonna, là, nel tabernacolo nuovo, su lo stradone, dirimpetto alla villa del Ciancarella.

– Come impostato? che vuol dire?

– Ma sí, lui, da Cristo, là dentro il tabernacolo!

– Dite davvero?

 Davvero!

E tutto un popolo accorse a vederlo, dentro il tabernacolo, dietro il cancello, insaccato in quella tonaca con le marche del droghiere ancora lí stampate, la tela bambagia rossa su le spalle a mo’ di mantello, una corona di spine in capo, una canna in mano.

Teneva la testa bassa, inclinata da un lato, e gli occhi a terra. Non si scompose minimamente né alle risa, né ai fischi, né a gli urli indiavolati della folla che cresceva a mano a mano. Piú d’un monello gli tirò qualche buccia; parecchi, lí, sotto il naso, gli lanciarono crudelissime ingiurie: lui, sordo, immobile, come una vera statua; solo che sbatteva di tanto in tanto le palpebre.

Né valsero a smuoverlo le preghiere, prima, le imprecazioni, poi, della moglie accorsa con le altre donne del vicinato, né il pianto dei figliuoli. Ci volle l’intervento di due guardie che, per porre fine a quella gazzarra, forzarono il cancelletto del tabernacolo e trassero Spatolino in arresto.

– Lasciatemi stare! Chi piú Cristo di me? – si mise allora a strillare Spatolino, divincolandosi. – Non vedete come mi beffano e come m’ingiuriano? Chi piú Cristo di me? Lasciatemi! Questa è casa mia! Me la son fatta io, col mio danaro e con le mie mani! Ci ho buttato il sangue mio! Lasciatemi, giudei!

Ma que’ giudei non vollero lasciarlo prima di sera.

– A casa! – gli ordinò il delegato. – A casa, e giudizio, bada!

– Sí, signor Pilato, – gli rispose Spatolino, inchinandosi.

E, quatto quatto, se ne ritornò al tabernacolo. Di nuovo, lí, si parò da Cristo; vi passò tutta la notte, e piú non se ne mosse.

Lo tentarono con la fame; lo tentarono con la paura, con lo scherno; invano.

Finalmente lo lasciarono tranquillo, come un povero matto che non faceva male a nessuno.

 

VI

Ora c’è chi gli porta l’olio per la lampada; c’è chi gli porta da mangiare e da bere; qualche donnicciola, pian piano, comincia a dirlo santo e va a raccomandarglisi perché preghi per lei e pe’ suoi; qualche altra gli ha recato una tonaca nuova, men rozza, e gli ha chiesto in compenso tre numeri da giocare al lotto.

I carrettieri, che passano di notte per lo stradone, si sono abituati a quel lampadino ch’arde nel tabernacolo, e lo vedono da lontano con piacere; si fermano un pezzo lí davanti, a conversare col povero Cristo, che sorride benevolmente a qualche loro lazzo; poi se ne vanno; il rumor dei carri si spegne a poco a poco nel silenzio; e il povero Cristo si riaddormenta, o scende a fare i suoi bisogni dietro al muro, senza piú pensare in quel momento che è parato da Cristo, con la tonaca di sacco e il mantello di bambagina rossa.

Spesso però qualche grillo, attirato dal lume, gli schizza addosso e lo sveglia di soprassalto. Allora egli si rimette a pregare; ma non è raro il caso che, durante la preghiera, un altro grillo, l’antico grillo canterino si ridesti ancora in lui. Spatolino si scosta dalla fronte la corona di spine, a cui già s’è abituato, e – grattandosi lí, dove le spine gli han lasciato il segno – con gli occhi invagati, si rimette a fischiettare:

– Fififí… fififí… fififí…

1.5 Difesa del Mèola
(Tonache di Montelusa)

Ho tanto raccomandato ai miei concittadini di Montelusa di non condannare cosí a occhi chiusi il Mèola, se non vogliono macchiarsi della piú nera ingratitudine.

Il Mèola ha rubato.

Il Mèola s’è arricchito.

Il Mèola probabilmente domani si metterà a far l’usurajo.

Sí. Ma pensiamo, signori miei, a chi e perché ha rubato il Mèola. Pensiamo che è niente il bene che il Mèola ha fatto a se stesso rubando, se lo confrontiamo col bene che da quel suo furto è derivato alla nostra amatissima Montelusa.

Io per me non so tollerare in pace che i miei concittadini, riconoscendo da un canto questo bene, seguitino dall’altro a condannare il Mèola e a rendergli se non proprio impossibile, difficilissima la vita nel nostro paese.

Ragion per cui m’appello al giudizio di quanti sono in Italia liberali equanimi e ben pensanti.

Un incubo orrendo gravava su tutti noi Montelusani, da undici anni: dal giorno nefasto che Monsignor Vitangelo Partanna, per istanze e mali uffizii di potenti prelati a Roma, ottenne il nostro vescovado.

Avvezzi com’eravamo da tempo al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza dell’Eccell.mo nostro Monsignor Vivaldi (Dio l’abbia in gloria!), tutti noi Montelusani ci sentimmo stringere il cuore, allorché vedemmo per la prima volta scendere dall’alto e vetusto Palazzo Vescovile, a piedi tra i due segretarii, incontro al sorriso della nostra perenne primavera, lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo: alto, curvo su la sua trista magrezza, proteso il collo, le tumide e livide labbra in fuori, nello sforzo di tener ritta la faccia incartapecorita, con gli occhialacci neri su l’adunco naso.

I due segretarii, il vecchio don Antonio Sclepis, zio del Mèola, e il giovane don Arturo Filomarino (che durò poco in carica), si tenevano un passo indietro e andavano interiti e come sospesi, consci dell’orribile impressione che Sua Eccellenza destava in tutta la cittadinanza.

E infatti parve a tutti che il cielo, il gajo aspetto della nostra bianca cittadina s’oscurassero a quell’apparizione ispida, lugubre. Un brulichío sommesso, quasi di raccapriccio, si propagò al passaggio di lui per tutti gli alberi del lungo e ridente viale del Paradiso, vanto della nostra Montelusa, terminato laggiú da due azzurri: quello aspro e denso del mare, quello tenue e vano del cielo.

Difetto precipuo di noi Montelusani è senza dubbio l’impressionabilità. Le impressioni, a cui andiamo cosí facilmente soggetti, possono a lungo su le nostre opinioni, su i nostri sentimenti, e ci inducono nell’animo mutamenti sensibilissimi e durevoli.

Un vescovo a piedi? Da che il Vescovado sedeva lassú come una fortezza in cima al paese, tutti i Montelusani avevan sempre veduto scendere in carrozza i loro vescovi al viale del Paradiso. Ma vescovado, disse Monsignor Partanna fin dal primo giorno, insediandosi, è nome d’opera e non d’onore. E smise la vettura, licenziò cocchieri e lacchè, vendette cavalli e paramenti, inaugurando la piú gretta tirchieria.

Pensammo dapprima:

«Vorrà fare economia. Ha molti parenti poveri nella sua nativa Pisanello.»

Se non che, venne un giorno da Pisanello a Montelusa uno di questi parenti poveri, un suo fratello appunto, padre di nove figliuoli, a pregarlo in ginocchio a mani giunte, come si pregano i santi, perché gli desse ajuto, tanto almeno da pagare i medici che dovevano operar la moglie moribonda. Non volle dargli nemmeno da pagarsi il ritorno a Pisanello. E lo vedemmo tutti, sentimmo tutti quel che disse il pover’uomo con gli occhi gonfi di lagrime e la voce rotta dai singhiozzi nel Caffè di Pedoca, appena sceso dal Vescovado.

 

Ora, la Diocesi di Montelusa – è bene saperlo – è tra le piú ricche d’Italia.

Che voleva fare Monsignor Partanna con le rendite di essa, se negava con tanta durezza un cosí urgente soccorso a’ suoi di Pisanello?

Marco Mèola ci svelò il segreto.

L’ho presente (potrei dipingerlo), quella mattina che ci chiamò tutti, noi liberali di Montelusa, nella piazza innanzi al Caffè Pedoca. Gli tremavano le mani; le ciocche ricciute della testa leonina, rizzandosi, lo costringevano piú del solito a rincalcarsi con manate furiose il cappelluccio floscio, che non gli vuol mai sedere in capo. Era pallido e fiero. Un fremito di sdegno gli arricciava il naso di tratto in tratto.

Vive orrenda tuttora negli animi dei vecchi Montelusani la memoria della corruzione seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione, dei Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati da essi negli anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s’eran fatti strumento.

Ebbene, i Liguorini, i Liguorini voleva far tornare a Montelusa Monsignor Partanna, i Liguorini cacciati a furia di popolo quando scoppiò la rivoluzione.

Per questo egli accumulava le rendite della Diocesi.

Ed era una sfida a noi Montelusani, che il fervido amore della libertà non avevamo potuto dimostrare altrimenti, che con quella cacciata di frati, giacché, al primo annunzio dell’entrata di Garibaldi a Palermo, s’era squagliata la sbirraglia, e con essa la scarsa soldatesca borbonica di presidio a Montelusa.

Quell’unico nostro vanto voleva dunque fiaccare Monsignor Partanna.

Ci guardammo tutti negli occhi, frementi d’ira e di sdegno. Bisognava a ogni costo impedire che un tal proposito si riducesse a effetto. Ma come impedirlo?

Parve che da quel giorno il cielo s’incavernasse su Montelusa. La città prese il lutto. Il Vescovado lassú, ove colui covava il reo disegno e di giorno in giorno ne avvicinava l’attuazione, ce lo sentimmo tutti come un macigno sul petto.

Nessuno, allora, pur sapendo che Marco Mèola era nipote dello Sclepis, segretario del vescovo, dubitava della sua fede liberale. Tutti anzi ammiravano la sua forza d’animo quasi eroica, comprendendo di quanta amarezza dovesse in fondo esser cagione quella fede per lui, allevato e cresciuto come un figliuolo da quello zio prete.

I miei concittadini di Montelusa mi domandano adesso con aria di scherno:

– Ma se veramente gli sapeva di sale il pane dello zio prete, perché non si allibertava lavorando?

E dimenticano che, per esser scappato, giovinetto, dal seminario, lo Sclepis, che lo voleva a ogni costo prete come lui, lo aveva tolto dagli studii; dimenticano che tutti allora compiangevamo amaramente che per la bizza d’una chierica stizzita si dovesse perdere un ingegno di quella sorte.

Io ricordo bene che cori d’approvazione e che applausi e quanta ammirazione, allorché, sfidando i fulmini del Vescovado e l’indignazione e la vendetta dello zio, Marco Mèola, facendosi cattedra d’un tavolino del Caffè Pedoca, si mise per un’ora al giorno a commentare ai Montelusani le opere latine e volgari di Alfonso Maria de’ Liguori, segnatamente i Discorsi sacri e morali per tutte le domeniche dell’anno e Il libro delle Glorie di Maria.

Ma noi vogliamo far scontare al Mèola le frodi della nostra illusione, le aberrazioni della nostra deplorabilissima impressionabilità.

Quando il Mèola, un giorno, con aria truce, levando una mano e ponendosela poi sul petto, ci disse: – «Signori, io prometto e giuro che i liguorini non torneranno a Montelusa!» – voi, Montelusani, voleste per forza immaginare non so che diavolerie: mine, bombe, agguati, assalti notturni al Vescovado e Marco Mèola come Pietro Micca con la miccia in mano pronto a far saltare in aria vescovo e Liguorini.

Ora questo, con buona pace e sopportazione vostra, vuol dire avere una concezione dell’eroe alquanto grottesca. Con tali mezzi avrebbe potuto mai il Mèola liberar Montelusa dalla calata dei Liguorini? Il vero eroismo consiste nel sapere attemprare i mezzi all’impresa.

E Marco Mèola seppe.

 

Sonavano nell’aria che inebriava, satura di tutte le fragranze della nuova primavera, le campane delle chiese, tra i gridi festivi delle rondini guizzanti a frotte nel luminoso ardore di quel vespero indimenticabile.

Io e il Mèola passeggiavamo per il nostro viale del Paradiso, muti e assorti nei nostri pensieri.

Il Mèola a un tratto si fermò e sorrise.

– Senti, – mi disse. – queste campane piú prossime? Sono della badia di Sant’Anna. Se tu sapessi chi le suona!

– Chi le suona?

– Tre campane, tre colombelle!

Mi voltai a guardarlo, stupito del tono e dell’aria con cui aveva proferito quelle parole.

– Tre monache?

Negò col capo, e mi fe’ cenno d’attendere.

– Ascolta, – soggiunse piano. – Ora, appena tutt’e tre finiranno di sonare, l’ultima, la campanella piú piccola e piú argentina, batterà tre tocchi, timidi. Ecco… ascolta bene!

Difatti, lontano, nel silenzio del cielo, rintoccò tre volte – din din din – quella timida campanella argentina, e parve che il suono di quei tre tintinni si fondesse beato nell’aurea luminosità del crepuscolo.

– Hai inteso? – mi domandò il Mèola. – Questi tre rintocchi dicono a un felice mortale: «Io penso a te!».

Tornai a guardarlo. Aveva socchiuso gli occhi, per sospirare, e alzato il mento. Sotto la folta barba crespa gli s’intravedeva il collo taurino, bianco come l’avorio.

– Marco! – gli gridai, scotendolo per un braccio.

Egli allora scoppiò a ridere; poi, aggrottando le ciglia, mormorò:

– Mi sacrifico, amico mio, mi sacrifico! Ma sta’ pur sicuro che i Liguorini non torneranno a Montelusa.

Non potei strappargli altro di bocca per molto tempo.

Che relazione poteva esserci tra quei tre rintocchi di campana, che dicevano Io penso a te, e i Liguorini che non dovevano tornare a Montelusa? E a qual sacrifizio s’era votato il Mèola per non farli tornare?

Sapevo che nella badia di Sant’Anna egli aveva una zia, sorella dello Sclepis e della madre; sapevo che tutte le monache delle cinque badie di Montelusa odiavano anch’esse cordialmente Monsignor Partanna, perché appena insediatosi vescovo, aveva dato per esse tre disposizioni, una piú dell’altra crudele:

1ª che non dovessero piú né preparare né vendere dolci o rosolii (quei buoni dolci di miele e di pasta reale, infiocchettati e avvolti in fili d’argento! quei buoni rosolii, che sapevano d’anice e di cannella!);

2ª che non dovessero piú ricamare (neanche arredi e paramenti sacri), ma far soltanto la calzetta;

3ª che non dovessero piú avere, in fine, un confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità.

Che pianti, che angoscia disperata in tutte e cinque le badie di Montelusa, specialmente per quest’ultima disposizione! che maneggi per farla revocare!

Ma Monsignor Partanna era stato irremovibile. Forse aveva giurato a se stesso di far tutto il contrario di quel che aveva fatto il suo Eccell.mo Predecessore. Largo e cordiale con le monache, Monsignor Vivaldi (Dio l’abbia in gloria!), si recava a visitarle almeno una volta la settimana, e accettava di gran cuore i loro trattamenti, lodandone la squisitezza, e si intratteneva a lungo con esse in lieti e onesti conversari.

Monsignor Partanna, invece, non si era mai recato piú d’una volta al mese in questa o in quella badia, sempre accompagnato dai due segretarii, arcigno e duro, e non aveva mai voluto accettare, non che una tazza di caffè, neppure un bicchier d’acqua. Quante riprensioni avevano dovuto fare alle monache e alle educande le madri badesse e le vicarie per ridurle all’obbedienza e farle scendere giú nel parlatorio, quando la portinaja per annunziar la visita di Monsignore strappava a lungo la catena del campanello che strillava come un cagnolino a cui qualcuno avesse pestato una piota! Ma se le spaventava tutte con quei segnacci di croce! con quella vociaccia borbottante: – Santa, figlia, – in risposta al saluto che ciascuna gli porgeva, facendosi innanzi alla doppia grata, col viso vermiglio e gli occhi bassi:

– Vostra Eccellenza benedica!

Nessun discorso, che non fosse di chiesa. Il giovine segretario don Arturo Filomarino aveva perduto il posto per aver promesso un giorno nel parlatorio di Sant’Anna alle educande e alle monacelle piú giovani, che se lo mangiavano con gli occhi dalle grate, una pianticina di fragole da piantare nel giardino della badia.

Odiava ferocemente le donne, Monsignor Partanna. E la donna, la donna piú pericolosa, la donna umile, tenera e fedele, egli scopriva sotto il manto e le bende della monaca. Perciò ogni risposta che dava loro era come un colpo di ferula su le dita. Marco Mèola sapeva, per via dello zio segretario, di quest’odio di Monsignor Partanna per le donne. E quest’odio gli parve troppo e che, come tale, dovesse avere una ragione recondita e particolare nell’animo e nel passato di Monsignore. Si mise a cercare; ma presto troncò le ricerche, all’arrivo misterioso di una nuova educanda alla badia di Sant’Anna, d’una povera gobbetta che non poteva neanche reggere sul collo la grossa testa dai grandi occhi ovati nella macilenza squallida del viso. Questa gobbetta era nipote di Monsignor Partanna; ma una nipote di cui non sapevano nulla i parenti di Pisanello. E difatti non era arrivata da Pisanello, ma da un altro paese dell’interno, ove alcuni anni addietro il Partanna era stato parroco.

Lo stesso giorno dell’arrivo di questa nuova educanda alla badia di Sant’Anna, Marco Mèola gridò solennemente in piazza a tutti noi compagni della sua fede liberale:

– Signori, io prometto e giuro che i Liguorini non torneranno a Montelusa.

E vedemmo, stupiti, subito dopo quel giuramento solenne, cambiar vita a Marco Mèola; lo vedemmo ogni domenica e in tutte le feste del calendario ecclesiastico entrare in chiesa e sentirsi la messa; lo vedemmo a passeggio in compagnia di preti e di vecchi bigotti; lo vedemmo in gran faccende ogni qual volta si preparavano le visite pastorali nella Diocesi, che Monsignor Partanna faceva con la massima vigilanza a’ tempi voluti dai Canoni, non ostante la gran difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni e di veicoli; e lo vedemmo con lo zio far parte del seguito in quelle visite.

Tuttavia, io non volli – io solo – credere a un tradimento da parte del Mèola. Come rispose egli ai primi nostri rimproveri, alle prime nostre rimostranze? Rispose energicamente:

– Signori, lasciatemi fare!

Voi scrollaste le spalle, indignati; diffidaste di lui; credeste e gridaste al voltafaccia. Io seguitai a essergli amico e mi ebbi da lui in quel vespro indimenticabile, quando la timida campanella argentina sonò i tre rintocchi nel cielo luminoso, quella mezza confessione misteriosa.

Marco Mèola, che non era mai andato piú di una volta l’anno a visitare quella sua zia monaca a Sant’Anna, cominciò a visitarla ogni settimana in compagnia della madre. La zia monaca, nella badia di Sant’Anna, era preposta alla sorveglianza delle tre educande. Le tre educande, le tre colombelle, volevano molto bene alla loro maestra; la seguivano per tutto come i pulcini la chioccia; la seguivano anche quand’essa era chiamata in parlatorio per la visita della sorella e del nipote.

E un giorno si vide il miracolo, Monsignor Partanna, che aveva negato alle monache di quella badia la licenza, che esse avevano sempre avuta, di entrare due volte l’anno in chiesa, la mattina, a porte chiuse, per pararla con le loro mani nelle ricorrenze del Corpus Domini e della Madonna del Lume, tolse il veto, riconcesse la licenza, per le preghiere insistenti delle tre educande e segnatamente della sua nipote, quella povera gobbetta nuova arrivata.

Veramente, il miracolo si vide dopo: quando venne la festa della Madonna del Lume.

La sera della vigilia, Marco Mèola si nascose nella chiesa, a tradimento, e dormí nel confessionale del Padre della comunità. All’alba, una vettura era pronta nella piazzetta innanzi alla badia; e quando le tre educande, due belle e vivaci come rondinine in amore, l’altra gobba e asmatica, scesero con la loro maestra a parar l’altare della Madonna del Lume…

Ecco, voi dite: il Mèola ha rubato; il Mèola s’è arricchito; il Mèola probabilmente domani si metterà a far l’usurajo. Sí. Ma pensate, signori miei, pensate che di quelle tre educande non una delle due belle, ma la terza, la terza, quella misera sbiobbina asmatica e cisposa toccò a Marco Mèola di rapirsi, quand’era invece amato fervidamente anche dalle altre due! quella, proprio quella gobbetta, per impedire che i padri Liguorini tornassero a Montelusa.

Monsignor Partanna infatti – per costringere il Mèola alle nozze con la nipote rapita – dovette convertire in dote a questa nipote il fondo raccolto per il ritorno dei padri Liguorini. Monsignor Partanna è vecchio e non avrà piú tempo di rifare quel fondo.

Che aveva promesso Marco Mèola a noi liberali di Montelusa? Che i Liguorini non sarebbero tornati.

Ebbene, o signori, e non è certo ormai che i Liguorini non torneranno a Montelusa?

1.6 I Fortunati
(Tonache di Montelusa)

Una commovente processione in casa del giovine sacerdote don Arturo Filomarino.

isite di condoglianza.

Tutto il vicinato stava a spiare dalle finestre e dagli usci di strada il portoncino stinto imporrito fasciato di lutto, che cosí, mezzo chiuso e mezzo aperto, pareva la faccia rugosa di un vecchio che strizzasse un occhio per accennar furbescamente a tutti quelli che entravano, dopo l’ultima uscita – piedi avanti e testa dietro – del padrone di casa.

La curiosità, con cui il vicinato stava a spiare, faceva nascere veramente il sospetto che quelle visite avessero un significato o, piuttosto, un intento ben diverso da quello che volevano mostrare.

A ogni visitatore che entrava nel portoncino, scattavano qua e là esclamazioni di meraviglia:

– Uh, anche questo?

– Chi, chi?

– L’ingegner Franci!

– Anche lui?

Eccolo là, entrava. Ma come? un massone? un trentatré? Sissignori, anche lui. E prima e dopo di lui, quel gobbo del dottor Niscemi, l’ateo, signori miei, l’ateo; e il repubblicano e libero pensatore avvocato Rocco Turrisi, e il notajo Scimè e il cavalier Preato e il commendator Tino Laspada, consigliere di prefettura, e anche i fratelli Morlesi che, appena seduti, poverini, come se avessero le anime avvelenate di sonno, si mettevano tutt’e quattro a dormire, e il barone Cerrella, anche il barone Cerrella: i meglio, insomma, i pezzi piú grossi di Montelusa: professionisti, impiegati, negozianti…

Don Arturo Filomarino era arrivato la sera avanti da Roma, dove, appena caduto in disgrazia di Monsignor Partanna, per la pianticina di fragole promessa alle monacelle di Sant’Anna, s’era recato a studiare per addottorarsi in lettere e filosofia. Un telegramma d’urgenza lo aveva richiamato a Montelusa per il padre colto da improvviso malore. Era arrivato troppo tardi. Neanche l’amara consolazione di rivederlo per l’ultima volta!

Le quattro sorelle maritate e i cognati, dopo averlo in fretta in furia ragguagliato della sciagura fulminea e avergli rinfacciato con certi versacci di sdegno, anzi di schifo, di abominazione, che i preti suoi colleghi di Montelusa avevano preteso dal moribondo ventimila lire, venti, ventimila lire per amministrargli i santi sacramenti, come se la buon’anima non avesse già donato abbastanza a opere pie, a congregazioni di carità, e lastricato di marmo due chiese, edificato altari, regalato statue e quadri di santi, profuso a piene mani denari per tutte le feste religiose; se n’erano andati via, sbuffanti, indignati, dichiarandosi stanchi morti di tutto quello che avevano fatto in quei due giorni tremendi; e lo avevano lasciato solo, là, solo, santo Dio, con la governante, piuttosto… sí, piuttosto giovine, che il padre, buon’anima, aveva avuto la debolezza di farsi venire ultimamente da Napoli, e che già con collosa amorevolezza lo chiamava don Arturí.

Per ogni cosa che gli andasse attraverso, don Arturo aveva preso il vezzo d’appuntir le labbra e soffiare a due, a tre riprese, pian piano, passandosi le punte delle dita su le sopracciglia. Ora, poverino, a ogni don Arturí…

Ah, quelle quattro sorelle! quelle quattro sorelle! Lo avevano sempre malvisto, fin da piccino, anzi propriamente non lo avevano mai potuto soffrire, forse perché unico maschio e ultimo nato, forse perché esse, poverette, erano tutt’e quattro brutte, una piú brutta dell’altra, mentre lui bello, fino fino, biondo e riccioluto. La sua bellezza doveva parer loro doppiamente superflua, sí perché uomo e sí perché destinato fin dall’infanzia, col piacer suo, al sacerdozio. Prevedeva che sarebbero avvenute scene disgustose, scandali e liti al momento della divisione ereditaria. Già i cognati avevano fatto apporre i suggelli alla cassaforte e alla scrivania nel banco del suocero, morto intestato.

Che c’entrava intanto rinfacciare a lui ciò che i ministri di Dio avevano stimato giusto e opportuno pretendere dal padre perché morisse da buon cristiano? Ahi, per quanto crudele potesse riuscire al suo cuore di figlio, doveva pur riconoscere che la buon’anima aveva per tanti anni esercitato l’usura e senza in parte neppur quella discrezione che può almeno attenuare il peccato. Vero è che con la stessa mano, con cui aveva tolto, aveva poi anche dato, e non poco. Non erano però, a dir proprio, denari suoi. E per questo appunto, forse, i sacerdoti di Montelusa avevano stimato necessario un altro sacrifizio, all’ultimo. Egli, da parte sua, s’era votato a Dio per espiare con la rinunzia ai beni della terra il gran peccato in cui il padre era vissuto e morto. E ora, per quel che gli sarebbe toccato dell’eredità paterna, era pieno di scrupoli e si proponeva di chieder lume e consiglio a qualche suo superiore, a Monsignor Landolina per esempio, direttore del Collegio degli Oblati, sant’uomo, già suo confessore, di cui conosceva bene l’esemplare, fervidissimo zelo di carità.

Tutte quelle visite, intanto, lo imbarazzavano.

Per quel che volevano parere, data la qualità dei personaggi, rappresentavano per lui un onore immeritato; per il fine recondito che le guidava, un avvilimento crudele.

Temeva quasi d’offendere a ringraziare per quell’apparenza d’onore che gli si faceva; a non ringraziare affatto, temeva di scoprir troppo il proprio avvilimento e d’apparir doppiamente sgarbato.

D’altra parte, non sapeva bene che cosa gli volessero dire tutti quei signori, né che cosa doveva rispondere, né come regolarsi. Se sbagliava? se commetteva, senza volerlo, senza saperlo, qualche mancanza?

Egli voleva ubbidire ai suoi superiori, sempre e in tutto. Cosí, ancor senza consiglio, si sentiva proprio sperduto in mezzo a quella folla.

Prese dunque il partito di sprofondarsi su un divanuccio sgangherato in fondo allo stanzone polveroso e sguarnito, quasi bujo, e di fingersi almeno in principio cosí disfatto dal cordoglio e dallo strapazzo del viaggio, da non potere accogliere se non in silenzio tutte quelle visite.

Dal canto loro i visitatori, dopo avergli stretto la mano, sospirando e con gli occhi chiusi, si mettevano a sedere giro giro lungo le pareti e nessuno fiatava e tutti parevano immersi in quel gran cordoglio del figlio. Schivavano intanto di guardarsi l’un l’altro, come se a ciascuno facesse stizza che gli altri fossero venuti là a dimostrare la sua stessa condoglianza.

Non pareva l’ora, a tutti, di andarsene, ma ognuno aspettava che prima se n’andassero via gli altri, per dir sottovoce, a quattr’occhi, una parolina a don Arturo.

E in tal modo nessuno se ne andava.

Lo stanzone era già pieno e i nuovi arrivati non trovavan piú posto da sedere e tutti gonfiavano in silenzio e invidiavano i fratelli Morlesi che almeno non s’avvedevano del tempo che passava, perché, al solito, appena seduti, s’erano addormentati tutt’e quattro profondamente.

Alla fine, sbuffando, s’alzò per primo, o piuttosto scese dalla seggiola il barone Cerrella, piccolo e tondo come una balla, e dri dri dri, con un irritatissimo sgrigliolío delle scarpe di coppale, andò fino al divanuccio, si chinò verso don Arturo, e gli disse piano:

– Con permesso, padre Filomarino, una preghiera.

Quantunque abbattuto, don Arturo balzò in piedi:

– Eccomi, signor barone!

E lo accompagnò, attraversando tutto lo stanzone, fino alla saletta d’ingresso. Ritornò poco dopo, soffiando, a sprofondarsi nel divanuccio; ma non passarono due minuti, che un altro si alzò e venne a ripetergli:

– Con permesso, padre Filomarino, una preghiera.

Dato l’esempio, cominciò la sfilata. A uno a uno, di due minuti in due minuti, s’alzavano, e… ma dopo cinque o sei, don Arturo non aspettò piú che venissero a pregarlo fino al divanuccio in fondo allo stanzone; appena vedeva uno alzarsi, accorreva pronto e servizievole e lo accompagnava fino alla saletta.

Per uno che se n’andava però, ne sopravvenivano altri due o tre alla volta, e quel supplizio minacciava di non aver piú fine per tutta la giornata.

Fortunatamente, quando furono le tre del pomeriggio, non venne piú nessuno. Restavano nello stanzone soltanto i fratelli Morlesi, seduti uno accanto all’altro, tutt’e quattro nella stessa positura, col capo ciondoloni sul petto.

Dormivano lí da circa cinque ore.

Don Arturo non si reggeva piú su le gambe. Indicò con un gesto disperato alla giovine governante napoletana quei quattro dormienti là.

– Voi andate a mangiare, don Arturí, – disse quella.

– Mo’ ci pens’io.

Svegliati, però, dopo aver volto un bel po’ in giro gli occhi sbarrati e rossi di sonno per raccapezzarsi, i fratelli Morlesi vollero dire anch’essi la parolina in confidenza a don Arturo, e invano questi si provò a far loro intendere che non ce n’era bisogno; che già aveva capito e che avrebbe fatto di tutto per contentarli, come gli altri, fin dove gli sarebbe stato possibile. I fratelli Morlesi non volevano soltanto pregarlo come tutti gli altri di fare in modo che venisse a lui la loro cambiale nella divisione dei crediti per non cadere sotto le grinfie degli altri eredi; avevano anche da fargli notare che la loro cambiale non era già, come figurava, di mille lire, ma di sole cinquecento.

– E come? perché? – domandò, ingenua-mente, don Arturo.

Si misero a rispondergli tutt’e quattro insieme, correggendosi a vicenda e ajutandosi l’un l’altro a condurre a fine il discorso:

– Perché suo papà, buon’anima, purtroppo…

– No, purtroppo… per… per eccesso di…

– Di prudenza, ecco!

– Già, ecco… ci disse, firmate per mille…

– E tant’è vero che gli interessi…

– Come risulterà dal registro…

– Interessi del ventiquattro, don Arturí! del ventiquattro! del ventiquattro!

– Glieli abbiamo pagati soltanto per cinquecento lire, puntualmente, fino al quindici del mese scorso.

– Risulterà dal registro…

Don Arturo, come se da quelle parole sentisse ventar le fiamme dell’inferno, appuntiva le labbra e soffiava, passandosi la punta delle mani immacolate su le sopracciglia.

Si dimostrò grato della fiducia che essi, come tutti gli altri, riponevano in lui, e lasciò intravedere anche a loro quasi la speranza che egli, da buon sacerdote, non avrebbe preteso la restituzione di quei denari.

Contentarli tutti, purtroppo, non poteva: gli eredi erano cinque, e dunque a piacer suo egli non avrebbe potuto disporre che di un quinto dell’eredità.

Quando in paese si venne a sapere che don Arturo Filomarino, in casa dell’avvocato scelto per la divisione ereditaria, discutendo con gli altri eredi circa gli innumerevoli crediti cambiarii, non si era voluto contentare della proposta dei cognati, che fosse cioè nominato per essi un liquidatore di comune fiducia, il quale a mano a mano, concedendo umanamente comporti e rinnovazioni, li liquidasse agli interessi piú che onesti del cinque per cento, mentreil meno che il suocero soleva pretendere era del ventiquattro; piú che piú si raffermò in tutti i debitori la speranza che egli generosamente, con atto da vero cristiano e degno ministro di Dio, avrebbe non solo abbonato del tutto gl’interessi a quelli che avrebbero avuto la fortuna di cadere in sua mano, ma fors’anche rimessi e condonati i debiti.

E fu una nuova processione alla casa di lui. Tutti pregavano, tutti scongiuravano per esser compresi tra i fortunati, e non rifinivano di porgli sotto gli occhi e di fargli toccar con mano le miserande piaghe della loro esistenza.

Don Arturo non sapeva piú come schermirsi; aveva le labbra indolenzite dal tanto soffiare; non trovava un minuto di tempo, assediato com’era, per correre da Monsignor Landolina a consigliarsi; e gli pareva mill’anni di ritornarsene a Roma a studiare. Aveva vissuto sempre per lo studio, lui, ignaro affatto di tutte le cose del mondo.

Quando alla fine fu fatta la difficilissima ripartizione di tutti i crediti cambiarii, ed egli ebbe in mano il pacco delle cambiali che gli erano toccate, senza neppur vedere di chi fossero per non rimpiangere gli esclusi, senza neppur contare a quanto ammontassero, si recò al Collegio degli Oblati per rimettersi in tutto e per tutto al giudizio di Monsignor Landolina.

Il consiglio di questo sarebbe stato legge per lui.

     

Il Collegio degli Oblati sorgeva nel punto piú alto del paese ed era un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie; tutto bianco, all’incontro, arioso e luminoso, dentro.

Vi erano accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparavano le varie arti e i varii mestieri.

La disciplina era dura, segnatamente sotto Monsignor Landolina, e quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantavano al suono dell’organo nella chiesina del Collegio, le loro preghiere sapevan di pianto e, a udirle da giú, provenienti da quella fabbrica fosca nell’altura, accoravano come un lamento di carcerati.

Monsignor Landolina non pareva affatto che dovesse avere in sé tanta forza di dominio e cosí dura energia.

Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se la gran luce di quella bianca ariosa cameretta in cui viveva, lo avesse non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avesse reso le mani d’una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le palpebre piú esili d’un velo di cipolla.

Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.

– Oh Arturo! – disse, vedendo entrare il giovine: e, come questi gli si buttò sul petto piangendo:

– Ah, già! un gran dolore… Bene bene, figliuolo mio! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio! Tu sai com’io sono per tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Il dolore ti salva, figliuolo! E tu, per tua ventura, hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh… fece tanto, tanto male! Sia il tuo cilizio, figliuolo, il pensiero di tuo padre. E di’, quella donna? quella donna? Tu l’hai ancora in casa?

– Andrà via domani, Monsignore, – s’affrettò a rispondergli don Arturo, finendo d’asciugarsi le lagrime. – Ha dovuto preparar le sue robe…

– Bene bene, subito via, subito via. Che hai da dirmi, figliuolo mio?

Don Arturo trasse fuori il pacco delle cambiali, e subito cominciò a esporre il piato per esse coi parenti, e le visite e le lamentazioni delle vittime.

Ma Monsignor Landolina, come se quelle cambiali fossero armi diaboliche o immagini oscene, appena gli occhi si posavano su esse, tirava indietro il capo e muoveva convulsamente tutte le dita delle gracili mani diafane, quasi per paura di scottarsele, non già a toccarle, ma a vederle soltanto, e diceva al Filomarino che le teneva su le ginocchia:

– Non lí sull’abito, caro, non lí sull’abito…

Don Arturo fece per posarle su la seggiola accanto.

– Ma no, ma no… per carità, dove le posi? Non tenerle in mano, caro, non tenerle in mano…

– E allora? – domandò sospeso, perplesso, avvilito, don Arturo, anche lui con un viso disgustato e tenendole con due dita e scostando le altre, come se veramente avesse in mano un oggetto schifoso.

– Per terra, per terra, – gli suggerí Monsignor Landolina. – Caro mio, un sacerdote, tu intendi…

Don Arturo, tutto invermigliato in volto, le posò per terra e disse:

Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.

– Avevo pensato, Monsignore, di restituirle a quei poveri disgraziati…

– Disgraziati? No, perché? – lo interruppe subito Monsignor Landolina. – Chi ti dice che sono disgraziati?

– Mah… – fece don Arturo. – Il solo fatto, Monsignore, che han dovuto ricorrere a un prestito…

– I vizii, caro, i vizii! – esclamò Monsignor Landolina. – Le donne, la gola, le triste ambizioni, l’incontinenza… Che disgraziati! Gente viziosa, caro, gente viziosa. Vuoi darla a conoscere a me? Tu sei ragazzo inesperto. Non ti fidare. Piangono, si sa! È cosí facile piangere… Difficile è non peccare! Peccano allegramente; e, dopo aver peccato, piangono. Va’ va’! Te li insegno io quali sono i veri disgraziati, caro, poiché Dio t’ha ispirato a venir da me. Sono tutti questi ragazzi sotto la mia custodia qua, frutto delle colpe e dell’infamia di codesti tuoi signori disgraziati. Da’ qua, da’ qua!

E, chinandosi, con le mani fe’ cenno al Filomarino di raccattar da terra il fascio delle cambiali.

Don Arturo lo guardò, titubante. Come, ora sí? Doveva prenderle con le mani?

– Vuoi disfartene? Prendile! Prendile! – s’affrettò a rassicurarlo Monsignor Landolina. – Prendile pure con le mani, sí! Leveremo subito da esse il sigillo del demonio, e le faremo strumento di carità. Puoi ben toccarle ora, se debbono servire per i miei poverini! Tu le dai a me, eh? Le dai a me; e li faremo pagare, li faremo pagare, caro mio; vedrai se li faremo pagare, codesti tuoi signori disgraziati!

Rise, cosí dicendo, d’un riso senza suono, con le bianche labbra appuntite e con uno scotimento fitto fitto del capo.

Don Arturo avvertí, a quel riso, come un friggío per tutto il corpo, e soffiò. Ma di fronte alla sicurezza sbrigativa con cui il superiore si prendeva quei crediti a titolo di carità, non ardí replicare. Pensò a tutti quegli infelici, che si stimavano fortunati d’esser caduti in sua mano e tanto lo avevano pregato e tanto commosso col racconto delle loro miserie. Cercò di salvarli almeno dal pagamento degli interessi.

