Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Maria Messina

Piccoli gorghi

1911

Testi

        1. Mùnnino
        2. La croce
        3. Sotto tutela
        4. Gli ospiti
        5. Ti-nesciu
        6. Oggi a me, domani a te
        7. La nicchia vuota
        8. L’ora che passa
        9. Dopo le serenate
        10. Il ricordo
        11. La Mèrica
        12. Le scarpette
        13. Nonna Lidda

 

Mùnnino

La gna’ Mara la chiamavan la farera, ma il suo telaio, coperto di polvere e ragnateli, taceva per molti mesi di seguito.

Il marito, vecchio e bolso, veniva una sola volta all‘anno per farsi aggiustar le camicie e il giubbone sdruciti e per curarsi le febbri che pigliava a Salamuni; ben che non le mandasse un soldo, la farera non si moriva di fame, e nel vicinato si diceva che se l‘intendesse con Vanni il falegname, quello dai capelli rossi, che serviva i meglio signori del paese e ogni anno cominciava a picchiar sulle botti a luglio e finiva in ottobre, tanti erano i clienti che aveva.

Quello che se la passava male era Mùnnino, poveraccio, di cui la madre si sbarazzava il più che poteva; la mattina lo mandava a scuola con un pezzo di pane sotto il braccio, e nel pomeriggio gli faceva trovar la porta chiusa. Mùnnino che c‘era abituato, infilava i quaderni nella gattaiola e s’avviava verso la via Amarelli dove c‘era la pergola di padre Nibbio; s’accoccolava su uno scalino, coi gomiti sulle ginocchia e il mento fra le mani, e guardava i ragazzi a giocare. Lui, poiché non aveva mai trottola né pennini, non poteva unirsi ai giochi; i pennini glieli passava il maestro, e per dargliene uno nuovo voleva prima vedere il vecchio che doveva essere spuntato e ben grommato d’inchiostro; solo quando riaveva il pennino vecchio andava a giocarselo, tutto felice, ma lo perdeva subito e tornava ad accoccolarsi sullo scalino mentre i ragazzi lo schernivano. Verso l‘imbrunire andava a spiare l’uscio, e quando lo trovava aperto vi si infilava lesto lesto come quei gatti che, scacciati di casa, vi rientrano subito che possono e s’accucciano timorosi di esser veduti e rimandati via.

Una notte, poteva avere nove o dieci anni al più, fu mandato a letto presto e senza cena. Non poteva trovar sonno; verso mezzanotte, sentì come se si aprisse l‘uscio di strada; spaventato cacciò la testa sotto il tramareddo, ma udendo giù un passo pesante si mise a urlare chiamando la madre che dormiva nella stanzina sotto la sua soffitta. Poi, udendola bisbigliare, e rassicuratosi, saltò dal letto e stava per scendere la scaletta, quando se la vide davanti, in sottana, con la lucernetta in mano.

— Che vuoi? Che ti salta in mente?

— Ho sentito…

— Che hai sentito? Non hai sentito niente.

— Qualcuno, per la scaletta… Madonna santissima!

— Tu stai sognando. Va’ a ricoricarti. Non ti far sentire a strillare dalla gente. Va’!

Nella luce fioca della lucerna parve a Mùnnino di scorgere i capelli rossi del falegname, giù, e strillò:

— Hai visto? Madonna santissima!

— Senti, se tu dici un’altra mezza parola ti ammazzo. Com’è vero Iddio, ti ammazzo. Non ci sono i briganti, qui. Di che hai paura?

Ma si come Mùnnino restava inchiodato sulla scaletta, in camicia, pieno di paura, di curiosità ostinata, la farera perdé la pazienza e cominciò a picchiarlo. Ne buscò tante da restar mezzo morto sul letto, tremante di freddo e di dolore. La farera diceva, con voce roca e bassa per non farsi sentire a quell’ora dalla gente:

— E zitto, capisci? Qui non c’è da aver paura. Non ci sono i briganti. Qualunque cosa tu senta, pensa che è cosa ben fatta ch’io faccio. E non andare spifferando alla gente i tuoi sogni. Ché se vengo a sapere che tu parli, che tu dici mezza parola, mezza, capisci?, t’ammazzo, ti cavo la lingua. E dormi, adesso.

Dormire poté soltanto verso l‘alba, quando cominciarono a passare i caprai ed i contadini. Tutta la notte fu un singhiozzare continuo, sotto il tramareddo, un dormicchiare angosciato pieno di sogni paurosi, uno svegliarsi all’improvviso. Al mattino, con le gote livide, s’avviò alla scuola grondon grondoni con le mani in tasca e i quaderni sudici sotto il braccio. Ancora sull’uscio la madre gli aveva detto, facendo gli occhiacci:

— E zitto!

Zitto, sicuro, andava pensando. Le botte son botte. Pure il falegname l’aveva veduto: c‘era da giurarci. I passi li aveva sentiti.

A scuola non seppe la lezione e il maestro, per castigo, gli levò il pane Era proprio una giornata disgraziata. A mezzogiorno aveva tanta fame che avrebbe mangiato le pietre, e fattosi coraggio indugiò dietro i banchi fino a quando vide uscire tutti i suoi compagni. Come tutti furon fuori e nella stanza piena di polvere restava solo il maestro che si metteva il soprabito, Mùnnino si fece avanti.

— Ancora qui! Che fai?

— Signor maestro! Mi faccia la carità di perdonarmi.

— Non lo meriti.

— Signor maestro — supplicò Mùnnino con gli occhi velati di lacrime — ho troppa fame.

— Studia la lezione, un’altra volta. Va’ via.

Il maestro era di cattivo umore, ma Mùnnino si fece un altro po’ di coraggio.

— Le giuro che non lo farò più. Ma ho troppa fame. Lei non sa che significa aver fame! — aggiunse piangendo.

Il maestro che stava per uscire si voltò improvvisamente:

— Eccoti il pane — e prendendolo dal cassetto lo posò sulla cattedra. — Ma tu fammi un servizio. Sei capace tu di fare un servizio in segreto?

— So fare qualunque cosa.

— Giura di non dirlo a nessuno. Neanche a tua madre.

Mùnnino lo guardò mettendosi una mano sul petto.

— Beh, va a portare questo biglietto a… lo sai dove abita donna Lucia la ricamatrice? Sai quella casa rossa dove finisce la piazza e comincia la campagna? Benissimo. Proprio quella casa. Un portoncino verde. Hai proprio capito? Allora va. Ma scappa. Io ti aspetto qui con l’orologio in mano.

 

Mùnnino col biglietto ben nascosto nella tasca dei calzoni, corse come un furetto, ché a stomaco vuoto si corre meglio. E tornato trovò il maestro che l’affogò di domande: se era andato proprio dopo la casa rossa, e chi gli aveva aperto, e che gli avevan detto. E Mùnnino si buscò quattro soldi, e corse tutto felice, sbocconcellando il suo pane, a buttare i quaderni nella gattaiola; ma piuttosto che andare a guardare i ragazzi andò in piazza a spendersi il suo guadagno in pane e sarde salate, e salì su, verso il Calvario, a mangiar vicino la fontana.  Lì c‘era un cane, tutto spelato, che cominciò a guardarlo tristemente movendo un po’ la coda; Mùnnino lo scacciò ma il cane non si mosse, gli tirò un sasso ma il cane tornò, e tornò a guardare un po’ lui e un po’ il pane che accennava a finire, con quegli occhi grandi e afflitti che parevano d‘uomo. Mùnnino era sazio e soddisfatto.

— Hai fame? — brontolò.

— Toh! — e gli buttò un boccon di pane che il cane ingoiò nelle larghe fauci affamate, tornando a guardar Mùnnino, scotendo la coda.

— Brutta cosa aver fame — brontolò il ragazzo — ma per te ci vorrebbe una pagnotta! — E a poco a poco divise il resto del suo pranzo col cane; poi, contento, bevve alla cannella una buona bevuta di acqua fresca, e s’avviò verso casa, e trovato l’uscio ancora chiuso andò a guardare i ragazzi a giocare. Non seppe neanche l’indomani la lezione, ma il maestro non lo sgridò, né lo chiamò a legger le vocali alla lavagna. Nell’ora di ricreazione, mentre i ragazzi scendevano con polveroso baccano giù in cortile, gli fece segno d’aspettare, e come furon soli lo tirò dietro la porta e, messegli tra le mani due monete, gli disse d’andare a comprare due chili di maccheroni zita e un chilo di salsicce.

— Portali ben nascosti sotto lo scapolare, che non si vedano — gli raccomandò.

Mùnnino tornò giusto un minuto prima che ricominciasse la scuola, rosso affannato, con quella roba che non voleva reggersi sotto il piccolo scapolare sdrucito, e che a un segno del maestro andò a nascondere nel camerino, sotto una sporta. Dopo scuola tornò a fare il viaggio verso la casa di donna Lucia e si buscò due soldi.

Da allora non si curò più di studiar le lezioni e guardò superbiosamente i compagni con una voglia matta di dire a qualcuno del gran segreto che conosceva; ma non fiatava, ché aveva imparato come a parlare non ci guadagnava niente, quando non buscava delle botte.

La notte, pieno di curiosità, stava a sentire il solito schiudersi dell’uscio, il solito passo pesante del falegname e il bisbigliare sommesso, e se udiva salire la madre, che veniva a veder se il figlio dormiva, si cacciava sotto il tramareddo chiudendo gli occhi. Faceva gran brutti pensieri contro il falegname, e quando lo vedeva di giorno — col grembialone davanti, tutto rosso, col largo viso soddisfatto, a picchiar sulle botti — stringeva i pugni mentre il piccolo cuore gli batteva più forte nel petto.  E ogni giorno, avviandosi verso la fontana, col pane buscatosi dal maestro, pensava tante cose curiose, guardando il paziente cane spelacchiato che ritrovava sempre. Quando sarò grande — rimuginava — grande e robusto, allora accuserò il maestro al figlio. Il maestro ha paura di suo figlio. E poi darò una buona sassata in testa a Vanni, da lasciarlo mezzo morto.

Il falegname faceva come il maestro, tale e quale; con la differenza che il maestro aveva paura del figlio, e il falegname e sua madre non ne avevano di lui, perché l’avrebbero picchiato se avesse soltanto parlato. Ma quando fosse cresciuto…

Un giorno, assieme al cane, trovò anche una ragazzina dai capelli arruffati e una vestina nera arrossata e sbrandellata, che cominciò a guardarlo. Come il cane

— Hai fame anche tu?

La ragazzina stese la mano verso il pane. Mùnnino, ch’era seduto alto, sull’orlo della fontana, se lo strinse sul petto:

— Va via, tu.

La ragazzina gli mostrò un pezzo di vetro azzurro:

— Te lo do.

— Non so che farmene.

E cominciò a mangiare, tutto contento di sentirsi invidiato. Poi soggiunse:

— Come ti chiami tu?

— Concetta

— E hai fame?

Concetta s’accostò e prese il pezzetto di pane che Mùnnino le mostrava. Poi Mùnnino fece altre due parti del pane avanzato e buttò la più piccola al cane, e mangiarono tutti e tre vicini vicini. Da quel giorno al cane si unì sempre Concetta, e quando quello, finita la sua piccola razione, s’allontanava a coda bassa, i due ragazzi restavano a giocare insieme. Concetta sapeva fare i fantocci con la terra intrisa nell’acqua, le case piccole piccole coi sassi e coi mattoni rotti, e tanti altri giochi che Mùnnino imparava con piacere perché non aveva mai giocato né mai avuto compagni; ma lui preferiva andare pei campi dove cresceva il grano e zirlavano i grilli, e dove si vedevano zappare i contadini; saltava le siepi con Concetta e si sdraiava per terra, tra il grano alto ancora verde, col viso all’aria e le mani intrecciate dietro la nuca, godendo la frescura nella schiena, tutto quieto, senza moversi né scacciar le mosche cavalline che gli ronzavano intorno. Concetta, che non sapeva star ferma un momento, andava cogliendo favagelli e rosolacci e ora si rizzava diritta nel frumento verde, ora s’acquattava per paura d’essere veduta dai campieri; poi, quand’era stanca, sedeva accanto a Mùnnino, co’ fiori nel grembiule sdrucito, e si divertiva strappando le foglie rosse a una a una, a raccoglierle a palloncino tra le dita e farle scoppiare sulla mano aperta.

Si parlavano poco.

— Tu non hai madre, dunque? — chiese un giorno Mùnnino.

— Non ne ho mai avuta, io.

— E come sei nata?

— Senza madre. Ce n’è tante senza mamma. Anche Nina è nata così. Ma è cosa brutta. La gna’ Fina poi mi picchia sempre.

— Anche le madri picchiano.

— Sì?! Tu ne buschi dunque?

— Non t’ho detto che io ne buschi. T‘ho detto che anche le madri picchiano.

Un pomeriggio trovò Concetta piangente con un braccio al collo.

— Si sarà rotto — diceva con viso spaventato — e non me lo curerà nessuno!

S’avviarono pe’ campi dove Mùnnino volle vedere il braccio, tutto livido.

— Mettiamoci un po’ d’erba — disse rifasciandolo alla meglio col fazzoletto — si rinfrescherà.

— Io non ci torno più — fece Concetta improvvisamente.

— Dove?

— Dalla gna’ Fina.

— E dove andrai?

— Lo so io? — singhiozzò Concetta. — È brutto non aver nessuno! E io debbo stare per forza con la gna’ Fina.

 

Mùnnino non rispose. Anch’egli doveva star con sua madre; ma per poco tempo ancora. Egli era uomo. E un uomo può guadagnarsi il pane. Dopo un pezzo disse:

— Io mi faccio pastore. Quando viene mio padre glielo dico.  

— Tu ti fai pastore e io resto con la gna’ Fina! — sospirò Concetta con una occhiata invidiosella.

— Io sono uomo — disse Mùnnino gravemente, sputando davanti a sé. — Un uomo, è un’altra cosa.

E, guardata Concetta, aggiunse aggrottando la fronte:

— Farò il pastore e avrò di che campare. Ma penserò anche a te. Lasciami crescere ancora e vedrai. Ho già tredici anni, io.

Concetta s’asciugò le guance rosse e umide di pianto e guardò il compagno con gli occhi luminosi; e tutt‘a un tratto, con le sue mosse di gatto selvatico, gli buttò le braccia al collo stringendolo così forte da fargli male; e Mùnnino strinse anch’egli la magra vitina di Concetta, e si dettero due baci che scoppiaron come foglie di papavero. Si sentirono improvvisamente contenti; sentirono come fossero cresciuti tutt’in una volta, e tornarono al paese tenendosi per mano, in silenzio.

L‘indomani, e gli altri giorni ancora, non andò a scuola; tanto non ci guadagnava più niente. Il maestro non gli dava più incarichi e lui non si buscava più pane e sarde salate. Ma seguitò a andare verso il Calvario, nel pomeriggio; trovava Concetta immancabilmente. Il cane si fece trovare altre due o tre volte e stette a guardare Mùnnino coi grandi occhi afflitti che parevan quelli d’un uomo; poi non venne più. Forse, lui, aveva trovato fortuna altrove.

Il mese appresso tornò il padre, con le febbri, e così invecchiato che, a vedergli trascinare le gambe, faceva pena. Mùnnino gli disse che voleva farsi pastore e il padre lo guardò dalla testa ai piedi, lentamente come per misurarlo, crollando la testa.

— Non mi credi capace? Fammi far la prova. Peppe ha cominciato quand’era più piccolo di me.

— Sì, ma Peppe era due volte più grosso… Se il padrone ti volesse!

— Conducimi da lui, per prova.

Il vecchio, che amava Mùnnino, l‘unico figlio maschio, disse alla moglie di cucirgli un giubboncino di fustagno, due camicie di tela grossa e uno scapolare nuovo. La madre s’affannò anima e corpo per finire tutto quel lavoro in poche settimane, ché non le pareva vero di levarsi quel ragazzo di tra i piedi.

E finalmente Mùnnino, insaccato nel giubbone che lo faceva parere un altro, andò a cercar la sua compagna. Concetta lo guardò con invidia, accarezzò il fustagno liscio, toccò i bottoni a uno a uno, si chinò a esaminare i gammitti, mentre Mùnnino stava fermo impalato, tutto superbo. Poi sospirò:

— Beato te! Tu vai a fare il pastore e io resto qui.

— È meglio — disse Mùnnino — tanto, pane non ne buscavo più. A che ti giovavo io?

— E quando tornerai?

— Quando tornerà mio padre. Una volta all’anno

Imbruniva e si lasciarono; Mùnnino andò avanti, correndo verso casa, voltandosi ogni tanto a ridere a Concetta rimasta ferma, lontana.

Mùnnino s’allogò. Gli dettero da prima solo dieci capre da pascolare, poi gl’insegnarono anche a mungere, poiché lui era piccolo sì, ma volenteroso; e lo chiamavano ’nsunnato perché spesso rimaneva incantato come quand’era al paese.

 

Allor che stava sul monte, a guardar le capre, e vedeva giù i campi tutti verdi, pensava a Concetta e le pareva di doverla vedere fra il grano a coglier papaveri. Ma qualche volta, di sera, quando faceva freddo, sdraiandosi nella stalla — dove c‘era quel buon tepore e quell’odore acre, dove le vacche ruminavano tranquillamente — gli si guastava il piacere vedendo la lucerna appesa al trave, che gli faceva ricordar di sua madre e di Vanni; e solo rifacendo gli antichi propositi di vendetta gli pareva di rimettersi in pace con se stesso. Talvolta pensava di accusarlo al padre, ma rifletteva che questi, insieme a Vanni, avrebbe ucciso sua madre, e non voleva che sua madre patisse.

Non cresceva molto; rimaneva piccolo e s’ingialliva; il padre, guardandolo, si rammaricava d’averlo portato a Salamuni dove c‘era la malaria. Verso il luglio cominciò a contare i giorni e finalmente, per gli ultimi d‘agosto, tornò in paese. A sua madre, che gli fece festa, portò tutt’i guadagni, anche per farle vedere ch’era diventato un uomo. Nel tascapane tenne nascosta una ricottina piccola e tenera, tra due pàmpani di vite, e nel pomeriggio s’avviò su, verso il Calvario.

Gli pareva d‘aver fatto quella strada la sera innanzi e sentiva nel cuore un’allegria, come una bella canzone, a riveder tutti gli usci, e le cannelle della fontana dove sporgevano quei mascheroni dagli occhi sgranati, e la botteguccia di ssu’ Calójro dove c‘erano ancora gli stessi barattoli appannati con un po’ di pepe in grani, i datteri gialli, e la pala di baccalà infilata all’arpione. Concetta non c‘era e s’avanzò a chiamarla fin sotto la finestra della gna’ Fina. La ragazzetta corse tutta rossa, ansante di piacere, e s’avviarono al Calvario dove Mùnnino le dette la ricottina.

— E tu?

— Ne ho mangiate tante io! — rispose sdegnosamente.

— Bella cosa fare il pastore! — fece Concetta leccandosi le dita.

— Tu che fai ora?

— Che debbo fare? Scanso le busse della gna’ Fina. Ora tu sei pastore. Puoi condurmi con te.

— Non è tempo. Che faresti?

— Guarderei anch’io le capre.

— Oh, sì…

 

Credeva la Concetta che fosse una cosa tanto semplice? che uno si buscava la ricotta senza far niente? Non sapeva lei che anche a Salamuni picchiavano spesso e forte!

— Devi sapere che mènan botte da per tutto. Da per tutto ci sono i più grandi e i più robusti — sospirò il pecoraio. E che legnate davan lassù se non si stava attenti! E poi le levatacce prima dell’alba per condurre le capre al pascolo, e mungere il latte pe’ i signori e per far la ricotta!

