Piccoli gorghi
1911
Testi
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- Mùnnino
- La croce
- Sotto tutela
- Gli ospiti
- Ti-nesciu
- Oggi a me, domani a te
- La nicchia vuota
- L’ora che passa
- Dopo le serenate
- Il ricordo
- La Mèrica
- Le scarpette
- Nonna Lidda
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Mùnnino
La gna’ Mara la chiamavan la farera, ma il suo telaio, coperto di polvere e ragnateli, taceva per molti mesi di seguito.
Il marito, vecchio e bolso, veniva una sola volta all‘anno per farsi aggiustar le camicie e il giubbone sdruciti e per curarsi le febbri che pigliava a Salamuni; ben che non le mandasse un soldo, la farera non si moriva di fame, e nel vicinato si diceva che se l‘intendesse con Vanni il falegname, quello dai capelli rossi, che serviva i meglio signori del paese e ogni anno cominciava a picchiar sulle botti a luglio e finiva in ottobre, tanti erano i clienti che aveva.
Quello che se la passava male era Mùnnino, poveraccio, di cui la madre si sbarazzava il più che poteva; la mattina lo mandava a scuola con un pezzo di pane sotto il braccio, e nel pomeriggio gli faceva trovar la porta chiusa. Mùnnino che c‘era abituato, infilava i quaderni nella gattaiola e s’avviava verso la via Amarelli dove c‘era la pergola di padre Nibbio; s’accoccolava su uno scalino, coi gomiti sulle ginocchia e il mento fra le mani, e guardava i ragazzi a giocare. Lui, poiché non aveva mai trottola né pennini, non poteva unirsi ai giochi; i pennini glieli passava il maestro, e per dargliene uno nuovo voleva prima vedere il vecchio che doveva essere spuntato e ben grommato d’inchiostro; solo quando riaveva il pennino vecchio andava a giocarselo, tutto felice, ma lo perdeva subito e tornava ad accoccolarsi sullo scalino mentre i ragazzi lo schernivano. Verso l‘imbrunire andava a spiare l’uscio, e quando lo trovava aperto vi si infilava lesto lesto come quei gatti che, scacciati di casa, vi rientrano subito che possono e s’accucciano timorosi di esser veduti e rimandati via.
Una notte, poteva avere nove o dieci anni al più, fu mandato a letto presto e senza cena. Non poteva trovar sonno; verso mezzanotte, sentì come se si aprisse l‘uscio di strada; spaventato cacciò la testa sotto il tramareddo, ma udendo giù un passo pesante si mise a urlare chiamando la madre che dormiva nella stanzina sotto la sua soffitta. Poi, udendola bisbigliare, e rassicuratosi, saltò dal letto e stava per scendere la scaletta, quando se la vide davanti, in sottana, con la lucernetta in mano.
— Che vuoi? Che ti salta in mente?
— Ho sentito…
— Che hai sentito? Non hai sentito niente.
— Qualcuno, per la scaletta… Madonna santissima!
— Tu stai sognando. Va’ a ricoricarti. Non ti far sentire a strillare dalla gente. Va’!
Nella luce fioca della lucerna parve a Mùnnino di scorgere i capelli rossi del falegname, giù, e strillò:
— Hai visto? Madonna santissima!
— Senti, se tu dici un’altra mezza parola ti ammazzo. Com’è vero Iddio, ti ammazzo. Non ci sono i briganti, qui. Di che hai paura?
Ma si come Mùnnino restava inchiodato sulla scaletta, in camicia, pieno di paura, di curiosità ostinata, la farera perdé la pazienza e cominciò a picchiarlo. Ne buscò tante da restar mezzo morto sul letto, tremante di freddo e di dolore. La farera diceva, con voce roca e bassa per non farsi sentire a quell’ora dalla gente:
— E zitto, capisci? Qui non c’è da aver paura. Non ci sono i briganti. Qualunque cosa tu senta, pensa che è cosa ben fatta ch’io faccio. E non andare spifferando alla gente i tuoi sogni. Ché se vengo a sapere che tu parli, che tu dici mezza parola, mezza, capisci?, t’ammazzo, ti cavo la lingua. E dormi, adesso.
Dormire poté soltanto verso l‘alba, quando cominciarono a passare i caprai ed i contadini. Tutta la notte fu un singhiozzare continuo, sotto il tramareddo, un dormicchiare angosciato pieno di sogni paurosi, uno svegliarsi all’improvviso. Al mattino, con le gote livide, s’avviò alla scuola grondon grondoni con le mani in tasca e i quaderni sudici sotto il braccio. Ancora sull’uscio la madre gli aveva detto, facendo gli occhiacci:
— E zitto!