– E no! E perché? – gli diede subito su la voce Monsignor Landolina. – Dio si serve di tutto, caro mio, per le sue opere di misericordia! Di’ un po’, di’ un po’, che interessi faceva tuo padre? Eh, forti, lo so! Almeno del ventiquattro, mi par d’aver inteso. Bene; li tratteremo tutti con la stessa misura. Pagheranno tutti il ventiquattro per cento.

– Ma… sa, Monsignore… veramente, ecco… – balbettò don Arturo su le spine, – i miei coeredi, Monsignore, hanno stabilito di liquidare i loro crediti con gl’interessi del cinque, e…

– Fanno bene! ah! fanno bene! – esclamò pronto e persuaso Monsignor Landolina. – Loro sí, benissimo, perché questo è denaro che va a loro! Il nostro no, invece. Il nostro andrà ai poveri, figliuolo mio! Il caso è ben diverso, come vedi! È denaro che va ai poveri, il nostro; non a te, non a me! Ti pare che faremmo bene noi, se defraudassimo i poveri di quanto possono pretendere secondo il minimo dei patti stabiliti da tuo padre? Sian pur patti d’usura, li santifica adesso la carità! No no! Pagheranno, pagheranno gli interessi, altro che! gl’interessi del ventiquattro. Non vengono a te; non vengono a me! Denaro dei poveri, sacrosanto! Va’ pur via senza scrupoli, figliuolo mio; ritorna subito a Roma ai tuoi diletti studii, e lascia fare a me, qua. Tratterò io con codesti signori. Denaro dei poveri, denaro dei poveri… Dio ti benedica, figliuolo mio! Dio ti benedica!

E Monsignor Landolina, animato da quell’esemplare, fervidissimo zelo di carità, di cui meritamente godeva fama, arrivò fino al punto di non voler neppure riconoscere che la cambiale dei quattro poveri fratelli Morlesi che dormivano sempre, firmata per mille, fosse in realtà di cinquecento lire; e pretese da loro, come da tutti gli altri, gl’interessi del ventiquattro per cento anche su le cinquecento lire che non avevano mai avute.

E li voleva per giunta convincere, filando tra le labbra bianche que’ suoi grumetti di biascia, che fortunati erano davvero, fortunati, fortunati di fare, anche nolenti, un’opera di carità, di cui certamente il Signore avrebbe loro tenuto conto un giorno, nel mondo di là…

Piangevano?

– Eh! Il dolore vi salva, figliuoli!

1.7 Visto che non piove…
(Tonache di Montelusa)

Era ogni anno una sopraffazione indegna, una sconcia prepotenza di tutto il contadiname di Montelusa contro i poveri canonici della nostra gloriosa Cattedrale.

La statua della SS. Immacolata, custodita tutto l’anno dentro un armadio a muro nella sagrestia della chiesa di S. Francesco d’Assisi, il giorno otto dicembre, tutta parata d’ori e di gemme, col manto azzurro di seta stellato d’argento, dopo le solenni funzioni in chiesa, era condotta sul fercolo in processione per le erte vie di Montelusa, tra le vecchie casupole screpolate, pigiate, quasi l’una sull’altra; sú, sú, fino alla Cattedrale in cima al colle; e lí lasciata, la sera, ospite del patrono S. Gerlando.

Nella Cattedrale, la SS. Immacolata avrebbe dovuto rimanere dalla sera del giovedí alla mattina della domenica: due giorni e mezzo. Ma ormai, per consuetudine, parendo troppo breve questo tempo, si lasciava stare per quella prima domenica dopo la festa, e si aspettava la domenica seguente per ricondurla con una nuova e piú pomposa processione alla chiesa di S. Francesco.

Se non che, quasi ogni anno avveniva che il trasporto, quella seconda domenica, non si potesse fare per il cattivo tempo e si dovesse rimandare a un’altra domenica; e, di domenica in domenica, talvolta per piú mesi di seguito.

Ora, questo prolungamento d’ospitalità, per se stesso, non sarebbe stato niente, se la SS. Immacolata non avesse goduto per antichissimo privilegio d’una prebenda durante tutto il tempo della sua permanenza alla Cattedrale. Per tutti i giorni che la SS. Immacolata vi stava, era come se nel Capitolo ci fosse un canonico in piú: tirava, su le esequie e su tutto, proprio quanto un canonico; e i deputati della Congregazione sorvegliavano con tanto d’occhi perché nulla Le fosse detratto di quanto Le spettava, affinché piú splendida, anche coi frutti di quella prebenda, potesse ogni anno riuscire la festa in Suo onore. Questo, oltre a tutte le altre spese che gravavano sul Capitolo per quella permanenza; spese e fatiche: cioè, funzioni ogni giorno, ogni giorno predica, e spari di mortaretti e di razzi e, anche per il povero sagrestano, lunghe scampanate tutte le mattine e tutte le sere.

Forse, per amore della SS. Vergine, i canonici della Cattedrale avrebbero sopportato in pace e sottrazione e spese e fatiche, se nel contadiname di Montelusa non si fosse radicata la credenza che la SS. Immacolata volesse rimanere nella Cattedrale uno e due mesi a loro marcio dispetto; e che essi ogni anno pregassero a mani giunte il cielo che non piovesse almeno la domenica che si doveva fare il trasporto.

Giusto in quel tempo accadeva che i contadini per i loro seminati non fossero mai paghi dell’acqua che il cielo mandava; e se davvero qualche anno non pioveva, ecco che la colpa era dei canonici della Cattedrale, a cui non pareva l’ora di levarsi d’addosso la SS. Immacolata.

Ebbene, a lungo andare e a furia di sentirselo ripetere, i canonici della Cattedrale in verità s’erano presi a dispetto, non propriamente la Vergine, ma quegli zotici villanacci, e piú quei mezzi signori della Congregazione che, non contenti di tener desta nell’animo dei contadini quella sconcia credenza del loro dispetto per la Vergine, spingevano la tracotanza fino a spedirne tre o quattro ogni sabato, sul far della sera, tra i piú sfrontati, su alla piazza innanzi alla Cattedrale, con l’incarico di mettersi a passeggiare con le mani dietro la schiena e il naso all’aria, in attesa che uno del Capitolo uscisse dalla chiesa, per domandargli con un riso scemo su le labbra:

– Scusi, signor Canonico, che prevede? pioverà o non pioverà domani?

Era, come si vede, anche un’intollerabile irriverenza.

Monsignor Partanna avrebbe dovuto farla cessare a ogni costo. Tanto piú ch’era notorio a tutti che quei fratelloni della Congregazione, nella frenesia di far denari comunque, arrivavano fino a speculare indegnamente su la Madonna, mettendo anche in pegno alla banca cattolica di San Gaetano gli ori, le gemme e finanche il manto stellato, che la Madonna aveva ricevuto in dono dai fedeli divoti.

Monsignor Vescovo avrebbe dovuto ordinare che il ritorno della SS. Immacolata alla chiesa di San Francesco non andasse mai oltre la seconda domenica dopo la festa, comunque fosse il tempo, piovesse o non piovesse. Tanto, non c’era pericolo che si bagnasse sotto il magnifico baldacchino sorretto a turno dai seminaristi di piú robusta complessione.

Erano invece le donne dei contadini, le femmine dei popolo o – come ripetevano i reverendi canonici del Capitolo – le sgualdrinelle, le sgualdrinelle, che avevano paura di bagnarsi; e dicevano la Vergine! Non volevano sciuparsi gli abiti di seta, con cui si paravano per quella processione dando uno spettacolo di sacrilega vanità atteggiate tutte come la SS. Immacolata, con le mani un po’ levate e aperte innanzi al seno, piene d’anelli in tutte le dita, con lo scialle di seta appuntato con gli spilli alle spalle, gli occhi volti al cielo, e tutti i pendagli e tutti i lagrimoni degli orecchini e delle spille e dei braccialetti, ciondolanti a ogni passo.

 

Ma Monsignor Vescovo non se ne voleva dar per inteso.

Forse, ora ch’era vecchio e cadente, aveva paura di bagnarsi anche lui e di prendere un malanno, seguendo a capo scoperto il fercolo, sotto la pioggia; e poco gl’importava che il povero vicario capitolare, Monsignor Lentini, fosse ridotto, quell’anno, per le tante prediche, una al giorno, sempre su lo stesso argomento, in uno stato da far compassione finanche alle panche della chiesa.

Erano già undici domeniche, undici, dall’otto dicembre, che il pover’uomo, levando il capo dal guanciale, chiedeva con voce lamentosa alla Piconella, sua vecchia casiera, la quale ogni mattina veniva a recargli a letto il caffè:

– Piove?

E la Piconella non sapeva piú come rispondergli. Perché pareva veramente che il tempo si fosse divertito a straziare quel brav’uomo con una incredibile raffinatezza di crudeltà. Qualche domenica era aggiornato sereno, e allora la Piconella era corsa tutta esultante a darne l’annunzio al suo Monsignor Vicario:

– Il sole, il sole! Monsignor Vicario, il sole!

E il sagrestano della Cattedrale dàgli a sonare a festa le campane, din don dan, din don dan, ché certo la SS. Immacolata quella mattina, prima di mezzogiorno, se ne sarebbe andata via.

Se non che, quando già alla piazza della Cattedrale era cominciata ad affluir la gente per la processione e s’era finanche aperta la porta di ferro su la scalinata presso il seminario, donde la SS. Vergine soleva uscire ogni anno, e dal seminario erano arrivati a due a due in lungo ordine i seminaristi parati coi camici trapunti, e tutt’in giro alla piazza erano stati disposti i mortaretti, ecco sopravvenire in gran furia dal mare fra lampi e tuoni una nuova burrasca.

Il sagrestano, dàgli di nuovo a sonar tutte le campane per scongiurarla, sul fermento della folla che s’era messa intanto a protestare, indignata perché sotto quella incombente minaccia del tempo i canonici volessero mandar via a precipizio la Madonna.

E fischi e urli e invettive sotto il palazzo vescovile, finché Monsignor Vescovo, per rimettere la calma, non aveva fatto annunziare da uno de’ suoi segretarii che la processione era rimandata alla domenica seguente, tempo permettendo.

Per ben cinque domeniche su undici s’era ripetuta questa scena.

Quell’undicesima domenica, appena la piazza fu sgombra, tutti i canonici del Capitolo irruppero furenti nella casa del vicario capitolare, Monsignor Lentini. A ogni costo, a ogni costo bisognava trovare un rimedio contro quella soperchieria brutale!

Il povero vicario capitolare si reggeva la testa con le mani e guardava tutti in giro come se fosse intronato.

S’erano avventati contro lui, piú che contro gli altri, i fischi, gli urli, le minacce della folla. Ma non era intronato per questo il povero vicario capitolare. Dopo undici settimane, un’altra settimana di prediche su la SS. Immacolata! In quel momento il pover’uomo non poteva pensare ad altro, e a questo pensiero, si sentiva proprio levar di cervello.

 

Il rimedio lo trovò Monsignor Landolina, il rettore terribile del Collegio degli Oblati. Bastò che egli proferisse un nome, perché d’improvviso si sedasse l’agitazione di tutti quegli animi.

– Il Mèola! Qua ci vuole il Mèola! Amici miei, bisogna ricorrere al Mèola!

Marco Mèola, il feroce tribuno anticlericale, che quattr’anni addietro aveva giurato di salvar Montelusa da una temuta invasione di padri Liguorini, aveva ormai perduto ogni popolarità. Perché, pur essendo vero da una parte che il giuramento era stato mantenuto, non era men vero dall’altra che i mezzi adoperati e le arti che aveva dovuto usare per mantenerlo, e poi quel ratto, e poi la ricchezza che glien’era derivata, non erano valsi a dar credito alla dimostrazione ch’egli voleva fare, che il suo, cioè, era stato un sacrifizio eroico. Se la nipote di Monsignor Partanna, infatti, la educanda rapita, era brutta e gobba, belli e ballanti e sonanti erano i denari della dote che il Vescovo era stato costretto a dargli; e, in fondo, i pezzi grossi del clero montelusano, ai quali non era mai andata a sangue quella promessa del loro Vescovo di far tornare i padri Liguorini, se non amici apertamente, avevano di nascosto, anche dopo quella scappata, anzi appunto per quella scappata, seguitato a veder di buon occhio Marco Mèola.

 

Tuttavia, ora, a costui doveva senza dubbio piacere che, senza rischio di guastarsi coi segreti amici, gli si offrisse un’occasione per riconquistar la stima degli antichi compagni, il prestigio perduto di tribuno anticlericale.

 

Orbene, bisognava mandar furtivamente al Mèola due fidati amici a proporgli a nome dell’intero Capitolo di tenere per la ventura domenica una conferenza contro le feste religiose in genere, contro le processioni sacre in ispecie, togliendo a pretesto i deplorati disordini delle scorse domeniche, quegli urli, quei fischi, quelle minacce del popolo per impedire il trasporto della SS. Immacolata dalla Cattedrale alla chiesa di S. Francesco.

 

Sparso per tutto il paese con molto rumore l’annunzio di quella conferenza, si sarebbe facilmente indotto il Vescovo a pubblicare un’indignata protesta contro la patente violazione che della libertà del culto  avevano in animo di tentare i liberali di Montelusa, nemici della fede, e un invito sacro a tutti i fedeli della diocesi perché la ventura domenica, con qualunque tempo, piovesse o non piovesse, si raccogliessero nella piazza della Cattedrale a difendere da ogni possibile ingiuria la venerata immagine della SS. Immacolata.

Questa proposta di Monsignor Landolina fu accolta e approvata unanimemente dai canonici del Capitolo.

Solo quel sant’uomo del vicario, Monsignor Lentini, osò invitare i colleghi a considerare se non fosse imprudente sollevar disordini anche dall’altra parte, andare a stuzzicar quel vespajo. Ma, suggeritagli l’idea che da quella conferenza del Mèola avrebbe tratto argomento di predica per la settimana ventura contro l’intolleranza che voleva impedire ai fedeli di manifestare la propria divozione alla Vergine, con parecchi: – «Capisco, ma… capisco, ma…» – alla fine si arrese.

La trovata di Monsignor Landolina ebbe un effetto di gran lunga superiore a quello che gli stessi canonici del Capitolo se ne ripromettessero.

Dopo quattr’anni di silenzio, Marco Mèola si scagliò in piazza con le furie d’un leone affamato. Dopo due giorni di vociferazioni nel circolo degli impiegati civili, nel caffè di Pedoca, riuscí a promuovere una tale agitazione, che Monsignor Vescovo fu costretto veramente a rispondere con una fierissima pastorale e, nell’invito sacro, chiamò a raccolta per la ventura domenica non solo tutti i fedeli di Montelusa ma anche quelli dei paesi vicini.

«Piova pure a diluvio,- concludeva l’invito, – noi siamo sicuri che la piú fiera tempesta non smorzerà d’un punto il vostro sacro e fervidissimo ardore. Piova pure a diluvio, domenica ventura la SS. Immacolata uscirà dalla nostra gloriosa Cattedrale, e scortata e difesa da tutti i fedeli della Diocesi, la SS. Ospite rientrerà nella sua sede.»

Ma, neanche a farlo apposta, quella dodicesima domenica recò, dopo tanta e cosí lunga intemperie, il riso della primavera, il primo riso, e con tale dolcezza, che ogni turbolenza cadde d’un tratto, come per incanto, dagli animi.

Al suono festivo delle campane, nell’aria chiara, tutti i Montelusani uscirono a inebriarsi del voluttuoso tepore del primo sole della nuova stagione; ed era su tutte le labbra un liquido sorriso di beatitudine e in tutte le membra un delizioso languore, un’accorata voglia d’abbandonarsi in cordiali abbracci fraterni.

Allora il vicario capitolare Monsignor Lentini, che dal lunedí al sabato di quella dodicesima settimana aveva dovuto fare altre sei prediche su la SS. Immacolata, con un filo di voce chiamò attorno a sé i canonici del Capitolo e domandò loro, se non si potesse in qualche modo impedire lo scandalo ormai inutile di quella conferenza anticlericale del Mèola, per cui si sentiva come una spina nel cuore.

Si poteva esser certi che né per quel giorno sarebbe piovuto, né piú per mesi. Non poteva il Mèola darsi per ammalato e rimandar la conferenza ad altro tempo, all’anno venturo magari, per la seconda domenica di pioggia dopo l’otto dicembre?

– Eh già! Sicuro! – riconobbero subito i canonici. – Cosí il rimedio non andrebbe sciupato!

I due fidati amici dell’altra volta furono rimandati in gran fretta dal Mèola. Un raffreddore, una costipazione, un attacco di gotta, un improvviso abbassamento di voce:

– Visto che non piove…

Il Mèola recalcitrò, inferocito. Rinunziare? rimandare? Ah no, perdio, si pretendeva troppo da lui, ora ch’era riuscito a riacciuffare il favore dei liberali di Montelusa!

– Va bene, – gli dissero quei due amici. – Se pioveva… Ma visto che non piove…

– Visto che non piove, – tuonò il Mèola – il signor Prefetto della provincia che fa? Potrebbe lui solo, lui solo per ragioni d’ordine pubblico, proibire ormai la conferenza! Andate subito dal Prefetto, visto che non piove, e io potrò anche ricevere a letto, fra un’ora, con un febbrone da cavallo, l’annunzio della proibizione!

Cosí la SS. Immacolata ritornò, senz’alcun disordine, alla chiesa di S. Francesco d’Assisi dopo dodici domeniche di permanenza alla Cattedrale, il giorno 25 di febbrajo. E il giubilo del popolo fu quell’anno veramente straordinario per la sconfitta data dal bel tempo ai liberali di Montelusa.

1.8 Formalità

Nell’ampio scrittojo del Banco Orsani, il vecchio commesso Carlo Bertone con la papalina in capo, le lenti su la punta del naso come per spremere dalle narici quei due ciuffetti di peli grigi, stava a fare un conto assai difficile in piedi innanzi a un’alta scrivania, su cui era aperto un grosso libro mastro. Dietro a lui, Gabriele Orsani, molto pallido e con gli occhi infossati, seguiva l’operazione, spronando di tratto in tratto con la voce il vecchio commesso, a cui, a mano a mano che la somma ingrossava, pareva mancasse l’animo d’arrivare in fondo.

– Queste lenti… maledette! – esclamò a un certo punto, con uno scatto d’impazienza, facendo saltare con una ditata le lenti dalla punta del naso sul registro.

Gabriele Orsani scoppiò a ridere:

– Che ti fanno vedere codeste lenti? Povero vecchio mio, vah! Zero via zero, zero…

Allora il Bertone, stizzito, prese dalla scrivania il grosso libro:

– Vuol lasciarmi andare di là? Qua, con lei che fa cosí, creda, non è possibile… Calma ci vuole!

– Bravo Carlo, sí, – approvò l’Orsani ironicamente. – Calma, calma… E intanto – aggiunse, indicando il registro, – ti porti appresso codesto mare in tempesta.

Andò a buttarsi su una sedia a sdrajo presso la finestra e accese una sigaretta.

La tenda turchina, che teneva la stanza in una grata penombra, si gonfiava a quando a quando a un buffo d’aria che veniva dal mare. Entrava allora con la subita luce piú forte il fragore del mare che si rompeva alla spiaggia.

Prima d’uscire, il Bertone propose al principale di dare ascolto a un signore «curioso» che aspettava di là: nel frattempo lui avrebbe atteso in pace a quel conto molto complicato.

– Curioso? – domandò Gabriele. – E chi è?

– Non so: aspetta da mezz’ora. Lo manda il dottor Sarti.

– E allora fallo passare.

Entrò, poco dopo, un ometto su i cinquant’anni, dai capelli grigi, pettinati a farfalla, svolazzanti. Sembrava un fantoccio automatico, a cui qualcuno di là avesse dato corda per fargli porgere quegli inchini e trinciar quei gesti comicissimi.

Mani, ne aveva ancora due; occhi, uno solo; ma egli forse credeva sul serio di dare a intendere d’averne ancora due, riparando l’occhio di vetro con una caramella, la quale pareva stentasse terribilmente a correggergli quel piccolo difetto di vista.

Presentò all’Orsani il suo biglietto da visita cosí concepito:

LAPO VANNETTI
Ispettore della
London Life Assurance Society Limited
(Capit. sociale L. 4.500.000 – Capit. versato L. 2.559.400)

– Prezatissimo signore! – cominciò, e non la finí piú.

Oltre al difetto di vista, ne aveva un altro di pronunzia; e come cercava di riparar quello dietro la caramella, cercava di nasconder questo appoggiando una risatina sopra ogni zeta ch’egli pronunziava in luogo della c e della g.

Invano l’Orsani si provò piú volte a interromperlo.

– Son di passazzo per questa rispettabilissima provinzia, – badava a dir l’ometto imperterrito, con vertiginosa loquela, – dove che per merito della nostra Sozietà, la piú antica, la piú autorevole di quante ne esistano  su lo stesso zenere, ho concluso ottimi, ottimi contratti, sissignore, in tutte le spezialissime combinazioni che essa offre ai suoi assoziati, senza dire dei vantazzi ezzezionali, che brevemente le esporrò per ogni combinazione, a sua scelta.

Gabriele Orsani si avvilí; ma il signor Vannetti vi pose subito riparo: cominciò a far tutto da sé: domande e risposte, a proporsi dubbii e a darsi schiarimenti:

– Qui Lei, zentilissimo signore, eh, lo so! potrebbe dirmi, obbiettarmi: Ecco, sí, caro Vannetti, d’accordo: piena fiduzia nella vostra Compagnia; ma, come si fa? per me è un po’ troppo forte, poniamo, codesta tariffa; non ho tanto marzine nel mio bilanzio, e allora… (ognuno sa gli affari di casa sua, e qui Lei dize benissimo: Su questo punto, caro Vannetti, non ammetto discussioni). Ecco, io però, zentilissi-mo signore, mi permetto di farle osservare: E gli spezialissimi vantazzi che offre la nostra Compagnia? Eh, lo so, dize Lei: tutte le Compagnie, qual piú qual meno, ne offrono. No, no, mi perdoni, signore, se oso mettere in dubbio codesta sua asserzione. I vantazzi…

A questo punto, l’Orsani, vedendogli trarre da una cartella di cuojo un fascio di prospettini a stampa, protese le mani, come in difesa:

– Scusi, – gridò. – Ho letto in un giornale che una Compagnia ha assicurato non so per quanto la mano d’un celebre violinista: è vero?

Il signor Lapo Vannetti rimase per un istante sconcertato: poi sorrise e disse:

– Americanate! Sissignore. Ma noi…

– Glielo domando, – riprese, senza perder tempo, Gabriele, – perché anch’io, una volta, sa?…

E fece segno di sonare il violino.

Il Vannetti, ancora non ben rimesso, credette opportuno congratularsene:

– Ah, benissimo! benissimo! Ma noi, scusi, veramente, non fazziamo di queste operazioni.

– Sarebbe molto utile, però! – sospirò l’Orsani levandosi in piedi. – Potersi assicurare tutto ciò che si lascia o si perde lungo il cammino della vita: i capelli! i denti, per esempio! E la testa? La testa che si perde cosí facilmente… Ecco: il violinista, la mano; uno zerbinotto, i capelli; un crapulone, i denti; un uomo d’affari, la testa… Ci pensi! È una trovata.

Si recò a premere un campanello elettrico alla parete, presso la scrivania, soggiungendo:

– Permetta un momento, caro signore.

Il Vannetti, mortificato, s’inchinò. Gli parve che l’Orsani, per cavarselo dai piedi, avesse voluto fare un’allusione, veramente poco gentile, al suo occhio di vetro.

Rientrò nello scrittojo il Bertone, con un’aria vie piú smarrita.

– Nel casellario del palchetto della tua scrivania, – gli disse Gabriele, – alla lettera Z…

– I conti della zolfara? – domandò il Bertone.

– Gli ultimi, dopo la costruzione del piano inclinato…

Carlo Bertone chinò piú volte il capo:

– Ne ho tenuto conto.

L’Orsani scrutò negli occhi del vecchio commesso; rimase accigliato, assorto; poi gli domandò:

– Ebbene?

Il Bertone, impacciato, guardò il Vannetti.

Questi allora comprese ch’era di troppo, in quel momento; e, riprendendo il suo fare cerimonioso, tolse commiato.

– Non z’è bisogno d’altro, con me. Capisco a volo. Mi ritiro. Vuol dire che, se non Le dispiaze, io vado a prendere un bocconzino qui presso, e ritorno. Non se ne curi. Stia comodo, per carità! So la via. A rivederla.

Ancora un inchino, e via.

 

II  

– Ebbene? – domandò di nuovo Gabriele Orsani al vecchio commesso, appena uscito il Vannetti.

– Quella… quella costruzione… giusto adesso, – rispose, quasi balbettando, il Bertone.

Gabriele s’adirò.

– Quante volte me l’hai detto? Che volevi che facessi, d’altra parte? Rescindere il contratto, è vero? Ma se per tutti i creditori quella zolfara rappresenta ancora la speranza della mia solvibilità… Lo so! lo so! Sono state piú di centotrenta mila lire buttate lí, in questo momento, senza frutto… Lo so meglio di te!… Non mi far gridare.

Il Bertone si passò piú volte le mani su gli occhi stanchi; poi, dandosi buffetti su la manica, dove non c’era neppur l’ombra della polvere, disse piano, come a se stesso:

– Ci fosse modo, almeno, d’aver danaro per muovere ora tutto quel macchinario, che… che non è neanche interamente pagato. Ma abbiamo anche le scadenze delle cambiali alla Banca…

Gabriele Orsani, che s’era messo a passeggiare per lo scrittojo, con le mani in tasca, accigliato, s’arrestò:

– Quanto?

– Eh… – sospirò il Bertone.

– Eh… – rifece Gabriele; poi, scattando: – Oh, insomma! Dimmi tutto. Parla franco: è finita? capitombolo? Sia lodata e ringraziata la buona e santa memoria di mio padre! Volle mettermi qua, per forza: io ho fatto quello che dovevo fare: tabula rasa: non se ne parli piú!

– Ma no, non si disperi, ora… – disse il Bertone, commosso. – Certo lo stato delle cose… Mi lasci dire!

Gabriele Orsani posò le mani su le spalle del vecchio commesso:

– Ma che vuoi dire, vecchio mio, che vuoi dire? Tremi tutto. Non cosí, ora; prima, prima, con l’autorità che ti veniva da codesti capelli bianchi, dovevi opporti a me, ai miei disegni, consigliarmi allora, tu che mi sapevi inetto agli affari. Vorresti illudermi, ora, cosí? Mi fai pietà!

– Che potevo io?… – fece il Bertone, con le lagrime agli occhi.

– Nulla! – esclamò l’Orsani. – E neanche io. Ho bisogno di pigliarmela con qualcuno, non te ne curare. Ma, possibile? io, io, qua, messo agli affari? Se non so vedere ancora quali siano stati, in fondo, i miei sbagli… Lascia quest’ultimo della costruzione del piano inclinato, a cui mi son veduto costretto con l’acqua alla gola… Quali sono stati i miei sbagli?

Il Bertone si strinse nelle spalle, chiuse gli occhi e aprí le mani, come per dire: Che giova adesso?

– Piuttosto, i rimedii… – suggerí con voce opaca, di pianto.

Gabriele Orsani scoppiò di nuovo a ridere.

– Il rimedio lo so! Riprendere il mio vecchio violino, quello che mio padre mi tolse dalle mani per dannarmi qua, a questo bel divertimento, e andarmene come un cieco, di porta in porta, a far le sonatine per dare un tozzo di pane ai miei figliuoli. Che te ne pare?

– Mi lasci dire, – ripeté il Bertone, socchiudendo gli occhi. – Tutto sommato, se possiamo superare queste prossime scadenze, restringendo, naturalmente, tutte, tutte le spese (anche quelle… mi scusi!… su, di casa), credo che… almeno per quattro o cinque mesi potremo far fronte agli impegni. Nel frattempo…

Gabriele Orsani scrollò il capo, sorrise; poi, traendo un lungo sospiro, disse:

– Fra Tempo è un monaco, vecchio mio, che vuol crearmi illusioni!

Ma il Bertone insistette nelle sue previsioni e uscí dallo scrittojo per finir di stendere l’intero quadro dei conti.

– Glielo farò vedere. Mi permetta un momento.

Gabriele andò a buttarsi di nuovo su la sedia a sdrajo presso la finestra e, con le mani intrecciate dietro la nuca, si mise a pensare.

Nessuno ancora sospettava di nulla; ma per lui, ormai, nessun dubbio: qualche mese ancora di disperati espedienti, e poi il crollo, la rovina.

 

Da circa venti giorni, non si staccava piú dallo scrittojo. Come se lí, dal palchetto della scrivania, dai grossi libri di cassa, aspettasse al varco qualche suggerimento. La violenta, inutile tensione del cervello a mano a mano però, contro ogni sforzo, gli s’allentava, la volontà gli s’istupidiva; ed egli se ne accorgeva sol quando, alla fine, si ritrovava attonito o assorto in pensieri alieni, lontani dall’assiduo tormento.

Tornava allora a rimpiangere, con crescente esasperazione, la sua cieca, supina obbedienza alla volontà del padre, che lo aveva tolto allo studio prediletto delle scienze matematiche, alla passione per la musica, e gettato lí in quel torbido mare insidioso dei negozii commerciali. Dopo tanti anni, risentiva ancor vivo lo strazio che aveva provato nel lasciar Roma. Se n’era venuto in Sicilia con la laurea di dottore in scienze fisiche e matematiche, con un violino e un usignuolo. Beata incoscienza! Aveva sperato di potere attendere ancora alla scienza prediletta, al prediletto strumento, nei ritagli di tempo che i complicati negozii del padre gli avrebbero lasciato liberi. Beata incoscienza! Una volta sola, circa tre mesi dopo il suo arrivo, aveva cavato dalla custodia il violino, ma per chiudervi dentro, come in una degna tomba, l’usignoletto morto e imbalsamato.

E ancora domandava a se stesso come mai il padre, tanto esperto nelle sue faccende, non si fosse accorto dell’assoluta inettitudine del figliuolo. Gli aveva forse fatto velo la passione ch’egli aveva del commercio, il desiderio che l’antica ditta Orsani non venisse a cessare, e s’era forse lusingato che, con la pratica degli affari, con l’allettamento dei grossi guadagni, a poco a poco il figlio sarebbe riuscito ad adattarsi e a prender gusto a quel genere di vita.

Ma perché lagnarsi del padre, se egli si era piegato ai voleri di lui senza opporre la minima resistenza, senza arrischiar neppure la piú timida osservazione, come a un patto fin dalla nascita stabilito e concluso e ormai non piú discutibile?, se egli stesso, proprio per sottrarsi alle tentazioni che potevano venirgli dall’ideale di vita ben diverso, fin allora vagheggiato, s’era indotto a prender moglie, a sposar colei che gli era stata destinata da gran tempo: la cugina orfana, Flavia?

Come tutte le donne di quell’odiato paese, in cui gli uomini, nella briga, nella costernazione assidua degli affari rischiosi, non trovavan mai tempo da dedicare all’amore, Flavia, che avrebbe potuto essere per lui l’unica rosa lí tra le spine, s’era invece acconciata subito, senza rammarico, come d’intesa, alla parte modesta di badare alla casa, perché nulla mancasse al marito dei comodi materiali, quando stanco, spossato, ritornava dalle zolfare o dal banco o dai depositi di zolfo lungo la spiaggia, dove, sotto il sole cocente, egli aveva atteso tutto il giorno all’esportazione del minerale.

Morto il padre quasi repentinamente, era rimasto a capo dell’azienda, nella quale ancora non sapeva veder chiaro. Solo, senza guida, aveva sperato per un momento di poter liquidare tutto e ritirarsi dal commercio. Ma sí! Quasi tutto il capitale era impegnato nella lavorazione delle zolfare. E s’era allora rassegnato ad andare innanzi per quella via, togliendo a guida quel buon uomo del Bertone, vecchio scritturale del banco, a cui il padre aveva sempre accordato la massima fiducia.

Che smarrimento sotto il peso della responsabilità piombatagli addosso d’improvviso, resa anche piú grave dal rimorso d’aver messo al mondo tre figliuoli, minacciati ora dalla sua inettitudine nel benessere, nella vita! Ah egli, fino allora, non ci aveva pensato: bestia bendata, alla stanga d’una macina. Era stato sempre doglioso il suo amore per la moglie, pe’ figliuoli, testimonii viventi della sua rinunzia a un’altra vita; ma ora gli attossicava il cuore d’amara compassione. Non poteva piú sentir piangere i bambini o che si lamentassero minimamente; diceva subito a se stesso:

– «Ecco, per causa mia!» – e tanta amarezza gli restava chiusa in petto, senza sfogo. Flavia non s’era mai curata nemmeno di cercar la via per entrargli nel cuore; ma forse, nel vederlo mesto, assorto e taciturno, non aveva mai neppur supposto ch’egli chiudesse in sé qualche pensiero estraneo agli affari. Anch’ella forse si rammaricava in cuor suo dell’abbandono in cui egli la lasciava; ma non sapeva muovergliene rimprovero, supponendo che vi fosse costretto dalle intricate faccende, dalle cure tormentose della sua azienda.

E certe sere vedeva la moglie appoggiata alla ringhiera dell’ampio terrazzo della casa, alle cui mura veniva quasi a battere il mare.

Da quel terrazzo che pareva il cassero d’una nave, ella guardava assorta nella notte sfavillante di stelle, piena del cupo eterno lamento di quell’infinita distesa d’acque, innanzi a cui gli uomini avevano con fiducia animosa costruito le lor piccole case, ponendo la loro vita quasi alla mercé d’altre lontane genti. Veniva di tanto in tanto dal porto il fischio roco, profondo, malinconico di qualche vapore che s’apparecchiava a salpare. Che pensava in quell’atteggiamento? Forse anche a lei il mare, col lamento delle acque irrequiete, confidava oscuri presagi.

Egli non la richiamava: sapeva, sapeva bene che ella non poteva entrare nel mondo di lui, giacché entrambi a forza erano stati spinti a lasciar la propria via. E lí, nel terrazzo, sentiva riempirsi gli occhi di lagrime silenziose. Cosí, sempre, fino alla morte, senza nessun mutamento? Nell’intensa commozione di quelle tetre sere, l’immobilità della condizione della propria esistenza gli riusciva intollerabile, gli suggeriva pensieri subiti, strani, quasi lampi di follia. Come mai un uomo, sapendo bene che si vive una volta sola, poteva acconciarsi a seguire per tutta la vita una via odiosa? E pensava a tanti altri infelici, costretti dalla sorte a mestieri piú aspri e piú ingrati. Talvolta, un noto pianto, il pianto di qualcuno dei figliuoli lo richiamava d’improvviso a sé. Anche Flavia si scoteva dal suo fantasticare; ma egli si affrettava a dire: – Vado io! – Toglieva dal lettuccio il bambino e si metteva a passeggiare per la camera, cullandolo tra le braccia, per riaddormentarlo e quasi per addormentare insieme la sua pena. A poco a poco, col sonno della creaturina, la notte diveniva piú tranquilla anche per lui; e, rimesso sul lettuccio il bambino, si fermava un tratto a guardare attraverso i vetri della finestra, nel cielo, la stella che brillava di piú…

 

Erano passati cosí nove anni. Sul principio di quest’anno, proprio quando la posizione finanziaria cominciava a infoscarsi, Flavia s’era messa a eccedere un po’ troppo in certe spese di lusso; aveva voluto anche per sé una carrozza; ed egli non aveva saputo opporsi.

Ora il Bertone gli consigliava di limitar tutte le spese e anche, anzi specialmente, quelle di casa.

Certo il dottor Sarti, suo intimo amico fin dall’infanzia, aveva consigliato a Flavia di cangiar vita, di darsi un po’ di svago, per vincere la depressione nervosa che tanti anni di chiusa, monotona esistenza le avevano cagionato. A questa riflessione, Gabriele si scosse, si levò dalla sedia a sdrajo e si mise a passeggiare per lo scrittojo, pensando ora all’amico Lucio Sarti, con un sentimento d’invidia e con dispetto.

Erano stati insieme a Roma, studenti.

Tanto l’uno che l’altro, allora, non potevano stare un sol giorno senza vedersi; e, fino a poco tempo addietro, quel legame antico di fraterna amicizia non si era affatto rallentato. Egli si vietava assolutamente di fondar la ragione di tal cambiamento su una impressione avuta durante l’ultima malattia d’uno dei suoi bambini: che il Sarti cioè avesse mostrato esagerate premure per sua moglie: impressione e null’altro, conoscendo a prova la rigidissima onestà dell’amico e della moglie.

Era vero e innegabile tuttavia che Flavia s’accordava in tutto e per tutto col modo di pensare del dottore: nelle discussioni, da qualche tempo molto frequenti, ella assentiva sempre col capo alle parole di lui, ella che, di solito, in casa, non parlava mai. Se n’era stizzito. O se ella approvava quelle idee, perché non gliele aveva manifestate prima? perché non s’era messa a discutere con lui intorno all’educazione dei figliuoli, per esempio, se approvava i rigidi criterii del dottore, anziché i suoi? Ed era arrivato finanche ad accusar la moglie di poco affetto pe’ figli. Ma doveva pur dire cosí, se ella, stimando in coscienza che egli educasse male i figliuoli, aveva sempre taciuto, aspettando che un altro ne movesse il discorso.

Il Sarti, del resto, non avrebbe dovuto immischiarsene. Da un pezzo in qua, pareva a Gabriele che l’amico dimenticasse troppe cose: dimenticasse per esempio di dover tutto, o quasi tutto, a lui.

Chi, se non lui, infatti, lo aveva sollevato dalla miseria in cui le colpe dei genitori lo avevano gettato? Il padre gli era morto in galera, per furti; dalla madre, che lo aveva condotto con sé nella prossima città, era fuggito, non appena con l’uso della ragione aveva potuto intravedere a quali tristi espedienti era ricorsa per vivere. Ebbene, egli lo aveva tolto da un misero caffeuccio in cui s’era ridotto a prestar servizio e gli aveva trovato un posticino nel banco del padre; gli aveva prestato i suoi libri, i suoi appunti di scuola, per farlo studiare; gli aveva insomma aperto la via, schiuso l’avvenire.

E ora, ecco: il Sarti s’era fatto uno stato tranquillo e sicuro col suo lavoro, con le sue doti naturali, senza dover rinunziare a nulla: era un uomo; mentre lui… lui, all’orlo di un abisso!