— Ma un altr’anno avanzerò. Mi metteranno a far la ricotta nella mànnira.

Arrivò anche a esser messo a lavorar la ricotta; e ogni anno tornando al paese trovava Concetta più alta e meno sdrucita. Stava ben pettinata, portava gli scialletti al collo; ma non potevano più andare pe’ campi come quando eran ragazzi. Mùnnino era diventato un pecoraio come tutti gli altri che venivan per le feste, vestiti di velluto; solo che gli altri eran rossi e robusti e lui rimaneva sempre piccolo e giallognolo. Un anno tornò con le febbri. Andò a trovar Concetta in casa della gna’ Fina, ché oramai la ragazza non stava più per la via; e si come era la prima volta, si sentiva tutto impacciato anche perché la gna’ Fina, a veder la grossa ricotta che aveva portata, gli faceva tanti complimenti come se fosse stato il padrone di casa. Egli avrebbe voluto poter condurre Concetta con sé come quand’eran ragazzi, e sbirciando il bel viso bianco e roseo come quello d‘una signora, pensava ai baci che scoppiavan come foglie di papavero che s’eran dati senza capirli, e non sapeva dire una parola. La vecchia disse:

— Vado un momento dalla gna’ Aita. Ma abbiate giudizio, per carità!

E guardò Concetta che diventò rossa fino agli orecchi.

 

Mùnnino, quella sera, tornò a casa che il cuore pareva gli dovesse scoppiare nel petto, e non sapeva se per la febbre che si sentiva venire o se per l’agitazione che l’invadeva tutto.

Andò da Concetta tutti i giorni, portandole sempre dei regali, e trovandola sempre sola. Ma un pomeriggio, dopo esser stato a parlare con Peppe, che la sapeva lunga, salì verso il Calvario pieno di collera e d‘impazienza, e tirata Concetta in un canto le disse piantandole gli occhi addosso:

— È vero quello che m’hanno detto? sul conto tuo e di quella certa Nina?

— Che t’han detto?

— Non mi far la stupida. È vero o no?

— Madonna santissima… — mormorò Concetta stendendo le mani tremanti come per scansare tutta quella furia.

— No, non ti batto, perché non ho mai battuto nessuno. Gli altri l‘han sempre martoriato — aggiunse amaramente   — Mùnnino non ha mai offeso nessuno. Dimmi se è vero. Questo solo.

— Che debbo dirti? È vero, si — rispose Concetta risolutamente, mentre ai lati della bocca le si facevan due pieghe sottili come due rughe. — È colpa di quella strega. È il suo mestiere. Tu devi capirle queste cose. Tu sei andato a fare il pastore, hai trovato la tua via; Concetta nelle mani della gna’ Fina non poteva fare altro. Ma bene ne ho voluto solo a te, Mùnnino. Io non l’avrei fatto mai.

 

A Mùnnino parve che gli buttassero un rivolo d‘acqua gelata sulla schiena nuda e chinò la testa. Concetta gli mise timidamente una mano sulla spalla, ma egli vedendo venir la gna’ Fina si tirò indietro, come avesse visto uno scorpione, e uscì facendo appena un cenno di saluto con la mano.

Si coricò presto e senza cena, col freddo della febbre e un dolore nel cuore, come un ago che lo pungesse a trafitte. Tutti gli altri giorni del congedo restò sull’uscio, a battere i denti, tutto giallo, con lo scapolare sulle spalle ben che facesse bel tempo: pensava a Concetta ma non si sentiva il coraggio di andare a trovarla in casa di quella vecchia dal riso velenoso. La madre diceva:

— Perché non esci? Più resti seduto e più ti senti debole.

E una sera borbottò:

— Dio liberi non dovessi più tornartene a Salamuni!

 

Mùnnino fece finta di non aver sentito, ma alla fine del congedo tornò a Salamuni, per non stare tra i piedi a sua madre. E pure le aveva portato i suoi guadagni per tanti anni! Quando si è malati si è scacciati da tutti come cani rognosi.

A Salamuni, dopo due mattine, fece smarrire una pecora; tornando alla stalla non seppe giustificarsi. Forse era scesa dietro la montagna, forse s‘era sbandata per la via maestra.

— E tu che facevi? pezzo di tordo! — strillò Brasi scotendolo per le spalle.

Brasi e Cola gli furono addosso e lo lasciarono malconcio e tremante.

Al mattino non poté levarsi, aveva il delirio, e gli portarono nella stalla stessa una ciotola di latte.

La sera scese per Mùnnino lenta e grave, come se quella giornata non dovesse finir mai. Di tanto in tanto sentiva la campanaccia; era la vacca che scoteva il collo e gli pareva fosse lontana lontana.  Di fuori venivan le voci dei compagni e di Brasi che facevan merenda; anch’egli aveva sempre fatto merenda fuori, con essi, nella luce rossastra del tramonto. Col buio entravano nella stalla, confusamente, tante immagini scolorate che raffigurava a pena; in fondo sua madre, con la sottana a quadrettini bianchi e rossi, gli faceva gli occhiacci, e Vanni lo minacciava col martello. Qualcuno — chi era mai? — gli stringeva la testa fra le mani che pareva la schiacciassero. E poi veniva Concetta; aveva il collo e le braccia nude e rideva forte e nel buio non si vedevano che i denti, e gli occhi che parevan due caverne; e rivedeva il maestro di scuola che gli metteva in bocca certe mandorle così amare che gli veniva di sputarle; e più sbavava, e più saliva amara si sentiva venir sulla lingua.

Era tutta gente che gli aveva fatto male. Ricordava i pensieri di vendetta fatti alla fontana, mangiando il pane del maestro; doveva uccider Vanni e accusare il maestro… e poi doveva sposar Concetta. Concetta ch’era cattiva come sua madre e gli avrebbe fatto le corna nel tempo che stesse a Salamuni. Non era riuscito a vendicarsi, e pure era cresciuto. Era rimasto troppo piccolo, lui. Perciò l’avevan sempre picchiato tutti. Se Brasi non l’avesse malmenato a quel modo, non sarebbe a giacere così quella sera.

Ma le femmine erano cattive o erano disgraziate? E Concetta, bianca e delicata, come era bella! e la chiamava:

— Concetta… Concetta!

Si lamentava, piano, piano, nel suo giaciglio, sentendosi il fuoco addosso e una gran debolezza nello stesso tempo come se gli avessero cavato tutto il sangue. E invocava la Madonna che lo facesse levare, ché era troppo triste morir lì tutto solo, come forse era morto il cane spelacchiato della fontana.

Brasi diceva, fuori:

— Bisogna far sapere al padrone che sta morendo… bisogna pensar dove metterlo…

Pequeños remolinos

Versión 2017

Textos

        1. Mùnnino
        2. La cruz
        3. Bajo tutela
        4. Los huéspedes
        5. Ti-nesciu
        6. Ojo por ojo
        7. La hornacina vacía
        8. La hora que pasa *
        9. Después de las serenatas *
        10. El recuerdo
        11. La Mérica
        12. Los zapatitos
        13. La abuela Lidda

* Los cuentos 8 y 9 aparecen al final

Mùnnino

A la señá Mara la llamaban la farera,[1] pero su telar, cubierto de polvo y telarañas, callaba durante muchos meses seguidos.

El marido, viejo y débil, venía una única vez al año para que le arreglara las camisas y el chaquetón rotos y para curarse las fiebres que cogía en Salamuni; aunque no le mandara ningún dinero, la farera no se moría de hambre, y en la vecindad se decía que se las entendía con Vanni, el carpintero, el de los cabellos rojos, quien servía a los mejores señores del pueblo y cada año comenzaba a martillear en los toneles en julio y acababa en octubre, tantos eran los clientes que tenía.

El que lo pasaba mal era Mùnnino, pobrecillo, del que la madre se libraba cuanto podía; por la mañana lo mandaba a la escuela con un trozo de pan bajo el brazo, y por la tarde hacía que encontrara la puerta cerrada. Mùnnino, que se había acostumbrado a ello, metía los cuadernos por la gatera y se dirigía hacia la calle Amarelli donde estaba la pérgola del padre Nibbio; se acuclillaba en un escalón, con los codos en las rodillas y la barbilla entre las manos, y miraba a los niños jugar.  Él, como no tenía ni peonza ni plumas, no podía unirse a los juegos; las plumas se las pasaba el maestro, y para darle una nueva quería ver antes la vieja, que tenía que estar despuntada y con tinta bien incrustada; solo cuando recibía la pluma vieja iba a jugársela, completamente feliz, pero la perdía enseguida y volvía a acuclillarse en el escalón mientras los niños lo escarnecían. Cuando oscurecía, se iba a espiar la puerta, y cuando la encontraba abierta, se colaba muy rápido, como esos gatos que, echados de casa, vuelven apenas pueden y se ovillan temerosos de que los vean y de que los expulsen de nuevo.

Una noche, podía tener entonces nueve o diez años como máximo, se le mandó a la cama pronto y sin cena. No podía reconciliar el sueño; hacia medianoche, sintió como si se abriera la puerta de la calle; asustado, metió la cabeza bajo el tramareddo,[2] pero oyendo abajo un paso pesado se puso a gritar llamando a la madre que dormía en el cuartito bajo su buhardilla. Luego, oyéndola susurrar, y habiéndose tranquilizado, saltó de la cama, y estaba a punto de bajar la escalerilla, cuando se la vio delante, en enaguas, con el candil en la mano.

– ¿Qué quieres? ¿Qué te ha venido a la cabeza?

– He sentido…

– ¿Qué has sentido? No has sentido nada.

– A alguien, por la escalerilla… ¡Virgen santísima!

– Tú estás soñando. Ve a acostarte. Que no te escuche gritar la gente. ¡Vete!

A la luz débil del candil, a Mùnnino le pareció distinguir los cabellos rojos del carpintero, abajo, y gritó:

– ¿Has visto? ¡Virgen santísima!

– Escucha, si dices media palabra más, te mato. Como que Dios existe, que te mato. Aquí no hay bandidos. ¿De qué tienes miedo?

Pero como Mùnnino permanecía clavado en la escalerilla, en camisón, lleno de miedo, con una curiosidad obstinada, la farera perdió la paciencia y comenzó a pegarle. Se ganó una paliza tal, que se quedó medio muerto en la cama, temblando de frío y de dolor. La farera decía, con voz ronca y baja, para que no la escuchara la gente a esa hora:

– Y a callar, ¿entiendes? Aquí no hay de qué tener miedo. No hay bandidos. Sientas lo que sientas, piensa que está bien porque lo hago yo. Y no vayas a airearle a la gente tus sueños. Que si llego a saber que hablas, que dices ni media palabra, media, ¿entiendes?, te mato, te arranco la lengua. Y duerme, ahora.

Solo pudo dormir al alba, cuando comenzaron a pasar los cabreros y los campesinos. Toda la noche fue un sollozo continuo, bajo el tramareddo, un duermevela angustiado lleno de sueños temibles, un despertar de improviso. Por la mañana, con las mejillas lívidas, se dirigió a la escuela cabizbajo con las manos en los bolsillos y los cuadernos sucios bajo el brazo. De nuevo en la puerta, la madre le había dicho, mirándolo con enojo:

– ¡Y callado!

Callado, seguro, iba pensando. Los golpes son golpes. Sin embargo, al carpintero lo había visto: podía jurarlo. Los pasos los había sentido.

En la escuela no se supo la lección, y el maestro, como castigo, le quitó el pan. Era precisamente un día desgraciado. A mediodía tenía tanta hambre, que se habría comido las piedras, y dándose ánimo, se detuvo tras los bancos hasta que no vio salir a todos sus compañeros. Cuando todos estuvieron fuera y en la sala llena de polvo quedaba solo el maestro poniéndose el gabán, Mùnnino se adelantó:

– ¿Todavía aquí? ¿Qué haces?

– ¡Señor maestro! Perdóneme por favor.

– No te lo mereces.

– Señor maestro – suplicó Mùnnino con los ojos velados de lágrimas – tengo demasiada hambre.

– Estudia la lección otra vez. Vete.

El maestro estaba de mal humor, pero Mùnnino se armó un poco más de valor.

– Le juro que no lo haré más. Pero tengo demasiada hambre. ¡Usted no sabe qué significa tener hambre! – añadió llorando.

El maestro, que estaba a punto de salir, se volvió de improviso:

– Toma el pan – y cogiéndolo del cajón lo puso en la mesa. – Pero tú hazme un recado. ¿Eres capaz de hacer un recado en secreto?

– Sé hacer cualquier cosa.

– Jura que no se lo dirás a nadie. Ni siquiera a tu madre.

Mùnnino lo miró poniéndose una mano en el pecho.

– Bien, ve a llevarle esta nota a… ¿sabes dónde vive la señora Lucia, la bordadora? ¿Conoces la casa roja donde acaba la plaza y empieza el campo? Muy bien. Justo esa casa. Con un portoncito verde. ¿Has comprendido? Entonces, ve. Pero huye. Yo te espero aquí con el reloj en la mano.

Mùnnino, con la nota bien escondida en los bolsillos de los pantalones, corrió como un hurón, que con el estómago vacío se corre mejor. Y al volver encontró al maestro que lo abrumó con preguntas: si había ido justo tras la casa roja, y quién le había abierto, y qué le habían dicho. Y Mùnnino se ganó cuatro monedas, y corrió completamente feliz, mordisqueando su pan, a echar los cuadernos por la gatera; pero mejor que ir a mirar a los niños, fue a la plaza a gastarse lo ganado en pan y sardinas saladas, y subió arriba, hacia el Calvario, a comer junto a la fuente. Allí había un perro, completamente calvo, que comenzó a mirarlo tristemente, moviendo un poco la cola; Mùnnino lo echó, pero el perro no se movió, le tiró una piedra, pero el perro volvió, y volvió a mirarlo un poco a él y un poco el pan que daba señal de acabarse, con esos ojos grandes y afligidos que parecían de hombre. Mùnnino estaba harto y satisfecho.

– ¿Tienes hambre? – gruñó.

– ¡Toma! – y le arrojó un pedazo de pan que el perro engulló con las anchas fauces famélicas, volviendo a mirar a Mùnnino, sacudiendo la cola.

– Mala cosa es tener hambre – masculló el niño – ¡pero a ti te haría falta una hogaza! – Y poco a poco compartió el resto de su almuerzo con el perro; luego, contento, bebió en el caño un buen trago de agua fresca, y se dirigió a casa, y al encontrar la puerta aún cerrada, fue a mirar a los niños que jugaban. Tampoco se supo la lección al día siguiente, pero el maestro no le riñó, ni lo llamó para que leyera las vocales en la pizarra. A la hora del recreo, mientras los niños bajaban con polvorienta algarabía al patio, le hizo ademán de que esperara, y cuando estuvieron solos lo llevó tras la puerta y, poniéndole dos monedas en las manos, le dijo que fuera a comprar dos kilos de macarrones ziti [3] y un kilo de salchichas.

– Llévalos bien escondidos bajo el scapolare,[4] que no se vean – le recomendó.

Mùnnino volvió un minuto antes de que se reanudaran las clases, rojo y jadeante, con ese peso que no quería sostenerse bajo el pequeño scapolare roto, y que a una señal del maestro fue a esconder al baño, bajo una cesta. Después de la escuela volvió a hacer el viaje hacia la casa de doña Lucia y se ganó dos monedas.

Desde entonces, no se preocupó más por estudiar las lecciones y miró con arrogancia a los compañeros con unas ganas locas de contarle a alguno el gran secreto que conocía; pero no decía ni mu, pues había aprendido que hablando no se ganaba nada, si es que no se llevaba una paliza.

Por la noche, lleno de curiosidad, se quedaba oyendo la habitual apertura de la puerta, el habitual paso grave del carpintero y el susurro sordo, y si escuchaba subir a su madre, que venía a ver si el hijo dormía, se metía bajo el tramareddo cerrando los ojos. Tenía malos pensamientos contra el carpintero, y cuando lo veía de día – con el delantal, todo rojo, con la ancha cara satisfecha, martilleando sobre los toneles – apretaba los puños mientras el pequeño corazón le latía más fuerte en el pecho. Y cada día, al dirigirse a la fuente, con el pan que se ganaba con el maestro, pensaba tantas cosas curiosas, mirando paciente al perro calvo que encontraba siempre. Cuando sea grande – rumiaba –, grande y robusto, entonces acusaré al maestro ante su hijo. El maestro le tiene miedo al hijo. Y luego le daré una buena pedrada a Vanni, para dejarlo medio muerto.

El carpintero hacía como el maestro, tal cual; con la diferencia de que el maestro le tenía miedo al hijo, y el carpintero y su madre no se lo tenían a él, porque le pegarían solo con que hablara. Pero cuando creciera…

Un día, junto al perro, encontró también a una niña con los cabellos despeinados y un trajecito negro rojizo y harapiento, quien comenzó a mirarlo. Como el perro.

– ¿Tú también tienes hambre?

La niña extendió la mano hacia el pan. Mùnnino, que estaba sentado alto, en el borde de la fuente, se lo apretó contra el pecho.

– Vete.

La niña le enseñó un trozo de cristal azul:

– Te lo doy.

– No sé para qué me sirve eso.

Y comenzó a comer, muy contento al sentirse envidiado. Luego añadió:

– ¿Cómo te llamas?

– Concetta.

– ¿Y tienes hambre?

Concetta se acercó y cogió el trocito de pan que Mùnnino le mostraba. Luego Mùnnino hizo otras dos partes con el pan sobrante y le arrojó la más pequeña al perro, y comieron los tres muy juntos. Desde esa día al perro se unió siempre a Concetta, y cuando este, terminada su pequeña ración, se alejaba con la cola baja, los dos niños se quedaban jugando juntos. Concetta sabía hacer muñecos con tierra mojada, casas pequeñas con piedras y con ladrillos rotos, y muchos otros juegos que Mùnnino aprendía con gusto porque no había jugado nunca, ni nunca había tenido compañeros; pero él prefería ir por los campos donde crecía el trigo y cantaban los grillos, y donde se veía cavar a los campesinos; saltaba los setos con Concetta y se tiraba en el suelo, entre el trigo alto, aún verde, con la cara al aire y las manos entrelazadas tras la nuca, gozando la frescura en la espalda, muy quieto, sin moverse ni apartar las moscas borriqueras que zumbaban a su alrededor. Concetta, que no sabía estarse quieta ni un momento, iba cogiendo golondrineras y amapolas, y ya se ponía derecha en el trigal verde, ya se agazapaba por miedo a que la vieran los guardas del campo; luego, cuando estaba cansada, se sentaba junto a Mùnnino, con las flores en el delantal roto, y se distraía arrancando las hojas rojas una a una, recogiéndolas en una pelotita entre los dedos y haciéndolas estallar en la mano abierta.

Se hablaban poco.

– ¿Tú no tienes madre, no? – le preguntó un día Mùnnino.

– No la he tenido nunca.

– ¿Y cómo has nacido?

– Sin madre. Hay tantas personas sin madre. También Nina nació así. Pero es una cosa mala. Además, la señá Fina me pega siempre.

– También las madres pegan.

– ¿Sí? ¿A ti te dan palizas?

– No te he dicho que me las den. Te he dicho que también las madres pegan.

Una tarde encontró a Concetta llorando con un brazo vendado:

– Se habrá roto – decía con la cara asustada – ¡y nadie me lo curará!

Se dirigieron hacia los campos donde Mùnnino quiso verle el brazo, todo morado.

– Pongámosle un poco de hierba – dijo vendándoselo de nuevo lo mejor que pudo con el pañuelo – se refrescará.

– Yo no vuelvo más allí – dijo Concetta de improviso.