Zitto, sicuro, andava pensando. Le botte son botte. Pure il falegname l’aveva veduto: c‘era da giurarci. I passi li aveva sentiti.
A scuola non seppe la lezione e il maestro, per castigo, gli levò il pane Era proprio una giornata disgraziata. A mezzogiorno aveva tanta fame che avrebbe mangiato le pietre, e fattosi coraggio indugiò dietro i banchi fino a quando vide uscire tutti i suoi compagni. Come tutti furon fuori e nella stanza piena di polvere restava solo il maestro che si metteva il soprabito, Mùnnino si fece avanti.
— Ancora qui! Che fai?
— Signor maestro! Mi faccia la carità di perdonarmi.
— Non lo meriti.
— Signor maestro — supplicò Mùnnino con gli occhi velati di lacrime — ho troppa fame.
— Studia la lezione, un’altra volta. Va’ via.
Il maestro era di cattivo umore, ma Mùnnino si fece un altro po’ di coraggio.
— Le giuro che non lo farò più. Ma ho troppa fame. Lei non sa che significa aver fame! — aggiunse piangendo.
Il maestro che stava per uscire si voltò improvvisamente:
— Eccoti il pane — e prendendolo dal cassetto lo posò sulla cattedra. — Ma tu fammi un servizio. Sei capace tu di fare un servizio in segreto?
— So fare qualunque cosa.
— Giura di non dirlo a nessuno. Neanche a tua madre.
Mùnnino lo guardò mettendosi una mano sul petto.
— Beh, va a portare questo biglietto a… lo sai dove abita donna Lucia la ricamatrice? Sai quella casa rossa dove finisce la piazza e comincia la campagna? Benissimo. Proprio quella casa. Un portoncino verde. Hai proprio capito? Allora va. Ma scappa. Io ti aspetto qui con l’orologio in mano.
Mùnnino col biglietto ben nascosto nella tasca dei calzoni, corse come un furetto, ché a stomaco vuoto si corre meglio. E tornato trovò il maestro che l’affogò di domande: se era andato proprio dopo la casa rossa, e chi gli aveva aperto, e che gli avevan detto. E Mùnnino si buscò quattro soldi, e corse tutto felice, sbocconcellando il suo pane, a buttare i quaderni nella gattaiola; ma piuttosto che andare a guardare i ragazzi andò in piazza a spendersi il suo guadagno in pane e sarde salate, e salì su, verso il Calvario, a mangiar vicino la fontana. Lì c‘era un cane, tutto spelato, che cominciò a guardarlo tristemente movendo un po’ la coda; Mùnnino lo scacciò ma il cane non si mosse, gli tirò un sasso ma il cane tornò, e tornò a guardare un po’ lui e un po’ il pane che accennava a finire, con quegli occhi grandi e afflitti che parevano d‘uomo. Mùnnino era sazio e soddisfatto.
— Hai fame? — brontolò.
— Toh! — e gli buttò un boccon di pane che il cane ingoiò nelle larghe fauci affamate, tornando a guardar Mùnnino, scotendo la coda.
— Brutta cosa aver fame — brontolò il ragazzo — ma per te ci vorrebbe una pagnotta! — E a poco a poco divise il resto del suo pranzo col cane; poi, contento, bevve alla cannella una buona bevuta di acqua fresca, e s’avviò verso casa, e trovato l’uscio ancora chiuso andò a guardare i ragazzi a giocare. Non seppe neanche l’indomani la lezione, ma il maestro non lo sgridò, né lo chiamò a legger le vocali alla lavagna. Nell’ora di ricreazione, mentre i ragazzi scendevano con polveroso baccano giù in cortile, gli fece segno d’aspettare, e come furon soli lo tirò dietro la porta e, messegli tra le mani due monete, gli disse d’andare a comprare due chili di maccheroni zita e un chilo di salsicce.
— Portali ben nascosti sotto lo scapolare, che non si vedano — gli raccomandò.
Mùnnino tornò giusto un minuto prima che ricominciasse la scuola, rosso affannato, con quella roba che non voleva reggersi sotto il piccolo scapolare sdrucito, e che a un segno del maestro andò a nascondere nel camerino, sotto una sporta. Dopo scuola tornò a fare il viaggio verso la casa di donna Lucia e si buscò due soldi.