Due colpi all’uscio a vetri, che dava nelle stanze riserbate all’abitazione, riscossero Gabriele da queste amare riflessioni.

– Avanti, – disse.

E Flavia entrò.

 

III

Indossava un vestito azzurro cupo, che pareva dipinto su la flessibile e formosa persona, alla cui bellezza bionda dava un meraviglioso risalto. Portava in capo un ricco e pur semplice cappello scuro; si abbottonava ancora i guanti.

– Volevo domandarti, – disse, – se non ti occorreva la carrozza, perchè il bajo oggi non si può attaccare alla mia.

Gabriele la guardò, come se ella venisse, cosí elegante e leggera, da un mondo fittizio, vaporoso, di sogno, dove si parlasse un linguaggio ormai per lui del tutto incomprensibile.

– Come? – disse. – Perché?

– Mah, pare che l’abbiano inchiodato, poverino. Zoppica da un piede.

– Chi?

– Il bajo, non senti?

– Ah, – fece Gabriele, riscotendosi. – Che disgrazia, perbacco!

– Non pretendo che te ne affligga, – disse Flavia, risentita. – Ti ho domandato la carrozza. Andrò a piedi.

E s’avviò per uscire.

– Puoi prenderla; non mi serve, – s’affrettò allora a soggiungere Gabriele. – Esci sola?

– Con Carluccio, Aldo e la Titti sono in castigo.

– Poveri piccini! – sospirò Gabriele, quasi senza volerlo.

Parve a Flavia che questa commiserazione fosse un rimprovero per lei, e pregò il marito di lasciarla fare.

– Ma sí, sí, se hanno fatto male, – diss’egli allora. – Pensavo che, senza aver fatto nulla, si sentiranno forse, tra qualche mese, cader sul capo un ben piú grosso castigo.

Flavia si voltò a guardarlo.     

– Sarebbe?

– Nulla, cara. Una cosa lievissima, come il velo o una piuma di codesto cappello. La rovina, per esempio, della nostra casa. Ti basta?

– La rovina?

– La miseria, sí. E peggio forse, per me.

– Che dici?

– Ma sí, fors’anche… Ti fo stupire?

Flavia s’appressò, turbata, con gli occhi fissi sul marito, come in dubbio ch’egli non dicesse sul serio.

Gabriele, con un sorriso nervoso su le labbra, rispose piano, con calma, alle trepide domande di lei, come se non si trattasse della propria rovina; poi nel veder la moglie sconvolta:

– Eh, mia cara! – esclamò. – Se ti fossi curata un tantino di me, se avessi, in tanti anni, cercato d’intendere che piacere mi procurava questo mio grazioso lavoro, non proveresti ora tanto stupore. Non tutti i sacrifizi sono possibili. E quando un pover’uomo è costretto a farne uno superiore alle proprie forze…

– Costretto? Chi t’ha costretto? – disse Flavia, interrompendolo, poiché egli con la voce aveva pigiato su quella parola.

Gabriele guardò la moglie, come frastornato dall’interruzione e dall’atteggiamento di sfida, ch’ella, dominando ora l’interna agitazione, assumeva di fronte a lui. Sentí come un rigurgito di bile salirgli alla gola e inaridirgli la bocca. Riaprendo tuttavia le labbra al sorriso nervoso di prima, ora piú squallido, domandò:

– Spontaneamente, allora?

– Io, no! – soggiunse con forza Flavia, guardandolo negli occhi. – Se per me, avresti potuto risparmiartelo, codesto sacrifizio. La miseria piú squallida io l’avrei mille volte preferita…

– Sta’ zitta! – gridò egli infastidito. – Non lo dire, finché non sai che cosa sia!

– La miseria? Ma che n’ho avuto io, della vita?

– Ah, tu? E io?

Rimasero un pezzo accesi e vibranti, l’uno di fronte all’altra, quasi sgomenti del loro odio intimo reciproco, covato per tanti anni nascostamente e scoppiato ora, all’improvviso, senza la loro volontà.

– Perché dunque ti lagni di me? – riprese Flavia con impeto. – Se io di te non mi sono mai curata, e tu quando di me? Mi rinfacci ora il tuo sacrificio, come se non fossi stata sacrificata anch’io, e condannata qua a rappresentare per te la rinunzia alla vita che tu sognavi! E per me doveva esser questa, la vita? Non dovevo sognar altro, io? Tu, nessun dovere d’amarmi. La catena che t’imprigionava qua, a un lavoro forzato. Si può amar la catena? E io dovevo esser contenta, è vero? che tu lavorassi, e non pretendere altro da te. Non ho mai parlato. Ma tu mi provochi, ora.

Gabriele s’era nascosto il volto con le mani, mormorando di tratto in tratto: – Anche questo!… anche questo!… – Alla fine proruppe:

– E anche i miei figli, è vero? verranno qua, adesso, a buttarmi in faccia, come uno straccio inutile, il mio sacrifizio?

– Tu falsi le mie parole, – rispose ella, scrollando una spalla.

– Ma no! – seguitò Gabriele con foga mordace. – Non merito altro ringraziamento. Chiamali! Chiamali! Io li ho rovinati; e me lo rinfacceranno con ragione!

– No! – s’affrettò a dir Flavia, intenerendosi per i figliuoli. – Poveri piccini, non ti rinfacceranno la miseria… no!

Strizzò gli occhi, s’afferrò le mani e le scosse in aria.

– Come faranno? – esclamò. – Cresciuti cosí…

– Come? – scattò egli. – Senza guida, è vero? Anche questo mi butteranno in faccia? Va’, va’ ad imbeccarli! Anche i rimproveri di Lucio Sarti, per giunta?

– Che c’entra Lucio Sarti? – fece Flavia, stordita da quell’improvvisa domanda.

– Ripeti le sue parole, – incalzò Gabriele, pallidissimo, sconvolto. – Non ti resta che da metterti sul naso le sue lenti da miope.

Flavia trasse un lungo sospiro e, socchiudendo gli occhi con calmo disprezzo, disse:

– Chiunque sia per poco entrato nell’intimità della nostra casa, ha potuto accorgersi…

– No, lui! – la interruppe Gabriele, con maggior violenza. – Lui soltanto! lui che è cresciuto come un aguzzino di se stesso, perché suo padre…

S’arrestò, pentito di ciò che stava per dire, e riprese:

– Non gliene fo carico; ma dico che lui aveva ragione di vivere com’ha vissuto, vigilando, pauroso, rigido, ogni suo minimo atto: doveva sollevarsi, sotto gli occhi della gente, dalla miseria, dall’ignominia, in cui lo avevano gettato i suoi genitori. Ma i miei figliuoli, perché? Perché avrei dovuto essere un tiranno, io, per i miei figliuoli?

– Chi dice tiranno? – si provò a osservare Flavia.

– Ma liberi, liberi! – proruppe egli. – Io volevo che crescessero liberi i miei figliuoli, poiché io ero stato dannato qua da mio padre, a questo supplizio! E come un premio mi ripromettevo, unico premio! di godere della loro libertà, almeno, procacciata a costo del mio sacrifizio, della mia esistenza spezzata… inutilmente, ora, inutilmente spezzata…

A questo punto, come se l’orgasmo a mano a mano cresciuto gli si fosse a un tratto spezzato dentro, egli scoppiò in irrefrenabili singhiozzi; poi, in mezzo a quel pianto strano, convulso, quasi rabbioso, alzò le braccia tremanti, soffocato, e s’abbandonò, privo di sensi.

Flavia, smarrita, atterrita, chiamò ajuto. Accorsero dalle stanze del banco il Bertone e un altro scritturale. Gabriele fu sollevato e adagiato sul canapè, mentre Flavia, vedendogli il volto soffuso d’un pallore cadaverico e bagnato del sudore della morte, smaniava, disperata:

– Che ha? che ha? Dio, ma guardi… Ajuto!… Ah, per causa mia!…

Lo scritturale corse a chiamare il dottor Sarti, che abitava lí vicino.

– Per causa mia!… per causa mia!… – ripeteva Flavia.

– No, signora, – le disse il Bertone, tenendo amorosamente un braccio sotto il capo di Gabriele. – Da stamattina… Ma già, da un pezzo, qua… Povero figliuolo… Se lei sapesse!

– So! so!

– E che vuole, dunque? Per forza!

Intanto urgeva, urgeva un rimedio. Che fare? Bagnargli le tempie? Sí… ma meglio forse un po’ d’etere. Flavia sonò il campanello; accorse un cameriere:

– L’etere! la boccetta dell’etere: su, presto!

– Che colpo… che colpo, povero figliuolo! – si rammaricava piano il Bertone, contemplando tra le lagrime il volto del padrone.

– La rovina… proprio? – gli domandò Flavia, con un brivido.     

– Se m’avesse dato ascolto!… – sospirò il vecchio commesso. – Ma egli, poverino, non era nato per stare qui…

Ritornò di corsa il cameriere, con la boccetta dell’etere.

– Nel fazzoletto?

– No: meglio nella stessa boccetta! Qua… qua… – suggerí il Bertone. – Vi metta il dito sú… cosí, che possa aspirare pian piano…

Sopravvenne poco dopo, ansante, Lucio Sarti, seguito dallo scritturale.

Alto, dall’aspetto rigido, che toglieva ogni grazia alla fine bellezza dei lineamenti quasi femminili, il Sarti portava, molto aderenti a gli occhi acuti, un pajo di piccole lenti. Quasi senza notare la presenza di Flavia, egli scostò tutti, e si chinò a osservare Gabriele; poi, rivolto a Flavia che affollava di domande e d’esclamazioni la sua ansia angosciosa, disse con durezza:

– Non fate cosí, vi prego. Lasciatemi ascoltare.

Scoprí il petto del giacente, e vi poggiò l’orecchio, dalla parte del cuore. Ascoltò un pezzo; poi si sollevò, turbato, e si tastò in petto, come per cercare nelle tasche interne qualcosa.

– Ebbene? – chiese ancora Flavia.

Egli trasse lo stetoscopio, e domandò:

– C’è caffeina, in casa?

– No… io non so, – s’affrettò a rispondere Flavia. – Ho mandato a prender l’etere…

– Non giova.

S’appressò alla scrivania, scrisse una ricetta, la porse allo scritturale.

– Ecco. Presto.

Subito dopo, anche il Bertone fu spedito di corsa alla farmacia per una siringhetta da iniezioni, che il Sarti non aveva con sé.

– Dottore… – supplicò Flavia.

Ma il Sarti, senza darle retta, s’appressò di nuovo al canapè. Prima di chinarsi a riascoltare il giacente, disse, senza voltarsi:

– Fate disporre per portarlo sú.

– Va’, va’! – ordinò Flavia al cameriere: poi, appena uscito questi, afferrò per un braccio il Sarti e gli domandò, guardandolo negli occhi: – Che ha? È grave? Voglio saperlo!

– Non lo so bene ancora neanche io, – rispose il Sarti con calma forzata.

Poggiò lo stetoscopio sul petto del giacente e vi piegò l’orecchio per ascoltare. Ve lo tenne a lungo, a lungo, serrando di tratto in tratto gli occhi, contraendo il volto, come per impedirsi di precisare i pensieri, i sentimenti che lo agitavano, durante quell’esame. La sua coscienza turbata, sconvolta da ciò che percepiva nel cuore dell’amico, era in quel punto incapace di riflettere in sé quei pensieri e quei sentimenti, né egli voleva che vi si riflettessero, come se ne avesse paura.

Quale un febbricitante che, abbandonato al bujo, in una camera, senta d’improvviso il vento sforzar le imposte della finestra, rompendone con fracasso orribile i vetri, e si trovi d’un tratto smarrito, vaneggiante, fuor del letto, contro i lampi e la furia tempestosa della notte, e pur tenti con le deboli braccia di richiudere le imposte; egli cercava d’opporsi affinché il pensiero veemente dell’avvenire, la luce sinistra d’una tremenda speranza non irrompessero in lui, in quel momento: quella stessa speranza, di cui tanti e tanti anni addietro, liberatosi dall’incubo orrendo della madre, lusingato dall’incoscienza giovanile, s’era fatta come una meta luminosa, alla quale gli era parso d’aver qualche diritto d’aspirare per tutto quello che gli era toccato soffrire senza sua colpa. Allora, ignorava che Flavia Orsani, la cugina del suo amico e benefattore, fosse ricca, e che il padre di lei, morendo, avesse affidato al fratello le sostanze della figliuola: la credeva un’orfana accolta per carità in casa dello zio. E dunque, forte della testimonianza di ogni atto della sua vita, intesa tutta a cancellare il marchio d’infamia che il padre e la madre gli avevano inciso su la fronte; quando sarebbe ritornato in paese, con la laurea di medico, e si sarebbe formata un’onesta posizione, non avrebbe potuto chiedere agli Orsani, in prova dell’affetto che gli avevano sempre dimostrato, la mano di quell’orfana, di cui già si lusingava di goder la simpatia? Ma Flavia, poco dopo il ritorno di lui dagli studii, era diventata moglie di Gabriele, a cui egli, è vero, non aveva mai dato alcun motivo di sospettare il suo amore per la cugina. Sí; ma gliel’aveva pur tolta; e senza fare la propria felicità, né quella di lei. Ah, non per lui soltanto quelle nozze, ma per se stesse erano state un delitto; datava da allora la sciagura di tutti e tre. Per tanti anni, come se nulla fosse stato, egli aveva assistito in qualità di medico, in ogni occasione, la nuova famigliuola dell’amico, celando sotto una rigida maschera impassibile lo strazio che la triste intimità di quella casa senza amore gli cagionava, la vista di quella donna abbandonata a se stessa, che pur dagli occhi lasciava intendere quale tesoro d’affetti serbasse in cuore, non richiesti e neppur forse sospettati dal marito; la vista di quei bambini che crescevano senza guida paterna. E si era negato perfino di scrutar negli occhi di Flavia o d’avere da qualche parola di lei un cenno fuggevole, una prova anche lieve che ella, da fanciulla, si fosse accorta dell’affetto che gli aveva ispirato. Ma questa prova, non cercata, non voluta, gli s’era offerta da sé in una di quelle occasioni, in cui la natura umana spezza e scuote ogni imposizione, infrange ogni freno sociale e si scopre qual è, come un vulcano che per tanti inverni si sia lasciato cader neve e neve e neve addosso, a un tratto rigetta quel gelido mantello e scopre al sole le fiere viscere infocate. E l’occasione era stata appunto la malattia del bambino. Tutto immerso negli affari, Gabriele non aveva neppur sospettato la gravità del male e aveva lasciato sola la moglie a trepidare per la vita dei figliuolo; e Flavia in un momento di suprema angoscia, quasi delirante, aveva parlato, s’era sfogata con lui, gli aveva lasciato intravedere che ella aveva tutto compreso, sempre, sempre, fin dal primo momento.

 

E ora?

– Ditemi, per carità, dottore! – insistette Flavia, esasperata, nel vederlo cosí sconvolto e taciturno. – È grave assai?

– Sí, – rispose egli, cupo, bruscamente.

– Il cuore? Che male? Cosí all’improvviso? Ditemelo!

– Vi giova saperlo? Termini di scienza: che c’intendereste?

Ma ella volle sapere.

– Irreparabile? – chiese poi.

Egli si tolse le lenti, strizzò gli occhi, poi esclamò:

– Ah, non cosí, non cosí, credetemi! Vorrei potergli dare la mia vita.

Flavia diventò pallidissima; guardò il marito, e disse piú col cenno che con la voce:

– Tacete.

– Voglio che lo sappiate, – aggiunse egli. – Ma già m’intendete, non è vero? Tutto, tutto quello che mi sarà possibile… Senza pensare a me, a voi…

– Tacete, – ripeté ella, come inorridita.

Ma egli seguitò:

– Abbiate fiducia in me. Non abbiamo nulla da rimproverarci. Del male ch’egli mi fece, non ha sospetto, e non ne avrà. Avrà tutte le cure che potrà prestargli l’amico piú devoto.

Flavia, ansante, vibrante, non staccava gli occhi dal marito.

– Si riscuote! – esclamò a un tratto.

Il Sarti si volse a guardare.

– No…

– Sí, s’è mosso, – aggiunse ella piano.

Rimasero un pezzo sospesi, a spiare. Poi egli si accostò al canapè, si chinò sul giacente, gli prese il polso e chiamò:

– Gabriele… Gabriele…

IV

Pallido, ancora un po’ affannato per tutti i respiri che s’era affrettato a trarre appena rinvenuto, Gabriele pregò la moglie di andarsene.

– Non mi sento piú nulla. Prendi, prendi la carrozza e vai pure a passeggio, – disse, per rassicurarla. – Voglio parlare con Lucio. Va’.

Flavia, per non dargli sospetto della gravità del male, finse d’accettar l’invito; gli raccomandò tuttavia di non agitarsi troppo, salutò il dottore e rientrò in casa.

Gabriele rimase un pezzo assorto, guardando la bussola per cui ella era uscita; poi si recò una mano al petto, sul cuore, e seguitando a tener fissi gli occhi, mormorò:

– Qua, è vero? Tu mi hai ascoltato… Io… Che cosa buffa! Mi pareva che quel signor… come si chiama?… Lapo, sí: quell’ometto dall’occhio di vetro, mi tenesse legato, qua; e non potevo svincolarmi; tu ridevi e dicevi: Insufficienza… è vero?… insufficienza delle valvole aortiche…

Lucio Sarti, nel sentir proferire quelle parole da lui dette a Flavia, allibí. Gabriele si scosse, si voltò a guardarlo e sorrise:

– T’ho sentito, sai?

– Che… che hai sentito? – balbettò il Sarti, con un sorriso squallido su le labbra, dominandosi a stento.

– Quello che hai detto a mia moglie, – rispose, calmo, Gabriele, fissando di nuovo gli occhi, senza sguardo. – Vedevo… mi pareva di vedere, come se avessi gli occhi aperti… sí! Dimmi, ti prego, – aggiunse, riscotendosi, – senza ambagi, senza pietose bugie: quanto posso vivere ancora? Quanto meno, tanto meglio.

Il Sarti lo spiava, oppresso di stupore e di sgomento, turbato specialmente da quella calma. Ribellandosi con uno sforzo supremo all’angoscia che lo istupidiva, scattò.

– Ma che ti salta in mente?

– Un’ispirazione! – esclamò Gabriele, con un lampo negli occhi. – Ah, perdio!

E sorse in piedi. Si recò ad aprir l’uscio che dava nella stanza del banco e chiamò il Bertone.

– Senti, Carlo: se tornasse quell’ometto che è venuto stamattina, fallo aspettare. Anzi manda subito a chiamarlo, o meglio: va’ tu stesso! Subito, eh?

Richiuse l’uscio e si voltò a guardare il Sarti, stropicciandosi le mani, allegramente:

– Me l’hai mandato tu. Ah, l’acciuffo per quei capelli svolazzanti e lo pianto qua, tra me e te. Dimmi, spiegami subito come si fa. Voglio assicurarmi. Tu sei il medico della Compagnia, è vero?

Lucio Sarti, angosciato dal dubbio tremendo che l’Orsani avesse inteso tutto quello ch’egli aveva detto a Flavia, rimase stordito a quella subitanea risoluzione; gli parve senza nesso, ed esclamò, sollevato per il momento da un gran peso:

– Ma è una pazzia!

– No, perché? – rispose, pronto, Gabriele. – Posso pagare, per quattro o cinque mesi. Non vivrò piú a lungo, lo so!

– Lo sai? – fece il Sarti, forzandosi a ridere. – E chi ti ha prescritto i termini cosí infallibilmente? Va’ là! va’ là!

Rinfrancato, pensò che fosse una gherminella per fargli dire quel che pensasse della sua salute. Ma Gabriele, assumendo un’aria grave, si mise a parlargli del suo prossimo crollo inevitabile. Il Sarti sentí gelarsi. Ora vedeva il nesso e la ragione di quella risoluzione improvvisa, e si sentí preso al laccio, a una terribile insidia, ch’egli stesso, senza saperlo, si era tesa quella mattina, inviando all’Orsani quell’ispettore della Compagnia d’Assicurazione, di cui era il medico. Come dirgli, adesso, che non poteva in coscienza prestarsi ad ajutarlo, senza fargli intendere nello stesso tempo la disperata gravità del male, che gli s’era cosí d’un colpo rivelato?

– Ma tu, col tuo male, – disse, – puoi vivere ancora a lungo, a lungo, mio caro, purché t’abbi un po’ di riguardo…

– Riguardo? Come? – gridò Gabriele. – Son rovinato, ti dico! Ma tu ritieni che io possa vivere ancora a lungo? Bene. E allora, se è vero questo, non avrai difficoltà…

– E i tuoi calcoli allora? – osservò il Sarti con un sorriso di soddisfazione, e aggiunse, quasi per il piacere di chiarire a se stesso quella felice scappatoja, che gli era balenata all’improvviso: – Se dici che per tre o quattro mesi soltanto potresti far fronte…

Gabriele rimase un po’ sopra pensiero.

– Bada, Lucio! Non ingannarmi, non mettermi davanti questa difficoltà per avvilirmi, per non farmi commettere un’azione che tu disapprovi, è vero? e a cui non vorresti partecipare, sia pure con poca o nessuna tua responsabilità…

– T’inganni! – scappò detto al Sarti.

Gabriele sorrise allora amaramente.

– Dunque è vero, – disse, – dunque tu sai che io sono condannato, tra poco, forse prima ancora del tempo calcolato da me. Ma già, ti ho sentito. Basta, dunque! Si tratta ora di salvare i miei figliuoli. E li salverò!   Se m’ingannassi, non dubitare, saprei procurarmi a tempo la morte, di nascosto.

Lucio Sarti si alzò, scrollando le spalle, e cercò con gli occhi il cappello.

– Vedo che tu non ragioni, mio caro. Lascia che me ne vada.

– Non ragiono? – disse Gabriele, trattenendolo per un braccio. – Vieni qua! Ti dico che si tratta di salvare i miei figliuoli! Hai capito?

– Ma come vuoi salvarli? Vuoi salvarli sul serio, cosí?

– Con la mia morte.

– Pazzie! Ma scusa, vuoi ch’io stia qua a sentir codesti discorsi?

– Sí – disse con violenza Gabriele, senza lasciargli il braccio. – Perché tu devi ajutarmi.

– A ucciderti? – domandò il Sarti, con tono derisorio.

– No: a questo, se mai, ci penserò io…

– E allora… a ingannare? a… a rubare, scusa?

– Rubare? A chi rubo? Rubo per me? Si tratta d’una Società esposta per se stessa al rischio di siffatte perdite… Lasciami dire! Quel che perde con me, lo guadagnerà con cento altri. Ma chiamalo pur furto… Lascia fare! Ne renderò conto a Dio. Tu non c’entri.

– T’inganni! – ripeté con piú forza il Sarti.

– Viene forse a te quel danaro? – gli domandò allora Gabriele, figgendogli gli occhi negli occhi. – L’avrà mia moglie e quei tre poveri innocenti. Quale sarebbe la tua responsabilità?

 

D’un tratto, sotto lo sguardo acuto dell’Orsani, Lucio Sarti comprese tutto: comprese che Gabriele aveva bene udito e che si frenava ancora perché voleva prima raggiungere il suo scopo: porre cioè un ostacolo insormontabile fra lui e la moglie, facendolo suo complice in quella frode. Egli, infatti, medico della Compagnia, dichiarando ora sano Gabriele, non avrebbe poi potuto far piú sua Flavia, vedova, a cui sarebbe venuto il premio dell’assicurazione, frutto del suo inganno. La Società avrebbe agito, senza dubbio, contro di lui. Ma perché tanto e cosí feroce odio fin oltre la morte? Se egli aveva udito, doveva pur sapere che nulla, nulla aveva da rimproverare né a lui, né alla moglie. Perché, dunque?

Sostenendo lo sguardo dell’Orsani, risoluto a difendersi fino all’ultimo, gli domandò con voce mal ferma:

– La mia responsabilità, tu dici, di fronte alla Compagnia?

– Aspetta! – riprese Gabriele, come abbagliato dall’efficacia stringente del suo ragionamento. – Devi pensare che io sono tuo amico da prima assai che tu diventassi il medico di codesta Compagnia. È vero?

– È vero… ma… – balbettò Lucio.

– Non turbarti! Non voglio rinfacciarti nulla; ma solo farti osservare che tu, in questo momento, in queste condizioni, pensi, non a me, come dovresti, ma alla Compagnia…

– Al mio inganno! – replicò il Sarti, fosco.

– Tanti medici s’ingannano! – ribatté subito Gabriele. – Chi te ne può accusare? Chi può dire che in questo momento io non sia sano? Vendo salute! Morrò di qui a cinque o sei mesi. Il medico non può prevederlo. Tu non lo prevedi. D’altra parte, il tuo inganno, per te, per la tua coscienza, è carità d’amico.

Annichilito, col capo chino, il Sarti si tolse le lenti, si stropicciò gli occhi; poi, losco, con le palpebre semichiuse, tentò con voce tremante l’estrema difesa:

– Preferirei – disse, – dimostrartela altrimenti, questa che tu chiami carità d’amico.

– E come?

– Ricordi dove morí mio padre e perché?

Gabriele lo guatò, stordito; bisbigliò tra sé:

– Che c’entra?

– Tu non sei al mio posto, – rispose il Sarti, risoluto, aspro, rimettendosi le lenti. – Non puoi giudicarne. Ricordati come sono cresciuto. Ti prego, lasciami agire correttamente, senza rimorsi.

– Non capisco, – rispose Gabriele con freddezza, – che rimorso potrebbe essere per te l’aver beneficato i miei figliuoli…

– Col danno altrui?

– Io non l’ho cercato.

– Sai di farlo!

– So qualche altra cosa che mi sta piú a cuore e che dovrebbe stare a cuore anche a te. Non c’è altro rimedio! Per un tuo scrupolo, che non può essere anche mio ormai, vuoi che rigetti questo mezzo che mi si offre spontaneo, quest’ancora che tu, tu stesso m’hai gettata?

S’appressò all’uscio, ad origliare, facendo cenno al Sarti di non rispondere.

– Ecco, è venuto!

– No, no, è inutile, Gabriele! – gridò allora il Sarti, risolutamente. – Non costringermi!

L’Orsani lo afferrò per un braccio:

– Bada, Lucio! È l’ultima mia salvezza.

– Non questa, non questa! – protestò il Sarti. – Senti, Gabriele: quest’ora sia sacra per noi. Io ti prometto che i tuoi figliuoli…

Ma Gabriele non lo lasciò finire:

– L’elemosina? – disse, con un ghigno.

– No! – rispose Lucio, pronto. – Renderei a loro quel che m’ebbi da te!

– A qual titolo? Come vorresti provvedere ai miei figliuoli? Tu? Hanno una madre! A qual titolo? Non di semplice gratitudine, è vero? Tu menti! Per altro fine ti ricusi, che non puoi confessare.

Cosí dicendo, lo afferrò per le spalle e lo scosse, intimandogli di parlar piano e domandandogli fino a che punto avesse osato ingannarlo. Il Sarti tentò di svincolarsi, difendendo dall’atroce accusa sé e Flavia e rifiutandosi ancora di cedere a quella violenza.

– Voglio vederti! – ruggí a un tratto fra i denti l’Orsani.

D’un balzo aprí l’uscio e chiamò il Vannetti, mascherando subito l’estrema concitazione con una tumultuosa allegria:

– Un premio, un premio, – gridò, investendo l’ometto cerimonioso, – un grosso premio, signor ispettore, all’amico nostro, al nostro dottore, che non è soltanto il medico della Compagnia, ma il suo piú eloquente avvocato. M’ero quasi pentito; non volevo saperne… Ebbene, lui, lui mi ha persuaso, mi ha vinto… Gli dia, gli dia subito da firmare la dichiarazione medica: ha premura, deve andar via. Poi noi stabiliremo il quanto e il come…

Il Vannetti, felicissimo, tra uno scoppiettío di esclamazioni ammirative e di congratulazioni, trasse dalla cartella un modulo a stampa, e ripetendo: – Formalità… formalità… – lo porse a Gabriele.

– Ecco, scrivi, – disse questi, rimettendo il modulo al Sarti, che assisteva come trasognato a quella scena e vedeva ora in quell’omiciattolo sbricio, quasi artefatto, estremamente ridicolo, la personificazione del suo sconcio destino.

1.9  Il Ventaglino

Il giardinetto pubblico, meschino e polveroso, in quel torrido pomeriggio d’agosto era quasi deserto, in mezzo alla vasta piazza cinta tutt’intorno da alte case giallicce, assopite nell’afa.

Tuta vi entrò, col bambino in braccio.

Su un sedile in ombra, un vecchietto magro, perduto in un abito grigio d’alpagà, teneva in capo un fazzoletto. Sul fazzoletto, il cappelluccio di paglia ingiallito. Aveva rimboccato diligentemente le maniche sui polsi e leggeva un giornale.

Accanto, sullo stesso sedile, un operajo disoccupato dormiva con la testa tra le braccia, appoggiato di traverso.

Di tanto in tanto, il vecchietto interrompeva la lettura e si voltava a osservare con una certa ambascia il suo vicino, a cui stava per cader dal capo il cappellaccio unto, ingessato. Evidentemente quel cappellaccio, chi sa da quanto tempo cosí in bilico, cado e non cado, cominciava a esasperarlo: avrebbe voluto rassettarglielo sul capo o buttarglielo giú con una ditata. Sbuffava; poi volgeva un’occhiata ai sedili intorno, chi sa gli avvenisse di scoprirne qualche altro in ombra. Ce n’era uno solo poco discosto; ma vi stava seduta una vecchia grassa, cenciosa, la quale, ogni volta che lui si voltava a guardare, spalancava la bocca sdentata a un formidabile sbadiglio.

Tuta s’appressò sorridente, pian pianino, in punta di piedi. Si pose un dito su le labbra, per segno di far silenzio; poi, adagio adagio, prese con due dita il cappellaccio al dormente e glielo rimise a posto sul capo.

Il vecchio stette a seguir con gli occhi tutti quei movimenti, prima sorpreso, poi aggrondato.

Co’ la bona grazia, signo’, – gli disse Tuta, ancora sorridente e inchinandosi, come se il servizio lo avesse reso a lui e non all’operajo che dormiva. – Da’ ‘n sordo a sta pôra creatura.

– No! – rimbeccò subito il vecchietto con stizza (chi sa perché), e abbassò gli occhi sul giornale.

Tiramo a campà! – sospirò Tuta. – Dio pruvede.

E andò a sedere di là, su l’altro sedile, accanto alla vecchia cenciosa, con la quale attaccò subito discorso.

Aveva appena vent’anni; bassotta, formosa, bianchissima di carnagione, coi capelli lucidi, neri, spartiti sul capo, stirati sulla fronte e annodati in fitte treccioline dietro la nuca. Gli occhi furbi le brillavano, quasi aggressivi. Si mordeva di tanto in tanto le labbra. E il nasino all’insú, un po’ storto, le fremeva.

Raccontava alla vecchia la sua sventura. Il marito…

Fin da principio la vecchia le rivolse un’occhiata, che poneva i patti della conversazione, cioè: uno sfogo, sí, era disposta a offrirglielo; ma ingannata, no, non voleva essere, ecco.

Marito vero?

Semo sposati co’ la chiesa.

Ah, be’, co’ la chiesa.

E ched’è? nun è marito?

No, fija: nun serve.

Come nun serve?

Lo sai, nun serve.

Eh sí, difatti, la vecchia aveva ragione. Non serviva. Da un pezzo, difatti, qull’uomo voleva liberarsi di lei, e per forza l’aveva mandata a Roma, perché cercasse di allogarsi per bàlia. Ella non voleva venire; capiva ch’era troppo tardi, poiché il bambino aveva già circa sette mesi. Era stata quindici giorni in casa d’un sensale, la cui moglie, per rifarsi delle spese e per aver pagato l’alloggio, aveva osato alla fine di proporle…

Capischi? A me!

 

Dalla «collera» le era andato addietro il latte. E ora non ne aveva piú, neanche per la sua creatura. La moglie del sensale le aveva preso gli orecchini e s’era tenuto anche il fagottello con cui era venuta dal paese. Da quella mattina era in mezzo alla strada.

Pe’ davero, sa’!

Tornare al paese non poteva e non voleva: il marito non se la sarebbe ripresa. Che fare, intanto, con quel bambino che le legava le braccia? Certo, non avrebbe trovato neppure da mettersi per serva.

La vecchia l’ascoltava con diffidenza, perché ella diceva quelle cose, come se non ne fosse affatto disperata; anzi, ripetendo spesso quel suo: – Pe’ davero, sa’! – sorrideva.

– Di dove sei? – le domandò la vecchia.

– De Core.

E restò un pezzo come se rivedesse col pensiero il paesello lontano. Poi si scosse; guardò il piccino e disse:

Addo’ lo lascio? Qua pe’ tera? Pôro cocco mio saporito!

Lo sollevò su le braccia e lo baciò forte forte, piú volte.

La vecchia disse:

L’hai fatto? Te lo piagni.

Io l’ho fatto? – si rivoltò la giovane. – Be’, l’ho fatto e Dio m’ha castigato. Ma patisce pure lui, pôro innocente! E c’ha fatto, lui? Va’, Dio nun fa le cose giuste. E si nun le fa lui, figúrete noi. Tiramo a campà!

Mondo, mondo! – sospirò la vecchia, levandosi in piedi a stento.

È ‘n gran penà! – aggiunse, scrollando il capo, un’altra vecchia asmatica, corpulenta, che passava di lí, appoggiandosi a un bastoncino.

L’altra cavò fuori di tra i cenci un sacchetto sudicio che le pendeva dalla cintola, nascosto sotto la veste, e ne trasse un tozzo di pane.

Tiè, lo vuoi?

Sí. Dio te lo paghi, – s’affrettò a risponderle Tuta. – Me lo magno. Ce credi che so’ digiuna da stamattina?

Ne fece due pezzi: uno, piú grosso, per sé; cacciò l’altro fra gli esili ditini rosei del bimbo, che non si volevano aprire.

Pappa, Nino. Bono, sa’! ‘Na sciccheria! Pappa, pappa.

La vecchia se n’andò, strascicando i piedi, insieme con l’altra dal bastoncino.

Il giardinetto s’era già un po’ animato. Il custode annaffiava le piante. Ma neppure alle trombate d’acqua si volevano destare dal sogno in cui parevano assorti – sogno d’una tristezza infinita – quei poveri alberi sorgenti dalle ajuole rade, fiorite di bucce, di gusci d’uovo, di pezzetti di carta, e riparate da stecchi e spuntoni qua e là sconnessi o da un giro di roccia artificiale, in cui s’incavavano i sedili.

 

Tuta si mise a guardar la vasca bassa, rotonda, che sorgeva in mezzo, la cui acqua verdastra stagnava sotto un velo di polvere, che si rompeva a quando a quando al tonfo di qualche buccia lanciata dalla gente che sedeva attorno.

Già il sole stava per tramontare, e quasi tutti i sedili erano ormai in ombra.

In uno lí accanto venne a sedere una signora su i trent’anni, vestita di bianco. Aveva i capelli rossi, come di rame, arruffati, e il viso lentigginoso. Come se non ne potesse piú dal caldo, cercava di scostarsi dalle gambe un ragazzo scontroso, giallo come la cera, vestito alla marinara; e intanto guardava di qua e di là, impaziente, strizzando gli occhi miopi, come se aspettasse qualcuno; e tornava di tratto in tratto a spingere il ragazzo, perché si trovasse piú là qualche compagno di giuoco. Ma il ragazzo non si moveva; teneva gli occhi fissi su Tuta che mangiava il pane. Anche Tuta guardava e osservava intenta la signora e quel ragazzo; a un tratto disse:

Lei, signo’, co’ la bona grazia, si tante vorte je servisse ‘na donna pe’ fa’ er bucato o a mezzo servizio… No? Embè!

Poi, vedendo che il ragazzo malaticcio non staccava gli occhi da lei e non voleva cedere ai ripetuti inviti della madre, lo chiamò a sé:

Vôi vede er pupetto? Viello a vede, carino, vie’.

 

Il ragazzo, spinto violentemente dalla madre, s’accostò; guardò un pezzo il bambino con gli occhi invetrati come quelli d’un gatto fustigato; poi gli strappò dalla manina il tozzo di pane. Il bambino si mise a strillare.

No! pôro pupo! – esclamò Tuta. – J’hai levato er pane? Piagne mo’, vedi? Ha fame… Dàjene armeno un pezzetto.

Alzò gli occhi per chiamare la madre del ragazzo, ma non la vide piú sul sedile: parlava là in fondo, concitatamente, con un omaccione barbuto che l’ascoltava disattento, con un curioso sorriso sulle labbra, le mani dietro la schiena e il cappellaccio bianco buttato su la nuca. Il bambino intanto seguitava a strillare.

– Be’, – fece Tuta, – te lo levo io un pezzetto…

Allora anche il ragazzo si mise a strillare. Accorse la madre, a cui Tuta, co’ la bona grazia, spiegò ciò che era accaduto. Il ragazzo stringeva con le due mani al petto il tozzo di pane, senza volerlo cedere, neppure alle esortazioni della madre.

– Lo vuoi davvero? E te lo mangi, Ninní? – disse la signora rossa. – Non mangia niente, sapete, niente: sono disperata! Magari lo volesse davvero… Sarà un capriccio… Lasciateglielo, per piacere.

Be’, sí, volentieri, – fece Tuta. – Tiello, cocco, magnalo tu…

Ma il ragazzo corse alla vasca e vi buttò il tozzo di pane.

Ai pescetti, eh Ninní? – esclamò allora Tuta, ridendo. – E sta pôra creatura mia ch’è digiuna… Nun ciò latte, nun ciò casa, nun ciò gnente… Pe’ davero, sape’, signo’… Gnente!

 

La signora aveva fretta di ritornare a quell’uomo che l’aspettava di là: trasse dalla borsetta due soldi e li diede a Tuta.

– Dio te lo paghi, – le disse dietro, questa. – Sú, sú, sta’ bono, cocco mio: te ce crompo la bobbona, sa’! Ci avemo fatto du’ bajocchi cor pane de la vecchia. Zitto, Nino mio! Mo’ semo ricchi…

Il bimbo si quietò. Ella rimase, coi due soldi stretti in una mano, a guardar la gente che già popolava il giardinetto: ragazzi, balie, bambinaje, soldati…

Era un gridío continuo.