– ¿Adónde?

– A casa de la señá Fina.

– ¿Y adónde irás?

– ¡Y yo qué sé! – sollozó Concetta. – ¡Es malo no tener a nadie! Por fuerza tengo que estar con la señá Fina.

Mùnnino no respondió. También él tenía que estar con su madre; pero por poco tiempo aún. Él era un hombre. Y un hombre puede ganarse el pan. Un rato después dijo:

– Seré pastor. Cuando venga mi padre se lo digo.

– ¡Tú serás pastor y yo me quedo con la señá Fina! – suspiró Concetta con una mirada envidiosilla.

– Yo soy un hombre – dijo Mùnnino gravemente, escupiendo ante sí. – Un hombre es otra cosa.

Y mirando a Concetta, añadió frunciendo la frente:

– Seré pastor y tendré con qué vivir. Pero pensaré también en ti. Deja que crezca aún y verás. Yo ya tengo trece años.

Concetta se secó las mejillas rojas y húmedas de llanto y miró al compañero con los ojos luminosos; y de pronto, con sus movimientos de gato salvaje, le echó los brazos al cuello abrazándolo tan fuerte que le hacía daño; y Mùnnino abrazó también por la delgada cintura a Concetta, y se dieron dos besos que estallaron como hojas de amapola. Se sintieron de improviso contentos; sintieron como si hubieran crecido de una vez, y volvieron al pueblo agarrados de la mano, en silencio.

Al día siguiente, y también los demás días, no fue a la escuela; total, ya no ganaba nada. El maestro no le hacía ya encargos, y él ya no lograba ni pan ni sardinas saladas. Pero siguió yendo hacia el Calvario por la tarde; encontraba a Concetta sin falta. El perro se dejó encontrar dos o tres veces y estuvo mirando a Mùnnino con sus grandes ojos afligidos que parecían los de un hombre; luego no vino más. Quizás había encontrado mejor suerte en otra parte.

Al mes siguiente volvió el padre, con las fiebres, y tan envejecido, que, viéndolo arrastrar las piernas, daba pena. Mùnnino le dijo que quería ser pastor, y el padre lo miró de arriba abajo, lentamente, como para medirlo, hundiendo la cabeza.

– ¿No me crees capaz? Déjame probar. Peppe comenzó cuando era más pequeño que yo.

–  Sí, pero Peppe era dos veces más robusto… ¡Si el amo te aceptara!

– Llévame hasta él, de prueba.

El viejo, que quería a Mùnnino, su único hijo varón, le dijo a la mujer que le cosiera un chaquetón de fustán, dos camisas de tela gruesa y un scapolare nuevo. La madre se afanó en cuerpo y alma para acabar todo ese trabajo en pocas semanas, pues no le parecía verdad que fuera a quitarse de encima a ese niño.

Y finalmente, Mùnnino, enfundado en el chaquetón que le hacía parecer otro, fue a buscar a su compañera. Concetta lo miró con envidia, acarició el fustán liso, tocó los botones uno a uno, se inclinó para examinar los gammitti,[5] mientras Mùnnino estaba quieto empalado, todo soberbio. Luego suspiró:

– ¡Feliz de ti! Tú vas a ser pastor, y yo me quedo aquí.

– Es mejor – dijo Mùnnino – total, ya pan no conseguía. ¿Para qué te servía yo?

– ¿Y cuándo volverás?

– Cuando vuelva mi padre. Una vez al año.

Oscurecía, y se dejaron; Mùnnino fue delante, corriendo hacia casa, volviéndose de vez en cuando para sonreírle a Concetta que se había quedado quieta, lejana.

Mùnnino se acomodó. Le dieron primero solo diez cabras para pastar, luego le enseñaron también a ordeñar, puesto que él era pequeño sí, pero voluntarioso; y lo llamaban ’nsunnato [6] porque a menudo se quedaba encantado como cuando estaba en el pueblo.

Apenas estaba en el monte, guardando las cabras, y veía abajo todos los campos verdes, pensaba en Concetta y le parecía que iba a verla en medio del trigo cogiendo amapolas. Pero alguna vez, por la tarde, cuando hacía frío, tirándose en el establo – donde había esa agradable tibieza y ese olor acre, donde las vacas rumiaban tranquilamente – se le arruinaba el placer al ver el candil colgado de la viga, que le recordaba a su madre y a Vanni; y solo cuando volvía a hacer los antiguos propósitos de venganza le parecía que se ponía en paz consigo mismo. Alguna vez pensaba acusarlo ante su padre, pero reflexionaba que este mataría a su madre junto a Vanni, y no quería que su madre sufriera.

No crecía mucho; seguía pequeño y se estaba poniendo amarillo; el padre, mirándolo, se lamentaba de haberlo traído a Salamuni donde había malaria. Hacia julio comenzó a contar los días, y finalmente, los últimos días de agosto, volvió al pueblo. A su madre, que lo agasajó, le llevó todas las ganancias, incluso para hacerle ver que se había hecho un hombre. En el zurrón llevó escondido un requesón pequeño y tierno, entre dos pámpanas de vid, y por la tarde se dirigió hacia el Calvario.

Le parecía que había hecho ese camino la tarde anterior y sentía en el corazón una alegría, como una hermosa canción, al volver a ver todas las puertas, y los caños de la fuente de donde sobresalían esos mascarones de ojos desencajados, y la tiendecilla del señó Calojro donde estaban aún los mismos frascos empañados con un poco de pimienta en grano, los dátiles amarillos, y la bacalada espetada en el arpón. Concetta no estaba, y se adelantó a llamarla bajo la ventana de la señá Fina. La muchachita corrió toda roja, jadeante de placer, y se dirigieron al Calvario, donde Mùnnino le dio el requesón.

– ¿Y tú?

– ¡Yo he comido muchos! – respondió desdeñosamente.

– ¡Qué bonito ser pastor! – dijo Concetta lamiéndose los dedos.

– ¿Tú qué haces ahora?

– ¿Qué voy a hacer? Me escapo de las azotainas de la señá Fina. Ahora eres pastor, puedes llevarme contigo.

– Aún no es tiempo. ¿Qué harías?

– Guardaría yo también las cabras.

– Oh, sí…

¿Creía Concetta que era una cosa tan simple?, ¿que uno ganaba el requesón sin hacer nada? ¡Ella no sabía que también en Salamuni pegaban a menudo y duro!

– Debes saber que dan tortas por todas partes. Por todas partes están los más grandes y los más robustos – suspiró el pastor. ¡Y qué leñazos daban allí arriba si no se estaba atento! ¡Y, además, los madrugones antes del alba para llevar las cabras a pastar, y ordeñar la leche para los señores y para hacer el requesón!

– Pero un año creceré. Me pondrán a hacer requesón en la mànnira.[7]

Consiguió incluso que lo pusieran a trabajar el requesón; y cada año, al regresar al pueblo, encontraba a Concetta más alta y menos harapienta. Estaba bien peinada, llevaba chales en el cuello; pero ya no podían ir por los campos como cuando eran niños. Mùnnino se había hecho un pastor como los demás, que venían durante las fiestas, vestidos de terciopelo; solo que los otros eran rojos y robustos, y él permanecía siempre pequeño y amarillo. Un año volvió con las fiebres. Fue a encontrar a Concetta a casa de la señá Fina, pues ahora la muchacha ya no estaba por la calle; y, dado que era la primera vez, se sentía por completo cohibido, también porque la señá Fina, al ver el gran requesón que había traído, le hacía muchos cumplidos, como si fuera el amo de la casa. Él hubiera querido poder llevar a Concetta consigo como cuando eran niños, y mirando de reojo su hermoso rostro blanco y rosado como el de una señora, pensaba en los besos que estallaban como hojas de amapola que se habían dado sin comprenderlos, y no sabía decir ni una palabra. La vieja dijo:

– Voy un momento a casa de la señá Aita. Pero ¡tened juicio, por favor!

Y miró a Concetta, quien se puso roja hasta las orejas.

Mùnnino, esa tarde, volvió a casa con el corazón que parecía estallarle en el pecho, y no sabía si por las fiebres que sentía que llegaban o si por la agitación que lo invadía por completo.

Fue a ver a Concetta todos los días, llevándole siempre regalos y encontrándola sola. Pero una tarde, tras haber estado hablando con Peppe, que se las sabía todas, subió hasta el Calvario lleno de cólera y de impaciencia, y llevando a Concetta a un rincón le dijo clavando sus ojos en ella:

– ¿Es verdad lo que me han dicho acerca de ti y de una cierta Nina?

– ¿Qué te han dicho?

– No te hagas la tonta. ¿Es verdad o no?

– Virgen santísima… – murmuró Concetta extendiendo las manos temblorosas como para apartar toda esa furia.

– No, no te pego, porque nunca le he pegado a nadie. Los demás siempre han atormentado a Mùnnino – añadió con amargura –, pero él nunca ha ofendido a nadie. Dime si es verdad. Solo esto.

– ¿Qué debo decirte? Es verdad, sí – respondió Concetta con resolución, mientras en las comisuras de la boca se le formaban dos pliegues sutiles como dos arrugas. – La culpa es de esa bruja. Es su trabajo. Debes comprender estas cosas. Has ido a ser pastor, has encontrado tu camino; Concetta en manos de la señá Fina no podía hacer otra cosa. Pero solo te he querido a ti, Mùnnino. Nunca lo hubiera hecho.

A Mùnnino le pareció que le echaban un chorro de agua helada por la espalda desnuda, y bajó la cabeza. Concetta le puso tímidamente una mano en la espalda, pero él, viendo que llegaba la señá Fina, se echó atrás, como si hubiese visto un escorpión, y salió haciendo apenas una señal de saludo con la mano.

Se acostó pronto y sin cenar, con el frío de la fiebre y un dolor en el corazón, como si una aguja lo pinchara a punzadas. Los demás días del permiso se quedó en la puerta, tiritando, muy amarillo, con el scapolare en la espalda aunque hiciera buen tiempo: pensaba en Concetta, pero no sentía el coraje de ir a encontrarla a casa de esa vieja de risa envenenada. La madre le decía:

– ¿Por qué no sales? Cuanto más tiempo te quedes sentado, más débil te sientes.

Y una tarde masculló:

– ¡Dios nos libre de que tengas que volver a Salamuni!

Mùnnino aparentó no haber oído, pero al final del permiso volvió a Salamuni, para no molestar a su madre. ¡Y sin embargo, le había llevado sus ganancias durante tantos años! Cuando se está enfermo, se nos echa de todos lados como perros roñosos.

En Salamuni, dos mañanas después, perdió una oveja; al volver al establo no supo justificarse. Quizá había bajado por detrás de la montaña, quizá se había separado por el camino maestro.

– ¿Y tú qué hacías, so papanatas? – gritó Brasi sacudiéndolo por los hombros.

Brasi y Cola se le echaron encima y lo dejaron maltrecho y temblando.

Por la mañana no pudo levantarse, deliraba, y le llevaron al mismo establo un cuenco de leche.

La tarde descendió para Mùnnino lenta y grave, como si ese día no tuviera que acabar nunca. De vez en cuando oía el cencerro; era la vaca que sacudía el cuello, y le parecía que estaba muy lejos. Desde fuera le llegaban las voces de los compañeros y de Brasi que merendaban; también él había merendado siempre fuera, con ellos, a la luz rojiza del atardecer. Con la oscuridad entraban en el establo, confusamente, muchas imágenes descoloridas que apenas reconocía; al fondo, su madre, con las enaguas de cuadritos blancos y rojos, lo miraba enfadada, y Vanni lo amenazaba con el martillo. Alguien – ¿quién era? – le apretaba la cabeza entre las manos y parecía que se la aplastaba. Luego venía Concetta; tenía el cuello y los brazos desnudos y se reía fuerte, y en la oscuridad no se veían sino sus dientes, y los ojos que parecían dos cavernas; y se reía el maestro de la escuela que le metía en la boca unas almendras tan amargas, que sentía ganas de escupirlas; y cuanto más babeaba, más saliva amarga sentía que le llegaba a la lengua.

Todas ellas eran personas que le habían hecho daño. Recordaba los pensamientos de venganza que había tenido en la fuente, mientras se comía el pan del maestro; tenía que matar a Vanni y acusar al maestro… y luego tenía que casarse con Concetta. Concetta, que era mala como su madre y le habría puesto los cuernos durante el tiempo que estuviera en Salamuni. No había logrado vengarse, y sin embargo, había crecido. Se había quedado demasiado pequeño, él. Por ello siempre le habían pegado todos. Si Brasi no lo hubiese maltratado de tal modo, no estaría acostado así esa tarde.

Pero ¿las mujeres eran malas o eran unas desgraciadas? Y Concetta, blanca y delicada, ¡qué hermosa era!, y la llamaba:

– ¡Concetta… Concetta!

Se lamentaba, en voz muy baja, en su jergón, sintiendo el fuego encima y una gran debilidad al mismo tiempo, como si le hubieran extraído toda la sangre. E invocaba a la Virgen para que lo ayudara a levantarse, que era muy triste morir allí completamente solo, como tal vez se había muerto el perro calvo de la fuente.

Brasi decía, fuera:

– Es necesario informar al amo de que se está muriendo… es necesario pensar dónde lo ponemos…

 

[1] Voz siciliana: Tejedora.

[2] Voz siciliana: Manta.

[3] Pasta similar a los macarrones. El término proviene de zito, -a (< zitello, zitella) que en el sur de Italia se usaba con el significado de novio, -a. De hecho, se llamaba así (Maccheroni della zita) el plato preparado por la esposa para la comida de la boda.

[4] Con el significado de la voz siciliana (scappularu). Especie de abrigo rústico. Tabardo.

[5] Voz siciliana: Abarcas.

[6] Voz siciliana: Somnoliento, adormilado.

[7] Voz siciliana: Aprisco, majada.

La croce

Don Peppino Schirò non era come gli altri: aveva tanti libri, leggeva il giornale da cima a fondo, e conosceva il latino così bene che dava lezioni ai ragazzi del ginnasio.

— Se io avessi continuato!… — soleva dire a fin di cena, mentre la sorella, sparecchiata la tavola, si rimetteva a rimpedulare.[8]

— Se io avessi continuato… — e scrollando la testa grigia restava con lo sguardo fisso sul pendolo che oscillava — come se il pendolo gli mormorasse, tic tac, tic tac, quel che avrebbe fatto se avesse studiato — mentre nella testa, un po’ aggravata dal buon vino di Vittoria, passavano e ripassavano lentamente tutti i gradi e tutte le cariche che avrebbe potuto occupare.

Quello di essere una persona importante, di avere un titolo, un diploma, era sempre stato il suo sogno. Si sarebbe magari contentato di aver la laurea come don Mimì, che la teneva in bella vista nella cornice dorata!

… Invece no, egli possedeva soltanto la licenza ginnasiale; una povera licenza che faceva, si, la buona figura in salotto, fra una cornucopia e una ballerina, di carta, ma che non era l’adeguata ricompensa di tutta la sua istruzione.

In casa se la passava bene, al casino era rispettato, non aveva debiti… Quasi si sarebbe potuto dir felice… Ma il rimpianto di essere stato un oscuro impiegato di archivio, ma la crucciata e tenace speranza di esser fatto cavaliere, non lo facevan star bene; proprio come un convalescente che risenta gli strascichi d‘una lunga malattia.

Spesso, leggiucchiando «L’Ora» — sdraiato sulla poltrona turchina su cui aveva riposato suo nonno, su cui aveva dormito suo padre — ripeteva a fior di labbro:

— Cavaliere… Cavaliere Schirò…

Gran bella cosa!

Un tempo, quando aveva tutti i capelli, ci aveva pensato assai intensamente, rimuginando il mezzo di conseguir l’onorificenza, lui che non copriva nessuna carica.

Però, allora che nacque il principe ereditario, commissionò a Palermo una boccetta d’inchiostro di China e un foglio di carta pergamena, e poi si chiuse in casa. Per due giorni pensò a pena a mangiare e a dormire: col vocabolario latino davanti, fabbricava pazientemente un’ode al principe. E la sorella, passando in punta di piedi davanti alla stanza del fratello — quella benedetta casa tanto piccola! — zittiva ai ragazzi che venivano per la lezione:

— Tornate più tardi. Sta facendo la canzone al principe.

A pena il fattorino gli ebbe portato la carta e l‘inchiostro, si dette a copiare imitando la scrittura antica del messale di padre Taliento; e, come fu finita, ci fu un’aria di letizia per tutta la casa, quasi che fosse Pasqua.

Tutti i conoscenti sapevano dell’ode latina: i ragazzi l’avevano strombazzato, don Peppino aveva mancato al casino per due sere e poi vi era tornato con un’aria così strana! La volevano leggere a tutti i costi. Don Peppino si schermi calorosamente, tutto commosso per la gran voglia di far conoscere la propria coltura:

— Ma vi pare?… È una sciocchezza!… L’ho fatta, ma non la mando.

Invece la mostrò a ogni amico a parte, in piena segretezza; e, a ognuno che lesse, trattenne il respiro spiando l’effetto.

Don Mimì, che aveva la laurea, gli disse ch’era assai bella e che il re l’avrebbe ricompensato.

— Per questo! — rispose don Peppino con l’aria più indifferente, mentre il cuore gli ballava nel petto. — Non l’ho fatto per uno scopo. È stato l’impeto lirico, proprio come dico qui, nella seconda strofe…

Dopo averla spedita non ebbe più pace; era distratto nel far le lezioni e, sulla poltrona turchina, restava un pezzo col giornale in mano senza leggerlo: le parole gli ballavan davanti gli occhi; ogni parola diventava una croce, una crocetta d’oro…

E ogni sera, passando alla posta, chiedeva con la voce più calma che gli era possibile:

— C’è lettere?

— Niente.

E rincasava a testa bassa, col bastone appeso dietro la schiena, fra le mani intrecciate.

— Ci vorranno dei mesi — diceva alla sorella per confortare se stesso — mica va direttamente nelle mani del re…

Passarono i mesi, molti mesi di vana e uggiosa aspettazione. Poi non aspettò più. Era finita. Proprio finita, senza un rigo di ringraziamento.

 

Pure, quando morì l’imperatrice di Germania, si volle provare a comporre una elegia. E l’ispirazione gli venne spontanea anche questa volta, perché il suo animo era triste, e piangendo l’imperatrice piangeva anche la sua prima speranza svanita. Non lo disse neanche alla sorella; e sospirando registrò la spesa della pergamena con un segno d’intelligenza che voleva dir buttata o press’a poco. Poi aspettò senza entusiasmo, ma con una trepidazione che lo fece stare tre mesi di cattivo umore.

L’elegia fu il suo ultimo lavoro letterario; ché gli restò una profonda avversione per quel benedetto latino che l’aveva ingannato in si malo modo. E la croce restò il suo melanconico sogno. Non aveva desiderato altro, lui, e si figurava che felicità sarebbe stata presentarsi una sera al casino, sul tardi quando c’eran tutti, e dire come se niente fosse:

— Sapete, m’han fatto cavaliere…

Per fortuna nessuno sapeva il suo cruccio: altrimenti chi sa come l’avrebbero burlato! Perciò qualche volta, a proposito di onorificenze, egli s‘era affrettato a dire, movendo la pappagorgia e guardando a terra con gli occhietti vivi:

— Io a quest’ora, se avessi voluto, m’avrebbero fatto cavaliere cento volte… Ma io, no… Son fumi, ecco, son fumi…

E sbirciava il cavaliere Cartelli, per paura d’offenderlo. Era un affare delicato, quello di salvare il suo amor proprio senza pungere quello degli altri!