Da allora non si curò più di studiar le lezioni e guardò superbiosamente i compagni con una voglia matta di dire a qualcuno del gran segreto che conosceva; ma non fiatava, ché aveva imparato come a parlare non ci guadagnava niente, quando non buscava delle botte.
La notte, pieno di curiosità, stava a sentire il solito schiudersi dell’uscio, il solito passo pesante del falegname e il bisbigliare sommesso, e se udiva salire la madre, che veniva a veder se il figlio dormiva, si cacciava sotto il tramareddo chiudendo gli occhi. Faceva gran brutti pensieri contro il falegname, e quando lo vedeva di giorno — col grembialone davanti, tutto rosso, col largo viso soddisfatto, a picchiar sulle botti — stringeva i pugni mentre il piccolo cuore gli batteva più forte nel petto. E ogni giorno, avviandosi verso la fontana, col pane buscatosi dal maestro, pensava tante cose curiose, guardando il paziente cane spelacchiato che ritrovava sempre. Quando sarò grande — rimuginava — grande e robusto, allora accuserò il maestro al figlio. Il maestro ha paura di suo figlio. E poi darò una buona sassata in testa a Vanni, da lasciarlo mezzo morto.
Il falegname faceva come il maestro, tale e quale; con la differenza che il maestro aveva paura del figlio, e il falegname e sua madre non ne avevano di lui, perché l’avrebbero picchiato se avesse soltanto parlato. Ma quando fosse cresciuto…
Un giorno, assieme al cane, trovò anche una ragazzina dai capelli arruffati e una vestina nera arrossata e sbrandellata, che cominciò a guardarlo. Come il cane
— Hai fame anche tu?
La ragazzina stese la mano verso il pane. Mùnnino, ch’era seduto alto, sull’orlo della fontana, se lo strinse sul petto:
— Va via, tu.
La ragazzina gli mostrò un pezzo di vetro azzurro:
— Te lo do.
— Non so che farmene.
E cominciò a mangiare, tutto contento di sentirsi invidiato. Poi soggiunse:
— Come ti chiami tu?
— Concetta
— E hai fame?
Concetta s’accostò e prese il pezzetto di pane che Mùnnino le mostrava. Poi Mùnnino fece altre due parti del pane avanzato e buttò la più piccola al cane, e mangiarono tutti e tre vicini vicini. Da quel giorno al cane si unì sempre Concetta, e quando quello, finita la sua piccola razione, s’allontanava a coda bassa, i due ragazzi restavano a giocare insieme. Concetta sapeva fare i fantocci con la terra intrisa nell’acqua, le case piccole piccole coi sassi e coi mattoni rotti, e tanti altri giochi che Mùnnino imparava con piacere perché non aveva mai giocato né mai avuto compagni; ma lui preferiva andare pei campi dove cresceva il grano e zirlavano i grilli, e dove si vedevano zappare i contadini; saltava le siepi con Concetta e si sdraiava per terra, tra il grano alto ancora verde, col viso all’aria e le mani intrecciate dietro la nuca, godendo la frescura nella schiena, tutto quieto, senza moversi né scacciar le mosche cavalline che gli ronzavano intorno. Concetta, che non sapeva star ferma un momento, andava cogliendo favagelli e rosolacci e ora si rizzava diritta nel frumento verde, ora s’acquattava per paura d’essere veduta dai campieri; poi, quand’era stanca, sedeva accanto a Mùnnino, co’ fiori nel grembiule sdrucito, e si divertiva strappando le foglie rosse a una a una, a raccoglierle a palloncino tra le dita e farle scoppiare sulla mano aperta.
Si parlavano poco.
— Tu non hai madre, dunque? — chiese un giorno Mùnnino.
— Non ne ho mai avuta, io.
— E come sei nata?
— Senza madre. Ce n’è tante senza mamma. Anche Nina è nata così. Ma è cosa brutta. La gna’ Fina poi mi picchia sempre.
— Anche le madri picchiano.
— Sì?! Tu ne buschi dunque?
— Non t’ho detto che io ne buschi. T‘ho detto che anche le madri picchiano.
Un pomeriggio trovò Concetta piangente con un braccio al collo.
— Si sarà rotto — diceva con viso spaventato — e non me lo curerà nessuno!
S’avviarono pe’ campi dove Mùnnino volle vedere il braccio, tutto livido.
— Mettiamoci un po’ d’erba — disse rifasciandolo alla meglio col fazzoletto — si rinfrescherà.
— Io non ci torno più — fece Concetta improvvisamente.