Tra le ragazze che saltavano la corda, e i ragazzi che si rincorrevano, e i bambini strillanti in braccio alle balie che chiacchieravano placidamente tra loro, e le bambinaie che facevano all’amore coi soldati, si aggiravano i venditori di lupini, di ciambelle o d’altre golerie.

Gli occhi di Tuta s’accendevano, talvolta, e le labbra le s’aprivano a uno strano sorriso.

Proprio nessuno voleva credere che ella non sapeva piú come fare, dove andare? Stentava a crederlo lei stessa. Ma era proprio cosí. Era entrata là, in quel giardinetto, per cercarvi un po’ d’ombra; vi si tratteneva da circa un’ora; poteva rimanervi fino a sera; e poi? dove passar la notte, con quella creatura in braccio? e il giorno dopo? e l’altro appresso? Non aveva nessuno, nemmeno là al paese, tranne quell’uomo che non voleva piú saperne di lei; e, del resto, come tornarci? – Ma allora? Nessuna via di scampo? Pensò a quella vecchia strega che le aveva tolto gli orecchini e il fagotto. Tornare da lei? Il sangue le montò alla testa. Guardò il suo piccino, che s’era addormentato.

Eh, Nino, ar fiume tutt’e dua? Cosí…

Sollevò le braccia, come per buttarlo. E lei, appresso. – Ma che, no! – Rialzò il capo e sorrise, guardando la gente che le passava davanti.

Il sole era tramontato, ma il caldo persisteva, soffocante. Tuta si sbottonò il busto alla gola, rimboccò in dentro le due punte, scoprendo un po’ del petto bianchissimo.

– Caldo?

Se more!

Le stava davanti un vecchietto con due ventagli di carta infissi nel cappello, altri due in mano, aperti, sgargianti, e una cesta al braccio, piena di tant’altri ventaglini alla rinfusa, rossi, celesti, gialli.

Du’ bajocchi!

Vattene! – disse Tuta, dando una spallata. – De che so? de carta?

E de che lo vôi? de seta?

– Mbè, perché no? – fece Tuta, guardandolo con un sorriso di sfida; poi schiuse la mano in cui teneva i due soldi, e aggiunse: – Ciò questi du’ bajocchi soli. Pe’ ‘n sordo me lo dai?

Il vecchio scosse il capo, dignitosamente.

Du’ bajocchi. Manco pe’ fallo!

Be’, mannaggia a tene! Dammelo. Moro de callo. Er pupo dorme… Tiramo a campà. Dio pruvede.

Gli diede i due soldi, prese il ventaglino e, tirandosi piú giú la rimboccatura sul petto, cominciò a farsi vento vento vento lí sul seno quasi scoperto, e a ridere e a guardare, spavalda, con gli occhi lucenti, invitanti, aizzosi, i soldati che passavano.

1.10. E due!

Dopo aver vagato a lungo per il quartiere addormentato dei Prati di Castello, rasentando i muri delle caserme, sfuggendo istintivamente il lume dei lampioni sotto gli alberi dei lunghissimi viali, pervenuto alla fine sul Lungotevere dei Mellini, Diego Bronner montò, stanco, sul parapetto dell’argine deserto e vi si pose a sedere, volto verso il fiume, con le gambe penzoloni nel vuoto.

Non un lume acceso nelle case di fronte, della Passeggiata di Ripetta, avvolte nell’ombra e stagliate nere nel chiaror lieve e ampio che, di là da esse, la città diffondeva nella notte. Immobili, le foglie degli alberi del viale, lungo l’argine. Solo, nel gran silenzio, s’udiva un lontanissimo zirlío di grilli e – sotto – il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui, con un tremolío continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell’argine opposto.

Correva per il cielo una trama fitta d’infinite nuvolette lievi, basse, cineree, come se fossero chiamate in fretta di là, di là, verso levante, a un misterioso convegno, e pareva che la luna, dall’alto, le passasse in rassegna.

Il Bronner stette un pezzo col volto in sú a contemplar quella fuga, che animava con cosí misteriosa vivacità il silenzio luminoso di quella notte di luna. A un tratto udí un rumor di passi sul vicino ponte Margherita e si volse a guardare.

Il rumore dei passi cessò.

Forse qualcuno, come lui, s’era messo a contemplare quelle nuvolette e la luna che le passava in rassegna, o il fiume con quei tremuli riflessi dei lumi nell’acqua nera fluente.

 

Trasse un lungo sospiro e tornò a guardare in cielo, un po’ infastidito della presenza di quell’ignoto, che gli turbava il triste piacere di sentirsi solo. Ma egli, qua, era nell’ombra degli alberi: pensò che colui, dunque, non avrebbe potuto scorgerlo; e quasi per accertarsene, si voltò di nuovo a guardare.

Presso un fanale imbasato sul parapetto del ponte scorse un uomo in ombra. Non comprese dapprima che cosa colui stesse a far lí, silenziosamente. Gli vide posare come un involto su la cimasa, a piè del fanale. – Involto? No: era il cappello. E ora? che! Possibile? Ora scavalcava il parapetto. Possibile?

Istintivamente il Bronner si trasse indietro col busto, protendendo le mani e strizzando gli occhi; si restrinse tutto in sé; udí il tonfo terribile nel fiume.

Un suicidio? Cosí?

Riaprí gli occhi, riaffondò lo sguardo nel bujo. Nulla. L’acqua nera. Non un grido. Nessuno. Si guardò attorno. Silenzio, quiete. Nessuno aveva veduto? nessuno udito? E quell’uomo intanto affogava… E lui non si moveva, annichilito. Gridare? Troppo tardi, ormai. Raggomitolato nell’ombra, tutto tremante, lasciò che la sorte atroce di quell’uomo si compisse, pur sentendosi schiacciare dalla complicità del suo silenzio con la notte, e domandandosi di tratto in tratto: – Sarà finito? sarà finito? – come se con gli occhi chiusi vedesse quell’infelice dibattersi nella lotta disperata col fiume.

Riaprendo gli occhi, risollevandosi, dopo quel momento d’orribile angoscia, la quiete profonda della città dormente, vegliata dai fanali, gli parve un sogno. Ma come guizzavano ora quei riflessi dei lumi nell’acqua nera! Rivolse paurosamente lo sguardo al parapetto del ponte: vide il cappello lasciato lí da quell’ignoto. Il fanale lo illuminava sinistramente. Fu scosso da un lungo brivido alle reni, e col sangue che gli frizzava ancora per le vene, in preda a un tremito convulso di tutti i muscoli, come se quel cappello là potesse accusarlo, scese e, cercando l’ombra, s’avviò rapidamente verso casa.

– Diego, che hai?

– Nulla, mamma. Che ho?

– No, mi pareva… È già tardi…

– Non voglio che tu m’aspetti, lo sai; te l’ho detto tante volte. Lasciami rincasare quando mi fa comodo.

– Sí, sí. Ma vedi, stavo a cucire… Vuoi che t’accenda il lumino da notte?

– Dio, me lo domandi ogni sera!

 

La vecchia madre, come sferzata da questa risposta alla domanda superflua, corse, curva, trascinando un po’ una gamba, ad accendergli in camera il lumino da notte e a preparargli il letto.

Egli la seguí con gli occhi, quasi con rancore; ma, com’ella scomparve dietro l’uscio, trasse un sospiro di pietà per lei. Subito però il fastidio lo riprese.

E rimase lí ad aspettare, senza saper perché, né che cosa, in quella tetra saletta d’ingresso che aveva il soffitto basso basso, di tela fuligginosa, qua e là strappata e con lo strambello pendente, in cui le mosche s’eran raccolte e dormivano a grappoli.

Vecchi arredi decaduti, mescolati con rozzi mobili e oggetti nuovi di sartoria, stipavano quella saletta: una macchina da cucire, due impettiti manichini di vimini, una tavola liscia massiccia per tagliarvi le stoffe, con un grosso pajo di forbici, il gesso, il metro e alcuni smorfiosi giornali di moda.

Ma, ora, il Bronner percepiva appena tutto questo.

S’era portato con sé, come uno scenario, lo spettacolo di quel cielo corso da quelle nuvolette basse e lievi; e del fiume con quei riflessi dei fanali; lo spettacolo di quelle alte case nell’ombra, là dirimpetto stagliate nel chiarore della città, e di quel ponte con quel cappello… E l’impressione spaventosa, come di sogno, dell’impassibilità di tutte quelle cose ch’erano con lui là, presenti, piú presenti di lui, perché lui, anzi, nascosto nell’ombra degli alberi, era veramente come se non ci fosse. Ma il suo orrore, lo sconvolgimento, adesso, erano appunto per questo, per esser egli rimasto lí in quell’attimo come quelle cose, presente e assente, notte, silenzio, argine, alberi, lumi, senza gridare ajuto, come se non ci fosse; e il sentirsi ora qua stordito, stralunato, come se quello che aveva veduto e sentito, lo avesse sognato.

A un tratto vide venire a posarsi con un balzo agile e netto, là su la tavola massiccia, il grosso gatto bigio di casa. Due occhi verdi, immobili e vani.

Ebbe un momentaneo terrore di quegli occhi, e aggrottò le ciglia, urtato.

Pochi giorni addietro, quel gatto era riuscito a far cadere dal muro di quella saletta una gabbia col cardellino, di cui sua madre aveva cura amorosa. Con industriosa e paziente ferocia, cacciando le granfie di tra le gretole, l’aveva tratto fuori e se l’era mangiato. La madre non se ne sapeva ancora dar pace; anche lui pensava tuttora allo scempio di quel cardellino; ma il gatto, eccolo là: del tutto ignaro del male che aveva fatto. Se egli lo avesse cacciato via da quella tavola sgarbatamente, non ne avrebbe mica capito il perché.

Ed ecco già due prove contro di lui, quella sera. Due altre prove. E questa seconda gli balzava innanzi all’improvviso, con quel gatto; come all’improvviso gli era venuta l’altra, con quel suicidio dal ponte. Una prova: che egli non poteva essere come quel gatto là che, compiuto uno scempio, un momento dopo non ci pensava piú; l’altra prova: che gli uomini, alla presenza d’un fatto, non potevano restare impassibili come le cose, per quanto come lui si forzassero, non solo a non parteciparvi, ma anche a tenersene quasi assenti.

La dannazione del ricordo in sé, e il non poter sperare che gli altri dimenticassero. Ecco. Queste due prove. Una dannazione e una disperazione.

Che modo nuovo di guardare avevano acquistato da un pezzo in qua i suoi occhi? Guardava sua madre, ritornata or ora dall’avergli apparecchiato il letto di là e acceso il lumino da notte, e la vedeva non piú come sua madre, ma come una povera vecchia qualunque, quale essa era per sé, con quel grosso porro accanto alla pinna destra del naso un po’ schiacciato, le guance esangui e flaccide, striate da venicciuole violette, e quegli occhi stanchi che subito, sotto lo sguardo di lui cosí stranamente spietato, le s’abbassavano, ecco, dietro gli occhiali, quasi per vergogna, di che? Ah, egli lo sapeva bene, di che. Rise d’un brutto riso; disse:

– Buona notte, mamma.

E andò a chiudersi in camera.

La vecchia madre, piano piano per non farsi sentire, si rimise a sedere nella saletta e a cucire: a pensare.

Dio, perché cosí pallido e stravolto, quella notte? Bere, non beveva, o almeno dal fiato non si sentiva. Ma se fosse ricaduto in mano dei cattivi compagni che lo avevano rovinato, o fors’anche di peggiori?

Questa era la paura sua piú grave.

Tendeva di tanto in tanto l’orecchio per sentire che cosa egli facesse di là, se si fosse coricato, se già dormisse; e intanto ripuliva gli occhiali, che a ogni sospiro le s’appannavano. Lei, prima d’andare a letto, voleva finire quel lavoro. La pensioncina che il marito le aveva lasciato, non bastava piú, ora che Diego aveva perduto l’impiego. E poi accarezzava un sogno, che pur sarebbe stato la sua morte: metter tanto da parte, lavorando e risparmiando, da mandare il figlio lontano, in America. Perché qua, lo capiva, il suo Diego, ora, non avrebbe trovato piú da collocarsi, e nel triste ozio, che da sette mesi lo divorava, si sarebbe perduto per sempre.

In America… là – oh, il suo figliuolo era tanto bravo! sapeva tante cose! scriveva, prima, anche nei giornali… – in America, là, – lei magari ne sarebbe morta – ma il suo figliuolo avrebbe ripreso la vita, avrebbe dimenticato, cancellato il suo fallo di gioventú, di cui erano stati cagione i cattivi compagni: quel Russo, o Polacco che fosse, pazzo, crapulone, capitato a Roma per la sciagura di tante oneste famiglie. Giovinastri, si sa! Invitati a casa da questo forestiere, riccone e scostumato, avevano fatto pazzie: vino, donnacce… s’ubriacavano… Ubriaco, quello voleva giocare a carte, e perdeva… Se l’era procacciata da sé, con le sue mani, la rovina: che c’entrava poi l’accusa a tradimento dei suoi compagni di crapula, quel processo scandaloso, che aveva sollevato tanto rumore e infamato tanti giovanotti, scapati, sí, ma di famiglie onorate e per bene?

Le parve di sentire un singhiozzo di là e chiamò:

– Diego!

Silenzio. Rimase un pezzo con l’orecchio teso e gli occhi intenti.

Sí: era sveglio ancora. Che faceva?

Si alzò, e, in punta di piedi, s’accostò all’uscio, a origliare; poi si chinò per guardare attraverso il buco della serratura: – Leggeva… Ah, ecco! quei maledetti giornali ancora! il resoconto del processo… – Come mai, come mai s’era dimenticata di distruggerli, quei giornali, comperati nei tremendi giorni del processo? – E perché, quella notte, a quell’ora, appena rincasato, li aveva ripresi e tornava a leggerli?

– Diego! – chiamò di nuovo, piano; e schiuse timidamente l’uscio.

Egli si voltò di scatto, come per paura.

– Che vuoi? Ancora in piedi?

– E tu?… – fece la madre. – Vedi, mi fai rimpiangere ancora la mia stolidaggine…

– No. Mi diverto, – rispose egli, stirando le braccia.

Si alzò; si mise a passeggiare per la stanza.

– Stracciali, buttali via, te ne prego! – supplicò la madre a mani giunte. – Perché vuoi straziarti ancora? Non ci pensare piú!

Egli si fermò in mezzo alla stanza; sorrise e disse:

– Brava. Come se, non pensandoci piú io, per questo poi non dovessero piú pensarci gli altri. Dovremmo metterci a fare i distratti, tutti quanti… per lasciarmi vivere. Distratto io, distratti gli altri… – Che è stato? Niente. Sono stato tre anni «in villeggiatura». Parliamo d’altro… – Ma non vedi, non vedi come mi guardi anche tu?

– Io? – esclamò la madre. – come ti guardo?

– Come mi guardano tutti gli altri!

– No, Diego! ti giuro! Guardavo… ti guardavo, perché… dovresti passare dal sarto, ecco…

Diego Bronner si guardò addosso il vestito, e tornò a sorridere.

– Già, è vecchio. Per questo tutti mi guardano… Eppure, me lo spazzolo bene, prima d’uscire; mi aggiusto… Non so, mi sembra che potrei passare per un signore qualunque, per uno che possa ancora indifferentemente partecipare alla vita… Il guajo è là, è là… – aggiunse, accennando i giornali su la scrivania. – Abbiamo offerto un tale spettacolo, che, via, sarebbe troppa modestia presumere che la gente se ne sia potuta dimenticare… Spettacolo d’anime ignude, gracili e sudicette, vergognose di mostrarsi in pubblico, come i tisici alla leva. E cercavamo tutti di coprirci le vergogne con un lembo della toga dell’avvocato difensore. E che risate il pubblico! Vuoi che la gente, per esempio, si dimentichi che il Russo, noi, quel cagliostro, lo chiamavamo Luculloff e che lo paravamo da antico romano, con gli occhiali d’oro a stanghetta sul naso rincagnato? Quando lo han veduto là con quel faccione rosso brozzoloso, e han saputo come noi lo trattavamo, che gli strappavamo i coturni dai piedi e lo picchiavamo sodo sul cranio pelato, e che lui, sotto a quei picchi sodi, rideva, sghignava, beato…

– Diego! Diego, per carità! – scongiurò la madre.

– …Ubriaco. Lo ubriacavamo noi…

– Tu no!

– Anch’io, va’ là, con gli altri. Era uno spasso! E allora venivano le carte da giuoco. Giocando con un ubriaco, capirai, facilissimo barare…

– Per carità, Diego!

– Cosí… scherzando… Oh, questo, te lo posso giurare. Là risero tutti, giudici, presidente; finanche i carabinieri; ma è la verità. Noi rubavamo senza saperlo, o meglio, sapendolo e credendo di scherzare. Non ci pareva una truffa. Erano i denari d’un pazzo schifoso, che ne faceva getto cosí… E del resto, neppure un centesimo ne rimaneva poi nelle nostre tasche: ne facevamo getto anche noi, come lui, con lui, pazzescamente…

S’interruppe; s’accostò allo scaffale dei libri; ne trasse uno.

– Guarda. Questo solo rimorso. Con quei denari comprai una mattina, da un rivendugliolo, questo libro qua.

E lo buttò su la scrivania. Era La corona d’olivo selvaggio del Ruskin, nella traduzione francese.

– Non l’ho aperto nemmeno.

Vi fissò lo sguardo, aggrottando le ciglia. Come mai, in quei giorni, gli era potuto venire in mente di comprare quel libro? S’era proposto di non leggere piú, di non piú scrivere un rigo; e andava lí, in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere in sé, per affogare nel bagordo un sogno, il suo sogno giovanile, poiché le tristi necessità della vita gl’impedivano d’abbandonarsi a esso, come avrebbe voluto.

La madre stette un pezzo a guardare anche lei quel libro misterioso; poi gli chiese dolcemente:

– Perché non lavori? perché non scrivi piú, come facevi prima?

Egli le lanciò uno sguardo odioso, contraendo tutto il volto, quasi per ribrezzo.

La madre insistette, umile:

– Se ti chiudessi un po’ in te… Perché disperi? Credi tutto finito? Hai ventisei anni… Chi sa quante occasioni ti offrirà la vita, per riscattarti…

– Ah sí, una, proprio questa sera! – sghignò egli. – Ma sono rimasto lí, come di sacco. Ho visto un uomo buttarsi nel fiume…

– Tu?

– Io. Gli ho veduto posare il cappello sul parapetto del ponte; poi l’ho visto scavalcare, quietamente, poi ho udito il tonfo nel fiume. E non ho gridato, non mi son mosso. Ero nell’ombra degli alberi, e ci sono rimasto, spiando se nessuno avesse veduto. E l’ho lasciato affogare. Sí. Ma poi ho scorto lí, sul parapetto del ponte, sotto il fanale, il cappello, e sono scappato via, impaurito…

– Per questo… – mormorò la madre.

– Che cosa? Io non so nuotare. Buttarmi? tentare? La scaletta d’accesso al fiume era lí, a due passi. L’ho guardata, sai? e ho finto di non vederla. Avrei potuto… ma già era inutile… troppo tardi… Sparito!…

– Non c’era nessuno?

– Nessuno. Io solo.

– E che potevi fare tu solo, figlio mio? È bastato lo spavento che ti sei preso, e quest’agitazione… Vedi? tremi ancora… Va’, va’ a letto, va’ a letto… È molto tardi… Non ci pensare!…

La vecchia madre gli prese una mano e gliela carezzò. Egli le fe’ cenno di sí col capo e le sorrise.

– Buona notte, mamma.

– Dormi tranquillo, eh? – gli raccomandò la madre, commossa dalla carezza a quella mano, che egli s’era lasciata fare e, asciugandosi gli occhi, per non guastarsi questa tenerezza angosciosa, se n’uscí.

Dopo circa un’ora, Diego Bronner era di nuovo seduto sull’argine del fiume, al posto di prima, con le gambe penzoloni.

Continuava per il cielo la fuga delle nuvolette lievi, basse, cineree. Il cappello di quell’ignoto sul parapetto del ponte non c’era piú. Forse eran passate di là le guardie notturne e se l’erano preso.

All’improvviso, si girò verso il viale, ritraendo le gambe; scese dalla spalletta dell’argine e si recò là, sul ponte. Si tolse il cappello e lo posò allo stesso posto di quell’altro.

– E due! – disse.

Ma come se facesse per giuoco; per un dispetto alle guardie notturne che avevano tolto di là il primo.

Andò dall’altra parte del fanale, per vedere l’effetto del suo cappello, solo là, su la cimasa, illuminato come quell’altro. E rimase un pezzo, chinato sul parapetto, col collo proteso, a contemplarlo, come se lui non ci fosse piú. A un tratto rise orribilmente: si vide là appostato come un gatto dietro il fanale: e il topo era il suo cappello… Via, via, pagliacciate!

Scavalcò il parapetto: si sentí drizzare i capelli sul capo: sentí il tremito delle mani che si tenevano rigidamente aggrappate: le schiuse; si protese nel vuoto.

1.11 Amicissimi

Gigi Mear, in pipistrello quella mattina (eh, con la tramontana, dopo i quaranta non ci si scherza piú!), il fazzoletto da collo tirato sú e rinvoltato con cura fin sotto il naso, un pajo di grossi guanti inglesi alle mani; ben pasciuto, liscio e rubicondo, aspettava sul Lungo Tevere de’ Mellini il tram per Porta Pia, che doveva lasciarlo, come tutti i giorni, in Via Pastrengo, innanzi alla Corte dei Conti, ove era impiegato.

Conte di nascita, ma purtroppo senza piú né contea né contanti, Gigi Mear aveva nella beata incoscienza dell’infanzia manifestato al padre il nobile proposito d’entrare in quell’ufficio dello Stato credendo allora ingenuamente che fosse una Corte, in cui ogni conte avesse il diritto d’entrare.

È noto a tutti ormai che i tram non passano mai, quando sono aspettati. Piuttosto si fermano a mezza via per interruzione di corrente, o preferiscono d’investire un carro o di schiacciare magari un pover’uomo. Bella comodità, non pertanto, tutto sommato.

Quella mattina intanto tirava la tramontana, gelida, tagliente, e Gigi Mear pestava i piedi guardando l’acqua aggricciata del fiume, che pareva sentisse un gran freddo anch’esso, poverino, lí, come in camicia, tra quelle dighe rigide, scialbe, della nuova arginatura.

Come Dio volle, dindín, dindín: ecco il tram. E Gigi Mear si disponeva a montarvi senza farlo fermare, quando, dal nuovo Ponte Cavour, si sentí chiamare a gran voce:

– Gigin! Gigin!

 

E vide un signore che gli correva incontro gestendo come un telegrafo ad asta. Il tram se la filò. In compenso, Gigi Mear ebbe la consolazione di trovarsi tra le braccia d’uno sconosciuto, suo intimo amico, a giudicarne dalla violenza con cui si sentiva baciato, là, là, sul fazzoletto di seta che gli copriva la bocca.

– T’ho riconosciuto subito, sai, Gigin! Subito! Ma che vedo? Già venerando? Ih, ih, tutto bianco! E non ti vergogni? un altro bacio, permetti, Gigione mio? per la tua santa canizie! Stavi qua fermo – mi pareva che stessi ad aspettarmi. Quando t’ho visto alzar le braccia per montare su quel demonio, m’è parso un tradimento, m’è parso!

– Già! – fece il Mear, forzandosi a sorridere. – Andavo all’ufficio.

– Mi farai il piacere di non parlare di porcherie in questo momento!

– Come?

– Cosí! Te lo comando io.

– Pregare sempre, che c’entra! Sai che sei un bel tipo?

– Sí, lo so. Ma tu non m’aspettavi, è vero? Eh, ti vedo all’aria; non m’aspettavi.

– No… per dire la verità…

– Sono arrivato jersera. E ti porto i saluti di tuo fratello, il quale… ti faccio ridere! voleva darmi un biglietto di presentazione per te. – Come! dico. Per Gigione? Ma sa che io l’ho conosciuto prima di lei, per modo di dire: amici d’infanzia, perdio, ci siamo rotti tante volte reciprocamente la testa… Compagni poi d’Università… La gran Padova, Gigione, ti ricordi? il campanone, che tu non sentivi mai, mai, dormendo come un… diciamo ghiro, eh? ti toccherebbe porco, però. Basta. Una volta sola lo sentisti, e ti parve che chiamassero al fuoco! Bei tempi! Tuo fratello sta benone, sai, grazie a Dio. Abbiamo combinato insieme un certo affaruccio, e sono qua per questo. Oh, ma tu che hai? Sei funebre. Hai preso moglie?

– No, caro! – esclamò Gigi Mear, riscotendosi.

– Stai per prenderla?

– Sei matto? Dopo i quaranta? Neanche per sogno!

 

– Quaranta? E se fossero cinquanta, Gigione, e sonati? Ma già, tu hai la specialità di non sentir sonare mai niente: né le campane né gli anni, me ne scordavo. Cinquanta, cinquanta, caro, te l’assicuro io, sonati. Sospiriamo! la faccenda comincia a farsi un po’ seria. Sei nato… aspetta: nell’aprile del 1851, è vero o non è vero? 12 aprile.

– Maggio, se permetti, e mille ottocento cinquantadue, se permetti, – corresse il Mear, sillabando, indispettito. – O vuoi saperlo meglio di me, adesso? Dodici maggio 1852. Dunque, finora, quarantanove anni e qualche mese.

– E niente moglie! Benissimo. Io sí, sai? Ah, una tragedia: ti farò schiattare dalle risa. Restiamo intesi, intanto, oh! che tu mi hai invitato a pranzo. Dove divori di questi tempi? Sempre dal vecchio Barba?

– Ah, – esclamò con crescente stupore Gigi Mear, – sai anche del vecchio Barba? C’eri forse anche tu?

– Io? Da Barba? Come vuoi ci fossi, se sto a Padova? Me l’hanno detto e mi hanno raccontato le belle prodezze che vi fai, con gli altri commensali, in quella vecchia… debbo dire bettola, macelleria, trattoria?

– Bettola, bettolaccia, – rispose il Mear, – ma adesso… eh, se devi desinare con me, bisogna che avverta a casa mia, la serva…

– Giovane?

– Eh no, vecchia, caro, vecchia! E da Barba, sai? non ci vado piú, e prodezze, basta, da tre anni ormai. A una certa età…

– Dopo i quaranta!

– Dopo i quaranta, bisogna avere il coraggio di voltar le spalle a un cammino che, seguitando, ti porterebbe al precipizio. Scendere, va bene, ma pian pianino, pian pianino, senza ruzzolare. Ecco, vieni sú. Sto qua. Ti fo vedere come mi son messa per benino la casetta.

Pian pianino… per benino… la casetta… – cominciò a dire l’amico, salendo la scala, dietro Gigi Mear. – Ma tu mi parli anche in diminutivi, adesso, e sei cosí grosso, cosí superlativo, povero Gigione mio! Che t’hanno fatto? T’hanno bruciato la coda? Vuoi farmi piangere?

– Mah! – fece il Mear, aspettando sul pianerottolo che la serva venisse ad aprire la porta. – Bisogna prenderla ormai con le buone questa vitaccia, carezzarla, carezzarla coi diminutivi, o te la fa. Non voglio mica ridurmi alla fossa a quattro piedi, io.

– Ah tu credi l’uomo bipede? – scattò l’altro, a questo punto. – Non lo dire, Gigione! So io che sforzi faccio certi momenti a tenermi ritto su due zampe soltanto. Credi, amico mio: a lasciar fare alla natura, noi saremmo, per inclinazione, tutti quadrupedi. La meglio cosa! Piú comodi, ben posati, sempre in equilibrio… Quante volte mi butterei a camminare a terra, cosí con le mani puntate, gattoni! Questa maledetta civiltà ci rovina! Quadrupede, io sarei una bella bestia selvaggia; quadrupede, ti sparerei un pajo di calci nel ventre per le bestialità che hai detto; quadrupede, non avrei moglie, né debiti, né pensieri… Vuoi farmi piangere? Me ne vado!

Gigi Mear, intontito dalla buffonesca loquela di quel suo amico piovuto dal cielo, lo osservava mettendo a tortura la memoria per sapere come diamine si chiamasse, come e quando lo avesse conosciuto, a Padova, da ragazzo o da studente d’Università; e passava e ripassava in rassegna tutti i suoi intimi amici d’allora, invano: nessuno rispondeva alla fisonomia di questo. Non ardiva intanto di domandargli uno schiarimento. L’intimità che esso gli dimostrava era tanta e tale, che temeva d’offenderlo. Si propose di riuscirvi con l’astuzia.

La serva tardava ad aprire: non s’aspettava il padrone cosí presto di ritorno. Gigi Mear sonò di nuovo, e quella venne alla fine, ciabattando.

– Vecchia mia, – le disse il Mear. – Eccomi di ritorno, e in compagnia. Apparecchierai per due, oggi, e disimpégnati! Con questo mio amico, che ha un nome curiosissimo, non si scherza, bada!

– Antropofago Capribarbicornípede! – esclamò l’altro con un versaccio, che lasciò la vecchietta perplessa, se sorriderne o farsi la croce. – E nessuno vuol piú saperne, di questo mio bel nome, vecchia! I direttori delle banche arricciano il naso, gli strozzini strabiliano. Soltanto mia moglie è stata felicissima di prenderselo; ma il nome soltanto, veh! le ho lasciato prendere. Me, no! me, no! Son troppo bel giovine, per l’anima di tutti i diavoli! Su, Gigione, poiché hai codesta debolezza, mostrami adesso le tue miserie. Tu vecchia, subito: – Biada alla bestia!

Il Mear, sconfitto, se lo portò in giro per le cinque stanzette del quartierino arredate con cura amorosa, con la cura di chi non voglia trovar piú nulla da desiderare fuori della propria casa, fatto il proponimento di diventar chiocciola. Salottino, camera da letto, stanzino da bagno, sala da pranzo, studiolo.

Nel salottino, il suo stupore e la sua tortura s’accrebbero nel sentir parlare l’amico delle cose piú intime e particolari della sua famiglia, guardando le fotografie disposte su la mensola.

– Gigione! Vorrei un cognato come questo tuo. Sapessi quant’è birbone il mio!

– Tratta forse male tua sorella?

– Tratta male me! E gli sarebbe cosí facile ajutarmi, in questi frangenti… Ma!

– Scusa, – disse il Mear, – non ricordo piú come si chiami tuo cognato…

– Lascia fare! non te lo puoi ricordare: non lo conosci. Sta a Padova da due anni appena. Sai che m’ha fatto? Tuo fratello, tanto buono con me, m’aveva promesso ajuto, se quella canaglia m’avesse avallato le cambiali… Lo crederesti? M’ha negato la firma! E allora tuo fratello, che alla fin fine, benché amicissimo, è un estraneo, ne ha fatto a meno, tanto se n’è indignato… È vero che il nostro negozio è sicuro… Ma se ti dicessi la ragione del rifiuto di mio cognato! Sono ancora un bel giovine: non puoi negarlo: simpaticone, non fo per dire. Bene: la sorella di mio cognato ha avuto la cattiva ispirazione d’innamorarsi di me, poverina. Ottimo gusto, ma poco discernimento. Figúrati se io… Basta. S’è avvelenata.

– Morta? – domandò il Mear, restando.

– No. Ha vomitato un pochino ed è guarita. Ma io, capirai, non ho potuto metter piú piede in casa di mio cognato, dopo questa tragedia. Mangiamo, santo Dio, sí o no? Io non ci vedo piú dalla fame. Allupo!

 

Poco dopo, a tavola, Gigi Mear, oppresso dalle espansioni d’affetto dell’amico, che lo caricava di male parole e per miracolo non lo picchiava, cominciò a domandargli notizie di Padova e di questo e di quello, sperando di fargli uscir di bocca il proprio nome, cosí per caso, o sperando almeno, nell’esasperazione crescente di punto in punto, che gli avvenisse di distrarsi dalla fissazione di venirne a capo, parlando d’altro.

– E di’ un po’, e quel Valverde, direttore della Banca d’Italia, con quella moglie bellissima e quel magnifico mostro di sorella, guercia, per giunta, se non m’inganno? Ancora a Padova?

L’amico, a questa interrogazione, scoppiò a ridere a crepapelle.

– Che cos’è? – riprese il Mear, incuriosito. – Non è forse guercia?

– Sta’ zitto! sta’ zitto! – pregò l’altro che non riusciva a frenar le risa, come in una convulsione. – Guercissima. E con un naso, Dio liberi, che le lascia vedere il cervello. È quella!

– Quella, chi?

– Mia moglie!

Gigi Mear restò intronato e poté a mala pena balbettare qualche sciocca scusa. Ma quegli riprese a ridere piú forte e piú a lungo di prima. Alla fine si quietò, aggrottò le ciglia, trasse un profondo sospiro.

– Caro mio, – disse, – ci sono eroismi ignorati nella vita, che la piú sbrigliata fantasia di poeta non potrà mai arrivare a concepire!

– Eh sí! – sospirò il Mear. – Hai ragione… comprendo…

– Non comprendi un corno! – negò subito l’altro. – Credi che io voglia alludere a me? Io, l’eroe? Tutt’al piú, la vittima potrei essere. Ma neppure. L’eroismo è stato quello di mia cognata: la moglie di Lucio Valverde. Senti un po’: cieco, stupido, imbecille…

 

– Io?

– No, io, io: potei lusingarmi che la moglie di Lucio Valverde si fosse innamorata di me, fino al punto di fare un torto al marito che, in coscienza, puoi crederlo, Gigin, se lo sarebbe meritato. Ma che! Ma che! Sai che era invece? Disinteressato spirito di sacrificio. Sta’ a sentire. Valverde parte, o meglio, finge di partire come si fa di solito (d’intesa, certo, con lei). E lei allora mi riceve in casa. Venuto il momento tragico della sorpresa, mi caccia in camera della cognata guercia, la quale, accogliendomi tutta tremante e pudibonda, aveva l’aria di sacrificarsi anche lei per la pace e per l’onore del fratello. Io ebbi appena il tempo di gridare: «Ma abbia pazienza, signora mia, com’è possibile che Lucio creda sul serio…». Non potei finire; Lucio irruppe, furibondo, nella camera, e il resto te lo puoi immaginare.

– E come? – esclamò Gigi Mear, – tu, col tuo spirito…

 

– E le mie cambiali? – gridò l’altro. – Le mie cambiali in sofferenza, di cui Valverde m’accordava la rinnovazione per le finte buone grazie della moglie? Ora me le avrebbe protestate ipso facto, capisci? E mi avrebbe rovinato. Vilissimo ricatto! Non ne parliamo piú, ti prego. In fin de’ conti, visto e considerato che non ho neppure un soldo di mio e che non ne avrò mai, visto e considerato che non ho intenzione di prender moglie…

– Come! – lo interruppe, a questo punto, Gigi Mear. – Se hai sposato!

– Io? Ah, io no, davvero! Lei mi ha sposato, lei sola. Io, per conto mio, gliel’ho detto avanti. Patti chiari, amici cari: «Lei, signorina, vuole il mio nome? E se lo pigli pure: non so proprio che farmene! Ma basta, eh?».

– Cosicché, – arrischiò Gigi Mear, gongolante, – non c’è altro; prima si chiamava Valverde e ora si chiama…

– Purtroppo! – sbuffò l’altro, alzandosi di tavola.

– Ah no, senti! – esclamò Gigi Mear, non potendone piú e prendendo il coraggio a due mani. – Tu m’hai fatto passare una mattinata deliziosa: io ti ho accolto come un fratello: ora mi devi fare un favore…

– Vorresti, per caso, in prestito, mia moglie?

– No, grazie! Voglio che tu mi dica come ti chiami.

– Io? come mi chiamo io? – domandò l’amico, sentendosi cascar dalle nuvole e appuntandosi l’indice d’una mano sul petto, quasi non credesse a se stesso. – E che vuol dire? non lo sai? Non ti ricordi piú?

– No – confessò, avvilito, il Mear. – Scusami, chiamami l’uomo piú smemorato della terra; ma io proprio potrei giurare di non averti mai conosciuto.

– Ah sí? Ah, benissimo! benissimo! – riprese quegli. – Caro Gigione mio, qua la mano. Ti ringrazio con tutto il cuore del pranzo e della compagnia, e me ne vado senza dirtelo. Figúrati!

– Tu me lo dirai, perdio! – scattò Gigi Mear, balzando in piedi. – Mi sono torturato il cervello un’intera mattinata! Non ti faccio uscire di qua, se non me lo dici.

– Ammazzami, – rispose l’amico impassibile, – tagliami a pezzi; non te lo dirò.

– Via, sii buono! – riprese, cangiando tono, il Mear. – Non avevo mai sperimentato prima d’ora… guarda, questa mia mancanza di memoria, e ti giuro che mi fa una penosissima impressione: tu, in questo momento, rappresenti un incubo per me. Dimmi come ti chiami, per carità!

– Vattelapesca.

– Te ne scongiuro! Vedi: la dimenticanza non m’ha impedito di farti sedere alla mia tavola; e, del resto, quand’anche non t’avessi mai conosciuto, quand’anche tu non fossi mai stato amico mio, lo sei diventato adesso e carissimo, credi! sento per te una simpatia fraterna, ti ammiro, ti vorrei sempre con me: dunque, dimmi come ti chiami!

– È inutile, sai, – concluse l’altro, – non mi seduci. Sii ragionevole: vuoi che mi privi adesso di questo inatteso godimento, di farti restare cioè con un palmo di naso, senza sapere a chi tu abbia dato da mangiare? No, via: pretendi troppo, e si vede proprio che non mi conosci piú. Se vuoi che non ti serbi rancore dell’indegna dimenticanza, lasciami andar via cosí.

– Vattene via subito, allora, te ne scongiuro! – esclamò Gigi Mear, esasperato. – Non ti posso piú vedere innanzi a me!

– Me ne vado, sí. Ma prima un bacetto, Gigione: me ne riparto domani…

– Non te lo do! – gridò il Mear, – se non mi dici…

– Basta, no, no, basta. E allora, addio, eh? – troncò l’altro.

E se n’andò ridendo e voltandosi per la scala a salutarlo con la mano, ancora una volta.

1.12 Se…

– Parte o arriva? – domandò a se stesso il Valdoggi, udendo il fischio d’un treno e guardando da un tavolino innanzi allo chalet in Piazza delle Terme l’edificio della stazione ferroviaria.