Il vero guaio di don Peppino fu la venuta dello zio di don Lillo, dell’onorevole Costarini, che mancava in paese da vent‘anni. Don Peppino ottenne un abboccamento solo a solo; fidando in quel viso sereno dagli occhi indulgenti parlò a cuore aperto del suo sogno e delle odi latine

— Inezie — gli disse il deputato stringendogli la mano — basta dire una parola lassù e avrete la croce.

A don Peppino parve mill’anni che l‘onorevole ripartisse per la capitale, e poi ricominciò ad aspettar la posta. Fu un doloroso risveglio della vecchia speranza quasi sopita.

— Un deputato — diceva alla sorella seguendola per tutte le camere mentre quella spazzava e rifaceva i letti — non si compromette se non è sicuro di quel che dice.

— Io — rispondeva la buona creatura che temeva una delusione, tanto più che don Peppino soffriva di mal di core — non mi affannerei troppo. Se finisce come le canzoni…

Non voleva sentirselo dire; e come la sera riceveva una lettera, correva sotto il lampione a guardar se portava il bollo di Roma, e que’ pochi passi dalla posta al lampione li faceva con tutto il sangue alla testa.

— Non scrive — cominciò a dire — Non scrive…

— Te lo dicevo io! — sospirava la sorella. — Mettiti l‘animo in pace e pensa a campare…

Fu un vero guaio la venuta dell’onorevole Costarini! Al casino tutti seppero della sua lunga e tacita aspettazione, ed egli diventò il lieto argomento d’ogni discorso, la nuova occasione dei frizzi e delle barzellette. Don Mimì lo chiamava cavaliere, scappellandosi, e il barone Barbarella gli prometteva una croce d’oro.

Ed egli si schermiva debolmente, come un bambino, facendo una risatina per dimostrare ch’era superiore a quelle sciocchezze, che sapeva stare allo scherzo.

Ma la vigilia della festa dei Gesanti gliela fecero troppo grossa: don Lillo gli andò incontro sulla porta del bigliardo e gli partecipò gravemente che lo zio aveva risposto d’averlo accontentato, mentre tutti gli amici lo circondavano congratulandosi festosamente.

Per un momento ci credette; impallidì, sorrise, stava per ringraziare, ma come vide chiaro d’essere stato burlato senti una stretta al cuore dall’umiliazione.

Ridevano, tutti accesi in viso. Lui si mise il cappello e cercò la porta che non trovava.

— Non ci metterò più piede, qui… — balbettò con voce rauca — ogni scherzo ha un limite.

Il barone Barbarella cercò di trattenerlo:

— Ma don Peppino… si scherzava…

— No. Vado via. È troppo, è troppo…

E rincasò com’uno che ha bevuto. Si mise a letto subito. Vedeva tutto rosso e le pareti gli ballavano intorno. La sorella costernata, sbigottita, mandò pe ‘l medico e accese una candela davanti l’immagine di San Sebastiano. Era rosso congestionato e tutta la notte tenne gli occhi chiusi sotto il turbante bagnato che gli gocciolava sulla fronte arida.

Solo verso l‘alba, quando la candela s‘era consumata davanti l’immagine, si sentì meglio. L’indomani era festa, e nella camera in ordine, tutta fresca di pulizia, entrava il bel sole di settembre.

Egli pareva calmo e sereno; tanto che la sorella si confortò e anche il medico assicurò che si sarebbe presto levato.

E il malato sorrise e rispose scherzosamente. Ma come restò solo, mentre la sorella guardava passare i Gesanti, si sentì improvvisamente tanto afflitto e tanto sofferente. Pensò confusamente, con dolorosa melanconia, alla propria vita sprecata come i due fogli di pergamena, all‘umiliazione della sera innanzi… ma, pur pensando così, la vocetta gli sussurrava insistente all’orecchio, con la musica della processione:

— Cavaliere Schirò… Cavaliere Schirò…

 

[8] Rimpedulare: Zurcir o rehacer, propiamente, la planta (pedule) de los calcetines.

La cruz

Don Peppino Schirò no era como los demás: tenía muchos libros, leía el periódico de arriba abajo, y sabía latín tan bien, que les daba clases a los muchachos del instituto.

– ¡Si hubiese continuado!… – solía decir al final de la cena, mientras la hermana, tras quitar la mesa, volvía a ponerse a zurcir.

– Si yo hubiera continuado… – y moviendo la cabeza gris se quedaba con la mirada fija en el péndulo que oscilaba – como si el péndulo le murmurara, tic tac, tic tac, lo que habría hecho si hubiera estudiado – mientras por su cabeza, un poco pesada con el buen vino de Vittoria, pasaban y volvían a pasar lentamente todos los grados y todos los cargos que habría podido ocupar.

Lo de ser una persona importante, tener un título, un diploma, había sido siempre su sueño. Tal vez se habría contentado con tener la licenciatura como don Mimì, ¡que la tenía bien a la vista en un marco dorado!

… En cambio, no, él solo tenía el título de secundaria; un pobre título que quedaba, sí, bien en el salón, entre una cornucopia y una bailarina, de papel, pero que no era la adecuada recompensa de toda su formación.

En casa estaba bien, en el casino era respetado, no tenía deudas… Casi se podría llamar feliz… Pero el lamento de haber sido un oscuro empleado de archivo, pero la atormentada y tenaz esperanza de ser nombrado caballero, no lo dejaban estar bien; justo como un convaleciente que se resiente de las secuelas de una larga enfermedad.

A menudo, ojeando L´Ora – tirado en la otomana en la que había descansado su abuelo, en la que había dormido su padre – repetía en voz baja:

– Caballero… Caballero Schirò…

¡Qué hermosura!

Un tiempo, cuando tenía todos los cabellos, había pensado en ello intensamente, cavilando sobre el medio para conseguir esa condecoración, él que no ocupaba ningún cargo.

Sin embargo, cuando nació el príncipe heredero, encargó a Palermo un frasco de tinta de China y una hoja de papel de pergamino, y luego se encerró en casa. Durante dos días apenas pensó en comer y en dormir: con el diccionario de latín delante, construía pacientemente una oda al príncipe. Y la hermana, pasando de puntillas por delante de la habitación del hermano – ¡esa bendita casa tan pequeña! – mandaba a callar a los muchachos que venían a las clases.

– Volved más tarde. Le está haciendo una canción al príncipe.

Apenas el recadero le trajo el papel y la tinta, se puso a copiar imitando la escritura antigua del misal del padre Taliento; y, una vez terminada, hubo un aire de alegría por toda la casa, como si fuese Pascua.

Todos sus conocidos estaban enterados de la oda latina: los muchachos lo habían pregonado, don Peppino había faltado al casino dos tardes y luego ¡había vuelto con un aire tan extraño! Querían leerla a toda costa. Don Peppino se defendió calurosamente, todo conmovido por el gran deseo de dar a conocer su propia cultura:

– Pero ¿os parece?… ¡Es una estupidez!… La he hecho, pero no la mando.

En cambio, se la enseñó a cada amigo aparte, en total secreto; y ante cada uno que la leía, retenía la respiración espiando el efecto.

Don Mimì, que era licenciado, le dijo que era bastante hermosa y que el rey lo recompensaría.

– ¡Por esto! – respondió don Peppino con el aire más indiferente, mientras el corazón le bailaba en el pecho. – No lo he hecho con un fin. Ha sido el ímpetu lírico, justo como digo aquí, en la segunda estrofa…

Tras haberla enviado, ya no tuvo sosiego; estaba distraído mientras daba las clases y, en la otomana, se quedaba un rato con el periódico en la mano sin leerlo: las palabras le bailaban ante los ojos; cada palabra se volvía una cruz, una crucecita de oro…

Y cada tarde, pasando por correos, preguntaba con la voz más tranquila que podía:

– ¿Hay cartas?

– Nada.

Y regresaba con la cabeza baja, con el bastón colgado tras la espalda, entre las manos entrelazadas.

– Se necesitarán meses – le decía a la hermana para consolarse a sí mismo – en modo alguno va directa a las manos del rey…

Pasaron los meses, muchos meses de vana y tediosa espera. Luego, ya no esperó. Se había terminado, justo terminado, sin una línea de agradecimiento.

Sin embargo, cuando murió la emperatriz de Alemania, quiso intentar componer una elegía. Y la inspiración le llegó espontánea también esta vez, porque su ánimo estaba triste, y llorando a la emperatriz, lloraba también su primera esperanza desvanecida. No se lo dijo ni siquiera a la hermana; y suspirando anotó el gasto del pergamino con un signo de inteligencia que quería decir tirada, o más o menos. Luego esperó sin entusiasmo, pero con una ansiedad que hizo que estuviera tres meses de mal humor.

La elegía fue su último trabajo literario; pues le quedó una profunda aversión por ese bendito latín que lo había engañado de tan mala manera. Y la cruz quedó como un melancólico sueño suyo. No había deseado otra cosa, él, y se imaginaba qué felicidad habría sido presentarse una tarde en el casino, ya tarde, cuando estaban todos, y decir como si nada:

– Sabéis, me han nombrado caballero…

Por suerte nadie sabía su tortura: de lo contrario, ¡quién sabe hasta qué punto se habrían burlado de él! Por ello, alguna vez, a propósito de condecoraciones, él se había apresurado a decir, moviendo la papada y mirando al suelo con los ojitos vivaces:

– Yo a esta hora, si hubiera querido, me habrían nombrado caballero cien veces… Pero yo, no… Es humo, eso es, es humo…

Y miraba de reojo al caballero Cartelli, por miedo a ofenderlo. Era un asunto delicado salvar su amor propio sin herir el de los otros.

El verdadero apuro de don Peppino fue la llegada del tío de don Lillo, del honorable Costarini, que estaba ausente del pueblo desde hacía veinte años. Don Peppino obtuvo una entrevista a solas; confiando en ese rostro sereno de ojos indulgentes, habló con el corazón abierto de su sueño y de las odas latinas.

– Naderías – le dijo el diputado estrechándole la mano –, basta con decir una palabra allí, y tendrá la cruz.

A don Peppino le parecieron mil años para que el honorable volviera a la capital, y luego volvió a esperar el correo. Fue un doloroso despertar de la vieja esperanza casi dormida.

– Un diputado – le decía a la hermana siguiéndola por todas las habitaciones mientras ella barría y hacía las camas – no se compromete si no está seguro de lo que dice.

– Yo – respondía la buena criatura que temía una desilusión, sobre todo porque don Peppino padecía del corazón – no me afanaría demasiado. Si termina como las canciones…

No quería oír que se lo decían; y cuando por la tarde recibía una carta, corría bajo una farola a mirar si traía el sello de Roma, y esos pocos pasos desde correos hasta la farola los daba con toda la sangre en la cabeza.

– No escribe. – comenzó a decir – No escribe…

– ¡Ya te lo decía yo! – suspiraba la hermana – Tranquilízate y piensa en vivir…

¡Fue una verdadera contrariedad la llegada del honorable Costarini! En el casino todos supieron de su larga y callada espera, y él se convirtió en el alegre tema de cualquier discurso, la nueva ocasión de las pullas y de los chistes. Don Mimì lo llamaba caballero, quitándose el sombrero, y el barón Barbarella le prometía una cruz de oro.

Y él se defendía débilmente, como un niño, sonriendo para demostrar que era superior a esas tonterías, que sabía llevar las bromas.

Pero la víspera de la fiesta de los Gesanti [9] se la montaron gorda: don Lillo fue a su encuentro a la puerta del billar y le comunicó gravemente que el tío había respondido que lo había contentado, mientras todos los amigos lo rodeaban felicitándolo festivamente.

Por un momento se lo creyó; palideció, estaba a punto de dar las gracias, pero cuando vio claro que se habían burlado de él, sintió un vuelco en el corazón por la humillación.

Reían, todos con el rostro encendido. Él se puso el sombrero y buscó la puerta que no encontraba.

– No pondré aquí más el pie… – balbució con voz ronca – toda broma tiene sus límites.

El barón Barbarella intentó detenerlo:

– Pero don Peppino… bromeábamos…

– No. Me voy. Es demasiado, es demasiado…

Y volvió como quien ha bebido. Se metió en la cama. Lo veía todo rojo y las paredes le bailaban a su alrededor. La hermana, consternada, aturdida, llamó al médico y encendió una vela ante la imagen de San Sebastián. Estaba rojo, congestionado, y toda la noche tuvo los ojos cerrados bajo el turbante mojado que goteaba en su frente árida.

Solo hacia el alba, cuando la vela se hubo consumido ante la imagen, se sintió mejor. El día siguiente a la fiesta, y en la habitación en orden, toda fresca de limpieza, entraba el buen sol de septiembre.

Parecía calmado y sereno; tanto, que la hermana se animó, y también el médico aseguró que pronto podría levantarse.

Y el enfermo sonrió y respondió con bromas. Pero apenas se quedó solo, mientras la hermana miraba cómo pasaban los Gesanti, se sintió de improviso muy afligido y muy dolorido. Pensó confusamente, con dolorosa melancolía, en la propia vida despilfarrada como las dos hojas de pergamino, en la humillación de la tarde anterior… pero, incluso pensando así, la vocecita le susurraba insistente al oído, con la música de la procesión:

– Caballero Schirò… Caballero Schirò…

 

[9] Voz siciliana: Gigantes.

Sotto tutela

Al casino non si parlava d‘altri fuor della signora ch’era venuta a stare nella locanda di Sciaverio, ch’era italiana e si chiamava Klepper, e chi diceva che fosse di Patti e avesse sposato un tedesco, e chi diceva che fosse una certa Mincuzza di Naso che aveva girato tutta Italia facendone di tutti i colori. Ne parlavan con boriosa noncuranza, ma la mattina, passeggiando nel ballatoio del casino che dava proprio di faccia alla locanda, alluciavan per vedere se la signora si affacciasse. Nel pomeriggio i giovanotti le andavan dietro; e molti anziani, anche di quelli che non facevano una camminata da anni e anni, si spingevano lemme lemme fino alla Cappelletta solo per veder la Klepper che faceva lunghissime passeggiate — si diceva fino al casello — con la testa alta e il viso sorridente, tutta vestita di bianco che pareva una statua.

Certuni salivano in locanda, con la scusa di parlar con Sciaverio o di salutar gli ufficiali e potevan vederla da vicino. Sempre per curiosità, — dicevan gli anziani alzando le spalle — così per uno spasso, s’intende…

 

Ma Bobò Caramagna, che passava la vita al casino, ascoltava con avidità i commenti e i sottintesi degli anziani perdendoci la testa. Lui, come se il casino non bastasse, sentiva parlarne dalle sorelle, che vedevan la Klepper attraverso le persiane e restavano incantate dei suoi vestiti pomposi e sfarfallanti, e sentiva parlarne dallo zio che a fin di desinare discuteva con la moglie se la Klepper era dipinta o no, se era imbottita o no, e che non riusciva mai a persuadere né la moglie né se stesso. Bobò non prendeva parte ai discorsi e ai commenti, un po’ perché nessuno gli avrebbe dato attenzione, un po’ perché per lui, la Klepper, era una bellezza mai vista, che uguale non avrebbe saputo sognare; e seguendola verso il Calvario, sin dove gli altri non giungevano, la trovava ogni giorno più bella, specie se la confrontava con le signorine del paese, che s’incontravan la domenica, dai visetti troppo pallidi o troppo coloriti, dai capelli lisci che pendevan sulla fronte a pena c‘era un po’ di vento. La Klepper, passando fra loro, — così alta, ben fatta, dai capelli ricciuti e col petto e i fianchi bellissimi stretti nel vestito bianco che la modellava come una statua — era una meraviglia. Più Bobò la vedeva e più s’imbietoliva e rifuggiva gli amici, rimuginando fra sé, cupo e taciturno, qualche mezzo per conoscere la signora. E intanto la seguiva disperatamente, sperando di esser veduto, guardandola cogli occhi imbambolati e strofinandosi il naso col fazzoletto spiegazzato: ma la Klepper non lo vedeva. Un mattino si decise a scriverle un biglietto che pensò anche di profumare coll’essenza di rosa delle sorelle; un biglietto in cui cacciò tutte le frasi che gli vennero in mente, lette chi sa dove, in cui — paragonando lei a una fata, a una dea, a un fiore, a una nuvola bianca che doveva pur commuoversi e sciogliersi su di lui che era la roccia arida e assetata — chiedeva pietosamente uno sguardo.

 

 

E nel pomeriggio si fermò allo chalet ad aspettar lo sguardo; ma la Klepper gli passò davanti senza vederlo. Cose da morire!

Pure seguitò a andarle dietro, quel giorno e tanti altri ancora, solo come un matto, col viso giallo, e al ritorno d’ogni passeggiata andava a buttarsi su un divano del casino, in un cantuccio mezzo al buio, per sentir parlare della Klepper.

Un pomeriggio la seguì piano piano, oltre il casello, dove la strada, sotto le colline brulle, si prolungava larga e deserta; camminava piano piano e quando lei si voltò per tornare, egli seguitò un’altra decina di passi e tornando la trovò ferma che guardava coll’occhialetto il mare lontano incassato fra i monti; dovendo passarle davanti e trovandosi in campagna si rammentò che poteva scappellarsi.

Bonjour, monsieur! — sentì rispondersi.

Bobò che avrebbe dato la vita per fermarsi, non essendovi occasione migliore, s’avanzò lentamente.

— Lei — disse la signora fissandolo con l’occhialetto — dev‘essere il nipote del barone Caramagna.

— Sì, per servirla! — rispose Bobò con voce rauca, fermandosi di botto come una marionetta.

— Ho sentito parlarne da Sciaverio. Bello questo panorama — aggiunse la signora — e bellissimo il paese. Peccato che siate tanti orsi. Le signore escon poco.

— Già. Escon poco.

— Non c’è modo di fare una conoscenza. Ci si annoia mortalmente. Ci fosse almeno una biblioteca, dei giornali!

— Se vuole dei libri… — disse Bobò con un tono di voce come se avesse fatto una scoperta. E si cacciò rapidamente le mani in tasca, ma pensando che non era una mossa da persona per bene, le cavò subito mentre la signora gli diceva:

— Sì, sì, caro monsieur Caramagna. Portatemi dei romanzi se potete. Ma io casco sempre a dar del voi, parlando alle persone. Scusi. È una abitudine presa a Parigi.

— Oh!, le pare! È stata a Parigi?

— Sì, anche a Parigi, per molti anni. Il mio povero marito era pittore, stabilito a Parigi. Dunque v’aspetto domani — aggiunse dandogli la mano — au revoir.

Bobò, congedato, s’allontanò pieno di turbamento e di felicità. A cena mangiò poco; l’indomani — dopo aver aspettato con impazienza che lo zio si fosse deciso a andare a letto per il sonnellino del dopopranzo — andò a scartabellare nello studio trascinandosi in camera una decina di romanzi di Werner e di Ohnet e poi, sceltine tre o quattro fra quelli illustrati e che gli parvero i più impressionanti, s’avviò alla locanda.

Vi tornò l’indomani per portar le prime màmmole alla Klepper e rincasando trovò lo zio incollerito:

— Eccolo l’eroe del giorno, il babbuino che fa il galante coi miei libri, e che si fa mettere su un corno da tutto il paese. Ti par d‘esser solo, libero di romperti il collo?

E giù una terribile paternale che Bobò prese senza fiatare come se non fosse per lui, aspettando il momento buono per svignarsela, e chiedendosi come si dicesse «vestita elegantemente» in francese.

Seguitava ad andare ogni pomeriggio alla locanda, e al ritorno d’ogni visita correva in casa a sfogliar la grammatica francese per non cascar negli scerpelloni e per paura di esserci già cascato parlando con quella signora ch’era tanto istruita. E le portava libri e fiori, fiori e libri, credendo di far cosa gradita e cercando continuamente il modo di dirle quel che pativa e sentiva per lei; ma quando gli pareva di aver trovato, allora la signora, come a farlo apposta, saltava con una domanda, con una osservazione che gli scombussolava le frasi preparate.