— Dove?
— Dalla gna’ Fina.
— E dove andrai?
— Lo so io? — singhiozzò Concetta. — È brutto non aver nessuno! E io debbo stare per forza con la gna’ Fina.
Mùnnino non rispose. Anch’egli doveva star con sua madre; ma per poco tempo ancora. Egli era uomo. E un uomo può guadagnarsi il pane. Dopo un pezzo disse:
— Io mi faccio pastore. Quando viene mio padre glielo dico.
— Tu ti fai pastore e io resto con la gna’ Fina! — sospirò Concetta con una occhiata invidiosella.
— Io sono uomo — disse Mùnnino gravemente, sputando davanti a sé. — Un uomo, è un’altra cosa.
E, guardata Concetta, aggiunse aggrottando la fronte:
— Farò il pastore e avrò di che campare. Ma penserò anche a te. Lasciami crescere ancora e vedrai. Ho già tredici anni, io.
Concetta s’asciugò le guance rosse e umide di pianto e guardò il compagno con gli occhi luminosi; e tutt‘a un tratto, con le sue mosse di gatto selvatico, gli buttò le braccia al collo stringendolo così forte da fargli male; e Mùnnino strinse anch’egli la magra vitina di Concetta, e si dettero due baci che scoppiaron come foglie di papavero. Si sentirono improvvisamente contenti; sentirono come fossero cresciuti tutt’in una volta, e tornarono al paese tenendosi per mano, in silenzio.
L‘indomani, e gli altri giorni ancora, non andò a scuola; tanto non ci guadagnava più niente. Il maestro non gli dava più incarichi e lui non si buscava più pane e sarde salate. Ma seguitò a andare verso il Calvario, nel pomeriggio; trovava Concetta immancabilmente. Il cane si fece trovare altre due o tre volte e stette a guardare Mùnnino coi grandi occhi afflitti che parevan quelli d’un uomo; poi non venne più. Forse, lui, aveva trovato fortuna altrove.
Il mese appresso tornò il padre, con le febbri, e così invecchiato che, a vedergli trascinare le gambe, faceva pena. Mùnnino gli disse che voleva farsi pastore e il padre lo guardò dalla testa ai piedi, lentamente come per misurarlo, crollando la testa.
— Non mi credi capace? Fammi far la prova. Peppe ha cominciato quand’era più piccolo di me.
— Sì, ma Peppe era due volte più grosso… Se il padrone ti volesse!
— Conducimi da lui, per prova.
Il vecchio, che amava Mùnnino, l‘unico figlio maschio, disse alla moglie di cucirgli un giubboncino di fustagno, due camicie di tela grossa e uno scapolare nuovo. La madre s’affannò anima e corpo per finire tutto quel lavoro in poche settimane, ché non le pareva vero di levarsi quel ragazzo di tra i piedi.
E finalmente Mùnnino, insaccato nel giubbone che lo faceva parere un altro, andò a cercar la sua compagna. Concetta lo guardò con invidia, accarezzò il fustagno liscio, toccò i bottoni a uno a uno, si chinò a esaminare i gammitti, mentre Mùnnino stava fermo impalato, tutto superbo. Poi sospirò:
— Beato te! Tu vai a fare il pastore e io resto qui.
— È meglio — disse Mùnnino — tanto, pane non ne buscavo più. A che ti giovavo io?
— E quando tornerai?
— Quando tornerà mio padre. Una volta all’anno
Imbruniva e si lasciarono; Mùnnino andò avanti, correndo verso casa, voltandosi ogni tanto a ridere a Concetta rimasta ferma, lontana.
Mùnnino s’allogò. Gli dettero da prima solo dieci capre da pascolare, poi gl’insegnarono anche a mungere, poiché lui era piccolo sì, ma volenteroso; e lo chiamavano ’nsunnato perché spesso rimaneva incantato come quand’era al paese.
Allor che stava sul monte, a guardar le capre, e vedeva giù i campi tutti verdi, pensava a Concetta e le pareva di doverla vedere fra il grano a coglier papaveri. Ma qualche volta, di sera, quando faceva freddo, sdraiandosi nella stalla — dove c‘era quel buon tepore e quell’odore acre, dove le vacche ruminavano tranquillamente — gli si guastava il piacere vedendo la lucerna appesa al trave, che gli faceva ricordar di sua madre e di Vanni; e solo rifacendo gli antichi propositi di vendetta gli pareva di rimettersi in pace con se stesso. Talvolta pensava di accusarlo al padre, ma rifletteva che questi, insieme a Vanni, avrebbe ucciso sua madre, e non voleva che sua madre patisse.