S’era appigliato al fischio del treno, come si sarebbe appigliato al ronzío sordo continuo che fanno i globi della luce elettrica, pur di riuscire a distrarre gli occhi da un avventore, il quale, dal tavolino accanto, stava a fissarlo con irritante immobilità.

Per qualche minuto vi riuscí. Si rappresentò col pensiero l’interno della stazione, ove il fulgore opalino della luce elettrica contrasta con la vacuità fosca e cupamente sonora sotto l’immenso lucernario fuligginoso; e si diede a immaginare tutte le seccature d’un viaggiatore, sia che parta, sia che arrivi.

Inavvertitamente però gli cadde di nuovo lo sguardo su quell’avventore del tavolino accanto.

Era un uomo sui quarant’anni, vestito di nero, coi capelli e i baffetti rossicci, radi, spioventi, la faccia pallida e gli occhi tra il verde e il grigio, torbidi e ammaccati.

Gli stava a fianco una vecchierella mezzo appisolata, alla cui placidità dava un’aria molto strana la veste color cannella diligentemente guarnita di cordellina nera a zig-zag, e il cappellino logoro e stinto su i capelli lanosi, i cui grossi nastri neri terminati in punta da una frangia a grillotti d’argento, che li faceva sembrar due nastri tolti a una corona mortuaria, erano annodati voluminosamente sotto il mento.

Il Valdoggi distrasse subito, di nuovo, lo sguardo da quell’uomo, ma questa volta in preda a una vera esasperazione, che lo fece rigirar su la seggiola sgarbatamente e soffiar forte per le nari.

Che voleva insomma quello sconosciuto? Perché lo guardava a quel modo?

Si rivoltò: volle guardarlo anche lui, con l’intenzione di fargli abbassare gli occhi.

– Valdoggi – bisbigliò quegli allora, quasi tra sé, tentennando leggermente il capo, senza muover gli occhi.

Il Valdoggi aggrottò le ciglia e si sporse un po’ avanti per discerner meglio la faccia di colui che aveva mormorato il suo nome. O s’era ingannato? Eppure, quella voce…

Lo sconosciuto sorrise mestamente e ripeté:

– Valdoggi: è vero?

– Sí… – disse il Valdoggi smarrito, provandosi a sorridergli, indeciso. E balbettò: – Ma io… scusi… lei…

– Lei? Io son Griffi!

– Griffi? Ah… – fece il Valdoggi, confuso, vieppiú smarrito, cercando nella memoria un’immagine che gli si ravvivasse a quel nome.

– Lao Griffi… tredicesimo reggimento fanteria… Potenza…

– Griffi!… tu? – esclamò il Valdoggi a un tratto, sbalordito. – Tu?… cosí…

Il Griffi accompagnò con un desolato tentennar del capo le esclamazioni di stupore del ritrovato amico; e ogni tentennamento era forse insieme un cenno e un saluto lagrimevole ai ricordi del buon tempo andato.

– Proprio io… cosí! Irriconoscibile, è vero?

– No… non dico… ma t’immaginavo…

 

– Di’, di’, come m’immaginavi? – lo interruppe subito il Griffi; e, quasi spinto da un’ansia strana, con moto repentino gli s’accostò, battendo piú e piú volte di seguito le palpebre e tenendosi le mani, come per reprimer la smania. – M’immaginavi? Eh, certo… di’, di’… come?

– Che so! – fece il Valdoggi. – A Roma? Ti sei dimesso?

– No, dimmi come m’immaginavi, te ne prego! – insisté il Griffi vivamente. – Te ne prego…

– Mah… ancora ufficiale, che so! – riprese il Valdoggi alzando le spalle. – Capitano, per lo meno… Ti ricordi? Oh, e Artaserse?… ti ricordi d’Artaserse, il tenentino?

– Sí… sí… – rispose Lao Griffi, quasi piangendo. – Artaserse… Eh, altro!

– Chi sa che ne è!

– Chi sa! – ripeté l’altro con solenne e cupa gravità, sgranando gli occhi.

– Io ti credevo a Udine… – riprese il Valdoggi, per cambiar discorso.

Ma il Griffi sospirò, astratto e assorto:

– Artaserse…

Poi si scosse di scatto e domandò:

– E tu? Anche tu dimesso, è vero? Che t’ è accaduto?

– Nulla a me, – rispose il Valdoggi. – Terminai a Roma il servizio,..

– Ah, già! Tu, allievo ufficiale… Ricordo benissimo: non ci badare… Ricordo, ricordo…

La conversazione languí. Il Griffi guardò la vecchierella che gli stava a fianco appisolata.

– Mia madre! – disse, accennandola con espressione di profonda tristezza nella voce e nel gesto.

   

Il Valdoggi, senza saper perché, sospirò.

– Dorme, poverina…

Il Griffi contemplò un pezzo sua madre in silenzio. Le prime sviolinate d’un concerto di ciechi nel Caffè lo scossero, e si rivolse al Valdoggi.

– A Udine, dunque. Ti ricordi? io avevo domandato che mi s’ascrivesse o al reggimento di Udine, perché contavo, in qualche licenza d’un mese, di passare i confini (senza disertare), per visitare un po’ l’Austria… Vienna: dicono ch’è tanto bella!… e un po’ la Germania; oppure al reggimento di Bologna per visitar l’Italia di mezzo: Firenze, Roma… Nel peggior dei casi, rimanere a Potenza – nel peggiore dei casi, bada!  Orbene, il Governo mi lasciò a Potenza, capisci? A Potenza, a Potenza! Economie… economie… E si rovina, si assassina cosí un pover’uomo!

Pronunziò quest’ultime parole con voce cosí cangiata e vibrante, con gesti cosí insoliti, che molti avventori si voltarono a guardarlo dai tavolini intorno, e qualcuno zittí.

La madre si destò di soprassalto e, accomodandosi in fretta il gran nodo sotto il mento, gli disse:

– Lao, Lao… ti prego, sii buono…

Il Valdoggi lo squadrò, tra stordito e stupito, non sapendo come regolarsi.

– Vieni, vieni Valdoggi, – riprese il Griffi, lanciando occhiatacce alla gente che si voltava. – Vieni… Alzati, mamma. Ti voglio raccontare… O paghi tu, o pago io… Pago io, lascia fare…

Il Valdoggi cercò d’opporsi, ma il Griffi volle pagar lui: si alzarono e si diressero tutti e tre verso Piazza dell’Indipendenza.

 

– A Vienna, – riprese il Griffi, appena si furono allontanati dal Caffè, – è come se io ci fossi stato veramente. Sí… Ho letto guide, descrizioni… ho domandato notizie, schiarimenti a viaggiatori che ci sono stati… ho veduto fotografie, panorami, tutto… posso insomma parlarne benissimo, quasi con cognizione di causa, come si dice. E cosí di tutti quei paesi della Germania che avrei potuto visitare, passando i confini, nel mio giretto d’un mese. Sí… Di Udine, poi, non ti parlo: ci sono stato addirittura; ci son voluto andare per tre giorni, e ho veduto tutto, tutto esaminato: ho cercato di viverci tre giorni la vita che avrei potuto viverci, se il Governo assassino non m’avesse lasciato a Potenza. Lo stesso ho fatto a Bologna. E tu non sai ciò che voglia dire vivere la vita che avresti potuto vivere, se un caso indipendente dalla tua volontà, una contingenza imprevedibile, non t’avesse distratto, deviato, spezzato talvolta l’esistenza, com’è avvenuto a me, capisci? a me…

– Destino! – sospirò a questo punto con gli occhi bassi la vecchia madre.

– Destino!… – si rivolse a lei il figlio, con ira. – Tu ripeti sempre codesta parola che mi dà ai nervi maledettamente, lo sai! Dicessi almeno imprevidenza, predisposizione… Quantunque, sí – la previdenza! a che ti giova? Si è sempre esposti, sempre, alla discrezione della sorte. Ma guarda, Valdoggi, da che dipende la vita d’un uomo… Forse non potrai intendermi bene neanche tu; ma immagina un uomo, per esempio, che sia costretto a vivere, incatenato, con un’altra creatura, contro la quale covi un intenso odio, soffocato ora per ora dalle piú amare riflessioni: immagina! Oh, un bel giorno, mentre sei a colazione – tu qui, lei lí – conversando, ella ti narra che, quand’era bambina, suo padre fu sul punto di partire, poniamo, per l’America, con tutta la famiglia, per sempre; oppure, che mancò poco ella non restasse cieca per aver voluto un giorno ficcare il naso in certi congegni chimici del padre. Orbene: tu che soffri l’inferno a cagione di questa creatura, puoi sottrarti alla riflessione che, se un caso o l’altro (probabilissimi entrambi) fosse avvenuto, la tua vita non sarebbe quella che è: «Oh fosse avvenuto! Tu saresti cieca, mia cara; io non sarei certamente tuo marito!». E immagineresti, magari commise-randola, la sua vita da cieca e la tua da scapolo, o in compagnia di un’altra donna qualsiasi…

 

– Ma perciò ti dico che tutto è destino – disse ancora una volta, convintissima, senza scomporsi, la vecchierella, a occhi bassi, andando con passo pesante.

– Mi dài ai nervi! – urlò questa volta, nella piazza deserta, Lao Griffi. – Tutto ciò che avviene doveva dunque fatalmente avvenire? Falso! Poteva non avvenire, se… E qui mi perdo io: in questo se! Una mosca ostinata che ti molesti, un movimento che tu fai per scacciarla, possono di qui a sei, a dieci, a quindici anni, divenir causa per te di chi sa quale sciagura. Non esagero, non esagero! È certo che noi, vivendo, guarda, esplichiamo – cosí – lateralmente, forze imponderate, inconsiderate – oh, premetti questo. Da per sé, poi, queste forze si esplicano, si svolgono latenti, e ti tendono una rete, un’insidia che tu non puoi scorgere, ma che alla fine t’avviluppa, ti stringe, e tu allora ti trovi preso, senza saperti spiegar come e perché. È cosí! I piaceri d’un momento, i desiderii immediati ti s’impongono, è inutile! La natura stessa dell’uomo, tutti i tuoi sensi te li reclamano cosí spontaneamente e imperiosamente, che tu non puoi loro resistere; i danni, le sofferenze che possono derivarne non ti s’affacciano al pensiero con tal precisione, né la tua immaginativa può presentir questi danni, queste sofferenze, con tanta forza e tale chiarezza, che la tua inclinazione irresistibile a soddisfar quei desiderii, a prenderti quei piaceri ne è frenata. Se talvolta, buon Dio, neppure la coscienza dei mali immediati è ritegno che basti contro ai desiderii! Noi siamo deboli creature… Gli ammaestramenti, tu dici, dell’esperienza altrui? Non servono a nulla. Ciascuno può pensare che l’esperienza è frutto che nasce secondo la pianta che lo produce e il terreno in cui la pianta è germogliata; e se io mi credo, per esempio, rosajo nato a produr rose, perché debbo avvelenarmi col frutto attossicato colto all’albero triste della vita altrui? No, no. – Noi siamo deboli creature… – Non destino, dunque, né fatalità.  Tu puoi sempre risalire alla causa de’ tuoi danni o delle tue fortune; spesso, magari, non la scorgi; ma non di meno la causa c’è: o tu o altri, o questa cosa o quella. È proprio cosí, Valdoggi; e senti: mia madre sostiene ch’io sono aberrato, ch’io non ragiono…

 

– Ragioni troppo, mi pare… – affermò il Valdoggi, già mezzo intontito.

– Sí! E questo è il mio male! – esclamò con viva spontanea sincerità Lao Griffi, sbarrando gli occhi chiari. – Ma io vorrei dire a mia madre: senti, io sono stato imprevidente, oh! – quanto vuoi… – ero anche predisposto, predispos-tissimo al matrimonio – concedo! Ma è forse detto che a Udine o a Bologna avrei trovato un’altra Margherita? (Margherita era il nome di mia moglie).

– Ah, – fece il Valdoggi. – T’è morta?

Lao Griffi si cangiò subito in volto e si cacciò le mani in tasca, stringendosi nelle spalle.

La vecchierella chinò il capo e tossí leggermente.

– L’ho uccisa! – rispose Lao Griffi seccamente. Poi domandò: – Non hai letto nei giornali? Credevo che sapessi…

– Non… non so nulla… – disse il Valdoggi sorpreso, impacciato, afflitto d’aver toccato un tasto che non doveva, ma pur curioso di sapere.

– Te lo racconterò, – riprese il Griffi. – Esco adesso dal carcere. Cinque mesi di carcere… Ma, preventivo, bada! Mi hanno assolto. Eh sfido! Ma se mi lasciavano dentro, non credere che me ne sarebbe importato! Dentro o fuori, ormai, carcere lo stesso! Cosí ho detto ai giurati: «Fate di me ciò che volete: condannatemi, assolvetemi; per me è lo stesso. Mi dolgo di quel che ho fatto, ma in quell’istante terribile non seppi, né potei fare altrimenti. Chi non ha colpa, chi non ha da pentirsi, è uomo libero sempre; anche se voi mi date la catena, sarò libero sempre, internamente: del di fuori ormai non m’importa piú nulla». E non volli dir altro, né volli discolpe d’avvocato. Tutto il paese però sapeva bene che io, la temperanza, la morigeratezza in persona, avevo fatto per lei un monte di debiti… ch’ero stato costretto a dimettermi… E poi… ah poi… Me lo sai dire come una donna, dopo esser costata tanto a un uomo, possa far quello che mi fece colei? Infame! Ma sai? con queste mani… Ti giuro che non volevo ucciderla; volevo sapere come avesse fatto, e glielo domandavo, scotendola, afferrata, cosí, per la gola… Strinsi troppo. Lui s’era buttato giú dalla finestra, nel giardino… Il suo ex-fidanzato… Sí, lo aveva prima piantato, come si dice, per me: per il simpatico ufficialetto… E guarda, Valdoggi! Se quello sciocco non si fosse allontanato per un anno da Potenza, dando cosí agio a me d’innamorarmi per mia sciagura di Margherita, a quest’ora quei due sarebbero senza dubbio marito e moglie, e probabilmente felici… Sí. Li conoscevo bene tutti e due: erano fatti per intendersi a meraviglia. Posso benissimo, guarda, immaginarmi la vita che avrebbero vissuto insieme. Me l’immagino, anzi. Posso crederli vivi entrambi, quando voglio, laggiú a Potenza, nella loro casa… So finanche la casa dove sarebbero andati ad abitare, appena sposi. Non ho che da metterci Margherita, viva, come tante volte, figúrati, nelle varie occorrenze della vita l’ho veduta… Chiudo gli occhi e la vedo per quelle stanze, con le finestre aperte al sole: vi canta con la sua vocina tutta trilli e scivoli. Come cantava! Teneva, cosí, le manine intrecciate sul capo biondo. «Buon dí, sposa felice!» – Figli, non ne avrebbero, sai? Margherita non poteva farne… Vedi? Se follia c’è, è questa la mia follia… Posso veder tutto ciò che sarebbe stato, se quel che è avvenuto non fosse avvenuto. Lo vedo, ci vivo; anzi vivo lí soltanto… Il se, insomma, il se, capisci?

Tacque un buon tratto, poi esclamò con tanta esasperazione, che il Valdoggi si voltò a guardarlo, credendo che piangesse:

– E se mi avessero mandato a Udine?

La vecchierella non ripeté questa volta: Destino! Ma se lo disse certo in cuore. Tanto vero, che scosse amaramente il capo e sospirò piano, con gli occhi sempre a terra, movendo sotto il mento tutti i grillotti d’argento di quei due nastri da corona mortuaria.

1.13 Rimedio: la geografia

La bussola, il timone… Eh, sí! Volendo navigare… Dovreste dimostrarmi però che anche sia necessario, voglio dire che conduca a una qualsiasi conclusione, prendere una rotta anziché un’altra, o anziché a questo porto approdare a quello.

– Come! – dite, – e gli affari? senza una regola, senza un criterio direttivo? E la famiglia? l’educazione dei figliuoli? la buona reputazione in società? l’obbedienza che si deve alle leggi dello Stato? l’osservanza dei proprii doveri?

Con quest’azzurro che si beve liquido, oggi… Per carità! E che non bado forse regolarmente ai miei affari? La mia famiglia… Ma sí, vi prego di credere, mia moglie mi odia. Regolarmente e né piú né meno di quanto vostra moglie odii voi. E anche i miei piccini, ma volete che non li educhi regolarmente, come voi i vostri? Con un profitto, credete, non molto diverso di quello che la vostra saggezza riesce a ottenere. Obbedisco a tutte le leggi dello Stato e scrupolosamente osservo i miei doveri.

Soltanto, ecco, io porto – come dire? – una certa elasticità spirituale in tutti questi esercizii; profitto di tutte quelle nozioni scientifiche, positive, apprese nell’infanzia e nell’adolescenza, delle quali voi, che pur le avete apprese come me, dimostrate di non sapere o di non volere profittare.

Con molto danno, v’assicuro, della vostra salute.

 

Certo non è facile valersi opportunamente di quelle nozioni che contrastino, ad esempio, con le illusioni dei sensi. Che la terra si muove, ecco, se ne potrebbe valere opportunamente, come di elegante scusa, un ubriaco. Noi, in realtà, non la sentiamo muovere, se non di tanto in tanto, per qualche modesto terremoto. E le montagne, data la nostra statura, cosí alte le vediamo che – capisco – pensarle piccole grinze della crosta terrestre non è facile.  Ma santo Dio, domando e dico perché abbiamo allora studiato tanto da piccoli? Se costantemente ci ricordassimo di ciò che la scienza astronomica ci ha insegnato, l’infimo, quasi incalcolabile posto che il nostro pianeta occupa nell’universo…

Lo so; c’è anche la malinconia dei filosofi che ammettono, sí, piccola la terra, ma non piccola intanto l’anima nostra se può concepire l’infinita grandezza dell’universo.

Già. Chi l’ha detto? Biagio Pascal.

Bisognerebbe pur tuttavia pensare che questa grandezza dell’uomo, allora, se mai, è solo a patto d’intendere, di fronte a quell’infinita grandezza dell’universo, la sua infinita piccolezza, e che perciò grande è solo quando si sente piccolissimo, l’uomo, e non mai cosí piccolo come quando si sente grande.

E allora, di nuovo, domando e dico che conforto e che consolazione ci può venire da questa speciosa grandezza, se non debba aver altra conseguenza che quella di saperci qua condannati alla disperazione di veder grandi le cose piccole (tutte le cose nostre, qua, della terra) e piccole le grandi, come sarebbero le stelle del cielo. E non varrà meglio allora per ogni sciagura che ci occorra, per ogni pubblica o privata calamità, guardare in sú e pensare che dalle stelle la terra, signori miei, ma neanche si suppone che ci sia, e che alla fin fine tutto è dunque come niente?

Voi dite:

– Benissimo. Ma se intanto, qua sulla terra, mi fosse morto, per esempio, un figliuolo?

Eh, lo so. Il caso è grave. E piú grave diventerà, ve lo dico io, quando comincerete a uscire dal vostro dolore e sotto gli occhi che non vorrebbero piú vedere v’accadrà di scorgere, che so? la grazia timida di questi fiorellini bianchi e celesti che spuntano ora nei prati ai primi soli di marzo; e appena la dolcezza di vivere che, pur non volendo, sentirete ai nuovi tepori inebrianti della stagione, vi si tramuterà in una piú fitta ambascia pensando a lui che, intanto, non la può piú sentire.

Ebbene?… Ma che consolazione, in nome di Dio, vorreste voi avere della morte del vostro figliuolo? Non è meglio niente? Ma sí, niente, credete a me. Questo niente della terra, non solo per le sciagure, ma anche per questa dolcezza di vivere che pur ci dà: il niente assoluto, insomma, di tutte le cose umane che possiamo pensare guardando in cielo Sirio o l’Alpha del Centauro.

Non è facile. Grazie. E che forse vi sto dicendo che è facile? La scienza astronomica, vi prego di credere, è difficilissima non solo a studiare, ma anche ad applicare ai casi della vita.

Del resto, vi dico che siete incoerenti. Volete avere, di questo nostro pianeta, l’opinione ch’esso meriti un certo rispetto, e che non sia poi tanto piccolo in rapporto alle passioni che ci agitano, e che offra molte belle vedute e varietà di vita e di climi e di costumi; e poi vi chiudete in un guscio e non pensate neppure a tanta vita che vi sfugge, mentre ve ne state tutti sprofondati in un pensiero che v’affligge o in una miseria che v’opprime.

Lo so; voi adesso mi rispondete che non è possibile, quando una cura prema veramente, quando una passione accechi, sfuggire col pensiero e frastornarsene immaginando una vita diversa, altrove. Ma io non dico di porre voi stessi con l’immaginazione altrove, né di fingervi una vita diversa da quella che vi fa soffrire. Questo lo fate comunemente, sospirando: Ah, se non fossi cosí! Ah, se avessi questo o quest’altro! Ah, se potessi esser là! E son vani sospiri. Perché la vostra vita, se potesse veramente esser diversa, chi sa che sentimenti, che speranze, che desiderii vi susciterebbe altri da questi che ora vi suscita per il solo fatto che essa è cosí! Tanto è vero, che quelli che sono come voi vorreste essere, o che hanno quello che voi vorreste avere, o che sono là dove voi vi desiderereste, vi fanno stizza, perché vi sembra che in quelle condizioni da voi invidiate non sappiano esser lieti come voi sareste. Ed è una stizza – scusatemi – da sciocchi. Perché quelle condizioni voi le invidiate perché non sono le vostre, e se fossero, non sareste piú voi, voglio dire con codesto desiderio di esser diversi da quelli che siete.

 

No, no, cari miei. Il mio rimedio è un altro. Non facile certo neanche questo, ma possibilissimo. Tanto, che ho potuto io stesso farne esperienza.

Lo intravidi quella notte – una delle tante tristissime – che mi toccò vegliare una lunga, eterna agonia: quella in cui la mia povera madre per mesi e mesi s’era quasi incadaverita viva.

Per mia moglie, era la suocera; per i miei figliuoli moriva una, di cui il figlio ero io. Dico cosí, perché quando morrò io, mi veglierà qualcuno di loro, si spera. Avete capito? Quella volta moriva mia madre; e dunque non toccava a loro, ma a me.

– Ma come! – dite. – La nonna!

Già. La nonnina. La cara nonnina… E poi anche per me, che – v’assicuro – potevo meritarmela un po’ di considerazione, di non farmi stare in piedi anche la notte, con tutto quel freddo, che cascavo a pezzi dalla stanchezza, dopo una giornata di faticosissimo lavoro.

Ma sapete com’è? Il tempo della nonnina, della cara nonnina era finito da un pezzo. S’era guastato per i nipotini il giocattolo della cara nonnina, da che l’avevano veduta, dopo l’operazione della cateratta, con un occhio grosso grosso e vano nella concavità del vetro degli occhiali; e l’altro piccolo. A presentare una nonnina cosí non c’era piú niente di bello. E a poco a poco era divenuta anche sorda come una pietra, la povera nonnina; aveva ottantacinque anni e non capiva piú niente: una balla di carne, che ansimava e si reggeva appena, pesante e traballante; e obbligava a cure, per cui ci voleva un’adorazione come la mia, a vincer la pena e il ribrezzo che costavano.

Si pensava, vedendola, a uno spaventoso castigo, di cui nessuno meglio di me sapeva che la mia povera madre era immeritevole; lasciata lí, senza piú nulla di ciò che un tempo era stata, neppur la memoria; sola carne, vecchia carne disfatta che pativa, che seguitava a patire, chi sa perché…

Ma il sonno, signori miei… Non c’è piú nessun affetto che tenga, quando una necessità crudele costringa a trascurar certi bisogni, che si debbono per forza soddisfare. Provatevi a non dormire per parecchie e parecchie notti di fila, dopo aver faticato tutto il giorno. Il pensiero dei miei figliuoli, che durante l’intera giornata non avevano fatto nulla e ora dormivano saporitamente, al caldo, mentr’io tremavo e spasimavo di freddo, in quella camera ammorbata dal lezzo dei medicinali, mi faceva saltar dalla rabbia come un orso, e venir la tentazione di correre a strappar le coperte dai loro lettucci e dal letto di mia moglie per vederli balzar dal sonno in camicia a quel freddo. Ma poi, sentendo in me come avrebbero tremato, e pensando che avrei voluto esser io al loro posto, perché tremassero loro in vece mia, non piú contro essi, ma mi rivoltavo contro la crudeltà di quella sorte, che teneva ancora là, rantolante e insensibile a tutto, il corpo, il solo corpo ormai, e anch’esso quasi irriconoscibile, di mia madre; e pensavo, sí, sí, pensavo che, Dio, poteva finalmente finir di rantolare.

Finché una volta, nel terribile silenzio sopravvenuto nella camera a una momentanea sospensione di quel rantolo, non mi sorpresi nello specchio dell’armadio, voltando non so perché il capo, curvo sul letto di mia madre e intento a spiare davvicino, se non fosse morta.

Vidi con orrore in quello specchio la mia faccia. Proprio come per farsi vedere da me, essa conservava, mentr’io me la guardavo, la stessa espressione con cui stava sospesa a spiare in un quasi allegro spavento la liberazione.

La ripresa del rantolo mi incusse in quel punto un tale raccapriccio di me, che mi nascosi quella faccia, come se avessi commesso un delitto. Ma cominciai a piangere come un bambino: come il bambino che ero stato per quella mia mamma santa, di cui sí, sí, volevo ancora la pietà per il freddo e la stanchezza che sentivo, pur avendo or ora finito di desiderar la sua morte, povera mamma santa, che n’aveva perdute di notti per me, quand’ero piccino e malato… Ah! Strozzato dall’angoscia, mi diedi a passeggiare per la camera.

Ma non potevo guardar piú nulla, perché mi parevano vivi, nella loro immobilità sospesa, gli oggetti della camera: là lo spigolo illuminato dell’armadio, qua il pomo d’ottone della lettiera su cui avevo poc’anzi posato la mano. Disperato, cascai a sedere davanti alla scrivanietta della piú piccola delle mie figliuole, la nipotina che si faceva ancora i compiti di scuola nella camera della nonna. Non so quanto tempo rimasi lí. So che a giorno chiaro, dopo un tempo incommensurabile, durante il quale non avevo piú avvertito minimamente né la stanchezza, né il freddo, né la disperazione, mi ritrovai col trattatello di geografia della mia figliuola sotto gli occhi, aperto a pagina 75, sgorbiato nei margini e con una bella macchia d’inchiostro cilestrino su l’emme di Giamaica.

Ero stato tutto quel tempo nell’isola di Giamaica, dove sono le Montagne Azzurre, dove dal lato di tramontana le spiagge s’innalzano grado grado fino a congiungersi col dolce pendio di amene colline, la maggior parte separate le une dalle altre da vallate spaziose piene di sole, e ogni vallata ha il suo ruscello e ogni collina la sua cascata. Avevo veduto sotto le acque chiare le mura delle case della città di Porto Reale sprofondate nel mare da un terribile terremoto; le piantagioni dello zucchero e del caffè, del grano d’India e della Guinea; le foreste delle montagne; avevo sentito e respirato con indicibile conforto il tanfo caldo e grasso del letame nelle grandi stalle degli allevamenti; ma proprio sentito e respirato, ma proprio veduto tutto, col sole che è là su quelle praterie, con gli uomini e con le donne e coi ragazzi come sono là, che portano con le ceste e rovesciano a mucchi sugli spiazzi assolati il raccolto del caffè ad asciugarsi; con la certezza precisa e tangibile che tutto questo era vero, in quella parte del mondo cosí lontana; cosí vero da sentirlo e opporlo come una realtà altrettanto viva a quella che mi circondava là nella camera di mia madre moribonda.

Ecco, nient’altro che questa certezza d’una realtà di vita altrove, lontana e diversa, da contrapporre, volta per volta, alla realtà presente che v’opprime; ma cosí, senza alcun nesso, neppure di contrasto, senz’alcuna intenzione, come una cosa che è perché è, e che voi non potete fare a meno che sia. Questo, il rimedio che vi consiglio, amici miei. Il rimedio che io mi trovai inopinatamente quella notte.

E per non divagar troppo, e sistemarvi in qualche modo l’immaginazione, che non abbia a stancarvisi soverchiamente, fate come ho fatto io, che a ciascuno dei miei quattro figliuoli e a mia moglie ho assegnato una parte di mondo, a cui mi metto subito a pensare, appena essi mi diano un fastidio o una afflizione.

Mia moglie, per esempio, è la Lapponia. Vuole da me una cosa ch’io non le posso dare? Appena comincia a domandarmela, io sono già nel golfo di Bòtnia, amici miei, e le dico seriamente come se nulla fosse:

– Umèa, Lulèa, Pitèa, Skelleftèa…

– Ma che dici?

– Niente, cara. I fiumi della Lapponia.

– E che c’entrano i fiumi della Lapponia?

– Niente, cara. Non c’entrano per niente affatto. Ma ci sono, e né tu né io possiamo negare che in questo preciso momento sboccano là nel golfo di Bòtnia. E vedessi, cara, vedessi come vedo io la tristezza di certi salici e di certe betulle, là… D’accordo, sí, non c’entrano neanche i salici e le betulle; ma ci sono anch’essi, cara, e tanto tanto tristi attorno ai laghi gelati tra le steppe. Lap o Lop, sai? è un’ingiuria. I Lapponi da sé si chiamano Sami. Sudici nani, cara mia! Ti basti sapere… – sí, lo so, tutto questo veramente non c’entra – ma ti basti sapere che, mentr’io ti tengo cosí cara, essi tengono cosí poco alla fedeltà coniugale, che offrono la moglie e le figliuole al primo forestiere che capita. Per conto mio, puoi star sicura: non son tentato per nulla, cara, a profittarne.

– Ma che diavolo dici? Sei pazzo? Io ti sto domandando…

– Sí, cara. Tu mi stai domandando, non dico di no. Ma che triste paese, la Lapponia!…

1.14 Risposta

Ti sei sfogato bene, amico mio!

Veramente è da rimpiangere che tu, facendo violenza alla tua nativa disposizione, non abbia potuto dedicarti alle Muse. Quanto calore nelle tue espressioni, e con quale trasparente evidenza, in pochi tocchi, fai balzar vivi innanzi agli occhi luoghi, fatti e persone!

Sei addolorato, sei indignato, povero Marino mio; e non vorrei che questa mia risposta ti accrescesse il dolore e l’indignazione. Ma tu vuoi che io ti esponga francamente quel che penso del tuo caso. Lo farò per contentarti, pur essendo sicuro che non ti contenterò.

Seguo il mio metodo, se permetti. Prima, riassumo in breve i fatti, poi ti espongo, con la franchezza che desideri, il mio parere.

Dunque, con ordine.

 

I – PERSONE, CONNOTATI E CONDIZIONI.

a) La signorina Anita. – Ventisei anni (ne dimostra appena venti; va bene; ma sono intanto ventisei e sonati). Bruna; occhi notturni:

Negli occhi suoi la notte si raccoglie,
profonda…

Labbra di corallo; e va bene.

Ma il naso, amico mio? Tu non mi parli del naso. Alle brune, innanzi tutto, guardare il naso; e segnatamente le pinne del naso.

Io sono sicuro che la signorina Anita l’ha un po’ in sú. Non dico brutto; diciamo anzi nasino; ma in sú. E con due pinne piuttosto carnosette, che le si dilatano molto, quando serra i denti, quando fissa gli occhi nel vuoto e trae per le nari un lungo lungo sospiro silenzioso.

Hai notato come gli occhi le si velano e le cangiano di colore, quando trae qualcuno di questi sospiri silenziosi?

Ha molto sofferto la signorina Anita, perché molto intelligente. Era agiata, quando il padre era vivo; ora, morto il padre, è povera. E ventisei anni. Nasino ritto e occhi notturni.

 Andiamo avanti.

b) Il mio amico Marino. – Ventiquattro anni, due di meno della signorina Anita, che forse perciò ne dimostra appena venti.

Povero anche lui; orfano di padre anche lui. Cose tristi, ma care quando si hanno in comune con una persona cara. Identità, che pajono predestinazioni!

Ma l’amico Marino, orfano e povero com’è, ha la mamma e una sorella da mantenere. Orfana e povera, la signorina Anita ha anche lei la mamma, ma non la mantiene.

Pensa al mantenimento il commendator Ballesi.

Il mio amico Marino odia, naturalmente, questo commendatore Ballesi.

Testa accesa, cuore ardente. Facilissima loquela, colorita, affascinante, come lo sguardo dei begli occhi cerulei. Diciamo che il mio amico Marino è il giorno e che la signorina Anita è la notte. Quello ha il biondo del sole nei capelli e il cielo azzurro negli occhi; questa, negli occhi, due stelle, e nei capelli la notte. Mi pare che, parlando con un poeta, non potrei esprimermi meglio di cosí.

Proseguiamo.

Costretto dalla necessità a esser saggio, l’amico Marino non può commettere la follia, finché durano le presenti condizioni (e dureranno per un pezzo!), di assumersi il fardello di un’altra donna; e deve lasciar quella che meno gli peserebbe.

Forse questo terzo peso gli farebbe sentir piú lievi quegli altri due, ch’egli non può, né oserebbe mai togliersi d’addosso.

Ma c’è chi pensa che in tre sulle spalle di uno non si può star comodamente e di buon accordo. E anch’egli, saggio per forza, deve riconoscerlo.

c) Il commendator Ballesi. – Vecchio amico della buon’anima. S’intende, del babbo d’Anita. Sessantasei anni. Piccoletto, fino fino; gambette come due dita, ma armate da tacchettini imperiosi. Testa grossa, grossi baffi spioventi, sotto i quali sparisce non solo la bocca, ma anche il mento, dato che si possa dire che il commendator Ballesi abbia davvero un mento. Folte ciglia sempre aggrottate, e un dito spesso nel naso. Quel dito pensa. Pensano anche i peli delle sue sopracciglia. È come un cannoncino carico di pensieri, il commendator Ballesi. Le sorti finanziarie della nuova Italia sono ne’ suoi piccoli pugni ferrigni.

Ora, non si sa come né perché, tutt’a un tratto il commendator Ballesi ha creduto di dover cangiare l’amor paterno per la signorina Anita in un amore d’altro genere. E l’ha chiesta in isposa.

 

La signorina Anita ha strappato parecchi fazzoletti, con le mani e coi denti. Piú che sdegno, ha provato onta, ribrezzo, orrore. La mamma ha pianto. Perché ha pianto la mamma? Per la gioja, ha detto. Ma di gioja, ammesso che si pianga, si piange poco, e poi si ride. La mamma della signorina Anita ha pianto molto e non ride piú. Honni soit qui mal y pense.

E veniamo all’ultimo personaggio.

d) Nicolino Respi. – Trent’anni, solido, atletico, nuotatore e cavalcatore famoso, canottiere, spadaccino; e poi impudente, ignorante come un pollo d’India, biscazziere, donnajolo… Di’ sú, di’ sú, amico mio: te le passo tutte. Conosco Nicolino Respi e condivido i tuoi apprezzamenti e la tua indignazione. Ma non credere, con questo, che gli dia torto.

Do dunque torto a te? No. Alla signorina Anita? Neppure. Oh Dio, lasciami dire, lasciami seguire il mio metodo. Credi, amico mio, che il tuo caso è vecchissimo. Di nuovo, di originale, qui, non c’è altro che il mio metodo, e la spiegazione che ti darò.

Proseguiamo per ordine.

 

II. IL LUOGO E IL FATTO.

La spiaggia d’Anzio, d’estate, in una notte di luna.

Me n’hai fatto una tale descrizione, che non m’arrischio a descriverla anch’io. Soltanto, troppe stelle, caro. Con la luna quasi in quintadecima, se ne vedono poche. Ma un poeta può anche non badare a queste cose, che son di fatto. Un poeta può veder le stelle anche quando non si vedono, e viceversa poi non vedere tant’altre cose, che tutti gli altri vedono.

Il commendator Ballesi ha preso in affitto un villino su la spiaggia, e la signorina Anita è con la mamma ai bagni.

Occupato a Roma, il Commendatore va e viene. Nicolino Respi è fisso ad Anzio, per i bagni e per la bisca; e dà ogni mattina, in acqua, e ogni sera al tappeto verde, spettacolo delle sue bravure.

La signorina Anita ha bisogno di smorzare la fiamma dello sdegno, e s’indugia perciò molto nel bagno. Non può competere certamente con Nicolino Respi, ma tuttavia, da brava nuotatrice, una mattina s’allontana, in gara con lui, dalla spiaggia. Vanno e vanno. Tutti i bagnanti seguono ansiosi dalla spiaggia quella gara, prima a occhio nudo, poi coi binocoli.

La mamma, a un certo punto, non vuole piú guardare; comincia a smaniare, a trepidare. Oh Dio, come farà adesso la figliuola a ritornare a nuoto da cosí lontano? Certo la lena non le basterà… Oh Dio, oh Dio! Dov’è? Dio, com’è lontana… non si vede piú… Bisogna mandare subito un ajuto, per carità! una lancia, una lancia! qualcuno subito in ajuto!

E tanto fa e tanto dice, che alla fine due bravi giovanotti balzano eroicamente su una lancia, e via a quattro remi.

Santa ispirazione! Perché la signorina Anita, poco dopo che i giovani sono partiti, è colta da un crampo a una gamba, e dà un grido; Nicolino Respi accorre con due bracciate e la sorregge; ma la signorina Anita è per svenire e gli s’aggrappa al collo disperatamente; Nicolino si vede perduto; sta per affogare con lei; nella rabbia, per farsi lasciare, le dà un morso feroce al collo. Allora la signorina Anita s’abbandona inerte; egli può sostenerla; le forze stanno per mancargli quando la lancia sopravviene. Il salvataggio è compiuto.

Ma la signorina Anita deve curarsi per piú d’una settimana del morso al collo di Nicolino Respi.

Sono impressioni che rimangono. Marino mio!

Per parecchi giorni la signorina Anita, appena muove il collo, non può negare che Nicolino Respi morde bene. E quel morso non può dispiacerle, perché deve a esso la sua salvezza.

Tutto questo è, veramente, antefatto.

Eppure no, forse. È e non è. Perché tutto sta dove e come si tagliano i fatti.

 

Quando tu, Marino mio, nella magnifica sera di luna arrivasti ad Anzio con la morte nel cuore, per avere un ultimo abboccamento con la signorina Anita già ufficialmente fidanzata al commendator Ballesi, ella aveva ancora nel collo l’impressione dei denti di Nicolino Respi.