Nella locanda passava lunghe ore che gli parevan minuti, angustiato dalla propria timidità e dalla bellezza della Klepper; spessissimo questa sonava per ore ed ore e lui, in piedi accanto al pianoforte, stava a voltar le pagine sul leggio a un cenno degli occhi, tutto turbato, con lo sguardo avido fisso su di lei, sul suo collo nudo, sulle mani bianche, sul petto che s’alzava e s’abbassava al respirare leggero mentre la musica, che non intendeva, lo stordiva affatto.  Dopo aver sonato, la Klepper lo congedava dicendo ch’era l’ora di cena, ed egli usciva, eccitato, scontento e commosso senza veder niente davanti a sé; una di queste sere inciampò lo zio giù nelle scale.

— Madonna mia! — balbettò svegliandosi, mentre lo zio gli afferrava un orecchio stringendolo forte tra il pollice e l’indice poderosi:

— Canaglietta! Esci!

— Non qui zio — trovò il coraggio di dire Bobò, piegando la testa per il verso dell’orecchio afferrato. — Fa’ di me quel che vuoi, ma a casa. Per carità!

 

La voce era supplichevole, e lo zio rimise le mani in tasca, ma rincasò anche lui.

E a casa ci fu l’inferno, il diluvio; le sorelle si chiusero in camera per non sentir le male parole che lo zio gridava appioppando ceffoni al nipote, malgrado che la moglie lo supplicasse di finirla, di non mortificarlo a quel modo.

E questa volta, se rimetteva piede nella locanda l’avrebbe chiuso in collegio, a costo di spender tutto il patrimonio per quell’animale — urlava il barone — per quel burattino che faceva parlare tutto il paese! Che inferno, che inferno! …

Bobò andò a letto senza cena, tremante di febbre e stordito da quel vociare; pure, a letto rimase con tanto d’occhi spalancati che al buio lucevan come quelli d’un gatto.

Sul tardi, forse le undici, quando le sorelle dormivano e il barone era tornato al casino, salì su piano piano la zia, pallida come avesse pianto, a chiedergli, carezzandolo fra i capelli, se voleva prendere un boccone.

— No — rispose Bobò duro duro.

— Anima mia, non far così. Lo zio ha ragione, non c’è che dire. Smettila, figlio mio. Smettila con quella lì che è una mala cristiana. Non vedi che i libri non li ha più resi? Tu sei un ragazzo e fai di queste cose? Da un mese a questa parte c’è l‘inferno per causa tua. Fallo per le tue sorelle!

La queta luce della candela e la voce, dolce e triste, della zia furono a poco a poco per Bobò come una carezza della Mamma che non aveva più; e cominciò improvvisamente a singhiozzare, con la testa sotto la coperta chiamando:

— Mamma, mamma mia!

La zia lo accarezzò dolcemente fra i capelli arruffati, e restò in camera, fin che lo vide addormentarsi, rincalzandogli il letto come a un suo bambino.

Pure l’indomani — come se la strada lo tirasse — Bobò nel pomeriggio s’avviò verso il Calvario; vicino alla Cappelletta scorse la Klepper che gli sorrise, dritta sotto l’ombrellino bianco, con un sorriso che fece svanire tutte le pene e tutte le minacce. Si scappellò profondamente, Bobò, cercando una parola da dire, una parola succosa. Ma non trovò nulla, proprio nulla, e rosso fino alle orecchie, non vedendo che tutto quel bianco abbagliante nel sole alto, con gli occhi avidi, estatici, mormorò:

Comme vuscette belle, matame…

E dopo averlo detto, temendo di aver sbagliato, non osò guardare in viso matame, e si precipitò a spolverar la banchina col fazzoletto. Ma la Klepper sempre sorridendo gli disse con la sua voce tranquilla:

— C’è troppo sole, qui, mon enfant. Più in la troveremo un po’ d’ombra.

— È vero —. E Bobò alla sinistra della dama s’avviò moderando il proprio passo, mentre le gambe tremanti volevan correre e correre, mentre tutto il suo corpo era in sussulto.

 

Sedettero all’ombra e mentre Bobò pensava e pensava cosa potesse dirle di bello, come potesse dirle quel che non aveva mai potuto in tutto quel mese, taceva oppresso dal suo stesso silenzio e dal rimpianto del tempo che passava. La Klepper, sorridendo, gli chiese all‘improvviso:

— Siete triste, piccolo Bobò? So che avete molti dispiaceri in casa.

Chi aveva mai parlato? Sciaverio forse?

— No. Perché? — disse fieramente.

— Ah, no? Credevo.

Bobò capì che quella era l’occasione buona, parlando delle proprie pene, di manifestarle i suoi sentimenti, e si morse le labbra per non aver capito subito; ma si riprese.

— Sì — disse risolutamente — è lo zio. Non vuole che io vi veda, signora. Mentre io, signora… — e con la voce tremante ripeté — mentre io…

— Toh, — fece improvvisamente con voce gaia la signora Klepper puntando l’ombrellino verso la collinetta — vostro zio!

— Eh?… mio zio? Proprio lui! Allora è meglio che non ci veda insieme signora. Penserà male di noi, di lei. Scusi. Arivederla!

E s’alzò porgendo la mano a matame che guardava sempre la collina coll’occhialetto senza badargli, e poi s’allontanò tutto rosso con gli occhi pieni di lacrime e le gambe tremanti, con un mondo di pensieri che lo torturavano; dandosi dello stupido, dell’imbecille, rimpiangendo la signora che aveva avuto per male la sua fuga; e pur dandosi dell’imbecille correva sempre per quella maledetta paura di essere veduto dallo zio.

Ma lo zio, che montava il suo bel sauro, girò dietro la collinetta e si fermò davanti alla Klepper con molto scalpitìo; smontò e sorridendo strinse la mano inguantata che quella gli tese, scambiando qualche parola.

E il piccolo Bobò, intanto, buttato su una panchina dello chalet, aspettava di vedere ripassare matame, col cuore nero d’infelicità.

Bajo tutela

En el casino no se hablaba más que de la señora que había venido a hospedarse en la posada de Sciaverio, que era italiana y se llamaba Klepper; unos decían que era de Patti y que se había casado con un alemán,  otros, que era una tal Mincuzza de Naso que había recorrido toda Italia liándola bien. Hablaban de ella con jactancioso descuido, pero por la mañana, paseando por la balconada del casino que daba justo frente a la fachada de la posada, acechaban para ver si la señora se asomaba. Por la tarde, los jovencitos iban tras ella; y muchos ancianos, incluso los que no hacían una caminata desde hacía años y años, avanzaban lentamente hasta la Capillita para ver a la señora Klepper que daba larguísimos paseos – se decía que hasta la estación – con la cabeza alta y la cara sonriente, toda vestida de blanco, de modo que parecía una estatua.

Algunos subían a la posada con la excusa de hablar con Sciaverio y de saludar a los oficiales, y podían verla de cerca. Siempre por curiosidad, – decían los ancianos levantando los hombros – así como un entretenimiento, se entiende…

Pero Bobò Caramagna, que se pasaba la vida en el casino, escuchaba con avidez los comentarios y los sobreentendidos de los ancianos que perdían la cabeza. Él, como si el casino no le bastara, escuchaba cómo hablaban de ella las hermanas, que veían a la señora Klepper a través de las persianas y se quedaban encantadas con sus vestidos pomposos y vaporosos, y escuchaba hablar al tío quien, al final del almuerzo, discutía con la mujer si la señora Klepper estaba pintada o no, si estaba arropada o no, y que no conseguía nunca persuadir a la mujer ni a sí mismo. Bobò no tomaba parte en los discursos y en los comentarios, un poco porque nadie le habría prestado atención, un poco porque para él, la señora Klepper era una belleza que nunca había visto, que igualmente no habría sabido soñar; y siguiéndola hacia el Calvario, hasta donde los otros no llegaban, la encontraba cada día más bella, especialmente si la comparaba con las jovencitas del pueblo, que se encontraban los domingos, con sus caritas demasiado pálidas o demasiado coloreadas, con los cabellos lisos que caían sobre su frente apenas hacía un poco de viento. La señora Klepper, al pasar entre ellas, – tan alta, bien hecha, con los cabellos rizados y con el pecho y las hermosas caderas ceñidas en el vestido blanco que la modelaba como a una estatua – era una maravilla. Cuanto más la veía Bobò, más se atontaba y rehuía a los amigos, cavilando solo, triste y taciturno, algún modo para conocer a la señora. Y entretanto la seguía desesperadamente, esperando ser visto, mirándola con los ojos arrobados y sonándose la nariz con el pañuelo arrugado: pero la señora Klepper no lo veía. Una mañana se decidió a escribirle una nota que pensó incluso perfumar con esencia de rosa de las hermanas; una nota en la que echó todas las frases que le vinieron a la mente, leídas quién sabe dónde, en que – comparándola con un hada, con una diosa, con una flor, con una nube blanca que debía, sin embargo, conmoverse y deshacerse sobre él, que era la roca árida y sedienta – pedía piadosamente una mirada.

Y por la tarde se detuvo en el chalet a esperar la mirada; pero la señora Klepper pasó delante de él sin verlo. ¡Para morir!

Sin embargo, siguió yendo tras ella, ese día y otros muchos más, solo como un loco, con el rostro amarillo, y a la vuelta de cada paseo iba a tirarse sobre un diván del casino, en un rinconcillo medio a oscuras, para escuchar cómo hablaban de la señora Klepper.

Una tarde la siguió lentamente, más allá de la estación, donde la carretera, bajo las colinas yermas, se prolongaba ancha y desierta; caminaba lentamente y cuando ella se giró para volver, él continuó otra decena de pasos y al volver la encontró quieta mirando con los impertinentes el mar lejano encajonado entre los montes; al tener que pasar ante ella y al encontrarse en el campo, se acordó de que podía quitarse el sombrero.

Bonjour, monsieur! – oyó que le respondía.

Bobò, que habría dado la vida por detenerse, al no haber mejor ocasión que esta, avanzó despacio.

– Usted – dijo la señora mirándolo con los impertinentes – debe de ser el sobrino del barón Caramagna.

– Sí, ¡para servirla! – respondió Bobò con voz ronca, parándose de golpe como una marioneta.

– He sentido hablar de usted en la posada de Sciaverio. Es hermosa esta vista – añadió la señora – y hermosísimo el pueblo. Lástima que seáis tan huraños. Las señoras salen poco.

– Sí. Salen poco.

– No hay modo de conocer a nadie. Es un aburrimiento mortal. ¡Si hubiera al menos una biblioteca, periódicos!

– Si quiere libros… – dijo Bobò con un tono de voz como si hubiera hecho un descubrimiento. Y se metió rápidamente las manos en los bolsillos; pero, pensando que no era un gesto de persona educada, las sacó enseguida mientras la señora le decía:

– Sí, sí, querido monsieur Caramagna. Traedme las novelas que podáis. Pero yo me equivoco al trataros de vosotros cuando les hablo a las personas. Disculpe. Es una costumbre que cogí en París.

– ¡Oh!, ¡no lo crea! ¿Ha estado en París?

– Sí, también en París, durante muchos años. Mi pobre marido era pintor, establecido en París. Entonces, os espero mañana – añadió dándole la mano – au revoir.

Bobò, despedido, se alejó lleno de turbación y de felicidad. En la cena comió poco; al día siguiente – tras haber esperado con impaciencia que el tío se decidiera a irse a la cama para la siesta de mediodía – fue a hojear en el estudio y arrastró hasta su habitación una decena de libros de Werner y de Ohnet, y luego, una vez elegidos tres o cuatro entre los ilustrados y los que le parecieron más impresionantes, se dirigió a la posada.

Volvió al día siguiente para llevarle las primeras violetas a la señora Klepper y al llegar a casa se encontró al tío encolerizado:

– Aquí tenemos al héroe del día, al babuino que galantea con mis libros, y que es el hazmerreír de todo el pueblo. ¿Te parece que estás solo y libre como para romperte el cuello?

Y ahí fue un terrible rapapolvo que Bobò recibió sin respirar, como si no fuera con él, esperando el momento adecuado para escabullirse, y preguntándose cómo se decía “vestida elegantemente” en francés.

Seguía yendo cada tarde a la posada, y a la vuelta da cada visita corría a casa a hojear la gramática francesa para no caer en dislates y con el miedo a no haber ya caído mientras hablaba con esa señora que era tan instruida. Y le llevaba libros y flores, flores y libros, creyendo que hacía algo agradable e intentando continuamente el modo de decirle lo que sufría y sentía por ella; pero cuando le parecía que lo había encontrado, entonces la señora, como si lo hiciera aposta, saltaba con una pregunta, con una observación que le desbarataba las frases preparadas.

En la posada pasaba largas horas que le parecían minutos, angustiado por la propia timidez y por la belleza de la señora Klepper; muy a menudo ella tocaba horas seguidas para él, que, en pie al lado del piano, volvía las páginas en el atril a una señal de los ojos, todo turbado, con la mirada ávida fija en ella, en su cuello desnudo, en sus manos blancas, en su pecho que se levantaba y se bajaba con una respiración ligera mientras la música, que no entendía, lo aturdía de hecho. Después de tocar, la señora Klepper se despedía diciéndole que era la hora de la cena, y él salía, excitado, descontento y conmovido sin ver nada delante de él; una de estas tardes tropezó con el tío en las escaleras.

– ¡Virgen mía! – balbució despertándose, mientras el tío le aferraba una oreja, apretándolo fuerte entre el pulgar y el índice poderosos:

– ¡Canalla! ¡Sal!

– Aquí no, tío – encontró el valor de decir Bobò, doblando la cabeza hacia la oreja aferrada. – Haz conmigo lo que quieras, pero en casa. ¡Por favor!

La voz era suplicante, y el tío puso las manos en los bolsillos, pero regresó también él.

Y en casa fue el infierno, el diluvio; las hermanas se encerraron en la habitación para no oír las malas palabras que gritaba el tío asestándole bofetones, a pesar de que la mujer le suplicara que lo dejase, que no lo mortificara de ese modo.

Y esta vez, si volvía a poner el pie en la posada lo habría encerrado en el colegio, a costa de perder todo el patrimonio por ese animal – voceaba el barón – ¡por ese muñequito que daba que hablar a todo el pueblo! ¡Qué infierno! ¡Qué infierno!…

Bobò se fue a la cama sin cenar, temblando de fiebre y aturdido por ese griterío; sin embargo, en la cama se quedó con los ojos bien abiertos que le brillaban como los de un gato.

Ya tarde, sobre las once, cuando las hermanas dormían y el barón había vuelto al casino, subió lentamente la tía, pálida como si hubiese llorado, a pedirle, acariciándole los cabellos, si quería tomar algo.

– No – respondió Bobò con dureza.

– Alma mía, no seas así. El tío tiene razón, no hay nada que decir. Déjalo, hijo mío. Deja a esa mujer, que es una mala cristiana. ¿No ves que los libros no los ha devuelto? Tú eres un niño, ¿y haces estas cosas? Desde hace un mes esto es el infierno por tu culpa. ¡Hazlo por tus hermanas!

La tranquila luz de la vela y la voz, dulce y triste, de la tía fueron para Bobò poco a poco como una caricia de la madre que no tenía ya; y comenzó de improviso a sollozar, con la cabeza bajo la manta, llamando:

– ¡Madre, madre mía!

La tía le acarició dulcemente los cabellos revueltos, y se quedó en la habitación, hasta que lo vio dormirse, remetiéndole las sábanas como a su niño.

Pero al día siguiente – como si la calle lo atrajera – Bobò, por la tarde, se dirigió al Calvario; cerca de la Capillita descubrió a la señora Klepper, quien le sonrió, derecha bajo la sombrilla blanca, con una sonrisa que hizo que se desvanecieran todas las penas y todas las amenazas. Bobó se quitó el sombrero profundamente, buscando una palabra que decir, una palabra sustanciosa. Pero no encontró nada, justo nada, y rojo hasta las orejas, al no ver sino toda esa blancura cegadora en el sol alto, con los ojos ávidos, estáticos, murmuró:

–  Comme vuscette belle, matame…

Y tras haberlo dicho, temiendo haberse equivocado, no se atrevió a mirar a la cara a matame, y se precipitó a desempolvar el banco con el pañuelo. Pero la señora Klepper, siempre sonriendo, le dijo con su voz tranquila:

– Hace demasiado sol aquí, mon enfant. Más adelante encontraremos un poco de sombra.

– Es verdad -. Y Bobò, a la derecha de la dama, se dirigió moderando su propio paso, mientras las piernas temblorosas querían correr y correr, mientras todo su cuerpo estaba estremecido.

Se sentaron a la sombra, y mientras Bobò pensaba y pensaba qué podía decirle, cómo podía decirle lo que no había podido decirle durante todo ese mes, callaba oprimido por su mismo silencio y por el arrepentimiento del tiempo que pasaba. La señora Klepper, sonriendo, le preguntó de improviso:

– ¿Estás triste, pequeño Bobó? Sé que tienes muchos disgustos en casa.

¿Quién había hablado? ¿Sciaverio quizás?

– No. ¿Por qué? – dijo orgulloso.

– Ah, ¿no? Creía.

Bobò comprendió que esa era la ocasión oportuna, hablando de sus propias penas, de manifestarle sus sentimientos, y se mordió los labios por no haberlo comprendido enseguida; pero se repuso.

– Sí – dijo con decisión – es mi tío. No quiere que la vea, señora. Mientras yo, señora… – y con voz temblorosa – mientras yo…

– Mira, – dijo de improviso la señora Klepper con voz alegre, señalando con la sombrilla hacia la colina – ¡Tu tío!

– ¿Eh?… ¿mi tío? ¡Justo él! Entonces es mejor que no nos vea juntos, señora. Pensará mal de nosotros, de usted. Disculpe. ¡Hasta la vista!

Y se levantó tendiéndole la mano a matame, quien continuaba mirando la colina con los impertinentes sin prestarle atención, y luego se alejó muy rojo, con los ojos llenos de lágrimas y las piernas temblándole, con un mundo de pensamientos que lo torturaban; llamándose estúpido, imbécil, lamentando que la señora había considerado mal su huida; y aun llamándo-se imbécil, corría siempre por ese maldito miedo a que lo viera su tío.

Pero el tío, que montaba su hermoso alazán, giró tras la colina y se detuvo ante la señora Klepper, mientras el caballo piafaba mucho; bajó y sonriendo le estrechó la mano enguantada que ella le tendió, intercambiando algunas palabras.

Y el pequeño Bobò, tirado en un banco del chalé, esperaba ver que volviera a pasar matame, con el corazón negro por la infelicidad.

Gli ospiti

Lucia aveva appuntato l‘ago e guardava fuori, tutta presa dal lungo stridere delle rondini che passavano a stormi neri e veloci sul cielo turchino. All‘infuori del cielo e delle case che, coi loro tetti rossicci e muscosi, pareva si prolungassero fino alle montagne bigie, non si vedeva altro.

Pure in quell’aria tepida d’aprile che faceva battere più rapido il cuore mentre il corpo era dolcemente spossato da un’insolita mollezza, Lucia sognava i prati verdi e sconfinati, e pensava a un lungo stradone bianco, tra due file di platani, veduto una volta, tanto tempo addietro.

 

Venivan dalla stanza attigua i soliti piccoli rumori fastidiosi del frequente annusar di tabacco, d‘uno sfogliar di giornali, d’un tamburellar di dita sul tavolino, e corrugò un poco la fronte. Da quanti anni era così suo padre? Quasi non lo rammentava più sano e diritto.