Non cresceva molto; rimaneva piccolo e s’ingialliva; il padre, guardandolo, si rammaricava d’averlo portato a Salamuni dove c‘era la malaria. Verso il luglio cominciò a contare i giorni e finalmente, per gli ultimi d‘agosto, tornò in paese. A sua madre, che gli fece festa, portò tutt’i guadagni, anche per farle vedere ch’era diventato un uomo. Nel tascapane tenne nascosta una ricottina piccola e tenera, tra due pàmpani di vite, e nel pomeriggio s’avviò su, verso il Calvario.
Gli pareva d‘aver fatto quella strada la sera innanzi e sentiva nel cuore un’allegria, come una bella canzone, a riveder tutti gli usci, e le cannelle della fontana dove sporgevano quei mascheroni dagli occhi sgranati, e la botteguccia di ssu’ Calójro dove c‘erano ancora gli stessi barattoli appannati con un po’ di pepe in grani, i datteri gialli, e la pala di baccalà infilata all’arpione. Concetta non c‘era e s’avanzò a chiamarla fin sotto la finestra della gna’ Fina. La ragazzetta corse tutta rossa, ansante di piacere, e s’avviarono al Calvario dove Mùnnino le dette la ricottina.
— E tu?
— Ne ho mangiate tante io! — rispose sdegnosamente.
— Bella cosa fare il pastore! — fece Concetta leccandosi le dita.
— Tu che fai ora?
— Che debbo fare? Scanso le busse della gna’ Fina. Ora tu sei pastore. Puoi condurmi con te.
— Non è tempo. Che faresti?
— Guarderei anch’io le capre.
— Oh, sì…
Credeva la Concetta che fosse una cosa tanto semplice? che uno si buscava la ricotta senza far niente? Non sapeva lei che anche a Salamuni picchiavano spesso e forte!
— Devi sapere che mènan botte da per tutto. Da per tutto ci sono i più grandi e i più robusti — sospirò il pecoraio. E che legnate davan lassù se non si stava attenti! E poi le levatacce prima dell’alba per condurre le capre al pascolo, e mungere il latte pe’ i signori e per far la ricotta!
— Ma un altr’anno avanzerò. Mi metteranno a far la ricotta nella mànnira.
Arrivò anche a esser messo a lavorar la ricotta; e ogni anno tornando al paese trovava Concetta più alta e meno sdrucita. Stava ben pettinata, portava gli scialletti al collo; ma non potevano più andare pe’ campi come quando eran ragazzi. Mùnnino era diventato un pecoraio come tutti gli altri che venivan per le feste, vestiti di velluto; solo che gli altri eran rossi e robusti e lui rimaneva sempre piccolo e giallognolo. Un anno tornò con le febbri. Andò a trovar Concetta in casa della gna’ Fina, ché oramai la ragazza non stava più per la via; e si come era la prima volta, si sentiva tutto impacciato anche perché la gna’ Fina, a veder la grossa ricotta che aveva portata, gli faceva tanti complimenti come se fosse stato il padrone di casa. Egli avrebbe voluto poter condurre Concetta con sé come quand’eran ragazzi, e sbirciando il bel viso bianco e roseo come quello d‘una signora, pensava ai baci che scoppiavan come foglie di papavero che s’eran dati senza capirli, e non sapeva dire una parola. La vecchia disse:
— Vado un momento dalla gna’ Aita. Ma abbiate giudizio, per carità!
E guardò Concetta che diventò rossa fino agli orecchi.
Mùnnino, quella sera, tornò a casa che il cuore pareva gli dovesse scoppiare nel petto, e non sapeva se per la febbre che si sentiva venire o se per l’agitazione che l’invadeva tutto.
Andò da Concetta tutti i giorni, portandole sempre dei regali, e trovandola sempre sola. Ma un pomeriggio, dopo esser stato a parlare con Peppe, che la sapeva lunga, salì verso il Calvario pieno di collera e d‘impazienza, e tirata Concetta in un canto le disse piantandole gli occhi addosso:
— È vero quello che m’hanno detto? sul conto tuo e di quella certa Nina?
— Che t’han detto?
— Non mi far la stupida. È vero o no?
— Madonna santissima… — mormorò Concetta stendendo le mani tremanti come per scansare tutta quella furia.