Per tua stessa confessione, ella ti seguí docile lungo la spiaggia, si perdette con te nella lontananza delle sabbie deserte, fino al grande scoglio inarenato, laggiú laggiú. Tutti e due, sotto la luna, a braccetto, inebriati dalla brezza marina, storditi dal sommesso perpetuo fragorío delle spume d’argento.

Che le dicesti? Lo so, tutto il tuo amore e tutto il tuo tormento; e le proponesti di ribellarsi all’infame imposizione di quel vecchio odioso e di accettare la tua povertà.

Ma ella, amico mio, infiammata, sconvolta, straziata dalle tue parole, non poteva accettare la tua povertà; voleva sí, invece, accettare il tuo amore e vendicarsi con esso anticipatamente, quella sera stessa, dell’infame imposizione del vecchio, che sopra di lei, cosí, da usurajo, voleva pagarsi dei lunghi benefizii.

Tu, onestamente, nobilmente, le hai impedito questa vendetta.

Amico mio, ti credo: sarai scappato via come un pazzo. Ma alla signorina Anita, rimasta sola lí, su la sabbia, all’ombra dello scoglio, non sembrasti un pazzo, te l’assicuro io, in quella fuga scomposta lungo la spiaggia, sotto la luna. Sembrasti uno sciocco e un villano.

E purtroppo, povero Marino, su quello scoglio, quella sera, a godersi zitto zitto, in grazia delle tasche vuote, il bel chiaro di luna, e poi anche lo spettacolo della tua fuga, c’era Nicolino Respi, quello del morso e del salvataggio.

Gli bastarono tre parole e una risata, di lassú:

– Che sciocco, è vero, signorina?

E saltò giú.

Tu avesti, poco dopo, la soddisfazione di sorprendere, insieme col commendator Ballesi, arrivato tardi da Roma in automobile, Nicolino Respi, sotto la luna, a braccetto con la signorina Anita.

Tu, nell’andata, e lui nel ritorno. Piú dolce l’andata o il ritorno?

Ed ecco, amico mio, che viene adesso il punto originale.

III. SPIEGAZIONE.

Tu credi, caro Marino, d’aver sofferto un’atroce disillusione, perché hai veduto all’improvviso la signorina Anita orribilmente diversa da quella che conoscevi tu, da quella ch’era per te. Sei ben certo, adesso, che la signorina Anita era un’altra.

Benissimo. Un’altra, la signorina Anita è di certo. Non solo; ma anche tante e tante altre, amico mio, quanti e quanti altri son quelli che la conoscono e che lei conosce. Il tuo errore fondamentale, sai dove consiste? Nel credere che, pur essendo un’altra per come tu credi, e tante altre per come credo io, la signorina Anita non sia anche, tuttora, quella che conoscevi tu.

La signorina Anita è quella, e un’altra, e anche tante altre, perché vorrai ammettere che quella che è per me non sia quella che è per te, quella che è per sua madre, quella che è per il commendator Ballesi, e per tutti gli altri che la conoscono, ciascuno a suo modo.

Ora, guarda. Ciascuno, per come la conosce, le dà – è vero? – una realtà. Tante realtà, dunque, amico mio, che fanno «realmente», e non per modo di dire, la signorina Anita una per te, una per me, una per la madre, una per il commendator Ballesi, e via dicendo; pur avendo l’illusione ciascuno di noi che la vera signorina Anita sia quella sola che conosciamo noi; e anche lei, anzi lei soprattutto, l’illusione d’esser una, sempre la stessa, per tutti.

Sai da che nasce questa illusione, amico mio? Dal fatto che crediamo in buona fede d’esser tutti, ogni volta, in ogni nostro atto; mentre purtroppo non è cosí. Ce ne accorgiamo quando, per un caso disgraziatissimo, all’improvviso restiamo agganciati e sospesi a un atto solo tra i tanti che commettiamo; ci accorgiamo bene, voglio dire, di non esser tutti in quell’atto, e che un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla gogna, per l’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell’atto solo.

 

Ora questa ingiustizia appunto stai commettendo tu, amico mio, contro la signorina Anita.

L’hai sorpresa in una realtà diversa da quella che le davi tu, e vuoi credere adesso, che la sua vera realtà non sia quella bella che tu le davi prima, ma questa brutta in cui l’hai sorpresa insieme col commendator Ballesi di ritorno dallo scoglio con Nicolino Respi.

Non per nulla, amico mio, guarda, tu non mi hai parlato del nasino all’insú della signorina Anita!

Quel nasino non ti apparteneva. Quel nasino non era della tua Anita. Erano tuoi gli occhi notturni, il cuore appassionato, la raffinata intelligenza di lei. Non quel nasino ardito dalle pinne piuttosto carnosette.

Quel nasino fremeva ancora al ricordo del morso di Nicolino Respi. Quel nasino voleva vendicarsi dell’odiosa imposizione del vecchio commendator Ballesi. Tu non gli hai permesso di fare con te la sua vendetta, e allora essa l’ha fatta con Nicolino.

Chi sa come piangono adesso quegli occhi notturni, e come sanguina quel cuore appassionato, e come si rivolta quella raffinata intelligenza: voglio dire tutto quello che di lei appartiene a te.

Ah, credi, Marino, fu assai piú dolce per lei l’andata con te allo scoglio, che il ritorno da esso con Nicolino Respi.

Bisogna che tu te ne persuada e ti disponga a imitare il Commendatore, il quale – vedrai – perdonerà e sposerà la signorina Anita.

Ma non pretendere che ella sia una e tutta per te. Sarà una e tutta per te sincerissimamente; e un’altra per il commendator Ballesi, non meno sinceramente. Perché non c’è una sola signorina o signora Anita, amico mio.

Non sarà bello, ma è cosí.

E procura che Nicolino Respi, mostrando i denti, non vada a far visita a quel nasino all’insú.

1.15 Il pipistrello

Tutto bene. La commedia, niente di nuovo, che potesse irritare o frastornare gli spettatori. E congegnata con bell’industria d’effetti. Un gran prelato tra i personaggi, una rossa Eminenza che ospita in casa una cognata vedova e povera, di cui in gioventú, prima d’avviarsi per la carriera ecclesiastica, era stato innamorato. Una figliuola della vedova, già in età da marito, che Sua Eminenza vorrebbe sposare a un giovine suo protetto, cresciutogli in casa fin da bambino, apparentemente figlio di un suo vecchio segretario, ma in realtà… – insomma, via, un certo antico trascorso di gioventú, che non si potrebbe ora rimproverare a un gran prelato con quella crudezza che necessariamente deriverebbe dalla brevità d’un riassunto, quando poi è per cosí dire il fulcro di tutto il second’atto, in una scena di grandissimo effetto con la cognata, al bujo, o meglio, al chiaro di luna che inonda la veranda, poiché Sua Eminenza, prima di cominciar la confessione, ordina al suo fidato servitore Giuseppe: «Giuseppe, smorzate i lumi». Tutto bene, tutto bene, insomma. Gli attori, tutti a posto; e innamorati a uno a uno della loro parte. Anche la piccola Gàstina, sí. Contentissima, contentissima della parte della nipote orfana e povera, che naturalmente non vuol saperne di sposare quel protetto di Sua Eminenza, e fa certe scene di fiera ribellione, che alla piccola Gàstina piacevano tanto, perché se ne riprometteva un subisso d’applausi.

Per farla breve, piú contento di cosí nell’aspettazione ansiosa d’un ottimo successo per la sua nuova commedia l’amico Faustino Perres non poteva essere alla vigilia della rappresentazione.

Ma c’era un pipistrello.

Un maledetto pipistrello, che ogni sera, in quella stagione di prosa alla nostra Arena Nazionale, o entrava dalle aperture del tetto a padiglione, o si destava a una cert’ora dal nido che doveva aver fatto lassú, tra le imbracature di ferro, le cavicchie e le chiavarde, e si metteva a svolazzar come impazzito non già per l’enorme vaso dell’Arena sulla testa degli spettatori, poiché durante la rappresentazione i lumi nella sala erano spenti, ma là, dove la luce della ribalta, delle bilance e delle quinte, le luci della scena, lo attiravano: sul palcoscenico, proprio in faccia agli attori.

La piccola Gàstina ne aveva un pazzo terrore. Era stata tre volte per svenire, le sere precedenti, nel vederselo ogni volta passar rasente al volto, sui capelli, davanti agli occhi, e l’ultima volta – Dio che ribrezzo! – fin quasi a sfiorarle la bocca con quel volo di membrana vischiosa che stride. Non s’era messa a gridare per miracolo. La tensione dei nervi per costringersi a star lí ferma a rappresentare la sua parte mentre irresistibilmente le veniva di seguir con gli occhi, spaventata, lo svolazzío di quella bestia schifosa, per guardarsene, o, non potendone piú, di scappar via dal palcoscenico per andare a chiudersi nel suo camerino, la esasperava fino a farle dichiarare ch’ella ormai, con quel pipistrello lí, se non si trovava il rimedio d’impedirgli che venisse a svolazzar sul palcoscenico durante la rappresentazione, non era piú sicura di sé, di quel che avrebbe fatto una di quelle sere.

Si ebbe la prova che il pipistrello non entrava da fuori, ma aveva proprio eletto domicilio nelle travature del tetto dell’Arena, dal fatto che, la sera precedente la prima rappresentazione della commedia nuova di Faustino Perres, tutte le aperture del tetto furono tenute chiuse, e all’ora solita si vide il pipistrello lanciarsi come tutte le altre sere sul palcoscenico col suo disperato svolazzío. Allora Faustino Perres, atterrito per le sorti della sua nuova commedia, pregò, scongiurò l’impresario e il capocomico di far salire sul tetto due, tre, quattro operai, magari a sue spese, per scovare il nido e dar la caccia a quella insolentissima bestia; ma si sentí dare del matto. Segnatamente il capocomico montò su tutte le furie a una simile proposta, perché era stufo, ecco, stufo stufo stufo di quella ridicola paura della signorina Gàstina per i suoi magnifici capelli.

– I capelli?

– Sicuro! sicuro! i capelli! Non ha ancora capito? Le hanno dato a intendere che, se per caso le sbatte in capo, il pipistrello ha nelle ali non so che viscosità, per cui non è piú possibile distrigarlo dai capelli, se non a patto di tagliarli. Ha capito? Non teme per altro! Invece d’interessarsi alla sua parte, d’immedesimarsi nel personaggio, almeno fino al punto di non pensare a simili sciocchezze!

Sciocchezze, i capelli d’una donna? i magnifici capelli della piccola Gàstina? Il terrore di Faustino Perres alla sfuriata del capocomico si centuplicò. Oh Dio! oh Dio! se veramente la piccola Gàstina temeva per questo, la sua commedia era perduta!

Per far dispetto al capocomico, prima che cominciasse la prova generale, la piccola Gàstina, col gomito appoggiato sul ginocchio d’una gamba accavalciata sull’altra e il pugno sotto il mento, seriamente domandò a Faustino Perres, se la battuta di Sua Eminenza al secondo atto: – «Giuseppe, smorzate i lumi» – non poteva essere ripetuta, all’occorrenza, qualche altra volta durante la rappresentazione, visto e considerato che non c’è altro mezzo per fare andar via un pipistrello, che entri di sera in una stanza, che spegnere il lume.

Faustino Perres si sentí gelare.

– No, no, dico proprio sul serio! Perché, scusate, Perres: volete dare veramente, con la vostra commedia, una perfetta illusione di realtà?

– Illusione? No. Perché dice illusione, signorina? L’arte crea veramente una realtà.

– Ah, sta bene. E allora io vi dico che l’arte la crea, e il pipistrello la distrugge.

– Come! perché?

– Perché sí. Ponete il caso che, nella realtà della vita, in una stanza dove si stia svolgendo di sera un conflitto familiare, tra marito e moglie, tra una madre e una figlia, che so! o un conflitto d’interessi o d’altro, entri per caso un pipistrello. Bene: che si fa? Vi assicuro io, che per un momento il conflitto s’interrompe per via di quel pipistrello che è entrato; o si spenge il lume, o si va in un’altra stanza, o qualcuno anche va a prendere un bastone, monta su una seggiola e cerca di colpirlo per abbatterlo a terra; e gli altri allora, credete a me, si scordano lí per lí del conflitto e accorrono tutti a guardare, sorridenti e con schifo, come quella odiosissima bestia sia fatta.

– Già! Ma questo, nella vita ordinaria! – obiettò, con un sorriso smorto sulle labbra, il povero Faustino Perres. – Nella mia opera d’arte, signorina, il pipistrello, io, non ce l’ho messo.

– Voi non ce l’avete messo; ma se lui ci si ficca?

– Bisogna non farne caso!

– E vi sembra naturale? V’assicuro io, io che debbo vivere nella vostra commedia la parte di Livia, che questo non è naturale; perché Livia, lo so io, lo so io meglio di voi, che paura ha dei pipistrelli! La vostra Livia, – badate – non piú io. Voi non ci avete pensato, perché non potevate immaginare il caso che un pipistrello entrasse nella stanza, mentr’ella si ribellava fieramente all’imposizione della madre e di Sua Eminenza. Ma questa sera, potete esser certo che il pipistrello entrerà nella camera durante quella scena. E allora io vi domando, per la realtà stessa che voi volete creare, se vi sembri naturale che ella, con la paura che ha dei pipistrelli, col ribrezzo che la fa contorcere e gridare al solo pensiero d’un possibile contatto, se ne stia lí come se nulla fosse, con un pipistrello che le svolazza attorno alla faccia, e mostri di non farne caso. Voi scherzate! Livia se ne scappa, ve lo dico io; pianta la scena e se ne scappa, o si nasconde sotto il tavolino, gridando come una pazza. Vi consiglio perciò di riflettere, se proprio non vi convenga meglio di far chiamare Giuseppe da Sua Eminenza e di fargli ripetere la battuta: – «Giuseppe, smorzate i lumi». – Oppure… aspettate! oppure… – ma sí! meglio! sarebbe la liberazione! – che gli ordinasse di prendere un bastone, montare su una seggiola, e…

– Già! sí! proprio! interrompendo la scena a metà, è vero? tra l’ilarità fragorosa di tutto il pubblico.

– Ma sarebbe il colmo della naturalezza, caro mio! Credetelo. Anche per la vostra stessa commedia, dato che quel pipistrello c’è e che in quella scena – è inutile – vogliate o non vogliate – ci si ficca: pipistrello vero! Se non ne tenete conto, parrà finta, per forza, Livia che non se ne cura, gli altri due che non ne fanno caso e seguitano a recitar la commedia come se lui non ci fosse. Non capite questo?

Faustino Perres si lasciò cader le braccia, disperatamente.

– O Dio mio, signorina, – disse. – Se volete scherzare, è un conto…

– No no! Vi ripeto che sto discutendo con voi sul serio, sul serio, proprio sul serio! – ribatté la Gàstina.

– E allora io vi rispondo che siete matta, – disse il Perres alzandosi. – Dovrebbe far parte della realtà che ho creato io, quel pipistrello, perché io potessi tenerne conto e farne tener conto ai personaggi della mia commedia; dovrebbe essere un pipistrello finto e non vero, insomma! Perché non può, cosí, incidentalmente, da un momento all’altro, un elemento della realtà casuale introdursi nella realtà creata, essenziale, dell’opera d’arte.

– E se ci s’introduce?

– Ma non è vero! Non può! Non s’introduce mica nella mia commedia, quel pipistrello, ma sul palcoscenico dove voi recitate.

– Benissimo! Dove io recito la vostra commedia. E allora sta tra due: o lassú è viva la vostra commedia; o è vivo il pipistrello. Il pipistrello, vi assicuro io che è vivo, vivissimo, comunque. Vi ho dimostrato che con lui cosí vivo lassú non possono sembrar naturali Livia e gli altri due personaggi, che dovrebbero seguitar la loro scena come se lui non ci fosse, mentre c’è. Conclusione: o via la vostra commedia, o via il pipistrello. Se stimate impossibile eliminare il pipistrello, rimettetevi in Dio, caro Perres, quanto alle sorti della vostra commedia. Ora vi faccio vedere che la mia parte io la so e che la recito con tutto l’impegno, perché mi piace. Ma non rispondo dei miei nervi stasera.

Ogni scrittore, quand’è un vero scrittore, ancor che sia mediocre, per chi stia a guardarlo in un momento come quello in cui si trovava Faustino Perres la sera della prima rappresentazione, ha questo di commovente, o anche, se si vuole, di ridicolo: che si lascia prendere, lui stesso prima di tutti, lui stesso qualche volta solo fra tutti, da ciò che ha scritto, e piange e ride e atteggia il volto, senza saperlo, delle varie smorfie degli attori sulla scena, col respiro affrettato e l’animo sospeso e pericolante, che gli fa alzare or questa or quella mano in atto di parare o di sostenere.

 

Posso assicurare, io che lo vidi e gli tenni compagnia, mentre se ne stava nascosto dietro le quinte tra i pompieri di guardia e i servi di scena, che Faustino Perres per tutto il primo atto e per parte del secondo non pensò affatto al pipistrello, tanto era preso dal suo lavoro e immedesimato in esso. E non è a dire che non ci pensava perché il pipistrello non aveva ancor fatto la sua consueta comparsa sul palcoscenico. No. Non ci pensava perché non poteva pensarci. Tanto vero, che quando, sulla metà del second’atto, il pipistrello finalmente comparve, egli nemmeno se n’accorse; non capí nemmeno perché io col gomito lo urtassi e si voltò a guardarmi in faccia come un insensato:

– Che cosa?

Cominciò a pensarci solo quando le sorti della commedia, non per colpa del pipistrello, non per l’apprensione degli attori a causa di esso, ma per difetti evidenti della commedia stessa, accennarono di volgere a male. Già il primo atto, per dir la verità, non aveva riscosso che pochi e tepidi applausi.

– Oh Dio mio, eccolo, guarda… – cominciò a dire il poverino, sudando freddo; e alzava una spalla, tirava indietro o piegava di qua, di là il capo, come se il pipistrello svoltasse attorno a lui e volesse scansarlo; si storceva le mani; si copriva il volto. – Dio, Dio, Dio, pare impazzito… Ah, guarda, a momenti in faccia alla Rossi!… Come si fa? come si fa? Pensa che proprio ora entra in iscena la Gàstina!

– Sta’ zitto, per carità! – lo esortai, scrollandolo per le braccia e cercando di strapparlo di là.

Ma non ci riuscii. La Gàstina faceva la sua entrata dalle quinte dirimpetto, e il Perres, mirandola, come affascinato, tremava tutto.

Il pipistrello girava in alto, attorno al lampadario che pendeva dal tetto con otto globi di luce, e la Gàstina non mostrava d’accorgersene, lusingata certo dal gran silenzio d’attesa, con cui il pubblico aveva accolto il suo apparire sulla scena. E la scena proseguiva in quel silenzio, ed evidentemente piaceva.

 

Ah, se quel pipistrello non ci fosse stato! Ma c’era! c’era! Non se n’accorgeva il pubblico, tutto intento allo spettacolo; ma eccolo lí, eccolo lí, come se, a farlo apposta, avesse preso di mira la Gàstina, ora, proprio lei che, poverina, faceva di tutto per salvar la commedia, resistendo al suo terrore di punto in punto crescente per quella persecuzione ostinata, feroce, della schifosa, maledettissima bestia.

A un tratto Faustino Perres vide l’abisso spalancarglisi davanti agli occhi sulla scena, e si recò le mani al volto, a un grido improvviso, acutissimo della Gàstina, che s’abbandonava tra le braccia di Sua Eminenza.

Fui pronto a trascinarmelo via, mentre dalla scena gli attori si trascinavano a loro volta la Gàstina svenuta.

Nessuno, nel subbuglio del primo momento, là sul palcoscenico in iscompiglio, poté pensare a ciò che intanto accadeva nella sala del teatro. S’udiva come un gran frastuono lontano, a cui nessuno badava. Frastuono? Ma no, che frastuono! Erano applausi. – Che? – Ma sí! Applausi! applausi! Era un delirio d’applausi! Tutto il pubblico, levato in piedi, applaudiva da quattro minuti freneticamente, e voleva l’autore, gli attori al proscenio, per decretare un trionfo a quella scena dello svenimento, che aveva preso sul serio come se fosse nella commedia, e che aveva visto rappresentare con cosí prodigiosa verità.

Che fare? Il capocomico, su tutte le furie, corse a prendere per le spalle Faustino Perres, che guardava tutti, tremando d’angosciosa perplessità, e lo cacciò con uno spintone fuori delle quinte, sul palcoscenico. Fu accolto da una clamorosa ovazione, che durò piú di due minuti. E altre sei o sette volte dovette presentarsi a ringraziare il pubblico che non si stancava d’applaudire, perché voleva alla ribalta anche la Gàstina.

– Fuori la Gàstina! Fuori la Gàstina!

Ma come far presentare la Gàstina, che nel suo camerino si dibatteva ancora in una fierissima convulsione di nervi, tra la costernazione di quanti le stavano attorno a soccorrerla?

Il capocomico dovette farsi al proscenio ad annunziare, dolentissimo, che l’acclamata attrice non poteva comparire a ringraziare l’eletto pubblico, perché quella scena, vissuta con tanta intensità, le aveva cagionato un improvviso malore, per cui anche la rappresentazione della commedia, quella sera, doveva essere purtroppo interrotta.

Si domanda a questo punto, se quel dannato pipistrello poteva rendere a Faustino Perres un servizio peggiore di questo.

Sarebbe stato in certo qual modo un conforto per lui attribuire a esso la caduta della commedia; ma dovergli ora il trionfo, un trionfo che non aveva altro sostegno che nel pazzo volo di quelle sue ali schifose!

Riavutosi appena dal primo stordimento, ancora piú morto che vivo, corse incontro al capocomico che lo aveva spinto con tanta mala grazia sul palcoscenico a ringraziare il pubblico, e con le mani tra i capelli gli gridò:

– E domani sera?

– Ma che dovevo dire? che dovevo fare? – gli urlò furente, in risposta, il capocomico. – Dovevo dire al pubblico che toccavano al pipistrello quegli applausi, e non a lei? Rimedii piuttosto, rimedii subito; faccia che tocchino a lei domani sera!

– Già! Ma come? – domandò, con strazio, smarrendosi di nuovo, il povero Faustino Perres.

– Come! Come! Lo domanda a me, come?

– Ma se quello svenimento nella mia commedia non c’è e non c’entra, commendatore!

– Bisogna che lei ce lo faccia entrare, caro signore, a ogni costo! Non ha veduto che po’ po’ di successo? Tutti i giornali domattina ne parleranno. Non se ne potrà piú fare a meno! Non dubiti, non dubiti che i miei attori sapranno far per finta con la stessa verità ciò che questa sera hanno fatto senza volerlo.

– Già… ma, lei capisce, – si provò a fargli osservare il Perres, – è andato cosí bene, perché la rappresentazione, lí, dopo quello svenimento, è stata interrotta! Se domani sera, invece, deve proseguire…

– Ma è appunto questo, in nome di Dio, il rimedio che lei deve trovare! – tornò a urlargli in faccia il commendatore.

Se non che, a questo punto:

– E come? e come? – venne a dire, calcandosi con ambo le mani sfavillanti d’anelli il berretto di pelo sui magnifici capelli, la piccola Gàstina già rinvenuta. – Ma davvero non capite che qua deve dirlo il pipistrello e non voi, signori miei?

– Lei la finisca col pipistrello! – fremette il capocomico, facendolesi a petto, minaccioso.

– Io, la finisco? Deve finirla lei, commendatore! – rispose, placida e sorridente, la Gàstina, sicurissima di fargli cosí, ora, il maggior dispetto. – Perché, guardi, commendatore, ragioniamo: io potrei aver sotto comando uno svenimento finto, al secondo atto, se il signor Perres, seguendo il suo consiglio, ce lo mette. Ma dovreste anche aver voi allora sotto comando il pipistrello vero, che non mi procuri un altro svenimento, non finto ma vero al primo atto. O al terzo, o magari nel secondo stesso, subito dopo quel primo finto! Perché io vi prego di credere, signori miei, che sono svenuta davvero, sentendomelo venire in faccia, qua, qua, sulla guancia! E domani sera non recito, no, no, non recito, commendatore, perché né lei né altri può obbligarmi a recitare con un pipistrello che mi sbatte in faccia!

– Ah no, sa! Questo si vedrà! questo si vedrà! – le rispose, crollando il capo energicamente, il capocomico.

Ma Faustino Perres, convinto pienamente che la ragione unica degli applausi di quella sera era stata l’intrusione improvvisa e violenta di un elemento estraneo, casuale, che invece di mandare a gambe all’aria, come avrebbe dovuto, la finzione dell’arte, s’era miracolosamente inserito in essa, conferendole lí per lí, nell’illusione del pubblico, l’evidenza d’una prodigiosa verità, ritirò la sua commedia, e non se ne parlò piú.

Novelle per un anno III

Testi del terzo volume, La rallegrata

          1. La rallegrata
          2. Canta l’epistola
          3. Sole e ombra
          4. L’avemaria di bobbio
          5. L’imbecille
          6. Sua maestà
          7. I tre pensieri della sbiobbina
          8. Sopra e sotto
          9. Un goj
          10. La patente
          11. Notte
          12. O di uno o di nessuno
          13. Nenia
          14. Nenè e niní
          15. «Requiem aeternam dona eis, domine!»

 

3.1  La rallegrata

Appena il capostalla se n’andò, bestemmiando piú del solito, Fofo si volse a Nero, suo compagno di mangiatoja, nuovo arrivato, e sospirò:

– Ho capito! Gualdrappe, fiocchi e pennacchi. Cominci bene, caro mio! Oggi è di prima classe.

Nero voltò la testa dall’altra parte. Non sbruffò, perché era un cavallo bene educato. Ma non voleva dar confidenza a quel Fofo.

Veniva da una scuderia principesca, lui, dove uno si poteva specchiare nei muri: greppie di faggio a ogni posta, campanelle d’ottone, battifianchi imbottiti di cuojo e colonnini col pomo lucente.

Mah!

Il giovane principe, tutto dedito ora a quelle carrozze strepitose, che fanno – pazienza, puzzo – ma anche fumo di dietro e scappano sole, non contento che già tre volte gli avessero fatto correre il rischio di rompersi il collo, subito appena colpita di paralisi la vecchia principessa (che di quelle diavole là, oh benedetta!, non aveva voluto mai saperne), s’era affrettato a disfarsi, tanto di lui, quanto di Corbino, gli ultimi rimasti nella scuderia, per il placido landò della madre.

Povero Corbino, chi sa dov’era andato a finire, dopo tant’anni d’onorato servizio!

Il buon Giuseppe, il vecchio cocchiere, aveva loro promesso che, andando a baciar la mano con gli altri vecchi servi fidati alla principessa, relegata ormai per sempre in una poltrona, avrebbe interceduto per essi.

Ma che! Dal modo con cui il buon vecchio, ritornato poco dopo, li aveva accarezzati al collo e sui fianchi, subito l’uno e l’altro avevano capito che ogni speranza era perduta e la loro sorte decisa. Sarebbero stati venduti.

E difatti…

Nero non comprendeva ancora, dove fosse capitato. Male, proprio male, no. Certo, non era la scuderia della principessa. Ma una buona scuderia era anche questa. Piú di venti cavalli, tutti mori e tutti anzianotti, ma di bella presenza, dignitosi e pieni di gravità. Oh, per gravità, forse ne avevano anche troppa!

 

Che anch’essi comprendessero bene l’ufficio a cui erano addetti, Nero dubitava. Gli pareva che tutti quanti, anzi, stessero di continuo a pensarci, senza tuttavia venirne a capo. Quel dondolío lento di code prolisse, quel raspare di zoccoli, di tratto in tratto, certo erano di cavalli cogitabondi.

Solo quel Fofo era sicuro, sicurissimo d’aver capito bene ogni cosa.

Bestia volgare e presuntuosa!

Brocco di reggimento, scartato dopo tre anni di servizio, perché – a suo dire – un tanghero di cavalleggere abruzzese lo aveva sgroppato, non faceva che parlare e parlare.

 

Nero, col cuore ancor pieno di rimpianto per il suo vecchio amico, non poteva soffrirlo. Piú di tutto lo urtava quel tratto confidenziale, e poi la continua maldicenza sui compagni di stalla.

Dio, che lingua!

Di venti, non se ne salvava uno! Questo era cosí, quello cosà.

– La coda… guardami là, per piacere, se quella è una coda! se quello è un modo di muovere la coda! Che brio, eh?

«Cavallo da medico, te lo dico io.

«E là, là, guardami là quel bel truttrú calabrese, come crolla con grazia le orecchie di porco. E che bel ciuffo! e che bella barbozza! Brioso anche lui, non ti pare?

«Ogni tanto si sogna di non esser castrone, e vuol fare all’amore con quella cavalla là, tre poste a destra, la vedi? con la testa di vecchia, bassa davanti e la pancia fin a terra.

«Ma quella è una cavalla? Quella è una vacca, te lo dico io. E se sapessi come la va con passo di scuola! Pare che si scotti gli zoccoli, toccando terra. Eppure, certe saponate, amico mio! Già, perché è di bocca fresca. Deve ancor pareggiare i cantoni, figúrati!».

Invano Nero dimostrava in tutti i modi a quel Fofo di non volergli dare ascolto. Fofo imperversava sempre piú.

Per fargli dispetto.

– Sai dove siamo noi? Siamo in un ufficio di spedizione. Ce n’è di tante specie. Questo è detto delle pompe funebri.

«Pompa funebre sai che vuol dire? Vuol dire tirare un carro nero di forma curiosa, alto, con quattro colonnini che reggono il cielo, tutto adorno di balze e paramenti e dorature. Insomma, un bel carrozzone di lusso. Ma roba sprecata, non credere! Tutta roba sprecata, perché dentro vedrai che non ci sale mai nessuno.

«Solo il cocchiere, serio serio, in serpe.

«E si va piano, sempre di passo. Ah, non c’è pericolo che tu sudi e ti strofinino al ritorno, né che il cocchiere ti dia mai una frustata o ti solleciti in qualche altro modo!

«Piano – piano – piano.

«Dove devi arrivare, arrivi sempre a tempo.

«E quel carro lí – io l’ho capito bene – dev’essere per gli uomini oggetto di particolare venerazione.

«Nessuno, come t’ho detto, ardisce montarci sopra; e tutti, appena lo vedono fermo davanti a una casa, restano a mirarlo con certi visi lunghi spauriti; e certi gli vengono attorno coi ceri accesi; e poi appena cominciamo a muoverci, tanti dietro, zitti zitti, lo accompagnano.

«Spesso, anche, davanti a noi, c’è la banda. Una banda, caro mio, che ti suona una certa musica, da far cascare a terra le budella.

«Tu, ascolta bene, tu hai il vizio di sbruffare e di muover troppo la testa. Ebbene, codesti vizii te li devi levare. Se sbruffi per nulla, figuriamoci che sarà quando ascolterai quella musica!

«Il nostro è un servizio piano, non si nega; ma vuole compostezza e solennità. Niente sbruffi, niente beccheggio. È già troppo, che ti concedano di dondolar la coda, appena appena.

«Perché il carro che noi tiriamo, torno a dirtelo, è molto rispettato. Vedrai che tutti, come ci vedono passare, si levano il cappello.

«Sai come ho capito, che si debba trattare di spedizione? L’ho capito da questo.

«Circa due anni fa, me ne stavo fermo, con uno de’ nostri carri a padiglione, davanti alla gran cancellata che è la nostra mèta costante. «La vedrai, questa gran cancellata! Ci sono dietro tanti alberi neri, a punta, che se ne vanno dritti dritti in due file interminabili, lasciando di qua e di là certi bei prati verdi, con tanta buon’erba grassa, sprecata anche quella, perché guaj se, passando, ci allunghi le labbra.

«Basta. Me ne stavo lí fermo, allorché mi s’accostò un povero mio antico compagno di servizio al reggimento, ridotto assai male: a tirare, figúrati, un traino ferrato, di quei lunghi, bassi e senza molle.

«Dice:

«- Mi vedi? Ah, Fofo, non ne posso proprio piú!

«- Che servizio? – gli domando io.

«E lui:

«- Trasporto casse, tutto il giorno, da un ufficio di spedizione alla dogana.

«- Casse? – dico io. – Che casse?

«- Pesanti! – fa lui. – Casse piene di roba da spedire.

«Fu per me una rivelazione.

«Perché devi sapere, che una certa cassa lunga lunga, la trasportiamo anche noi. La introducono pian piano (tutto, sempre, pian piano) entro il nostro carro, dalla parte di dietro; e mentre si fa quest’operazione, la gente attorno si scopre il capo e sta a mirare sbigottita. Chi sa perché! Ma certo, se traffichiamo di casse anche noi, deve trattarsi di spedizione, non ti pare?

«Che diavolo contiene quella cassa? Pesa oh, non credere! Fortuna, che ne trasportiamo sempre una alla volta.

«Roba da spedire, certo. Ma che roba, non lo so. Pare di gran conto, perché la spedizione avviene con molta pompa e molto accompagnamento.

 

«A un certo punto, di solito (non sempre), ci fermiamo davanti a un fabbricato maestoso, che forse sarà l’ufficio di dogana per le spedizioni nostre. Dal portone si fanno avanti certi uomini parati con una sottana nera e la camicia di fuori (che saranno, suppongo, i doganieri); la cassa è tratta dal carro; tutti di nuovo si scoprono il capo; e quelli segnano sulla cassa il lasciapassare.

Dove vada tutta questa roba preziosa, che noi spediamo – questo, vedi – non sono riuscito ancora a capirlo. Ma ho un certo dubbio, che non lo capiscano bene neanche gli uomini; e mi consolo.

«Veramente, la magnificenza delle casse e la solennità della pompa potrebbero far supporre, che qualche cosa gli uomini debbano sapere su queste loro spedizioni. Ma li vedo troppo incerti e sbigottiti. E dalla lunga consuetudine, che ormai ho con essi, ho ricavato questa esperienza: che tante cose fanno gli uomini, caro mio, senza punto sapere perché le facciano!»

Come Fofo, quella mattina, alle bestemmie del capostalla s’era figurato: gualdrappe, fiocchi e pennacchi. Tir’a quattro. Era proprio di prima classe.

– Hai visto? Te lo dicevo io?

 

Nero si trovò attaccato con Fofo al timone. E Fofo, naturalmente, seguitò a seccarlo con le sue eterne spiegazioni.

Ma era seccato anche lui, quella mattina, della soperchieria del capostalla, che nei tiri a quattro lo attaccava sempre al timone e mai alla bilancia.

– Che cane! Perché, tu intendi bene, questi due, qua davanti a noi, sono per comparsa. Che tirano? Non tirano un corno! Tiriamo noi. Si va tanto piano! Ora si fanno una bella passeggiatina per sgranchirsi le gambe, parati di gala. E guarda un po’ che razza di bestie mi tocca di vedermi preferire! Le riconosci?

Erano quei due mori che Fofo aveva qualificato cavallo da medico e truttrú calabrese.

 

– Codesto calabresaccio! Ce l’hai davanti tu, per fortuna! Sentirai, caro; t’accorgerai che di porco non ha soltanto le orecchie, e ringrazierai il capostalla, che lo protegge e gli dà doppia profenda. Ci vuol fortuna a questo mondo, non sbruffare. Cominci fin d’adesso? Quieto con la testa! Ih, se fai cosí, oggi caro mio, a furia di strappate di briglia, tu farai sangue dalla bocca, te lo dico io. Ci sono i discorsi, oggi. Vedrai che allegria! Un discorso, due discorsi, tre discorsi… M’è capitato il caso d’una prima classe anche con cinque discorsi! Roba da impazzire. Tre ore di fermo, con tutte queste galanterie addosso che ti levano il respiro: le gambe impastojate, la coda imprigionata, le orecchie tra due fori. Allegro, con le mosche che ti mangiano sotto la coda! Che sono i discorsi? Mah! Ci capisco poco, dico la verità. Queste di prima classe, debbono essere spedizioni molto complicate. E forse, con quei discorsi, fanno la spiega. Una non basta, e ne fanno due; non bastano due, e ne fanno tre. Arrivano a farne fino a cinque, come t’ho detto: mi ci son trovato io, che mi veniva di sparar calci, caro mio, a dritta e a manca, e poi di mettermi a rotolar per terra come un matto. Forse oggi sarà lo stesso. Gran gala! Hai visto il cocchiere, come s’è parato anche lui? E ci sono anche i famigli, i torcieri. Di’, tu sei sitoso?

– Non capisco.

– Via, pigli ombra facilmente? Perché vedrai che tra poco, i ceri accesi te li metteranno proprio sotto il naso… Piano, uh… piano! che ti piglia? Vedi? Una prima strappata… T’ha fatto male? Eh, ne avrai di molte tu oggi, te lo dico io. Ma che fai? sei matto? Non allungare il collo cosí! (Bravo, cocco, nuoti? giochi alla morra?). Sta’ fermo… Ah sí? Pigliati quest’altre… Ohé, dico, bada, fai strappar la bocca anche a me! Ma questo è matto! Dio, Dio, quest’è matto davvero! Ansa, rigna, annitrisce, fa ciambella, che cos’è? Guarda che rallegrata! È matto! è matto! fa la rallegrata, tirando un carro di prima classe!»

 

Nero difatti pareva impazzito davvero: ansava, nitriva, scalpitava, fremeva tutto. In fretta in furia, giú dal carro dovettero precipitarsi i famigli a trattenerlo davanti al portone del palazzo, ove dovevano fermarsi, tra una gran calca di signori incamatiti, in abito lungo e cappello a stajo.

– Che avviene? – si gridava da ogni parte. – Uh, guarda, s’impenna un cavallo del carro mortuario!

E tutta la gente, in gran confusione, si fece intorno al carro, curiosa, meravigliata, scandalizzata. I famigli non riuscivano ancora a tener fermo Nero. Il cocchiere s’era levato in piedi e tirava furiosamente le briglie.  Invano. Nero seguitava a zampare, a nitrire, friggeva, con la testa volta verso il portone del palazzo.