Oppressa dal silenzio e dalla noia di quel sonnolento pomeriggio, avrebbe voluto almeno moversi un poco per la casa, ma non c‘era dove andare. Nella camera grande del malato, dove le finestre eran sempre chiuse e la madre lavorava assiduamente, non voleva andare; l‘altre stanze disabitate, e il salotto freddo e mezzo buio — co’ suoi quadri a olio, cupi e paurosi, le campane di vetro sui fiori di carta e i mori di velluto bruno dagli smisurati occhi bianchi — non la invitavano. Restava la cucina; spesso vi entrava con la scusa di sorvegliare — perché li si stava bene e le grandi finestre davan sui campi. Ma se Turiddo, Lisa e Nena eran riuniti a ciarlare, facendo chiasso, al suo comparire tacevano improvvisamente, dandosi gran da fare, strofinando i rami, o spazzando di furia, ancora tutti rossi e animati. E questo le dispiaceva perché sentiva più forte come tutto al suo avvicinarsi diventasse freddo e grave. Il suo viso pallido, un po’ lentigginoso, dai grandi occhi castani, appariva sempre triste; e triste era il vestito a bruno che portava già da tre anni per la morte di uno zio. Quel bruno non sarebbe riuscita a toglierlo mai, perché fra tanti vecchi parenti, vicini e lontani, le toccava di rinnovarlo per una nuova morte quando non aveva finito di portarlo per una recente.

 

Quel giorno non aveva voluto entrare neanche in cucina perché passandovi davanti aveva udito così liete e schiette risate che le era parso peccato interromperle. Ma aspettava più che mai impaziente che qualche cosa di nuovo accadesse; che almeno qualcuno picchiasse alla loro porta, magari Nina la filatrice che sapeva tante strane e paurose storie di spiriti: una creatura qualunque, per sentirla parlare. Perché le faceva troppo pena che le giornate finissero tutte così uguali, così silenziose. E a mano a mano che i tetti rosseggiavano per il vicino crepuscolo, vedeva avvicinarsi la sera, la sera come tutte le altre. Allora avrebbe posato il ricamo, e poi avrebbe aiutata la madre a spingere il malato, nella sua poltrona a rotelle, nella stanza da pranzo dove Lisa accendeva il lume, quel lume che ogni sera filava un poco.

Poi picchiava zio Nicolino che veniva a far la partita col fratello. Zio Nicolino grande e grigio, che parlava poco, ma quel poco diceva come sentenze; e quando finiva di giocare, aspettando che venisse il servo a riprenderlo, taceva con le mani sulle ginocchia avvolgendo un pollice sull’altro per una mossa abituale che riempiva i suoi lunghi silenzi. Lei e la madre lavoravano una coperta bianca interminabile.

 Lucia non riprendeva ancora l’ago, ammaliata dalla gran luce rossastra e arancione che avvampava i tetti muscosi, allor che nella cameretta, già mezzo buia, entrò la madre:

— Oh, Lucietta — disse, — Bitto ha portato una lettera di tua zia.

— Zia Fifina?

— Proprio. Arriva domani a mezzogiorno.

— Domani a mezzogiorno! — esclamò forte Lucia arrossendo di piacere.

— Piano. Non gliel’ho ancora detto. Ma non aver paura. Glielo dico stasera quando c’è Nicolino, che ha piacere di veder la sorella.

E passarono a prendere il malato. Lucia animata e intimorita, spinse la poltrona con maggior garbo del solito davanti la tavola da pranzo, mentre Lisa temperava la fiamma del lume che al solito filava un poco.

Don Mariannino era di malumore e cominciò a tamburellare con le grosse dita sul tappeto rosso e nero. Lucia riprese a lavorare spiando ora il viso della madre nel timore di scorgervi il suo stesso sgomento, ora quello del padre sperando si rasserenasse. Come entrò zio Nicolino donna Peppina disse:

— Oggi ha scritto Fifina.

Don Mariannino cominciò a mescolare le carte come se non avesse udito; ma il fratello guardò la cognata, in segno che voleva sapere.

— Credo che venga… con suo marito.

— Carte — disse don Mariannino accennando con la testa di aver capito.

Seguì un lungo silenzio.

— Scopa — avvertiva di tanto in tanto don Mariannino buttando una carta.

E Lucia sospirò di sollievo, perché quando vinceva c‘era da sperar bene.

— Debbono venire? — chiese il vecchio guardando accigliato la moglie, quand’ebbe finita la partita.

— Pare che sì. Io non ho letto bene.

— Da’ qui —. E lesse fra di sé lentamente la breve lettera che gli porse la moglie, mentre il fratello col largo mento sul petto aspettava avvolgendo un pollice sull’altro.

— Ha il proposito di levarmi la pace, costui — borbottò il malato passando la lettera al fratello — avremo la casa sossopra per una settimana buona!

Lucia con le mani umide per l‘ansia respirò di sollievo.

 

E l’indomani Lucia passò le ore dell’attesa preparando, tutta felice, la camera per gli zii, passando in punta di piedi accanto a quella del padre per non fargli sentire alcun fastidio dei preparativi.

Fu una gioia fare spazzare con le finestre spalancate la stanza piena di sole, e aiutare a spolverare e a sprimacciar le materasse; e tutto in fretta per paura di non finire a tempo, e ripetendo:

— Svelta, Lisa, se mi trovassero così! — E rideva anche lei, finalmente, mentre nel piacevole lavoro le guance le si colorivano e i capelli castani, così buttati all’indietro e disordinati, apparivan più morbidi e più lucidi.

     

In fine, con gran cura, apparecchiò il letto con l‘aiuto di Lisa ch’era giovane, svelta e cianciona.

— Oh, i bei lenzoli! — esclamava schioccando la lingua.

— Zitta, che mamma non lo sa.

— Già la signora non vuole usare che la roba ordinaria!

— È giusto, per tutti i giorni. Ma per zia Fifina! Pensa, Lisa, che bella signora!

— Oh, sì! Ma non è poi meno gentile voscenza.

— Che c’entra, Lisa?… Non c’è da far paragoni — corresse Lucia scotendo la testa.

— Eh, sì! Vorrei vedere se voscenza facesse la vita della signora sua zia! Vesti cioccone e pare barone. Lei sempre in moto, lei fino a Roma, ai bagni, in campagna, vestita dalle meglio sarte, come una forestiera!… Voscenza sempre chiusa fra quattro mura… Vorrei vedere, io! Ma quando ci sarà lo sposo… Eh! Uno sposetto bello, ricco e affezionato come il signore suo zio… Chi sa, allora, i bei lenzoli che verranno fuori…

— Se’ matta, Lisa! Che sciocchezze vai dicendo? Va’, ciarlona, mentre io metto le federe ai guanciali, va’ a prendere il tappeto della mia camera.

E scosse la testa pensando che mai, lei, avrebbe avuto lo sposo che le augurava Lisa. Chi si poteva scordare l’ira di don Mariannino quando zia Fifina sposò, e il rancore che portava anche adesso, dopo tanti anni, a zio Giovanni il forestiero?

     

Guardò la stanza e si compiacque a vederla tutta fresca e ordinata, e, appannate le imposte, corse a pettinare i suoi lunghi capelli e a vestirsi. E poi dovette aspettare molto tempo prima che Turiddo strillasse dal portone: — E venuta la signorinedda — e zia Fifina fosse in casa con le sue valigie e le tre cappelliere e il suo riso gentile che pareva un campanello.

Zia Fifina trovò la sua unica nipote un po’ sciupata; e insistè perché gliela lasciassero condurre a Palermo.

— Abbiamo, da tre anni, un villino alle Falde. Un paradiso. E tu ci verrai…

Lucia, stordita da tutto quel parlare, confusa e felice, non sapeva rispondere nulla fuor che ripetere: — C’è papà… non vorrà…

— C’è papà, c’è papà — esclamò una sera zia Fifina — come se ci fosse il Padreterno. Si rispetta il padre, e Dio sa se ho rispettato il mio. Ma le cose giuste… Vuoi stare anche tu su una poltrona a rotelle? Ora ci vado.

— Non ora, per carità. A quest’ora legge il giornale e non si può disturbare.

— Sta’ zitta, tu.

E col suo impeto corse dal fratello mentre Lucia, sbigottita, si raccomandava a tutti i santi. Li sentì bisticciare, sentì anche la voce di sua madre, e poi udì chiamarsi. Con le ginocchia tremanti, entrò anche lei, mentre zia Fifina le diceva all’orecchio:

— Non fare la marmotta, adesso.

Il malato chiese, guardandola con collera:

— Tu ci vuoi andare?

— Come vossìa vuole.

— Sciocca! — mormorò la zia. — Sbrigati. Di’ tu quel che vuoi fare

— A me… mi piacerebbe — rispose Lucia con la gola piena di lacrime, evitando quello sguardo severo — ma sempre se a vossìa non dispiace.

Il vecchio crollò la testa e non rispose nulla, annusando lentamente una presa di tabacco. Le tre donne aspettarono un pezzo una risposta.

— Allora — disse zia Fifina adirata — verrà con noi per una settimana. La ricondurremo noi stessi.

E uscì, lasciando il fratello a borbottare qualche cosa che non si capiva.

— Ma così — faceva Lucia nella saletta — senza permesso? No, no.

— Se aspetti il permesso!

— No, no, mi si guasterebbe il piacere.

— Intanto ti divertiresti!

— E la mamma? No, no. Tu non sai come s‘incollerisce quando si contraria.

 

E scappò in camera a piangere come una matta, disperatamente, come se tutto fosse finito per lei, perché tutto le era negato così, a poco a poco, continuamente.

Sul tardi, quand’era tanto abbattuta, col naso rosso e le palpebre gonfie, venne a trovarla la zia. Era triste anche la zia, quella sera:

— Mi pare — disse lentamente — di tornare indietro di sei anni. In questa casa la vecchiezza piglia avanti tempo, per contagio. Anch’io facevo questa vita d’agonia. Ma io avevo più coraggio di te. E poi, che Dio lo benedica, Giovannino m’ha cavato da’ guai. Ero una stupida come te, come l‘altre. Ma lui m’ha aperto gli occhi. Mi par di vivere solo da sei anni a questa parte. Vedrai — esclamò sorridendo — te lo manderò io uno sposetto come ci vuole!

Ma Lucia, che non poteva ancora parlare, faceva segno di no e di no con la testa, mentre lacrime più grosse delle prime scorrevano sulle guance arrossate.

— Non piangere. Se proprio vuoi un permesso vado a parlargli di nuovo. ..

— Non è questo — fece Lucia con un gesto vago, alzando le spalle.

— Ma dimmi, anima mia — pregava la zia fattasi di nuovo pensierosa — dimmi quel che soffri, quel che pensi! Confidati in me. Tante volte, quando si e ragazze come te, si soffrono pene fantastiche. Io lo so…

Ma per quanto parlasse e pregasse, Lucia non disse una parola, benché il cuore fosse oppresso e la zia ispirasse una certa fiducia; perché lei non s‘era mai confidata con alcuno, e i tristi e malinconici pensieri non li aveva confessati neanche alla mamma, parendole che nessuno avrebbe potuto capirli.

Partivano. Zia Fifina era andata a fare visita ai Barbagallo, e Lucia, aspettandola in camera, andava osservando ammirata a uno a uno i gingilli che ingombravano il tavolino da notte e la cantoniera, quando entrò lo zio.

— Resta pure — invitò cortesemente, vedendola confusa. — Guardavi le sue bazzecole! Vedi quanto denaro mi fa spendere quella cutrèttola…

E accarezzandosi i baffi, con la testa un po’ china, la fissava con i suoi occhi che quando osservavano pareva si ficcassero a guardare nell’anima.

— Hai fatto una sciocchezza a non volere interrompere questa noia — aggiunse poi.

— Non mi annoio, io — rispose dignitosamente Lucia come per difendersi dall’esame di quello sguardo.

— Davvero? Beh, non ne parliamo più. Oh, eccoti un piccolo ricordo della nostra visita, già che ti piaccion tanto queste sciocchezze — e scelto un piccolo portafiori azzurro gliel’offrì.

— Grazie — disse Lucia commossa di tanta cortesia a cui non era avvezza, vergognandosi della propria goffaggine. Poi improvvisamente volle andar via, ma non osò dirlo. Sentiva uno strano turbamento dentro di sé, le pareva di fare cosa scorretta a restare in camera, sola con lo zio, mentre strani, confusi e cattivi pensieri l’assalivano, facendola arrossire come se lo zio avesse potuto leggere nella sua anima agitata.

— Vado giù — disse risolutamente.

— Sento Fifina per le scale — rispose lo zio che andava chiudendo ogni oggetto nelle valigie — la saluterai meglio qui.

— Tornerete qualche altra volta? — chiese Lucia con sincerità.

— Chi sa. Tuo padre non si mostra molto lieto delle nostre visite.

— Ma noi?

— Ah, va bene. Per te verremo.

 

La voce dello zio era grave e Lucia sentì un gran tuffo al cuore perché nella sua insolita agitazione, quelle parole le parve volessero dire altre cose ancora che soltanto lei capiva. Si calmò quando vide finalmente entrare zia Fifina.

— Mi sono stancata, sapete — disse entrando — e poi c’è nebbia! Don Mommo ti saluta — aggiunse, e intrecciando le mani intorno al collo del marito e costringendolo a chinarsi lo baciò sulle guance come se non lo vedesse da un pezzo.

Lucia si sentì girare la testa, mentre gli occhi le si velavano. Sentiva un fastidio insopportabile, e quel fastidio glielo dava zia Fifina. Finalmente discese, tanto più che gli zii avevan cominciato a parlare animatamente, sotto voce, come se fossero soli.

Collocò il piccolo portafiori sul marmo deserto del suo cassettone; e quel gingillo che in camera di zia Fifina pareva tanto grazioso, su quel mobile apparve sperduto, fuor di posto, come un bottone dorato su una mantellina.

Quando udì lo scalpitio della carrozza uscì nella saletta. Una gran nebbia abbuiava ogni cosa; Turiddo portava le valigie. Gli zii andarono a salutare i due fratelli, che erano già riuniti; zia Fifina baciò commossa la cognata e Lucia che non piangeva. Zio Giovanni le strinse la mano quasi in fretta, dando gli ordini a Turiddo. Erano un po’ commossi ma lieti della partenza. Finalmente discesero e si udì allontanarsi rumorosamente la carrozza sul lastricato ineguale.

Lucia volle andare ancora nella camera degli zii, per ritrovarvi ancora quel non so che di caldo e di allegro che mancava a tutto il resto della casa, e che presto sarebbe mancato anche lì; e le parve, nel crepuscolo grigio e annebbiato, che velava ogni oggetto, di riudire ancora il suono di un piccolo bacio.

La chiamavano. Entrò, un po’ pallida e distratta, nella sala da pranzo dove i fratelli avevano già cominciato la solita partita, e la madre era di già seduta a lavorare la coperta bianca, come ogni sera, come sempre, come se la venuta degli zii fosse stata sognata in una tepida notte di primavera.

Los huéspedes

Lucia había apuntado la aguja y miraba afuera, completamente absorta en el largo gorjeo de las golondrinas que pasaban en bandadas negras y veloces por el cielo azul. Aparte del cielo y de las casas que, con sus techos rojizos y musgosos, parecían prolongarse hasta las montañas cenicientas, no se veía nada más.

Pero en ese aire tibio de abril que le hacía que le latiera más rápido el corazón mientras el cuerpo estaba dulcemente extenuado por una insólita blandura, Lucia soñaba con los prados verdes e infinitos, y pensaba en un largo camino blanco, entre dos hileras de plátanos, que había visto una vez, tanto tiempo atrás.

Llegaban de la habitación contigua los habituales pequeños rumores fastidiosos de la frecuente aspiración de tabaco, de un hojear de periódicos, de un tamborilear de los dedos sobre la mesita, y frunció un poco la frente. ¿Desde hacía cuántos años estaba así su padre? Casi no lo recordaba ya sano y derecho.

Oprimida por el silencio y por el aburrimiento de esa somnolienta tarde, habría querido al menos moverse un poco por la casa, pero no tenía adonde ir. A la habitación grande del enfermo, donde las ventanas estaban siempre cerradas y la madre trabajaba asiduamente, no quería ir; las otras habitaciones deshabitadas y el salón frío y medio oscuro – con sus cuadros al óleo, tristes y espantosos, las campanas de cristal sobre las flores de papel y los moros de terciopelo pardo con desmesurados ojos blancos – no la invitaban. Quedaba la cocina; a menudo entraba con la excusa de vigilar – porque allí se estaba bien y las ventanas daban al campo. Pero si Turiddo, Lisa y Nena estaban reunidos charlando, armando jaleo, ante su aparición callaban de improviso, poniéndose a trabajar, restregando los cobres, o barriendo con furia, aún todos rojos y animados. Y esto le disgustaba, porque sentía más fuerte que todo a su alrededor se volvía frío y grave cuando ella se acercaba. Su cara pálida, un poco pecosa, con grandes ojos marrones, parecía siempre triste; y triste era el vestido pardo que llevaba desde hacía ya tres años por la muerte de un tío. Ese color pardo no lograría quitárselo ya, porque entre tantos viejos parientes, cercanos y lejanos, le tocaba renovarlo debido a una nueva muerte cuando había acabado de llevarlo por otra reciente.

Ese día no había querido entrar ni siquiera en la cocina porque, al pasar por delante había oído tan alegres y puras risas, que le había parecido una lástima interrumpirlas. Pero esperaba más impaciente que nunca que algo nuevo ocurriera; que al menos alguien llamase a la puerta, quizás Nina, la tejedora, que sabía tantas extrañas y espantosas historias de espíritus: una criatura cualquiera, para oírla hablar. Porque le daba mucha pena que los días acabaran todos iguales, tan silenciosos. Y conforme los tejados se enrojecían con el cercano crepúsculo, veía que se acercaba la noche, una noche como todas las otras. Entonces dejaría el bordado, y luego ayudaría a la madre a empujar al enfermo, en su silla de ruedas, hasta el comedor, donde Lisa encendía la luz, esa luz que cada noche se reducía un poco.

Luego llamaba el tío Nicolino que venía a jugar una partida con el hermano.  El tío Nicolino, grande y gris, que hablaba poco, pero ese poco lo pronunciaba como sentencias; y cuando acababa de jugar, esperando que llegase el criado a recogerlo, callaba con las manos en las rodillas girando un pulgar sobre el otro, en un movimiento habitual que llenaba sus largos silencios. Ella y la madre trabajaban en una colcha blanca interminable.

Lucía no había retomado aún la aguja, cautivada por la gran luz rojiza y naranja que incendiaba los tejados musgosos, cuando en el cuartito, ya medio oscuro, entró la madre:

–  Oh, Lucietta – dijo, – Bitto ha traído una carta de tu tía.

– ¿De la tía Fifina?

– Justo. Llega mañana a mediodía.

– ¡Mañana a mediodía! – exclamó fuerte Lucia ruborizándose de placer.

– Bajito. No se lo he dicho aún. No tengas miedo. Se lo diré esta tarde cuando esté Nicolino, a quien le da alegría ver a la hermana.

Y pasaron a coger al enfermo. Lucia, animada y temerosa, empujó el sillón con mayor garbo de lo habitual ante la mesa del almuerzo, mientras Lisa moderaba la llama de la luz que, como siempre, se reducía un poco.

Don Mariannino estaba de malhumor y comenzó a tamborilear con los grandes dedos sobre el mantel rojo y negro. Lucia volvió a trabajar espiando ya la cara de su madre con el temor de descubrir en él su misma pesadumbre, ya la del padre esperando que se tranquilizara. Apenas entró el tío Nicolino, doña Peppina dijo:

– Hoy ha escrito Fifina.