— No, non ti batto, perché non ho mai battuto nessuno. Gli altri l‘han sempre martoriato — aggiunse amaramente — Mùnnino non ha mai offeso nessuno. Dimmi se è vero. Questo solo.
— Che debbo dirti? È vero, si — rispose Concetta risolutamente, mentre ai lati della bocca le si facevan due pieghe sottili come due rughe. — È colpa di quella strega. È il suo mestiere. Tu devi capirle queste cose. Tu sei andato a fare il pastore, hai trovato la tua via; Concetta nelle mani della gna’ Fina non poteva fare altro. Ma bene ne ho voluto solo a te, Mùnnino. Io non l’avrei fatto mai.
A Mùnnino parve che gli buttassero un rivolo d‘acqua gelata sulla schiena nuda e chinò la testa. Concetta gli mise timidamente una mano sulla spalla, ma egli vedendo venir la gna’ Fina si tirò indietro, come avesse visto uno scorpione, e uscì facendo appena un cenno di saluto con la mano.
Si coricò presto e senza cena, col freddo della febbre e un dolore nel cuore, come un ago che lo pungesse a trafitte. Tutti gli altri giorni del congedo restò sull’uscio, a battere i denti, tutto giallo, con lo scapolare sulle spalle ben che facesse bel tempo: pensava a Concetta ma non si sentiva il coraggio di andare a trovarla in casa di quella vecchia dal riso velenoso. La madre diceva:
— Perché non esci? Più resti seduto e più ti senti debole.
E una sera borbottò:
— Dio liberi non dovessi più tornartene a Salamuni!
Mùnnino fece finta di non aver sentito, ma alla fine del congedo tornò a Salamuni, per non stare tra i piedi a sua madre. E pure le aveva portato i suoi guadagni per tanti anni! Quando si è malati si è scacciati da tutti come cani rognosi.
A Salamuni, dopo due mattine, fece smarrire una pecora; tornando alla stalla non seppe giustificarsi. Forse era scesa dietro la montagna, forse s‘era sbandata per la via maestra.
— E tu che facevi? pezzo di tordo! — strillò Brasi scotendolo per le spalle.
Brasi e Cola gli furono addosso e lo lasciarono malconcio e tremante.
Al mattino non poté levarsi, aveva il delirio, e gli portarono nella stalla stessa una ciotola di latte.
La sera scese per Mùnnino lenta e grave, come se quella giornata non dovesse finir mai. Di tanto in tanto sentiva la campanaccia; era la vacca che scoteva il collo e gli pareva fosse lontana lontana. Di fuori venivan le voci dei compagni e di Brasi che facevan merenda; anch’egli aveva sempre fatto merenda fuori, con essi, nella luce rossastra del tramonto. Col buio entravano nella stalla, confusamente, tante immagini scolorate che raffigurava a pena; in fondo sua madre, con la sottana a quadrettini bianchi e rossi, gli faceva gli occhiacci, e Vanni lo minacciava col martello. Qualcuno — chi era mai? — gli stringeva la testa fra le mani che pareva la schiacciassero. E poi veniva Concetta; aveva il collo e le braccia nude e rideva forte e nel buio non si vedevano che i denti, e gli occhi che parevan due caverne; e rivedeva il maestro di scuola che gli metteva in bocca certe mandorle così amare che gli veniva di sputarle; e più sbavava, e più saliva amara si sentiva venir sulla lingua.
Era tutta gente che gli aveva fatto male. Ricordava i pensieri di vendetta fatti alla fontana, mangiando il pane del maestro; doveva uccider Vanni e accusare il maestro… e poi doveva sposar Concetta. Concetta ch’era cattiva come sua madre e gli avrebbe fatto le corna nel tempo che stesse a Salamuni. Non era riuscito a vendicarsi, e pure era cresciuto. Era rimasto troppo piccolo, lui. Perciò l’avevan sempre picchiato tutti. Se Brasi non l’avesse malmenato a quel modo, non sarebbe a giacere così quella sera.
Ma le femmine erano cattive o erano disgraziate? E Concetta, bianca e delicata, come era bella! e la chiamava:
— Concetta… Concetta!
Si lamentava, piano, piano, nel suo giaciglio, sentendosi il fuoco addosso e una gran debolezza nello stesso tempo come se gli avessero cavato tutto il sangue. E invocava la Madonna che lo facesse levare, ché era troppo triste morir lì tutto solo, come forse era morto il cane spelacchiato della fontana.
Brasi diceva, fuori:
— Bisogna far sapere al padrone che sta morendo… bisogna pensar dove metterlo…