Si quietò, solo quando sopravvenne da quel portone un vecchio servitore in livrea, il quale, scostati i famigli, lo prese per la briglia, e subito, riconosciutolo, si diede a esclamare con le lagrime agli occhi:

– Ma è Nero! è Nero! Ah, povero Nero, sicuro che fa cosí! Il cavallo della signora! il cavallo della povera principessa! Ha riconosciuto il palazzo, sente l’odore della sua scuderia! Povero Nero, povero Nero… buono, buono… sí, vedi? sono io, il tuo vecchio Giuseppe. Sta’ buono, sí… Povero Nero, tocca a te di portartela, vedi?, la tua padrona. Tocca a te, poverino, che ti ricordi ancora. Sarà contenta lei d’essere trasportata da te per l’ultima volta.

Si voltò poi al cocchiere, che, imbestialito per la cattiva figura che la Casa di pompe faceva davanti a tutti quei signori, seguitava a tirar furiosamente le briglie, minacciando frustate, e gli gridò:

– Basta! Smettila! Lo reggo qua io. È manso come una pecora. Mettiti a sedere. Lo guiderò io per tutto il tragitto. Andremo insieme, eh Nero? a lasciar la nostra buona signora. Pian piano, al solito, eh? E tu starai buono, per non farle male, povero vecchio Nero, che ti ricordi ancora. L’hanno già chiusa nella cassa; ora la portano giú.

Fofo, che dall’altra parte del timone se ne stava a sentire, a questo punto domandò, stupito:

«Dentro la cassa, la tua padrona?»

Nero gli sparò un calcio di traverso.

Ma Fofo era troppo assorto nella nuova rivelazione, per aversene a male.

«Ah, dunque, noi, – seguitò a dir tra sé, – ah, dunque, noi… guarda, guarda… lo volevo dire io… Questo vecchio piange; tant’altri ho visto piangere, altre volte… e tanti visi sbigottiti… e quella musica languida. Capisco tutto, adesso, capisco tutto… Per questo il nostro servizio è cosí piano! Solo quando gli uomini piangono, possiamo stare allegri e andar riposati nojaltri…»

E gli venne la tentazione di fare una rallegrata anche lui.

3.2  Canta l’epistola

– Avevate preso gli Ordini?

– Tutti no. Fino al Suddiaconato.

– Ah, suddiacono. E che fa il suddiacono?

– Canta l’Epistola; regge il libro al diacono mentre canta il Vangelo; amministra i vasi della Messa; tiene la patena avvolta nel velo in tempo del Canone.

– Ah, dunque voi cantavate il Vangelo?

– Nossignore. Il Vangelo lo canta il diacono; il suddiacono canta l’Epistola.

– E voi allora cantavate l’Epistola?

– Io? proprio io? Il suddiacono.

– Canta l’Epistola?

– Canta l’Epistola.

Che c’era da ridere in tutto questo?

Eppure, nella piazza aerea del paese, tutta frusciante di foglie secche, che s’oscurava e rischiarava a una rapida vicenda di nuvole e di sole, il vecchio dottor Fanti, rivolgendo quelle domande a Tommasino Unzio uscito or ora dal seminario senza piú tonaca per aver perduto la fede, aveva composto la faccia caprigna a una tale aria, che tutti gli sfaccendati del paese, seduti in giro innanzi alla Farmacia dell’Ospedale, parte storcendosi e parte turandosi la bocca, s’erano tenuti a stento di ridere.

Le risa erano prorotte squacquerate, appena andato via Tommasino inseguito da tutte quelle foglie secche; poi l’uno aveva preso a domandare all’altro:

– Canta l’Epistola?

E l’altro a rispondere:

– Canta l’Epistola.

E cosí a Tommasino Unzio, uscito suddiacono dal seminario senza piú tonaca, per aver perduto la fede, era stato appiccicato il nomignolo di Canta l’Epistola.

La fede si può perdere per centomila ragioni; e, in generale, chi perde la fede è convinto, almeno nel primo momento, di aver fatto in cambio qualche guadagno; non foss’altro, quello della libertà di fare e dire certe cose che, prima, con la fede non riteneva compatibili. Quando però cagione della perdita non sia la violenza di appetiti terreni, ma sete d’anima che non riesca piú a saziarsi nel calice dell’altare e nel fonte dell’acqua benedetta, difficilmente chi perde la fede è convinto d’aver guadagnato in cambio qualche cosa. Tutt’al piú, lí per lí, non si lagna della perdita, in quanto riconosce d’aver perduto in fine una cosa che non aveva piú per lui alcun valore.

Tommasino Unzio, con la fede, aveva poi perduto tutto, anche l’unico stato che il padre gli potesse dare, mercé un lascito condizionato d’un vecchio zio sacerdote. Il padre, inoltre, non s’era tenuto di prenderlo a schiaffi, a calci, e di lasciarlo parecchi giorni a pane e acqua, e di scagliargli in faccia ogni sorta di ingiurie e di vituperii. Ma Tommasino aveva sopportato tutto con dura e pallida fermezza, e aspettato che il padre si convincesse non esser quelli propriamente i mezzi piú acconci per fargli ritornar la fede e la vocazione.

Non gli aveva fatto tanto male la violenza, quanto la volgarità dell’atto cosí contrario alla ragione per cui s’era spogliato dell’abito sacerdotale.

Ma d’altra parte aveva compreso che le sue guance, le sue spalle, il suo stomaco dovevano offrire uno sfogo al padre per il dolore che sentiva anche lui, cocentissimo, della sua vita irreparabilmente crollata e rimasta come un ingombro lí per casa.

Volle però dimostrare a tutti che non s’era spretato per voglia di mettersi «a fare il porco» come il padre pulitamente era andato sbandendo per tutto il paese. Si chiuse in sé, e non uscí piú dalla sua cameretta, se non per qualche passeggiata solitaria o sú per i boschi di castagni, fino al Pian della Britta, o giú per la carraja a valle, tra i campi, fino alla chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto, sempre assorto in meditazioni e senza mai alzar gli occhi in volto a nessuno.

È vero intanto che il corpo, anche quando lo spirito si fissi in un dolore profondo o in una tenace ostinazione ambiziosa, spesso lascia lo spirito cosí fissato e, zitto zitto, senza dirgliene nulla, si mette a vivere per conto suo, a godere della buon’aria e dei cibi sani.

Avvenne cosí a Tommasino di ritrovarsi in breve e quasi per ischerno, mentre lo spirito gli s’immalinconiva e s’assottigliava sempre piú nelle disperate meditazioni, con un corpo ben pasciuto e florido, da padre abate.

Altro che Tommasino, adesso! Tommasone Canta l’Epistola. Ciascuno, a guardarlo, avrebbe dato ragione al padre. Ma si sapeva in paese come il povero giovine vivesse; e nessuna donna poteva dire d’essere stata guardata da lui, fosse pur di sfuggita.

Non aver piú coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta; non ricordarsi piú neanche del proprio nome; vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante; senza piú affetti, né desiderii, né memorie, né pensieri; senza piú nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lí su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole; udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita.

Nuvole e vento.

Eh, ma era già tutto avvertire e riconoscere che quelle che veleggiavano luminose per la sterminata azzurra vacuità erano nuvole. Sa forse d’essere la nuvola? Né sapevan di lei l’albero e le pietre, che ignoravano anche se stessi.

E lui, avvertendo e riconoscendo le nuvole, poteva anche – perché no? – pensare alla vicenda dell’acqua, che divien nuvola per ridivenir poi acqua di nuovo. E a spiegar questa vicenda bastava un povero professoruccio di fisica; ma a spiegare il perché del perché?

Sú nel bosco dei castagni, picchi d’accetta; giú nella cava, picchi di piccone.

Mutilare la montagna; atterrare gli alberi, per costruire case. Lí, in quel borgo montano, altre case. Stenti, affanni, fatiche e pene d’ogni sorta, perché? per arrivare a un comignolo e per fare uscir poi da questo comignolo un po’ di fumo, subito disperso nella vanità dello spazio.

E come quel fumo, ogni pensiero, ogni memoria degli uomini.

Ma davanti all’ampio spettacolo della natura, a quell’immenso piano verde di querci e d’ulivi e di castagni, degradante dalle falde del Cimino fino alla valle tiberina laggiú laggiú, sentiva a poco a poco rasserenarsi in una blanda smemorata mestizia.

Tutte le illusioni e tutti i disinganni e i dolori e le gioje e le speranze e i desiderii degli uomini gli apparivano vani e transitorii di fronte al sentimento che spirava dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili. Quasi vicende di nuvole gli apparivano nell’eternità della natura i singoli fatti degli uomini. Bastava guardare quegli alti monti di là dalla valle tiberina, lontani lontani, sfumanti all’orizzonte, lievi e quasi aerei nel tramonto.

Oh ambizioni degli uomini! Che grida di vittoria, perché l’uomo s’era messo a volare come un uccellino! Ma ecco qua un uccellino come vola: è la facilità piú schietta e lieve, che s’accompagna spontanea a un trillo di gioja. Pensare adesso al goffo apparecchio rombante, e allo sgomento, all’ansia, all’angoscia mortale dell’uomo che vuol fare l’uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il motore si guasta, il motore s’arresta; addio uccellino!

– Uomo, – diceva Tommasino Unzio, lí sdrajato sull’erba, – lascia di volare. Perché vuoi volare? E quando hai volato?

D’un tratto, come una raffica, corse per tutto il paese una notizia che sbalordí tutti: Tommasino Unzio, Canta l’Epistola, era stato prima schiaffeggiato e poi sfidato a duello dal tenente De Venera, comandante il distaccamento, perché, senza voler dare alcuna spiegazione, aveva confermato d’aver detto: – Stupida! – in faccia alla signorina Olga Fanelli, fidanzata del tenente, la sera avanti, lungo la via di campagna che conduce alla chiesetta di Santa Maria di Loreto.

Era uno sbalordimento misto d’ilarità, che pareva s’appigliasse a un interrogazione su questo o quel dato della notizia, per non precipitare di botto nell’incredulità.

– Tommasino? – Sfidato a duello? – Stupida, alla signorina Fanelli? – Confermato? – Senza spiegazioni? – E ha accettato la sfida?

– Eh, perdio, schiaffeggiato!

– E si batterà?

– Domani, alla pistola.

– Col tenente De Venera alla pistola?

– Alla pistola.

E dunque il motivo doveva esser gravissimo. Pareva a tutti non si potesse mettere in dubbio una furiosa passione tenuta finora segreta. E forse le aveva gridato in faccia «Stupida!» perché ella, invece di lui, amava il tenente De Venera. Era chiaro! E veramente tutti in paese giudicavano che soltanto una stupida si potesse innamorare di quel ridicolissimo De Venera. Ma non lo poteva credere lui, naturalmente, il De Venera; e perciò aveva preteso una spiegazione.

Dal canto suo, però, la signorina Olga Fanelli giurava e spergiurava con le lagrime agli occhi che non poteva esser quella la ragione dell’ingiuria, perché ella non aveva veduto se non due o tre volte quel giovine, il quale del resto non aveva mai neppure alzato gli occhi a guardarla; e mai e poi mai, neppure per un minimo segno, le aveva dato a vedere di covar per lei quella furiosa passione segreta, che tutti dicevano.. Ma che! no! non quella: qualche altra ragione doveva esserci sotto! Ma quale? Per niente non si grida: – Stupida! – in faccia a una signorina.

Se tutti, e in ispecie il padre e la madre, i due padrini, il De Venera e la signorina stessa si struggevano di saper la vera ragione dell’ingiuria, piú di tutti si struggeva Tommasino di non poterla dire, sicuro com’era che, se l’avesse detta, nessuno la avrebbe creduta, e che anzi a tutti sarebbe sembrato che egli volesse aggiungere a un segreto inconfessabile l’irrisione.

 

Chi avrebbe infatti creduto che lui, Tommasino Unzio, da qualche tempo in qua, nella crescente e sempre piú profonda sua melanconia, si fosse preso d’una tenerissima pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco, senza saper perché, in attesa del deperimento e della morte? Quanto piú labili e tenui e quasi inconsistenti le forme di vita, tanto piú lo intenerivano, fino alle lagrime talvolta. Oh! in quanti modi si nasceva, e per una volta sola, e in quella data forma, unica, perché mai due forme non erano uguali, e cosí per poco tempo, per un giorno solo talvolta, e in un piccolissimo spazio, avendo tutt’intorno, ignoto, l’enorme mondo, la vacuità enorme e impenetrabile del mistero dell’esistenza. Formichetta, si nasceva, e moscerino, e filo d’erba. Una formichetta, nel mondo! nel mondo, un moscerino, un filo d’erba. Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via per sempre; mai piú, quello; mai piú!

 

Ora, da circa un mese, egli aveva seguito giorno per giorno la breve storia d’un filo d’erba appunto: d’un filo d’erba tra due grigi macigni tigrati di musco, dietro la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto.

Lo aveva seguito, quasi con tenerezza materna, nel crescer lento tra altri piú bassi che gli stavano attorno, e lo aveva veduto sorgere dapprima timido, nella sua tremula esilità, oltre due macigni ingrommati, quasi avesse paura e insieme curiosità d’ammirar lo spettacolo che si spalancava sotto, della verde, sconfinata pianura; poi, sú, sú, sempre piú alto, ardito, baldanzoso, con un pennacchietto rossigno in cima, come una cresta di galletto.

 

E ogni giorno, per una o due ore, contem-plandolo e vivendone la vita, aveva con esso tentennato a ogni piú lieve alito d’aria; trepidando era accorso in qualche giorno di forte vento, o per paura di non arrivare a tempo a proteggerlo da una greggiola di capre, che ogni giorno, alla stess’ora, passava dietro la chiesetta e spesso s’indugiava un po’ a strappare tra i macigni qualche ciuffo d’erba. Finora, cosí il vento come le capre avevano rispettato quel filo d’erba. E la gioja di Tommasino nel ritrovarlo intatto lí, col suo spavaldo pennacchietto in cima, era ineffabile. Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi lo custodiva con l’anima e col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava alle prime stelle che spuntavano nel cielo crepuscolare, perché con tutte le altre lo vegliassero durante la notte. E proprio, con gli occhi della mente, da lontano, vedeva quel suo filo d’erba, tra i due macigni, sotto le stelle fitte fitte, sfavilanti nel cielo nero, che lo vegliavano.

Ebbene, quel giorno, venendo alla solita ora per vivere un’ora con quel suo filo d’erba, quand’era già a pochi passi dalla chiesetta, aveva scorto dietro a questa, seduta su uno di quei due macigni, la signorina Olga Fanelli, che forse stava lí a riposarsi un po’, prima di riprendere il cammino.

Si era fermato, non osando avvicinarsi, per aspettare ch’ella, riposatasi, gli lasciasse il posto. E difatti, poco dopo, la signorina era sorta in piedi, forse seccata di vedersi spiata da lui: s’era guardata un po’ attorno: poi, distrattamente, allungando la mano, aveva strappato giusto quel filo d’erba e se l’era messo tra i denti col pennacchietto ciondolante.

 

Tommasino Unzio s’era sentito strappar l’anima, e irresistibilmente le aveva gridato: – Stupida! – quand’ella gli era passata davanti, con quel gambo in bocca. Ora, poteva egli confessare d’avere ingiuriato cosí quella signorina per un filo d’erba?

E il tenente De Venera lo aveva schiaffeggiato.

Tommasino era stanco dell’inutile vita, stanco dell’ingombro di quella sua stupida carne, stanco della baja che tutti gli davano e che sarebbe diventata piú acerba e accanita se egli, dopo gli schiaffi, si fosse ricusato di battersi.   Accettò la sfida, ma a patto che le condizioni del duello fossero gravissime. Sapeva che il tenente De Venera era un valentissimo tiratore. Ne dava ogni mattina la prova, durante le istruzioni del Tir’a segno. E volle battersi alla pistola, la mattina appresso, all’alba, proprio là, nel recinto del Tir’a segno.

Una palla in petto. La ferita dapprima, non parve tanto grave; poi s’aggravò. La palla aveva forato il polmone. Una gran febbre; il delirio. Quattro giorni e quattro notti di cure disperate. La signora Unzio, religiosissima, quando i medici alla fine dichiararono che non c’era piú nulla da fare, pregò, scongiurò il figliuolo che, almeno prima di morire, volesse ritornare in grazia di Dio. E Tommasino, per contentar la mamma, si piegò a ricevere un confessore. Quando questo, al letto di morte, gli chiese:

– Ma perché, figliuolo mio? perché?

Tommasino con gli occhi socchiusi, con voce spenta, tra un sospiro ch’era anche sorriso dolcissimo, gli rispose semplicemente:

– Padre, per un filo d’erba…

E tutti credettero ch’egli fino all’ultimo seguitasse a delirare.

3.3 Sole e ombra

I

Tra i rami degli alberi che formavano quasi un portico verde e lieve al viale lunghissimo attorno alle mura della vecchia città, la luna, comparendo all’improvviso, di sorpresa, pareva dicesse a un uomo d’altissima statura, che, in un’ora cosí insolita, s’avventurava solo a quel bujo mal sicuro:

– Sí, ma io ti vedo.

E come se veramente si vedesse scoperto, l’uomo si fermava e, spalmando le manacce sul petto, esclamava con intensa esasperazione:

– Io, già! io! Ciunna!

Via via, sul suo capo, tutte le foglie allora, frusciando infinitamente, pareva si confidassero quel nome: – Ciunna… Ciunna… – come se, conoscendolo da tanti anni, sapessero perché egli, a quell’ora, passeggiava cosí solo per il pauroso viale. E seguitavano a bisbigliar di lui con mistero e di quel che aveva fatto… ssss… Ciunna! Ciunna!

Lui allora si guardava dietro, nel bujo lungo del viale interrotto qua e là da tante fantasime di luna; chi sa qualcuno… ssss… Si guardava intorno e, imponendo silenzio a se stesso e alle foglie… ssss… si rimetteva a passeggiare, con le mani afferrate dietro la schiena.

Zitto zitto, duemila e settecento lire. Duemila e settecento lire sottratte alla cassa del magazzino generale dei tabacchi. Dunque reo… ssss… di peculato.

Domani sarebbe arrivato l’Ispettore:

– Ciunna, qui mancano duemila e settecento lire.

– Sissignore. Me le son prese io, signor Ispettore.

– Prese? Come?

– Con due dita, signor Ispettore.

– Ah sí? Bravo Ciunna! Prese come un pizzico di rapé? Le mie congratulazioni, da una parte; dall’altra, se non vi dispiace, favorite in prigione.

– Ah no, ah mi scusi, signor cavaliere. Mi dispiace anzi moltissimo. Tanto che, se lei permette, guardi: domani Ciunna se ne scenderà in carrozza giú alla Marina. Con le due medaglie del Sessanta sul petto e un bel ciondolo di dieci chili legato al collo come un abitino, si butterà a mare, signor cavaliere. La morte è brutta; ha le gambe secche; ma Ciunna, dopo sessantadue anni di vita intemerata, in prigione non ci va.

 

Da quindici giorni, questi strambi soliloquii dialogati, con accompagnamento di gesti vivacissimi. E, come tra i rami la luna, facevan capolino in questi soliloquii un po’ tutti i suoi conoscenti, che eran soliti di pigliarselo a godere per la comica stranezza del carattere e il modo di parlare.

– Per te, Niccolino! – seguitava infatti il Ciunna, rivolgendosi mentalmente al figliuolo. – Per te ho rubato! Ma non credere che ne sia pentito. Quattro bambini, signore Iddio, quattro bambini in mezzo alla strada! E tua moglie, Niccolino, che fa? Niente, ride: incinta di nuovo. Quattro e uno, cinque. Benedetta! Prolífica, figliuolo mio, prolífica; pòpola di piccoli Ciunna il paese! Visto che la miseria non ti concede altra soddisfazione, prolífica, figliuolo! I pesci, che domani si mangeranno tuo papà, avranno poi l’obbligo di dar da mangiare a te e alla numerosa tua figliolanza. Paranze della Marina, un carico di pesci ogni giorno per i miei nipotini!

Quest’obbligo dei pesci gli sovveniva adesso; perché, fino a pochi giorni addietro, s’era invece esortato cosí:

– Veleno! veleno! la meglio morte! Una pilloletta, e buona notte!

E s’era procurato, per mezzo dell’inserviente dell’Istituto chimico, alcuni pezzetti cristallini d’anidride arseniosa. Con quei pezzetti in tasca, era anzi andato a confessarsi.

– Morire, sta bene; ma in grazia di Dio.

– Col veleno intanto, no! – soggiungeva adesso. – Troppi spasimi. L’uomo è vile; grida ajuto; e se mi salvano? No no, lí, meglio: a mare. Le medaglie, sul petto; il ciondolino al collo e patapúmfete. Poi: tanto di pancia. Signori, un garibaldino galleggiante: cetaceo di nuova specie! Di’ sú, Ciunna, che c’è in mare? Pesciolini, Ciunna, che hanno fame, come i tuoi nipotini in terra, come gli uccellini in cielo.

Avrebbe fissato la vettura per il domani. Alle sette del mattino, col frescolino, in via; un’oretta per scendere alla Marina; e, alle otto e mezzo, addio Ciunna!

Intanto, proseguendo per il viale, formulava la lettera da lasciare. A chi indirizzarla? Alla moglie, povera vecchia, o al figliuolo, o a qualche amico? No: al largo gli amici! Chi lo aveva ajutato? Per dir la verità, non aveva chiesto ajuto a nessuno; ma perché sapeva in precedenza che nessuno avrebbe avuto pietà di lui. E la prova eccola qua: tutto il paese lo vedeva da quindici giorni andar per via come una mosca senza capo: ebbene, neppure un cane s’era fermato per domandargli: – Ciunna, che hai?

 

II

Svegliato, la mattina dopo, dalla serva alle sette in punto, si stupí d’aver dormito saporitamente tutta la notte.

– C’è già la carrozza?

– Sissignore, è giú che aspetta.

– Eccomi pronto! Ma, oh, le scarpe, Rosa! Aspetta: apro l’uscio.

Nello scendere dal letto per prendere le scarpe, altro stupore: aveva lasciato al solito, la sera avanti, le scarpe fuori dell’uscio, perché la serva le pulisse. Come se gli avesse importato d’andarsene all’altro mondo con le scarpe pulite.

Terzo stupore innanzi all’armadio, dal quale si recò per trarne l’abito, che era solito indossare nelle gite, per risparmiar l’altro, il cittadino, un po’ piú nuovo, o meno vecchio.

– E per chi lo risparmio adesso?

Insomma, tutto come se lui stesso in fondo non credesse ancora che tra poco si sarebbe ucciso. Il sonno… le scarpe… l’abito… Ed ecco qua, ora sta a lavarsi la faccia; e ora si fa davanti allo specchio, al solito, per annodarsi con cura la cravatta.

– Ma che scherzo?

No. La lettera. Dove l’aveva messa? Qua, nel cassetto del comodino. Eccola!

Lesse l’intestazione: «Per Niccolino».

– Dove la metto?

Pensò di metterla sul guanciale del letto, proprio nel posto in cui aveva posato la testa per l’ultima volta.

– Qua la vedranno meglio.

Sapeva che la moglie e la serva non entravano mai prima di mezzogiorno a rifar la camera.

– A mezzogiorno saran piú di tre ore…

Non terminò la frase; volse in giro uno sguardo, come per salutar le cose che lasciava per sempre; scorse al capezzale il vecchio crocifisso d’avorio ingiallito, si tolse il cappello e piegò le gambe in atto d’inginocchiarsi.

Ma in fondo ancora non si sentiva neanche sveglio del tutto. Aveva ancora nel naso e sugli occhi, pesante e saporito, il sonno.

– Dio mio… Dio mio… – disse alla fine, improvvisamente smarrito.

E si strinse forte la fronte con una mano.

Ma poi pensò che giú la carrozza aspettava, e uscí a precipizio.

– Addio, Rosa. Di’ che torno prima di sera.

 

Traversando in carrozza, di trotto, il paese (quella bestia del vetturino aveva messo le sonagliere ai cavalli come per una festa in campagna), il Ciunna si sentí, all’aria fresca, risvegliar subito l’estro comico che era proprio della sua natura, e immaginò che i sonatori della banda municipale, coi pennacchi svolazzanti degli elmetti, gli corressero dietro, gridando e facendo cenni con le braccia perché si fermasse o andasse piú piano, ché gli volevano sonare la marcia funebre. Dietro, cosí a gambe levate, non potevano.

«Grazie tante! Addio, amici! Ne faccio a meno volentieri! Mi basta questo strepito dei vetri della carrozza, e quest’allegria qua dei sonaglioli!»

Oltrepassate le ultime case, allargò il petto alla vista della campagna che pareva allagata da un biondo mare di messi, su cui sornuotavano qua e là mandorli e olivi.

Vide alla sua destra sbucar da un carrubo una contadina con tre ragazzi; contemplò un tratto il grande albero nano, e pensò: «È come la chioccia che tien sotto i suoi pulcini». Lo salutò con la mano. Era in vena di salutare ogni cosa, per l’ultima volta, ma senz’alcuna afflizione; come se, con la gioja che in quel momento provava, si sentisse compensato di tutto.

La carrozza ora scendeva stentatamente per lo stradone polveroso, piú che mai ripido. Salivano e scendevano lunghe file di carretti. Non aveva mai fatto caso al caratteristico abbrigliamento dei muli che tiravano quei carretti. Lo notò adesso, come se quei muli si fossero parati di tutte quelle nappe e quei fiocchi e festelli variopinti per far festa a lui.

A destra, a sinistra, qua e là su i mucchi di brecciame, stavan seduti a riposarsi alcuni mendicanti, storpii o ciechi, che dalla borgata marina salivano alla città sul colle, o da questa scendevano a quella per un soldo o un tozzo di pane promessi per quel tal giorno.

Della vista di costoro s’afflisse, e subito gli saltò in mente di invitarli tutti a salire in carrozza con lui: «Allegri! allegri! Andiamo a buttarci a mare tutti quanti! Una carrozzata di disperati! Sú, sú, figliuoli! salite salite! La vita è bella e non dobbiamo affliggerla con la nostra vista».

Si trattenne, per non svelare al vetturino lo scopo della gita. Sorrise però di nuovo, immaginando tutti quei mendicanti in carrozza con lui; e, come se veramente li avesse lí, vedendone qualche altro per via, ripeteva tra sé e sé l’invito:

«Vieni anche tu, sali! Ti do viaggio gratis!»

 

III

Nella borgata marina il Ciunna era noto a tutti.

– Immenso Ciunna! – si sentí infatti chiamare, appena smontato dalla vettura; e si trovò tra le braccia d’un tal Tino Imbrò, suo giovane amico, che gli scoccò due sonori baci, battendogli una mano su la spalla.

– Come va? Come va? Che è venuto a far qui, in questo paesettaccio di piedi-scalzi?

– Un affaruccio… – rispose il Ciunna sorridendo imbarazzato.

– Questa vettura è a sua disposizione?

– Sí, l’ho presa a nolo!

– Benone. Dunque: vetturino, va’ a staccare! Caro Ciunna, per male che si senta, occhi pallidi, naso pallido, labbra pallide, io la sequestro. Se ha mal di capo, glielo faccio passare; e le faccio passare la qualunquissima cosa!

– Grazie, Tino mio, – disse il Ciunna intenerito dalla festosa accoglienza dell’allegro giovinotto. – Guarda, ho davvero un affare molto urgente da sbrigare. Poi bisogna che torni su di fretta. Tra l’altro, non so, forse oggi m’arriva di botto, tra capo e collo, l’ispettore.

– Di domenica? E poi, come? senza preavviso?

– Ah sí! – replicò il Ciunna. – Vorresti anche il preavviso? Ti piombano addosso quando meno te l’aspetti.

– Non sento ragione, – protestò l’altro. – Oggi è festa, e vogliamo ridere. Io la sequestro. Sono di nuovo scapolo, sa? Mia moglie, poverina, piangeva notte e giorno… «Che hai, carina mia, che hai?» «Voglio mammà! voglio papà!» «O mi piangi per questo? Sciocchina, va’ da mammà, va’ da papà, che ti daranno la bobona, le toserelle belle belle…» Lei che è mio maestro, ho fatto bene?

Rise anche dalla cassetta il vetturino. E allora l’Imbrò:

– Scemo, sei ancora lí? Marche! T’ho detto: Va’ a staccare!

– Aspetta, – disse allora il Ciunna, cavando dalla tasca in petto il portafogli. – Pago avanti.

Ma l’Imbrò gli trattenne il braccio:

– Non sia mai! Pagare e morire, piú tardi che si può!

– No: avanti, – insisté il Ciunna. – Devo pagare avanti. Se mi trattengo, sia pure per poco, in questo paese di galantuomini, capirai, c’è pericolo mi rúbino finanche le suole delle scarpe, appena alzo il piede per camminare.

– Ecco il mio vecchio maestro! Alfin ti riconosco! Paghi, paghi e andiamo via.

Il Ciunna tentennò lievemente il capo, con un sorriso amaro su le labbra; pagò il vetturino e poi domandò all’Imbrò:

– Dove mi porti? Bada, per una mezzoretta soltanto.

– Lei scherza. La carrozza è pagata: può aspettar fino a sera. Senza no no: ora concerto io la giornata. Vede? ho con me la borsetta: andavo al bagno. Venga con me.

– Ma neanche per idea! – negò energicamente il Ciunna. – Io, il bagno? Altro che bagno, caro mio!

Tino Imbrò lo guardò meravigliato.

– Idrofobia?

– No, senti, – replicò il Ciunna, puntando i piedi come un mulo. – Quando ho detto no, è no. Il bagno, io, se mai, me lo farò piú tardi.

– Ma l’ora è questa! – esclamò l’Imbrò. – Un buon bagno, e poi, con tanto d’appetito, di corsa al Leon d’oro: pappatoria e trinchesvàine! Si lasci servire!

– Un festino addirittura. Ma che! Mi fai ridere. Per altro, vedi, sono sprovvisto di tutto: non ho maglia, non ho accappatojo. Penso ancora alla decenza, io.

– Eh via! – esclamò quello, trascinando il Ciunna per un braccio. – Troverà tutto l’occorrente alla rotonda.

Il Ciunna si sottomise alla vivace, affettuosa tirannía del giovanotto.

Chiuso, poco dopo, nel camerino dei Bagni, si lasciò cadere su una seggiola e appoggiò la testa cascante alla parete di tavole, con tutte le membra abbandonate e impressa sul volto una sofferenza quasi rabbiosa.

– Un piccolo assaggio dell’elemento, – mormorò.

Sentí picchiare alle tavole del camerino accanto, e la voce dell’Imbrò:

– Ci siamo? Io sono già in maglia. Tinino dalle belle gambe!

Il Ciunna sorse in piedi:

– Ecco, mi svesto.

Cominciò a svestirsi. Nel trarre dal taschino del panciotto l’orologio, per nasconderlo prudentemente dentro una scarpa, volle guardar l’ora. Erano circa le nove e mezzo, e pensò: «Un’ora guadagnata!». Si mise a scendere la scaletta bagnata, tutto in preda alla sensazione del freddo.

– Giú, giú in acqua! – gli gridò l’Imbrò che già s’era tuffato, e minacciava con una mano di fargli una spruzzata.

– No, no! – gridò a sua volta il Ciunna, tremante e convulso, con quell’angoscia che confonde o rattiene davanti alla mobile, vitrea compattezza dell’acqua marina. – Bada, me ne risalgo! Non sarebbe uno scherzo… non ci resisto… Brrr, com’è fredda! – aggiunse, sfiorando l’acqua con la punta del piede rattratto. Poi, come colpito improvvisamente da un’idea, si tuffò giú tutto sott’acqua.

– Bravissimo! – gridò l’altro appena il Ciunna si rimise in piedi, grondante come una fontana.

– Coraggioso, eh? – disse il Ciunna, passandosi le mani sul capo e su la faccia.

– Sa nuotare?

– No, m’arrabatto.

– Io m’allontano un po’.

L’acqua nel recinto era bassa. Il Ciunna s’accoccolò, tenendosi con un braccio a un palo e battendo leggermente l’acqua con l’altra mano, come se volesse dirle: sta’ bonina! sta’ bonina! a piú tardi!

Era veramente un’irrisione atroce, quel bagno: lui, in mutandine, accoccolato e sostenuto dal palo, che se l’intendeva con l’acqua.

 

Poco dopo però l’Imbrò, rientrando nel recinto e volgendo in giro lo sguardo, non ve lo ritrovò piú. Già risalito? E si avviava per accertarsene verso la scaletta del camerino, quand’ecco a un tratto, se lo vide springar davanti, dall’acqua, paonazzo in volto, con uno sbruffo strepitoso.

– Ohé! Ma è matto? Che ha fatto? Non sa che cosí le può scoppiare qualche vena del collo?

– Lascia scoppiare, – fece il Ciunna ansimando, mezz’affogato, con gli occhi fuori dell’orbita.

– Ha bevuto?

– Un poco.

– Ohé, dico, – fece l’Imbrò e con la mano accennò di nuovo il dubbio che il suo vecchio amico fosse impazzito. Lo guardò un po’; gli domandò: – Ha voluto provarsi il fiato o s’è sentito male?

– Provarmi il fiato, – rispose cupo il Ciunna, passandosi di nuovo le mani su i capelli zuppi.

– Dieci con lode al ragazzino! – esclamò l’Imbrò. – Andiamo, via, andiamo a rivestirci! Troppo fredda oggi l’acqua. Tanto, l’appetito già c’è. Ma dica la verità: si sente proprio male?

Il Ciunna s’era messo ad arcoreggiare come un tacchino.

– No, – disse, quand’ebbe finito. – Benone mi sento! È passato! Andiamo, andiamo pure a rivestirci!

– Spaghetti ai vongoli, e glo glo, glo glo… un vinetto! Lasci fare; ci penso io. Regalo dei parenti di mia moglie, buon’anima. Me ne resta ancora un barilotto. Sentirà!

IV

Si levarono di tavola, ch’erano circa le quattro. Il vetturino s’affacciò alla porta della trattoria:

– Debbo attaccare?

– Se non te ne vai! – minacciò l’Imbrò acceso in volto, tirandosi con un braccio il Ciunna sul petto e ghermendo con l’altra mano un fiasco vuoto.

Il Ciunna, non meno acceso, si lasciò attirare: sorrise, non replicò; beato come un bambino di quella protezione.

– T’ho detto che prima di sera non si riparte! – riprese l’Imbrò.

– Si sa! Si sa! – approvarono a coro molte voci.

 

Perché la sala da pranzo s’era riempita d’una ventina d’amici del Ciunna e dell’Imbrò e gli altri avventori della trattoria si erano messi a desinare insieme, formando cosí una gran tavolata, allegra prima, poi a mano a mano piú rumorosa: risa, urli, brindisi per burla, baccano d’inferno.

Tino Imbrò saltò su la seggiola. Una proposta! Tutti quanti a bordo del vapore inglese ancorato nel porto.

– Col capitano siamo peggio che fratelli! è un giovanotto di trent’anni, pieno di barba e di virtú: con certe bottiglie di Gin che non vi dico!

La proposta fu accolta da un turbine d’applausi.

Verso le sei, scioltasi la compagnia dopo la visita al vapore, il Ciunna disse all’Imbrò:

– Caro Tinino, è tempo di far via! Non so come ringraziarti.

– A questo non ci pensi, – lo interruppe l’Imbrò. – Pensi piuttosto che ha da attendere ancora all’affaruccio di cui mi parlò stamattina.

– Ah, già, hai ragione, – disse il Ciunna aggrottando le ciglia e cercando con una mano la spalla dell’amico, come se stesse per cadere. – Sí, sí, hai ragione. E dire ch’ero sceso per questo. Bisogna infatti che vada.

– Ma se può farne a meno, – gli osservò l’Imbrò.

– No, – rispose il Ciunna, torvo; e ripeté: – Bisogna che vada. Ho bevuto, ho mangiato, e ora… Addio, Tinino. Non posso farne a meno.

– Vuole che l’accompagni? – domandò questi.

– No! Ah ah, vorresti accompagnarmi? Sarebbe curiosa. No no, grazie, Tinino mio, grazie. Vado solo, da me. Ho bevuto, ho mangiato, e ora… Addio, eh!

– Allora l’aspetto qua, con la carrozza, e ci saluteremo. Faccia presto!

– Prestissimo! prestissimo! Addio, Tinino!

E s’avviò.

 

L’Imbrò fece una smusata e pensò: «E gli anni! gli anni! Pare impossibile che Ciunna… In fin dei conti, che avrà bevuto?»

Il Ciunna si voltò e, alzando e agitando un dito all’altezza degli occhi che ammiccavano furbescamente gli disse:

– Tu non mi conosci.

Poi si diresse verso il piú lungo braccio del porto, quello di ponente, ancora senza banchina, tutto di scogli rammontati l’uno su l’altro, fra i quali il mare si cacciava con cupi tonfi, seguiti da profondi risucchi. Si reggeva male sulle gambe. Eppure saltava da uno scoglio all’altro, forse con l’intento, non preciso, di scivolare, di rompersi uno stinco, o di ruzzolare, cosí quasi senza volerlo, in mare. Ansava, sbuffava, scrollava il capo per levarsi dal naso un certo fastidio, che non sapeva se gli venisse dal sudore, dalle lacrime o dalla spruzzaglia delle ondate che si cacciavano tra gli scogli. Quando fu alla punta della scogliera, cascò a sedere, si levò il cappello, serrò gli occhi, la bocca, e gonfiò le gote, quasi per prepararsi a buttar via, con tutto il fiato che aveva in corpo, l’angoscia, la disperazione, la bile che aveva accumulato.

– Auff, vediamo un po’, – disse alla fine, dopo lo sbuffo, riaprendo gli occhi.

 

Il sole tramontava. Il mare, d’un verde vitreo presso la riva, s’indorava intensamente in tutta la vastità tremula dell’orizzonte. Il cielo era tutto in fiamme, e limpidissima l’aria, nella viva luce, su tutto quel tremolío d’acque incendiate.

– Io là? – domandò il Ciunna poco dopo, guardando il mare, oltre gli ultimi scogli. – Per duemila e settecento lire?

 

Gli parvero pochissime. Come togliere a quel mare una botte d’acqua.

– Non si ha il diritto di rubare, lo so. Ma è da vedere se non se ne ha il dovere, perdio, quando quattro bambini ti piangono per il pane e tu questo schifoso denaro lo hai tra le mani e lo stai contando. La società non te ne dà il diritto; ma tu, padre, hai il dovere di rubare in simili casi. E io sono due volte padre per quei quattro innocenti là! E se muojo io, come faranno? Per la strada a mendicare? Ah no, signor Ispettore; la farò piangere io, con me. E se lei, signor Ispettore, ha il cuore duro come questo scoglio qua, ebbene, mi mandi pure davanti ai giudici: voglio vedere se avranno cuore loro da condannarmi. Perdo il posto? Ne troverò un altro, signor Ispettore! Non si confonda. Là, io, non mi ci butto! Ecco le paranze! Compro un chilo di triglie grosse cosí, e ritorno a casa a mangiarmele coi miei nipotini!