Don Mariannino comenzó a barajar las cartas como si no hubiera oído; pero el hermano miró a la cuñada, indicando que quería saber.

– Creo que viene… con su marido.

– Cartas – dijo don Mariannino indicando con la cabeza que había entendido.

Siguió un largo silencio.

– Baraja – advertía de vez en cuando don Mariannino echando una carta.

Y Lucia suspiró de alivio, porque cuando ganaba se podía esperar algo bueno.

– ¿Tienen que venir? – preguntó el viejo mirando ceñudo a la mujer, cuando hubo terminado la partida.

– Parece que sí. No he leído bien.

– Dame – . Y leyó para sí lentamente la breve carta que le acercó la mujer, mientras el hermano con el ancho mentón sobre el pecho esperaba girando un pulgar sobre el otro.

–  Esta tiene la intención de quitarme la paz – masculló el enfermo pasándole la carta al hermano – ¡tendremos la casa patas arriba durante una buena semana!

Lucia, con las manos húmedas por el nerviosismo, respiró con alivio.

Y al día siguiente pasó las horas de espera preparando, muy feliz, la habitación para los tíos, pasando de puntillas junto a la del padre para no hacerle sentir ningún fastidio con los preparativos.

Fue una alegría barrer con las ventanas abiertas la habitación llena de sol, y ayudar a desempolvar y a mullir los colchones; y todo de prisa por miedo a no terminar a tiempo, y repitiendo:

– ¡Rápida, Lisa, si me encontraran así! – Y se reía también ella, finalmente, mientras con el agradable trabajo las mejillas se le coloreaban y los cabellos castaños, así echados para atrás y desordenados, parecían más suaves y más brillantes:

Al final, con gran cuidado, preparó la cama con la ayuda de Lisa, que era joven, rápida y chismosa.

– ¡Oh, qué bonitas sábanas! – exclamaba chasqueando la lengua.

– Calla, que mamá no lo sabe.

– ¡Es que la señora solo quiere usar las cosas de diario!

– Es justo, para todos los días. ¡Pero para la tía Fifina! Piensa, Lisa, ¡qué hermosa señora!

– ¡Oh, sí! Pero no es menos gentil vuecencia.

– ¿Qué tiene que ver, Lisa?… No hay comparación – corrigió Lucia sacudiendo la cabeza.

– ¡Pues sí! ¡Ya quisiera verla si llevara la vida de su tía! “Viste elegante, que pareces noble”. Ella siempre en movimiento, ella va a Roma, a los baños, al campo, vestida por las mejores costureras, ¡como una extranjera!… Vuecencia, siempre encerrada entre cuatro paredes… ¡Ya quisiera verlo yo! Pero cuando tenga esposo… ¡Eh! Un maridito guapo, rico y cariñoso como su señor tío… Quién sabe, entonces, las lindas sábanas se sacarán…

– ¡Estás loca, Lisa! ¡Qué tonterías estás diciendo! Vete, charlatana, mientras yo les pongo las fundas a las almohadas, ve a coger la alfombra de mi habitación.

Y sacudió la cabeza pensando que ella nunca tendría el marido que le auguraba Lisa. ¿Quién podía olvidar la ira de don Mariannino cuando la tía Fifina se casó, y el rencor que sentía desde entonces, después de tantos años, por el tío Giovanni, el forastero?

Miró la habitación y se complació viéndola toda fresca y arreglada, y, velados los postigos, corrió a peinarse los largos cabellos y a vestirse. Y luego tuvo que esperar mucho tiempo antes de que Turiddo gritara desde el portón: – Ha llegado la señorita –, y la tía Fifina estuviera en casa con sus maletas y las tres sombrereras y su risa gentil que parecía una campanilla.

La tía Fifina encontró a su única sobrina un poco macilenta; e insistió para que dejaran que se la llevase a Palermo.

– Tenemos desde hace tres años un pequeño chalé en las Falde. Un paraíso. Y tú vendrás…

Lucia, aturdida por todas esas palabras, confusa y feliz, no lograba responder nada excepto repetir: – Está papá… no querrá…

– Está papá, está papá – exclamó una tarde la tía Fifina – como si estuviese el Padre eterno. Se respeta al padre, y Dios sabe si he respetado al mío. Pero lo justo… ¿Quieres estar también tú en una silla de ruedas? Ahora voy.

– Ahora, no, por favor. A esta hora lee el periódico, y no podemos molestarlo.

– Tú, a callar.

Y con su ímpetu corrió hasta el hermano, mientras Lucia, aturdida, se encomendaba a todos los santos. Los oyó pelear, oyó hasta la voz de su madre, y luego oyó que la llamaban. Con las rodillas temblándole, entró también ella, mientras la tía Fifina le decía al oído:

– No te encojas, ahora.

El enfermo le preguntó mirándola con cólera:

– ¿Tú quieres ir?

– Como usía quiera.

– ¡Tonta! – murmuró la tía. – Apresúrate. Di lo que tú quieres hacer.

– A mí… me gustaría – respondió Lucia con la garganta llena de lágrimas, evitando esa mirada severa –, pero siempre si a usía no le disgusta.

El viejo hundió la cabeza y no respondió nada, aspirando lentamente una toma de tabaco. Las tres mujeres esperaron un rato la respuesta.

– Entonces – dijo la tía Fifina airada –, se vendrá con nosotros una semana. La traeremos de vuelta nosotros mismos.

Y salió, dejando al hermano murmurando algo que no se entendía.

– Pero así – decía Lucia en la sala – ¿sin permiso? No, no.

– ¡Si esperas el permiso!

– No, no, me arruinaría el placer.

– ¡Y entretanto te divertirás!

– ¿Y mamá? No, no. Tú no sabes cómo se encoleriza cuando se le contraría.

Y huyó al dormitorio a llorar como una loca, desesperadamente, como si todo hubiera acabado para ella, porque todo se le negaba así, poco a poco, continuamente.

Al atardecer, cuando estaba tan abatida, con la nariz roja y los párpados hinchados, vino a buscarla la tía. Estaba triste también la tía esa tarde.

– Me parece – dijo lentamente – que vuelvo atrás seis años. En esta casa la vejez nos pilla antes de tiempo, por contagio. También yo llevaba esta vida de agonía. Pero yo tenía más valentía que tú. Y luego, que Dios lo bendiga, Giovannino me ha sacado de los problemas. Era una estúpida como tú, como las otras. Pero él me ha abierto los ojos. Me parece que estoy viviendo solo desde hace seis años. Verás – exclamó sonriendo – ¡te mandaré yo un maridito como es necesario!

Pero Lucia, que no podía hablar aún, indicaba que no y que no con la cabeza, mientras lágrimas más gruesas que las primeras corrían por sus mejillas enrojecidas.

– No llores. Si justo quieres un permiso voy a hablarle de nuevo…

– No es esto – dijo Lucia con un gesto vago, levantando los hombros.

– Pero, dime, alma mía – le rogaba la tía de nuevo pensativa – ¡dime por qué sufres, qué piensas! Confía en mí. Muchas veces, cuando se es una muchacha como tú, se sufren penas fantásticas. Yo lo sé…

Pero por mucho que hablara y rogara, Lucia no dijo ni una palabra, aunque el corazón lo tuviera oprimido y la tía le inspirara una cierta confianza; porque ella no se había confiado nunca con nadie, y los tristes y melancólicos pensamientos no se los había confesado ni siquiera a su madre, pareciéndole que nadie podría comprenderlos.

Se marchaban. La tía Fifina había ido a visitar a los Barbagallo, y Lucia, esperando en el dormitorio, iba observando, admirada, una a una las baratijas que se amontonaban en la mesita de noche y en la rinconera, cuando entró el tío.

– Quédate – la invitó cortésmente, viéndola confusa. – ¡Mirabas sus fruslerías! Mira cuánto dinero me hace gastar esta pispa…

Y acariciándose los bigotes, con la cabeza un poco inclinada, la miraba con sus ojos que, cuando observaban, parecía que se clavaban mirando el alma.

– Has hecho una tontería al no querer interrumpir este aburrimiento -añadió después.

– Yo no me aburro – respondió dignamente Lucia, como para defenderse del examen de esa mirada.

– ¿De verdad? Bien, no hablemos más de ello. Oh, toma un pequeño recuerdo de nuestra visita, ya que te gustan tanto estas tonterías – y tras elegir un florero azul, se lo ofreció.

– Gracias – dijo Lucia conmovida por tanta cortesía a la que no estaba habituada, avergonzándose de su propia torpeza. Luego, de improviso, quiso marcharse, pero no se atrevió a decirlo. Sentía una extraña turbación dentro de sí, le parecía que hacía algo incorrecto quedándose en el dormitorio, sola con el tío, mientras extraños, confusos y malos pensamientos la asaltaban, haciéndole ruborizarse como si el tío hubiera podido leer su alma agitada.

– Me voy – dijo con decisión.

– Oigo a Fifina en las escaleras – respondió el tío que estaba guardando los objetos en las maletas – la saludaremos mejor aquí.

– ¿Volveréis otra vez? – preguntó Lucia con sinceridad.

– Quién sabe. Tu padre no se muestra muy alegre con nuestras visitas.

– Pero ¿y nosotros?

– Ah, está bien. Por ti vendremos.

La voz del tío era grave, y Lucia sintió un gran vuelco en el corazón porque en su insólita agitación, esas palabras le parecieron que querían decir otras cosas que solo ella entendía. Se tranquilizó cuando vio finalmente entrar a la tía Fifina.

– Me he cansado, sabéis – dijo entrando – ¡y además hay niebla! Don Mommo te saluda – añadió, y entrelazando las manos alrededor del cuello del marido y obligándolo a inclinarse, lo besó en las mejillas como si no lo viera desde hacía tiempo.

Lucia sintió que le giraba la cabeza, mientras los ojos se le nublaban. Sentía un fastidio insoportable, y ese fastidio se lo daba la tía Fifina. Finalmente bajó, tanto más que los tíos habían comenzado a hablar animadamente, en voz baja, como si estuvieran solos.

Colocó el pequeño florero sobre el mármol desierto de su cómoda; y esa fruslería que en el dormitorio de la tía Fifina parecía tan gracioso, sobre ese mueble parecía perdido, fuera de lugar, como un botón dorado sobre una mantilla.

Cuando oyó el piafar de la carroza salió al saloncito. Una gran niebla lo oscurecía todo; Turiddo llevaba las maletas. Los tíos fueron a saludar a los dos hermanos, que estaban ya reunidos; la tía Fifina besó conmovida a la cuñada y a Lucia, que no lloraba. El tío Giovanni le estrechó la mano casi de prisa, dándole las órdenes a Turiddo. Estaban un poco conmovidos, pero alegres por la partida. Finalmente, bajaron y se oyó cómo se alejaba ruidosamente la carroza sobre el empedrado irregular.

Lucia quiso ir de nuevo al dormitorio de los tíos, para reencontrarse otra vez con no sé qué calidez y alegría que faltaba en todo el resto de la casa, y que pronto faltaría también allí; y le pareció, en el crepúsculo gris y nublado, que velaba todos los objetos, que volvía a oír de nuevo el sonido de un pequeño beso.

La llamaban. Entró, un poco pálida y distraída, en el comedor donde los hermanos ya habían empezado la habitual partida, y la madre estaba ya sentada trabajando en la colcha blanca, como cada tarde, como siempre, como si la llegada de los tíos hubiese sido un sueño de una tibia noche de primavera.

Ti-nesciu

L’avvocato Scialabba, ai suoi tempi, era stato il meglio del paese, tanto che lo chiamavan «l’avvocato» senz’altro. Ma da che la moglie era morta e Nina Bellocchio — dopo avergli mangiato persino la vigna — l’aveva piantato come un cane, anche la buona fortuna aveva cominciato ad abbandonarlo. Sosteneva, quando sì e quando no, qualche piccola causa, e quando doveva sostenerne una si sentiva rinfrancare e si preparava gran parlate ampollose; ma come giungeva in tribunale, fra i colleghi giovani che lo punzecchiavano e i giudici che aggrottavan le ciglia per non ridere, allora perdeva il filo delle idee — filo troppo debole per idee troppo gravi — e avviava discorsi sconclusionati, affastellando vecchie frasi cento volte ripetute, mentre l’avvocato Millone gli faceva la caricatura sulla copertina del Codice. Pure si presentava assiduamente in tribunale, tutto lindo, col solino sfilacciato ma candido e le magre gote sbarbate: era un’abitudine che non sapeva lasciare, come quell’altra di parlar sempre italiano anche con la figlia e con i contadini.

D’inverno, e per lui l’inverno cominciava in ottobre, portava un pastrano verdognolo, e come gli pareva che tornasse l’estate rimetteva i suoi famosi calzoni color ferrigno, lunghissimi e stretti, che gli stavano attillati sul collo del piede, e la giacchetta nera ripulita ogni stagione a forza di benzina. A fargli rassegnatamente compagnia, nella sua trista e misera vecchiaia, era rimasta la figlia; ed egli per darle almeno uno svago, la conduceva ogni sera lungo il corso; salivano sino allo châlet, e seduti su una panchina, al vento o all’umido o al chiaro di luna, vi rimanevano un pezzo, muti, immobili e tristi, fin che lo châlet rimaneva deserto.

 

Liboria, poi che vestiva assai modestamente, preferiva uscir di sera nella luce incerta dei lampioni; pure le signorine più ricche del paese trovavan modo di ridere osservando la piuma nera dei suoi cappelli che restava fedelmente, ora dritta, ora piegata a destra, ora piegata a sinistra, d’estate e d‘inverno o per un nastro che ora diventava un fiocco e ora si mutava in cintura. Ma Liboria, che passeggiava impassibile con la sua piuma e il suo fiocco, abbassava gli occhi e impallidiva sol quando vedeva passarsi accanto le signorine Saitta o la baronessa Caramagna le quali, allor che uscivano col cappello, pareva riempissero tutta la strada.

Passeggiava animata ogni sera dalla stessa muta e timida speranza di trovare… Buon Dio! non sapeva dir neanche a se stessa che cosa e chi voleva trovare; a fermarvi il pensiero sentiva turbarsi tutta e chiamava la sua «fortuna», il suo «avvenire», quel che aspettava così vagamente. Chi sa che uno del paese, anche un forestiero, a vederla sempre così tranquilla, così modesta, non pensasse ad accasarsi? Non era cosa facile, lo sapeva bene, ché di questi tempi non c’è nessuno che sposi con niente, ma — insinuava arrossendo alla gna’ Filippa e alla gna’ ‘Ntonia che, nei lunghi pomeriggi, salivan su con una scusa e poi entravano e poi accostavan l’uscio e avviavano quello stesso discorso che non aveva fine — ma, diceva, bisognerebbe che si persuadessero che una la quale sappia bene governar la casa, e sia economa e pulita, ha la dote nelle mani; che farsene di certe farfalline che posseggono anche venti anche trentamila lire e ne buttan cinquanta dalla finestra? E accennava timidamente ai propri casi, senza mai lamentarsi del padre, mentre le sue donne elogiandola con gran gesti finivano col riempirla di buone speranze. Se non ci fossero state loro! La gna’ Filippa aveva sempre qualche buon partito sott’occhio; e Liboria si privava a desinare del suo bicchier di vino e faceva più scarso il suo pasto per offrire qualche cosa alle donne.

Ma col tempo, piano piano, i partiti immaginari della gna’ Filippa cominciarono a svanire; la piuma del cappello scoloriva sempre più, e i guadagni dell’avvocato diventavan sempre più incerti. Ma padre e figlia seguitavano a uscire la sera, dopo l’Ave Maria, sempre più tristi; e Liboria seduta sulla panchina dello châlet deserto sentiva un gran peso al cuore come di pianto che non vuol sfogare; e nel buio le chiome larghe e cupe degli alberi che stormivan leggermente in alto, pareva mormorassero tristi cose. E, scendendo tardi pel corso male illuminato, essa sentiva più forte la vergogna delle sue passeggiate. L’amarezza di tanti anni, di tutta la sua gioventù, diventò acredine, e rincasando cominciò a sfogarsi anche col padre:

— Capisce che io sono una disgraziata? Che non mi resta che andare a buttarmi in mare?!

— Che posso farti? — mormorava il vecchio con la sua voce tremante — io ti nesciu, ti nesciu ogni sera! È colpa mia?

E sospirava, scordandosi di parlare italiano. Lo sentirono una sera e in paese lo chiamarono Ti-nesciu.

Non andò più assiduamente al tribunale; cominciavano a ridergli sul viso. Sosteneva qualche rara causa, con poche parole dette lentamente con voce tremante, fissando ansiosamente i giudici e i colleghi giovani con i suoi occhietti chiari un po’ velati dalle palpebre gonfie. Ne ricavava poche lire che portava umilmente alla figlia, togliendo prima qualche moneta che andava a giocare al lotto. Una sua speranza fissa e lontana.

E non ebbero più ogni giorno a desinare una minestra calda; Ti-nesciu, la mattina per tempo, entrava timidamente nella bottega di donna Mariannina per comprare una pagnottella da due soldi, spiegando con la voce tremante, come se volesse scusarsi:

— Sà… noi… mangiamo poco… Io e mia figlia soltanto. Donne in casa non ne teniamo più. Siamo a pena due… persone!

E ripeteva le stesse vaghe parole, cansando le serve che s’affollavano al banco, e mettendo delicatamente la pagnotta nella tasca del pastrano che ora portava anche d‘estate, un po’ per il gran freddo che sentiva, un po’ per nascondere il vestito.

Una mattina la fornaia avvolse due pagnotte invece d’una, senza dir niente. L‘avvocato non aveva che due soldi in tasca e arrossì:

— Ne ho chiesto una soltanto. Sà… noi mangiamo poco… Avanzerebbe…

— Perdoni la libertà, signor avvocato. Lo porti alla signorina. È fresco… e ancora caldo. Guardi!

Arrossì ancora l’avvocato; diventò paonazzo, ma abbassò gli occhi e ringraziò, avviandosi traballando penosamente sulle magre gambe, come se gli avessero dato uno schiaffo.

Liboria cominciò a cavar la biancheria che le aveva lasciata la madre e che doveva essere la sua dote; la gna’ Filippa usciva con le fini camicie e i bei lenzoli sotto la mantellina, e tornava con poche monete che consegnava con grossi sospiri:

— Non potrebbe crederlo, la signorina, quanto ho girato! Allor che si tratta di comprare disprezzan tutto!

— Mi raccomando, gna’ Filippa! non fate il mio nome! Sarebbe cosa da morire!

Un giorno, dalla vendita dell’ultimo paio di lenzoli ricamati, si fece una veste rossa. Stava male uscir vestita sempre a un modo; pareva più vecchia, più goffa e più misera, e bisognava pure che la vedessero. E col vestito nuovo, col cappellone nero piumato, uscì anche di giorno a braccetto del padre sempre più curvo e più piccolo nel vecchio pastrano verdognolo. E camminava, cercando di mantenere dritte le spalle che s’incurvavano involontariamente, coi grandi occhi inquieti nel viso pallido e affloscito, e la bocca che voleva atteggiarsi a espressione di sorriso, mentre nella sua mente si agitavano i più strani e melanconici pensieri. Ma a casa, fin dalle scale, si lasciava andare, il suo viso riprendeva la solita amara espressione, e sfogava col padre con la voce piena di lagrime.

— È colpa mia? — rispondeva lui. — Io ti- nesciu!