Si alzò. Le paranze entravano a tutta vela, virando. Si mosse in fretta per arrivare in tempo al mercato del pesce. Comprò, tra la ressa e le grida, le triglie ancora vive, guizzanti. Ma – dove metterle? Un panierino da pochi soldi: àliga, dentro; e: non dubiti, signor Ciunna, arriveranno ancora vive vive al paese.

Su la strada, innanzi al Leon d’oro, ritrovò l’Imbrò, che subito gli fece con le mani un gesto espressivo:

– Svaporato?

– Che cosa? Ah, il vino… Credevi? Ma che! – fece il Ciunna. – Vedi, ho comperato le triglie. Un bacio, Tinino mio, e un milione di grazie.

– Di che?

– Un giorno forse te lo dirò. Oh, vetturino, su il mantice: non voglio esser veduto.

V

Appena fuori della borgata, cominciò l’erta penosa.

I due cavalli tiravano la carrozza chiusa, accompagnando con un moto della testa china ogni passo allungato a stento, e i sonagli ciondolanti pareva misurassero la lentezza e la pena.

Il vetturino, di tratto in tratto, esortava le povere magre bestie con una voce lunga e lamentosa.

A mezza via, era già sera chiusa.

Il bujo sopravvenuto, il silenzio quasi in attesa d’un lieve rumore nella solitudine brulla di quei luoghi mal guardati, richiamarono lo spirito del Ciunna ancora tra annebbiato dai vapori del vino e abbagliato dallo splendore del tramonto sul mare.

A poco a poco, col crescere dell’ombra, aveva chiuso gli occhi, quasi per lusingar se stesso che poteva dormire. Ora, invece, si ritrovava con gli occhi sbarrati nel bujo della vettura, fissi sul vetro dirimpetto, che strepitava continuamente.

Gli pareva che fosse or ora uscito, inavvertitamente, da un sogno. E, intanto, non trovava la forza di riscuotersi, di muovere un dito. Aveva le membra come di piombo e una tetra gravezza al capo. Sedeva quasi sulla schiena, abbandonato, col mento sul petto, le gambe contro il sedile di fronte, e la mano sinistra affondata nella tasca dei calzoni.

Oh che! Era davvero ubriaco?

– Ferma, – borbottò con la lingua grossa.

E immaginò, senza scomporsi, che scendeva dalla vettura e si metteva a errare per i campi, nella notte, senza direzione. Udí un lontano abbajare, e pensò che quel cane abbajasse a lui errante laggiú laggiú, per la valle.

– Ferma, – ripeté poco dopo, quasi senza voce, riabbassando su gli occhi le palpebre lente.

No! – egli doveva, zitto zitto, saltare dalla vettura, senza farla fermare, senza farsi scorgere dal vetturino; aspettare che la vettura s’allontanasse un po’ per l’erto stradone, e poi cacciarsi nella campagna e correre, correre fino al mare là in fondo.

Intanto non si moveva.

– Plumf! – si provò a fare con la lingua torpida.

A un tratto un guizzo nel cervello lo fece sobbalzare, e con la mano destra convulsa cominciò a grattarsi celermente la fronte:

– La lettera… la lettera…

Aveva lasciato la lettera per il figliuolo sul guanciale del letto. La vedeva. A quell’ora, in casa lo piangevano morto. Tutto il paese, a quell’ora, era pieno della notizia del suo suicidio. E l’Ispettore? L’Ispettore era certo venuto: «Gli avranno consegnato le chiavi; si sarà accorto del vuoto di cassa. La sospensione disonorante, la miseria, il ridicolo, il carcere».

E la vettura intanto seguitava ad andare, lentamente, con pena.

No, no. In preda a un tremito angoscioso, il Ciunna avrebbe voluto fermarla. E allora? No, no. Saltare dalla vettura? Trasse la mano sinistra dalla tasca e col pollice e l’indice s’afferrò il labbro inferiore, come per riflettere, mentre con l’altre dita stringeva, stritolava qualcosa. Aprí quella mano, sporgendola dal finestrino, al chiaro di luna, e si guardò nella palma. Restò. Il veleno. Lí, in tasca, il veleno dimenticato. Strizzò gli occhi, se lo cacciò in bocca: inghiottí. Rapidamente ricacciò la mano in tasca, ne trasse altri pezzetti: li inghiottí. Vuoto. Vertigine. Il petto, il ventre gli s’aprivano, squarciati. Sentí mancarsi il fiato e sporse il capo dal finestrino.

– Ora muojo.

 

L’ampia vallata sottoposta era allagata da un fresco e lieve chiarore lunare; gli alti colli di fronte sorgevano neri e si disegnavano nettamente nel cielo opalino.

Allo spettacolo di quella deliziosa quiete lunare una grande calma gli si fece dentro. Appoggiò la mano allo sportello, piegò il mento sulla mano e attese, guardando fuori. Saliva dal basso della valle un limpido assiduo scampanellare di grilli, che pareva la voce del tremulo riflesso lunare sulle acque correnti d’un placido fiume invisibile.

Alzò gli occhi al cielo, senza levare il mento dalla mano, poi guardò i colli neri e la valle di nuovo, come per vedere quanto ormai rimaneva per gli altri, poiché nulla piú era per lui. Tra breve, non avrebbe veduto, non avrebbe udito piú nulla. S’era forse fermato il tempo? Come mai non sentiva ancora nessun accenno di dolore?

– Non muojo?

E subito, come se il pensiero gli avesse dato la sensazione attesa, si ritrasse, e con una mano si strinse il ventre. No: non sentiva ancor nulla. Però… Si passò una mano sulla fronte: ah! era già bagnata d’un sudor gelido! Il terrore della morte, alla sensazione di quel gelo, lo vinse: tremò tutto sotto l’enorme, nera, orrida imminenza irreparabile, e si contorse nella vettura, addentando un cuscino per soffocar l’urlo del primo spasimo tagliente alle viscere.

Silenzio. Una voce. Chi cantava? E quella luna…

Cantava il vetturino monotonamente, mentre i cavalli stanchi trascinavano con pena la carrozza nera per lo stradone polveroso, bianco di luna.

3.4 L’avemaria di Bobbio

Un caso singolarissimo era accaduto, parecchi anni addietro, a Marco Saverio Bobbio, notajo a Richieri tra i piú stimati.

Nel poco tempo che la professione gli lasciava libero, si era sempre dilettato di studii filosofici, e molti e molti libri d’antica e nuova filosofia aveva letti e qualcuno anche riletto e profondamente meditato.

Purtroppo Bobbio aveva in bocca piú d’un dente guasto. E niente, secondo lui, poteva meglio disporre allo studio della filosofia, che il mal di denti. Tutti i filosofi, a suo dire, avevano dovuto avere e dovevano avere in bocca almeno un dente guasto. Schopenhauer, certo, piú d’uno.

Il mal di denti, lo studio della filosofia; e lo studio della filosofia, a poco a poco, aveva avuto per conseguenza la perdita della fede, fervidissima un tempo, quando Bobbio era fanciullino e ogni mattina andava a messa con la mamma e ogni domenica si faceva la santa comunione nella chiesetta della Badiola al Carmine.

Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa. Bobbio anzi diceva che ciò che chiamiamo coscienza è paragonabile alla poca acqua che si vede nel collo d’un pozzo senza fondo. E intendeva forse significare con questo che, oltre i limiti della memoria, vi sono percezioni e azioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono piú nostre, ma di noi quali fummo in altro tempo, con pensieri e affetti già da un lungo oblío oscurati in noi, cancellati, spenti; ma che al richiamo improvviso d’una sensazione, sia sapore, sia colore o suono, possono ancora dar prova di vita, mostrando ancor vivo in noi un altro essere insospettato.

Marco Saverio Bobbio, ben noto a Richieri non solo per la sua qualità di eccellente e scrupolosissimo notajo, ma anche e forse piú per la gigantesca statura, che la tuba, tre menti e la pancia esorbitante rendevano spettacolosa; ormai senza fede e scettico, aveva tuttora dentro – e non lo sapeva – il fanciullo che ogni mattina andava a messa con la mamma e le due sorelline e ogni domenica si faceva la santa comunione nella chiesetta della Badiola al Carmine; e che forse tuttora, all’insaputa di lui, andando a letto con lui, per lui giungeva le manine e recitava le antiche preghiere, di cui Bobbio forse non ricordava piú neanche le parole.

 

Se n’era accorto bene lui stesso, parecchi anni fa, quando appunto gli era occorso questo singolarissimo caso.

Si trovava a villeggiare con la famiglia in un suo poderetto a circa due miglia da Richieri. Andava la mattina col somarello (povero somarello!) in città, per gli affari dello studio, che non gli davano requie; ritornava, la sera.

La domenica, però, ah la domenica voleva passarsela tutta, e beatamente, in vacanza. Venivano parenti, amici; e si facevano gran tavolate all’aperto: le donne attendevano a preparare il pranzo o cicalavano; i ragazzi facevano il chiasso tra loro; gli uomini andavano a caccia o giocavano alle bocce.

Era uno spasso e uno spavento veder correre Bobbio dietro alle bocce, con quei tre menti e il pancione traballanti.

– Marco, – gli gridava la moglie da lontano, – non ti strapazzare! Bada, Marco, se starnuti!

 

Perché, Dio liberi se Bobbio starnutava! Era ogni volta una terribile esplosione da tutte le parti; e spesso, tutto sgocciolante, doveva correre ai ripari con una mano davanti e l’altra dietro.

Non aveva il governo di quel suo corpaccio. Pareva che esso, rompendo ogni freno, gli scappasse via, gli si precipitasse sbalestrato, lasciando tutti con l’anima pericolante in atto di pararglielo. Quando poi gli ritornava in dominio, riequilibrato, gli ritornava con certi strani dolori e guasti improvvisi, a un braccio, a una gamba, alla testa.

Piú spesso, ai denti.

I denti, i denti erano la disperazione di Bobbio! Se n’era fatti strappare cinque, sei, non sapeva piú quanti; ma quei pochi che gli erano restati pareva si fossero incaricati di torturarlo anche per gli altri andati via.

Una di quelle domeniche, ch’era sceso in villa da Richieri il cognato con tutta la famiglia, moglie e figli e parenti della moglie e parenti dei parenti, cinque carrozzate, e si era stati allegri piú che mai, paf! all’improvviso, sul tardi, giusto nel momento di mettersi a tavola, uno di quei dolori… ma uno di quelli!

 

Per non guastare agli altri la festa, il povero Bobbio s’era ritirato in camera con una mano sulla guancia, la bocca semiaperta, e gli occhi come di piombo, pregando tutti che attendessero a mangiare senza darsi pensiero di lui. Ma, un’ora dopo, era ricomparso come uno che non sapesse piú in che mondo si fosse, se un molino a vapore, proprio un molino a vapore, strepitoso, rombante, era potuto entrargli nella testa e macinargli in bocca, sí, sí, in bocca, in bocca, furiosamente. Tutti erano restati sospesi e costernati a guardargli la bocca, come se davvero s’aspettassero di vederne colar farina. Ma che farina! bava, bava gli colava. Non questo soltanto, però, era assurdo: tutto era assurdo nel mondo, e mostruoso, e atroce. Non stavano lí tutti a banchettare festanti, mentre lui arrabbiava, impazziva? mentre l’universo gli si sconquassava nella testa?

Ansando, con gli occhi stravolti, la faccia congestionata, le mani sfarfallanti, levava come un orso ora una cianca ora l’altra da terra, e dimenava la testa, come se la volesse sbattere alle pareti. Tutti gli atti e i gesti erano, nell’intenzione, di rabbia e violenti: ma si manifestavano molli e invano, quasi per non disturbare il dolore, per non arrabbiarlo di piú.

Per carità, per carità, a sedere! a sedere! Oh, Dio! Lo volevano fare impazzire peggio, saltandogli addosso cosí? A sedere! a sedere! Niente. Nessuno poteva dargli ajuto! Sciocchezze… imposture… Niente, per carità! Non poteva parlare… Uno solo… andasse giú uno solo a far attaccare subito i cavalli a una delle carrozze arrivate la mattina. Voleva correre a Richieri a farsi strappare il dente. Subito! subito! Intanto, tutti a sedere. Appena pronta la carrozza… Ma no, voleva andar sú, solo! Non poteva sentir parlare, non poteva veder nessuno… Per carità, solo! solo!

 

Poco dopo, in carrozza – solo, come aveva voluto – abbandonato, sprofondato, perduto nel rombo dello spasimo atroce, mentre lungo lo stradone in salita i cavalli andavano quasi a passo nella sera sopravvenuta… Ma che era accaduto? Nello sconvolgimento della coscienza, Bobbio all’improvviso aveva provato un tremore, un tremito di tenerezza angosciosa per se stesso, che soffriva, oh Dio, soffriva da non poterne piú. La carrozza passava in quel momento davanti a un rozzo tabernacolo della SS. Vergine delle Grazie, con un lanternino acceso, pendulo innanzi alla grata, e Bobbio, in quel fremito di tenerezza angosciosa, con la coscienza sconvolta, senza sapere piú quello che si facesse, aveva fissato lo sguardo lagrimoso a quel lanternino, e…

«Ave Maria, piena di grazie, il Signore è con Te, benedetta tra tutte le donne, e benedetto il frutto del Tuo ventre, Gesú. Santa Maria madre di Dio, prega per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte. Cosí sia.»

E, all’improvviso, un silenzio, un gran silenzio gli s’era fatto dentro; e, anche fuori, un gran silenzio misterioso, come di tutto il mondo: un silenzio pieno di freschezza, arcanamente lieve e dolce.

Si era tolta la mano dalla guancia, ed era rimasto attonito, sbalordito, ad ascoltare. Un lungo, lungo respiro di refrigerio, di sollievo, gli aveva ridato l’anima. Oh Dio! Ma come? Il mal di denti gli era passato, gli era proprio passato, come per un miracolo. Aveva recitato l’avemaria, e… Come, lui? Ma sí, passato, c’era poco da dire. Per l’avemaria? Come crederlo? Gli era venuto di recitarla cosí, all’improvviso, come una feminuccia…

La carrozza, intanto, aveva seguitato a salire verso Richieri, e Bobbio, intronato, avvilito, non aveva pensato di dire al vetturino di ritornare indietro, alla villa.

 

Una pungente vergogna di riconoscere, prima di tutto, il fatto che lui, come una feminuccia, aveva potuto recitare l’avemaria, e che poi, veramente, dopo l’avemaria il mal di denti gli era passato, lo irritava e lo sconcertava; e poi il rimorso di riconoscere anche, nello stesso tempo, che si mostrava ingrato non credendo, non potendo credere, che si fosse liberato dal male per quella preghiera,   ora che aveva ottenuto la grazia;   e infine un segreto timore che, per questa ingratitudine, subito il male lo potesse riassalire.

Ma che! Il male non lo aveva riassalito. E, rientrando nella villa, leggero come una piuma, ridente, esultante, a tutti i convitati, che gli erano corsi incontro, Bobbio aveva annunziato:

– Niente! Mi è passato tutt’a un tratto, da sé, lungo lo stradone, poco dopo il tabernacolo della Madonna delle Grazie. Da sé!

 

Orbene, a questo suo caso singolarissimo di parecchi anni fa pensava Bobbio con un risolino scettico a fior di labbra, un dopopranzo, steso su la greppina dello studio, col primo volume degli Essais di Montaigne aperto innanzi agli occhi.

Leggeva il capitolo XXVII, ov’è dimostrato che c’est folie de rapporter le vray et le faux à notre suffisance.

Era, non ostante quel risolino scettico, alquanto inquieto e, leggendo, si passava di tratto in tratto una mano su la guancia destra.

Montaigne diceva:

«Quand nous lisons dans Bouchet les miracles des reliques de sainct Hilaire, passe; son credit n’est pas assez grand pour nous oster la licence d’y contredire; mais de condamner d’un train toutes pareilles histoires me semble singulière imprudence. Ce grand sainct Augustin tesmoigne..

– Eh già! – fece Bobbio a questo punto, accentuando il risolino. – Eh già! Ce grand sainct Augustin attesta, o diciamo, autentica d’aver veduto, su le reliquie di San Gervaso e Protaso a Milano, un fanciullo cieco riacquistare la vista; una donna a Cartagine, guarire d’un cancro col segno della croce fattovi sopra da una donna di recente battezzata… Ma allo stesso modo il gran Sant’ Agostino avrebbe potuto affermare, o diciamo, autenticare su la mia testimo-nianza, che Marco Saverio Bobbio, notajo a Richieri tra i piú stimati, guarí una volta all’improvviso d’un feroce mal di denti, recitando un’avemaria…

Bobbio chiuse gli occhi, accomodò la bocca ad o, come fanno le scimmie, e mandò fuori un po’ d’aria.

– Fiato cattivo!

Strinse le labbra e, piegando la testa da un lato, sempre con gli occhi chiusi, si passò di nuovo, piú forte, la mano su la mandibola.

Perdio, il dente! O non gli faceva male di nuovo, il dente? E forte, anche, gli faceva male. Perdio, di nuovo.

Sbuffò; si levò in piedi faticosamente; buttò il libro su la greppina, e si mise a passeggiare per la stanza con la mano su la guancia e la fronte contratta e il naso ansante. Si recò davanti allo specchio della mensola; si cacciò un dito a un angolo della bocca e la stirò per guardarvi dentro il dente cariato. All’impressione dell’aria, sentí una fitta piú acuta di dolore, e subito serrò le labbra e contrasse tutto il volto per lo spasimo; poi levò il volto al soffitto e scosse le pugna, esasperato.

Ma sapeva per esperienza che, ad avvilirsi sotto il male o ad arrabbiarsi, avrebbe fatto peggio. Si sforzò dunque di dominarsi; andò a buttarsi di nuovo su la greppina e vi rimase un pezzo con le palpebre semichiuse, quasi a covar lo spasimo; poi le riaprí; riprese il libro e la lettura.

«… une femme nouvellement baptisée lui fit; Hesperius… no, appresso… Ah, ecco… une femme en une procession ayant touché à la chasse sainct Estienne d’un bouquet, et de ce bouquet s’estant frottée les yeux, avoir recouvré la veuë qu’elle avoit pieça perdue…«

Bobbio ghignò. Il ghigno gli si contorse subito in una smorfia, per un tiramento improvviso del dolore, ed egli vi applicò la mano sú, forte, a pugno chiuso. Il ghigno era di sfida.

– E allora, disse, – vediamo un po’: Montaigne e Sant’Agostino mi siano testimonii. Vediamo un po’ se mi passa ora, come mi passò allora.

Chiuse gli occhi e, col sorriso frigido su le labbra tremanti per lo spasimo interno, recitò pian piano, con stento, cercando le parole, l’avemaria, questa volta in latino… gratia plena… Dominus tecum… fructus ventris tui… nunc et in hora mortis… Riaprí gli occhi. Amen… Attese un po’, interrogando in bocca il dente… Amen… 

Ma che! Non gli passava. Gli si faceva anzi piú forte… Ecco, ahi ahi… piú forte… piú forte…

– Oh Maria! oh Maria!

E Bobbio rimase sbalordito. Quest’ultima, reiterata invocazione non era stata sua; gli era uscita dalle labbra con voce non sua, con fervore non suo. E già… ecco… una sosta… un refrigerio… Possibile? Di nuovo?… Ma che, no! Ahi ahi… ahi ahi…

– Al diavolo Montaigne! Sant’Agostino!

E Bobbio si cacciò la tuba in capo e, aggrondato, feroce, con la mano su la guancia, si precipitò in cerca d’un dentista.

Recitò o non recitò, durante il tragitto, senza saperlo, di nuovo, l’avemaria? Forse sí… forse no… Il fatto è che, davanti alla porta del dentista, si fermò di botto, piú che mai grondato, con rivoli di sudore per tutto il faccione, in tale buffo atteggiamento di balorda sospensione, che un amico lo chiamò:

– Signor notajo!

– Ohé…

– E che fa lí?

– Io? Niente… avevo un… un dente che mi faceva male…

– Le è passato?

– Già… da sé…

– E lo dice cosí? Sia lodato Dio!

Bobbio lo guardò con una grinta da cane idrofobo.

– Un corno! – gridò. – Che lodato Dio! Vi dico, da sé! Ma perché vi dico cosí, vedrete che forse, di qui a un momento, mi ritornerà! Ma sapete che faccio? Non mi duole piú; ma me lo faccio strappare lo stesso! Tutti me li faccio strappare, a uno a uno, tutti, ora stesso me li faccio strappare. Non voglio di questi scherzi… non voglio piú di questi scherzi, io! Tutti, a uno a uno, me li faccio strappare!

E si cacciò, furibondo, tra le risa di quell’amico, nel portoncino del dentista.

3.5 L’imbecille

Ma che c’entrava, in fine, Mazzarini, il deputato Guido Mazzarini, col suicidio di Pulino? – Pulino? Ma come? S’era ucciso Pulino? – Lulú Pulino, sí: due ore fa. Lo avevano trovato in casa, che pendeva dall’ànsola del lume, in cucina. – Impiccato? – Impiccato, sí. Che spettacolo! Nero, con gli occhi e la lingua fuori, le dita raggricchiate. – Ah, povero Lulú! – Ma che c’entrava Mazzarini?

Non si capiva niente. Una ventina di energumeni urlavano nel caffè, con le braccia levate (qualcuno era anche montato sulla sedia), attorno a Leopoldo Paroni, presidente del Circolo repubblicano di Costanova, che urlava piú forte di tutti.

– Imbecille! sí, sí, lo dico e lo sostengo: imbecille! imbecille! Gliel’avrei pagato io il viaggio! Io, gliel’avrei pagato! Quando uno non sa piú che farsi della propria vita, perdio, se non fa cosí è un imbecille!

– Scusi, che è stato? – domandò un nuovo venuto, accostandosi, intronato da tutti quegli urli e un po’ perplesso, a un avventore che se ne stava discosto, appartato in un angolo in ombra, tutto aggruppato, con uno scialle di lana su le spalle e un berretto da viaggio in capo, dalla larga visiera che gli tagliava con l’ombra metà del volto.

Prima di rispondere, costui levò dal pomo del bastoncino una delle mani ischeletrite, nella quale teneva un fazzoletto appallottolato, e se la portò alla bocca, su i baffetti squallidi, spioventi. Mostrò cosí la faccia smunta, gialla, su cui era ricresciuta rada rada qua e là una barbettina da malato. Con la bocca otturata, combatté un pezzo, sordamente, con la propria gola, ove una tosse profonda irrompeva, rugliando tra sibili; infine disse con voce cavernosa:

– Mi ha fatto aria, accostandosi. Scusi, lei, non è di Costanova, è vero?

(E raccolse e nascose nel fazzoletto qualche cosa.) Il forestiere, dolente, mortificato, imbarazzato dal ribrezzo che non riusciva a dissimulare, rispose:

– No; sono di passaggio.

– Siamo tutti di passaggio, caro signore.

E aprí la bocca, cosí dicendo, e scoprí i denti, in un ghigno frigido, muto, restringendo in fitte rughe, attorno agli occhi aguzzi, la gialla cartilagine del viso emaciato.

– Guido Mazzarini, – riprese poi, lenta-mente, – è il deputato di Costanova. Grand’uomo.

E stropicciò l’indice e il pollice d’una mano, a significare il perché della grandezza.

– Dopo sette mesi dalle elezioni politiche, a Costanova, caro signore, ribolle ancora furioso, come vede, lo sdegno contro di lui, perché, avversato qui da tutti, è riuscito a vincere col suffragio ben pagato delle altre sezioni elettorali del collegio. Le furie non sono svaporate, perché Mazzarini, per vendicarsi, ha fatto mandare al Municipio di Costanova… – si scosti, si scosti un poco; mi manca l’aria – un regio commissario. Grazie. Già! un regio commissario. Cosa… cosa di gran momento… Eh, un regio commissario…

Allungò una mano e, sotto gli occhi del forestiere che lo mirava stupito, chiuse le dita, lasciando solo ritto il mignolo, esilissimo; appuntí le labbra e rimase un pezzo intentissimo a fissar l’unghia livida di quel dito.

– Costanova è un gran paese, – disse poi. – L’universo, tutto quanto, gràvita attorno a Costanova. Le stelle, dal cielo, non fanno altro che sbirciar Costanova; e c’è chi dice che ridano; c’è chi dice che sospirino dal desiderio d’avere in sé ciascuna una città come Costanova. Sa da che dipendono le sorti dell’universo? Dal partito repubblicano di Costanova, il quale non può aver bene in nessun modo, tra Mazzarini da un lato, e l’ex-sindaco Cappadona dall’altro, che fa il re. Ora il Consiglio comunale è stato sciolto e per conseguenza l’universo è tutto scombussolato. Eccoli là: li sente? Quello che strilla piú di tutti è Paroni, sí, quello là col pizzo, la cravatta rossa e il cappello alla Lobbia; strilla cosí, perché vuole che la vita universa, e anche la morte, stiano a servizio dei repubblicani di Costanova. Anche la morte, sissignore. S’è ucciso Pulino… Sa chi era Pulino? Un povero malato, come me. Siamo parecchi, a Costanova, malati cosí. E dovremmo servire a qualche cosa. Stanco di penare, il povero Pulino oggi si è…

– Impiccato?

– All’ànsola del lume, in cucina. Eh, ma cosí, no, non mi piace. Troppa fatica, impiccarsi. C’è la rivoltella, caro signore. Morte piú spiccia. Bene; sente che dice Paroni? Dice che Pulino è stato un imbecille, non perché si è impiccato, ma perché, prima di impiccarsi, non è andato a Roma ad ammazzar Guido Mazzarini. Già! Perché Costanova, e conseguentemente l’universo, rifiatasse. Quando uno non sa piú che farsi della propria vita, se non fa cosí, se prima d’uccidersi non ammazza un Mazzarini qualunque, è un imbecille. Gliel’avrebbe pagato lui il viaggio, dice. Con permesso, caro signore.

 

S’alzò di scatto; si strinse, da sotto, con ambo le mani lo scialle attorno al volto, fino alla visiera del berretto; e, cosí imbacuccato, curvo, lanciando occhiatacce al crocchio degli urloni, uscí dal caffè.

Quel forestiere di passaggio restò imbalor-dito; lo seguí con gli occhi fino alla porta: poi si volse al vecchio cameriere del caffè e gli domandò, costernatissimo:

– Chi è?

Il vecchio cameriere tentennò il capo amaramente; si picchiò il petto con un dito; e rispose, sospirando:

– Anche lui… eh, poco piú potrà tirare. Tutti di famiglia! Già due fratelli e una sorella… Studente. Si chiama Fazio. Luca Fazio. Colpa della madraccia, sa? Per soldi, sposò un tisico, sapendo ch’era tisico. Ora lei sta cosí, grossa e grassa, in campagna, come una badessa, mentre i poveri figliuoli, a uno a uno… Peccato! Sa che testa ha quello lí? e quanto ha studiato! Dotto; lo dicono tutti. Viene da Roma, dagli studii. Peccato!

E il vecchio cameriere accorse al crocchio degli urloni che, pagata la consumazione, si disponevano a uscire dal caffè con Leopoldo Paroni in testa.

Serataccia, umida, di novembre. La nebbia s’affettava. Bagnato tutto il lastricato della piazza; e attorno a ogni fanale sbadigliava un alone.

Appena fuori della porta del caffè, tutti si tirarono su il bavero del pastrano, e ciascuno, salutando, s’avviò per la sua strada.

Leopoldo Paroni, nell’atteggiamento che gli era abituale, di sdegnosa, accigliata fierezza, sollevò di traverso il capo, e cosí col pizzo all’aria attraversò la piazza, facendo il mulinello col bastone. Imboccò la via di contro al caffè; poi voltò a destra, al primo vicolo, in fondo al quale era la sua casa.

Due fanaletti piagnucolosi, affogati nella nebbia, stenebravano a mala pena quel lercio budello: uno a principio, uno in fine.

Quando Paroni fu a metà del vicolo, nella tenebra, e già cominciava a sospirare al barlume che arrivava fioco dall’altro fanaletto ancor remoto, credette di discernere laggiú in fondo, proprio innanzi alla sua casa, qualcuno appostato. Si sentí rimescolar tutto il sangue e si fermò.

Chi poteva essere, lí, a quell’ora? C’era uno, senza dubbio, ed evidentemente appostato; lí proprio innanzi alla porta di casa sua. Dunque, per lui. Non per rubare, certo: tutti sapevano ch’egli era povero come Cincinnato. Per odio politico, allora… Qualcuno mandato da Mazzarini, o dal regio commissario? Possibile? Fino a tanto?

E il fiero repubblicano si voltò a guardare indietro, perplesso, se non gli convenisse ritornare al caffè o correre a raggiungere gli amici, da cui si era separato or ora; non per altro, per averli testimonii della viltà, dell’infamia dell’avversario. Ma s’accorse che l’appostato, avendo udito certamente, nel silenzio, il rumore dei passi fin dal suo entrare nel vicolo, gli si faceva incontro, là dove l’ombra era piú fitta. Eccolo: ora si scorgeva bene: era imbacuccato. Paroni riuscí a stento a vincere il tremore e la tentazione di darsela a gambe; tossí, gridò forte:

– Chi è là?

– Paroni, – chiamò una voce cavernosa.

Un’improvvisa gioja invase e sollevò Paroni, nel riconoscere quella voce:

– Ah, Luca Fazio… tu? Lo volevo dire! Ma come? Tu qua, amico mio? Sei tornato da Roma?

– Oggi, – rispose, cupo, Luca Fazio.

– M’aspettavi, caro?

– Sí. Ero al caffè. Non m’hai visto?

– No, affatto. Ah, eri al caffè? Come stai, come stai, amico mio?

– Male; non mi toccare.

– Hai qualche cosa da dirmi?

– Sí; grave.

– Grave? Eccomi qua!

– Qua, no: sú a casa tua.

– Ma… c’è cosa? Che c’è, Luca? Tutto quello che posso, amico mio…

– T’ho detto, non mi toccare: sto male.

 

Erano arrivati alla casa. Paroni trasse di tasca la chiave; aprí la porta; accese un fiammifero, e prese a salir la breve scaletta erta, seguito da Luca Fazio.

– Attento… attento agli scalini…

Attraversarono una saletta; entrarono nello scrittojo, appestato da un acre fumo stagnante di pipa. Paroni accese un sudicio lumetto bianco a petrolio, su la scrivania ingombra di carte, e si volse premuroso al Fazio. Ma lo trovò con gli occhi schizzanti dalle orbite; il fazzoletto, premuto forte con ambo le mani, su la bocca. La tosse lo aveva riassalito, terribile, a quel puzzo di tabacco.

– Oh Dio… stai proprio male, Luca…

 

Questi dovette aspettare un pezzo per rispondere. Chinò piú volte il capo. S’era fatto cadaverico.

– Non chiamarmi amico, e scòstati – prese infine a dire. – Sono agli estremi… No, resto… resto in piedi… Tu scòstati.

– Ma… ma io non ho paura… – protestò Paroni.

– Non hai paura? Aspetta… – sghignò Luca Fazio. – Lo dici troppo presto. A Roma, vedendomi cosí agli estremi, mi mangiai tutto: serbai solo poche lire per comperarmi questa rivoltella.

Cacciò una mano nella tasca del pastrano e ne trasse fuori una grossa rivoltella.

Leopoldo Paroni, alla vista dell’arma, in pugno a quell’uomo in quello stato, diventò pallido come un cencio, levò le mani, balbettò:

– Che… che è carica? Ohé, Luca…

– Carica, – rispose frigido il Fazio. – Hai detto che non hai paura.

– No… ma, se, Dio liberi…

– Scòstati! Aspetta… M’ero chiuso in camera, a Roma, per finirmi. Quando, con la rivoltella già puntata alla tempia, ecco che sento picchiare all’uscio…

– Tu, a Roma?

– A Roma. Apro. Sai chi mi vedo davanti? Guido Mazzarini.

– Lui? a casa tua?

Luca Fazio fece di sí, piú volte, col capo. Poi seguitò:

– Mi vide con la rivoltella in pugno, e subito, anche dalla mia faccia, comprese che cosa stessi per fare; mi corse innanzi; m’afferrò per le braccia; mi scosse e mi gridò: «Ma come? cosí t’uccidi? Oh Luca, sei tanto imbecille? Ma va’… se vuoi far questo… ti pago io il viaggio; corri a Costanova, e ammazzami prima Leopoldo Paroni!»

Paroni, intentissimo finora al truce e strano discorso, con l’animo in subbuglio nella tremenda aspettativa d’una qualche atroce violenza davanti a lui, si sentí d’un tratto sciogliere le membra; e aprí la bocca a un sorriso squallido, vano:

– … Scherzi?

Luca Fazio si trasse un passo indietro; ebbe come un tiramento convulso in una guancia, presso il naso, e disse, con la bocca scontorta:

– Non scherzo. Mazzarini m’ha pagato il viaggio; ed eccomi qua. Ora io, prima ammazzo te, e poi m’ammazzo.

Cosí dicendo, levò il braccio con l’arma, e mirò.

Paroni, atterrito, con le mani innanzi al volto, cercò di sottrarsi alla mira, gridando:

– Sei pazzo?… Luca… sei pazzo?

– Non ti muovere! – intimò Luca Fazio. – Pazzo, eh? ti sembro pazzo? E non hai urlato per tre ore al caffè che Pulino è stato un imbecille perché, prima d’impiccarsi, non è andato a Roma ad ammazzar Mazzarini?

Leopoldo Paroni tentò d’insorgere:

– Ma c’è differenza, per dio! Io non sono Mazzarini!

– Differenza? – esclamò il Fazio, tenendo sempre sotto mira il Paroni. – Che differenza vuoi che ci sia tra te e Mazzarini, per uno come me o come Pulino, a cui non importa piú nulla della vostra vita e di tutte le vostre pagliacciate? Ammazzar te o un altro, il primo che passa per via, è tutt’uno per noi! Ah, siamo imbecilli per te, se non ci rendiamo strumento, all’ultimo, del tuo odio o di quello d’un altro, delle vostre gare e delle vostre buffonate? Ebbene: io non voglio essere imbecille come Pulino, e ammazzo te!

– Per carità, Luca… che fai? Ti sono stato sempre amico! – prese a scongiurar Paroni, storcendosi, per scansar la bocca della rivoltella.

Guizzava veramente negli occhi di Fazio la folle tentazione di premere il grilletto dell’arma.

– Eh, – disse col solito ghigno frigido su le labbra. – Quando uno non sa piú che farsi della propria vita… Buffone! Stai tranquillo; non t’ammazzo. Da bravo repubblicano, tu sarai libero pensatore, eh? Ateo! Certamente… Se no, non avresti potuto dire imbecille a Pulino. Ora tu credi ch’io non ti ammazzi, perché spero gioje e compensi in un mondo di là… No, sai? Sarebbe per me la cosa piú atroce credere che io debba portarmi altrove il peso delle esperienze che mi è toccato fare in questi ventisei anni di vita. Non credo a niente! Eppure, non t’ammazzo. Né credo d’essere un imbecille, se non t’ammazzo. Ho pietà di te, della tua buffoneria, ecco. Ti vedo da lontano, e mi sembri cosí piccolo e miserabile. Ma la tua buffoneria la voglio patentare.

– Come? – fece Paroni, con una mano a campana, non avendo udito l’ultima parola, nell’intronamento in cui era caduto.

– Pa-ten-ta-re, – sillabò Fazio. – Ne ho il diritto, giunto come sono al confine. E tu non puoi ribellarti. Siedi là, e scrivi.

Gl’indicò la scrivania con la rivoltella, anzi quasi lo prese e lo condusse a seder lí per mezzo dell’arma puntata contro il petto.

– Che… che vuoi che scriva? – balbettò Paroni annichilito.

– Quello che ti detterò io. Ora tu stai sotto; ma domani, quando saprai che mi sono ucciso, tu rialzerai la cresta; ti conosco; e al caffè urlerai che sono stato un imbecille anch’io. No? Ma non lo faccio per me. Che vuoi che m’importi del tuo giudizio? Voglio vendicar Pulino. Scrivi dunque… Lí, lí, va bene. Due parole. Una dichiarazioncina. «Io qui sottoscritto mi pento…» Ah, no, perdio! scrivi, sai? A questo solo patto ti risparmio la vita! O scrivi, o t’ammazzo… «Mi pento d’aver chiamato imbecille Pulino, questa sera, al caffè, tra gli amici, perché, prima d’uccidersi, non è andato a Roma ad ammazzar Mazzarini.» Questa è la pura verità: non c’è una parola di piú. Anzi, lascio che gli avresti pagato il viaggio. Hai scritto? Ora seguita: «Luca Fazio, prima d’uccidersi, è venuto a trovarmi…». Vuoi metterci armato di rivoltella? Mettilo pure: «armato di rivoltella.» Tanto, non pagherò la multa per porto d’arma abusivo. Dunque: «Luca Fazio è venuto a trovarmi, armato di rivoltella», hai scritto? «e mi ha detto che, conseguentemente, anche lui, per non esser chiamato imbecille da Mazzarini o da qualche altro, avrebbe dovuto ammazzar me come un cane». Hai scritto, come un cane? Bene. A capo. «Poteva farlo, e non l’ha fatto. Non l’ha fatto perché ha avuto schifo e pietà di me e della mia paura. Gli è bastato che gli dichiarassi che il vero imbecille sono io.»

Paroni, a questo punto, congestionato, scostò furiosamente la carta, e si trasse indietro protestando:

– Questo poi…

Che il vero imbecille sono io, – ripeté, freddo, perentoriamente, Luca Fazio. – La tua dignità la salvi meglio, caro mio, guardando la carta su cui scrivi, anziché quest’arma che ti sta sopra. Hai scritto? Firma adesso.

Si fece porgere la carta; la lesse attenta-mente; disse:

– Sta bene. Me la troveranno addosso, domani.

La piegò in quattro e se la mise in tasca.

– Consolati, Leopoldo, col pensiero ch’io vado a fare adesso una cosa un tantino piú difficile di quella che or ora hai fatto tu. Buona notte.

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