E si vedevan sempre per la via; e dietro tutte le processioni, alla coda, tra il nero ondeggiamento delle mantelline e degli scapolari, risaltava il vestito rosso della figlia dell’avvocato che pareva, come diceva don Pepè, un cannello di ceralacca. E la sera immancabilmente si rivedevan seduti immobili e muti, su una panchina dello châlet mezzo deserto, dove gli alberi, che stormivan leggermente, pareva mormorassero tristi cose.

Ti-nesciu [10]

El abogado Scialabba, en sus tiempos, había sido el mejor del pueblo, tanto que lo llamaban “el abogado” sin más. Pero desde que la mujer había muerto, y Nina Bellocchio – tras haberse comido incluso su viña – lo había plantado como a un perro, incluso su buena suerte había comenzado a abandonarlo. Sostenía, de cuando en cuando, alguna pequeña causa, y cuando debía sostener una sentía que se tranquilizaba y se preparaba grandes peroratas ampulosas; pero apenas llegaba al tribunal, entre los colegas jóvenes que lo picaban y los jueces que fruncían el ceño para no reír, entonces perdía el hilo de las ideas – un hilo demasiado débil para ideas demasiado graves – y comenzaba discursos deshilvanados, amontonando frases cien veces repetidas, mientras el abogado Millone le hacía una caricatura sobre la portada del Código. Sin embargo, se presentaba asiduamente en el tribunal, completamente arreglado, con el cuello deshilachado pero limpio, y las delgadas mejillas afeitadas: era una costumbre que no conseguía dejar, como la de hablar siempre en italiano, hasta con la hija y con los campesinos.

En invierno, y para él el invierno comenzaba en octubre, llevaba un gabán verdusco, y apenas le parecía que volvía el verano, se ponía de nuevo sus famosos pantalones de color gris hierro, larguísimos y estrechos, que le estaban ajustados en el empeine, y la chaqueta negra limpiada cada estación a fuerza de gasolina. Para hacerle resignadamente compañía, en su triste y mísera vejez, se había quedado la hija; y él, para darle al menos una distracción, la llevaba cada tarde a lo largo del paseo; subían hasta la pérgola, y sentados en un banco, con el viento o la humedad, o al claro de luna, se quedaban un rato, mudos, inmóviles y tristes, hasta que la pérgola se quedaba desierta.

Liboria, dado que vestía con bastante modestia, prefería salir por la tarde, a la luz incierta de las farolas; aun así las señoritas más ricas del pueblo encontraban modo de reírse observando la pluma negra de sus cabellos que permanecía fielmente ya erguida, ya doblada a la derecha, ya doblada a la izquierda, en verano y en invierno, o por una cinta que ya se convertía en un lazo o ya se transformaba en un cinturón. Pero Liboria, que paseaba impasible con su pluma y su lazo, bajaba los ojos y palidecía solo cuando veía que pasaban a su lado las señoritas Saitta o la baronesa Caramagna, las cuales, cuando salían con sombrero, parecía que llenaban toda la calle.

Paseaba animada cada tarde con la misma muda y tímida esperanza de encontrar… ¡Buen Dios!, no sabía decirse ni siquiera a sí misma qué y a quién quería encontrar; deteniendo en ello su pensamiento, sentía que se turbaba toda y llamaba a su fortuna, a su porvenir, a lo que esperaba tan vagamente. ¿Tal vez uno en el pueblo, incluso un forastero, al verla siempre tan tranquila, tan modesta, no pensara casarse con ella? No era nada fácil, bien lo sabía, que en estos tiempos no hay nadie que se case con nada, pero – les insinuaba ruborizándose a la señora Filippa y a la señora ´Ntonia que, en las largas tardes, subían con una excusa y, bien entrando, bien apoyándose en la puerta, comenzaban ese mismo discurso que no tenía fin – pero, decía, sería preciso que se persuadieran de que una que sabe gobernar bien la casa y es ahorradora y limpia lleva la dote en las manos; ¿para qué sirven ciertas maripositas que poseen veinte e incluso treinta mil liras y tiran cincuenta por la ventana? Y señalaba tímidamente su caso, sin lamentarse nunca del padre, mientras las dos mujeres, elogiándola con grandes fiestas, terminaban llenándola de buenas esperanzas. ¡Si no estuvieran ellas! La señora Filippa siempre tenía un buen partido ante los ojos; y Liboria se privaba en su almuerzo de su vaso de vino y hacía más escasa su comida para ofrecerles algo a las mujeres.

Pero con el tiempo, lentamente, los partidos imaginados por la señora Filippa comenzaron a desvanecerse; la pluma del sombrero se desteñía cada vez más, y las ganancias del abogado se volvían cada vez más inciertas. Pero padre e hija seguían saliendo por la tarde, después del Ave María, cada vez más tristes; y Liboria, sentada en el banco de la pérgola desierta, sentía un gran peso en el corazón como de llanto que no quiere desahogarse; y en la oscuridad, las copas anchas y oscuras de los árboles que susurraban ligeramente en lo alto, parecía que murmuraban cosas tristes. Y bajando tarde por la avenida mal iluminada, sentía más fuerte la vergüenza de sus paseos. La amargura de tantos años, de toda su juventud, se convirtió en acritud, y al regresar a casa comenzó a desahogarse también con el padre:

– ¿No comprendes que soy una desgraciada? ¿Que no me queda más que tirarme al mar?

– ¿Qué puedo hacer? – murmuraba el viejo con su voz temblorosa – ¡yo ti nesciu, ti nesciu cada tarde! ¿Es mi culpa?

Y suspiraba, olvidándose de hablar en italiano. Lo oyeron una tarde, y en el pueblo lo llamaron Ti-nesciu.

No fue más al tribunal con asiduidad; comenzaron a reírse en su cara. Sostenía alguna rara causa, con pocas palabras dichas lentamente con voz temblorosa, mirando ansiosamente a los jueces y a los colegas con sus ojillos claros, un poco velados por los párpados hinchados. Obtenía unas pocas liras que le llevaba humildemente a la hija, cogiendo antes alguna moneda que iba a jugársela a la lotería. Una esperanza suya fija y lejana.

Y no tuvieron ya cada día una sopa caliente que almorzar; Ti-nesciu, bien temprano por la mañana, entraba tímidamente en la tienda de doña Mariannina para comprar una hogaza de dos monedas, explicando con voz temblorosa como si quisiera excusarse:

– ¿Sabe?… nosotros… comemos poco… Mi hija y yo solo. Mujeres en casa no tenemos ya. ¡Apenas somos dos… personas!

Y repetía las mismas vagas palabras, cansando a las criadas que se amontonaban en el mostrador, y poniendo delicadamente la hogaza en el bolsillo del gabán que ahora llevaba también en verano, un poco porque sentía mucho frío, un poco para esconder el traje.

Una mañana la panadera le envolvió dos hogazas en vez de una, sin decir nada. El abogado solo tenía dos monedas en el bolsillo y se ruborizó:

– Le he pedido solo una. Sabe… nosotros comemos poco… Sobraría…

– Disculpe la libertad, señor abogado. Lléveselo a la señorita. Y fresco… y aún caliente. ¡Mire!

Se ruborizó de nuevo el abogado; se puso cárdeno, pero bajó los ojos y dio las gracias, mientras se marchaba tambaleándose penosamente sobre sus delgadas piernas, como si le hubieran dado un bofetón.

Liboria comenzó a sacar la lencería que le había dejado su madre y que debía ser su dote; la señora Filippa salía con las finas camisas y las hermosas sábanas bajo la mantilla, y volvía con pocas monedas que entregaba dando grandes suspiros:

– ¡No puede ni imaginarse, señorita, cuántas vueltas he dado! ¡Cuando se trata de comprar lo desprecian todo!

– ¡Se lo imploro, señora Filippa!, ¡no pronuncie mi nombre! ¡Me moriría!

Un día, con la venta del último par de sábanas bordadas, se hizo un vestido rojo. Estaba mal salir vestida siempre del mismo modo; parecía más vieja, más tosca y más miserable, y necesitaba, sin embargo, que la vieran. Y con el vestido nuevo, con el sombrerucho negro plumado, salió de día al brazo de su padre, cada vez más encorvado y más pequeño en su viejo gabán verdusco. Y caminaba, tratando de mantener derecha la espalda que se le curvaba involuntariamente, con los grandes ojos inquietos en el rostro pálido y marchito, y la boca que quería simular una sonrisa, mientras en su mente se agitaban los más extraños y melancólicos pensamientos. Pero en casa, incluso desde las escaleras, se dejaba ir, su cara retomaba la habitual amarga expresión, y se desahogaba con el padre con la voz llena de lágrimas.

– ¿Es culpa mía? – respondía él. – ¡Yo ti-nesciu!

Y se les veía siempre por la calle; y detrás de todas las procesiones, a la cola, en medio de la negra ondulación de las esclavinas y de los escapularios, resaltaba el vestido rojo de la hija del abogado que parecía, como decía don Pepè, una barra de lacre. Y por la tarde, sin falta, se les veía sentados, inmóviles y mudos, en un banco de la pérgola medio desierto, donde los árboles, que susurraban ligeramente, parecían murmurar cosas tristes.

 

[10] En siciliano ´Ti nesciu` (Te saco, te llevo de paseo), aquí unido porque será a lo largo del cuento un apodo de un personaje.

Oggi a me, domani a te

Ciano aveva commesso le vesti a Catania e stabilito persino il giorno dello sposalizio quando una sera, mentre riponeva bischetto e lesine, si vide venir la Leprina che, dopo un giro di parole e dopo tanti «bisogna considerare» e «solo il Papa non falla», gli disse chiaro e tondo che la Nciòcola lo mandava a licenziare perché un forestiero ricco l’aveva richiesta. Santo e santissimo…! La Leprina, per fortuna sua, s‘era tenuta vicino l’uscio socchiuso, e, vedendo Ciano diventar paonazzo come un tacchino, se la batté dicendo:

— Vossìa mi scusa!… Ma io c‘entro come Ponzio Pilato nel credo!

Buon per lei che seppe svignarsela. Ciano, così infuriato, non avrebbe certo tenuto le mani in tasca; le avrebbe lasciato il segno, a quella ruffiana che aveva prima combinato il matrimonio e poi lo aveva scombinato come si disfà una calza. Rimasto solo si sfogò a bestemmiare peggio d’un turco — fra i denti però, per non farsi dar del matto dai vicini — ingiuriando i nomi della Leprina e della Nciòcola le quali si eran servite di lui come di uno zimbello; fino a che si persuase che doveva pure andare a coricarsi.

 

Ma anche a letto non trovò pace e si dimenò tutta la notte, come avesse avuto il mal di denti, rimuginando crudeli vendette, figurandosi con selvaggia voluttà di andare a ammazzare, a squartare, quella femmina venale, di fare almeno uno scandalo… e chi sa quante altre cose s’immaginò di dover fare in quella nottata che non finiva mai!

Invece, povero Ciano, si levò più presto del consueto mettendosi a lavorare coll’uscio serrato; e lo tenne serrato tre giorni di seguito per la rabbia e lo scorno; e la prima mattina che uscì se n’andò a Cicè a veder la vigna, per non imbattersi con gli amici. Già, al casino della «Società Operaia» si doveva risapere certamente ogni cosa, dopo tre giorni, e chi sa che risate alle sue spalle! Poi andò a consegnare un par di stivali a don Pino, tutto accigliato per non farsi domandare, ma non gli dissero niente, e mise coraggio; tanto che la sera tornò al casino coi suoi passi piccini piccini, il petto alto, e il berretto di sghembo per avere un’aria che paresse un po’ maffiosa. Soltanto l’ebanista gli disse con un risolino malizioso:

— E donna Liboriedda… con un forestiero, eh?

— Eh! — rispose Ciano stringendosi nelle spalle, — son donne… Quando vedon quattrini perdon la testa!

E nient’altro. Ma tese gli orecchi per tutta la serata, ché ci voleva poco a diventar, Dio liberi, la favola del casino. Bastava tenersi una parola sola, bastava far vedere che avesse paura delle beffe! E, per mostrar che non ne aveva davvero, tornò a bazzicare come prima il casino, e, per non farsi sopraffare dall’ebanista che aveva fama d’essere spiritoso, avviava cenette, contava barzellette e, davanti la porta, affilava la lingua burlando e sparlando tutti quelli che passavano. Così al casino stavan tutti allegri come fosse Carnovale; ma lui rincasava con la bocca amara.

 

Quando la ‘Nciòcola si maritò, egli scappò di nuovo a veder la vigna e portò la prima moscadella al casino. E finalmente, a poco a poco, ogni cosa tornò come prima, come se fra Ciano e donna Liboria non ci fosse mai stato niente.

Una sera, mentre eran seduti a prendere il fresco sul marciapiede, si sentì sonare una campana a morto, poi se ne sentì un’altra, poi un’altra ancora. Per sonar tutte, era segno che se n‘era andato un ricco. Il doratore, calcandosi il berretto sugli orecchi, s’alzò per andare a domandarne al sacrestano della Matrice.

— É — disse tornando, con aria di mistero — quel forestiero di donna Liboria ‘Nciòcola.

Tutti guardaron Ciano.

— Ben le sta — disse l‘ebanista.

— Meglio che non l‘hai accoppata — disse il caffettiere strizzando l‘occhio a Ciano — chi sa che bei quattrini le avrà lasciato!

Al calzolaio venne un’idea tra quel sonare a morto che saliva come un pianto su per l’aria tepida, un’idea che lo fece sorridere sotto i radi baffetti biondastri; e la maturò tutta la notte e tutto il giorno appresso, curvo sul bischetto, picchiando allegramente su uno stivale. Dopo una settimana sola, che gli parve un secolo, cominciò a passeggiar di sera, a fin di lavoro, sotto le finestre chiuse della ‘Nciòcola sperando di esser veduto a traverso le persiane. Incontrata la Leprina la fermò; aveva fretta, voleva scappare, ma egli la trattenne con buone maniere chiedendole notizie della vedova.

— Vedete? Neanche rancore so portarle!

Così la Leprina ricominciò a venire a trovarlo in bottega, ché Ciano era un buon calzolaio, la ‘Nciòcola rimasta vedova troppo presto era così fresca da non parer che si fosse maritata, e a riprendere quell’affare lei aveva da guadagnarci.  Ma la ‘Nciòcola non voleva saperne di rimaritarsi, e ripeteva alla Leprina, che andava e tornava come una mosca cavallina, di voler portare il lutto al morto.

— E volete far soffrire così quel pover’omo che è vivo e sano come un garofano? e fedele come un cane? Ci pensate al tradimento che gli avete fatto?

— Non mi rimarito. Se il Signore mi voleva maritata non mi doveva far morire quello, bon’anima.

— Ma che ci volete fare? Non vedete che era destinato quest’altro? Volete andare contro il volere di Dio? Volete rimaner sola tanto giovane? Badate che ve ne pentirete! Chi mangia solo s’affoga, donna Liboriedda mia.

Le donne, come diceva l‘ebanista, rifletton poco, e vanno, come le bandiere, col vento che soffia. La ‘Nciòcola era giovane, e la Leprina che insinuava sempre quello stesso argomento, e Ciano che passava e ripassava pel vicoletto, le mettevan la tentazione in corpo. Poi quello star serrata in casa, vestita di nero, le metteva la smania dell’aria e della luce. Bisognava pure persuadersi che i ragionamenti della Leprina eran sottili! Perciò, e anche per seguire il volere di Dio, a fin d’anno la ‘Nciòcola, in compagnia della sorella, ricevette Ciano di sera di nascosto e mezzo al buio; e dopo quella visita, in cui non fecero che rimbrontolarsi e sospirare, Ciano non mancò una sera sola, restando a cena sino a un‘ora di notte, godendosi la buona compagnia della vedova, mentre la sorella in un cantuccio biascicava il rosario. Al casino sfoggiava cravatte e fazzoletti ricamati, e fumava toscani interi ridendo allegramente, com’uno che sa il fatto suo, senza curarsi dei compagni che lo punzecchiavano dandogli del minchione.

Dopo sei mesi di quella vita beata la ‘Nciòcola cominciò a parlare del tempo dello sposalizio; tanto!, diceva per chetarsi l’animo, il lutto grave l’aveva portato un anno, e non poteva star sacrificata coll’anima del morto per tutta la vita; peggio per chi se ne sarebbe maravigliato… E Ciano approvava. Egli ne era felice, felicissimo… anche per non seguitare a vedersi di nascosto ai vicini come facessero un delitto, e per finirla con le ciarle del casino!

Fissarono la vigilia di San Sebastiano.

E ai primi d’agosto la vedova impastò scattati e vuciddati, mandandone gran vassoi a tutti gli invitati e a tutti i vicini per chiuder la bocca ai maldicenti. La vigilia della festa andò a confessarsi, e con l‘aiuto della sorella ripulì la casa; nel pomeriggio cavò dalla cassa la veste da sposalizio, odorosa di canfora, e la spiegò sul letto grande aspettando che venisse Ciano. Nella veste c‘era un forellino.

— La tarla — disse la sorella, con voce lenta. Prese l’ago, cercò un fil di seta a una vicina, e cominciò a rammendare con la sua precisione.

— Son passati giusto due anni — sospirò chinandosi a spezzar la gugliata co’ denti.

— San Sebastiano mio, che melanconia a pensarci! — esclamò la vedova che si stava lustrando gli stivaletti.

La sorella scrollò la testa tristemente e disse fra le labbra: — Io non l’avrei fatto.

Anche la vedova scrollò la testa, ma pensando che la sorella, diventata pinzochera, certe cose non poteva capirle.

Cominciarono a venir le vicine e le invitate, vestite chi di seta e chi di lana, e i ragazzini e le ragazzine che portavan tra le mani i grandi fazzoletti bianchi, stirati e piegati, da riempir di càlia e di scattati. La saletta era quasi piena; solo Ciano non veniva, lui ch’era tanto puntuale. Donna Mara del Finocchio suggerì alla sposa di vestirsi:

— Si perde troppo tempo ad aspettar don Ciano. E il prete è avvisato per le sei.

La vedova, aiutata dalla sorella e da donna Mara, cominciò a vestirsi lentamente, un poco turbata. Si mise le bùccole, il vezzo di corallo, la catena d’oro, e Ciano non veniva. Indugiò un po’ in camera, con la scusa di cercar lo scialle buono, e finalmente tutta impacciata nella veste color d’oliva dai merletti giallognoli, vincendo l’agitazione entrò nella saletta piena e afosa, dove c‘era un brusio come se parlassero tutti in una volta a voce bassa.

— Che sia successo qualche cosa? — disse forte donna Gidda vedendo venir la sposa.

— Son le sette — disse don Raimondo, e aggiunse, rimettendo l’orologio nel guscio di celluloide: — se volete, vado a vedere io.

— Forse è meglio — rispose la vedova con un fil di voce guardandosi intorno affatto smarrita.

Don Raimondo non tornò subito. Verso le nove, quando il più degli invitati s‘era congedato mormorando, e la vedova spogliata e inginocchiata in camera, davanti il quadro della Madonna, chiedeva perdono all’anima del marito, don Raimondo entrò nella saletta dov’eran rimaste tre o quattro vicine e, asciugandosi la fronte col suo fazzolettone rosso, disse:

— … quel porco! È scappato. Se n’è andato a Reitano con Nina la Cicoriara!

Ojo por ojo

Ciano había encargado los vestidos a Catania e incluso había establecido el día del matrimonio, cuando una tarde, mientras colocaba la mesa de trabajo y las leznas, vio venir a la señora Leprina que, después de un rodeo de palabras y después de muchos “es necesario considerar” y “solo el Papa no se equivoca”, le dijo bien claro que `Nciòcola lo había despedido porque un forastero rico la había pedido. ¡Santo y santísimo…! La señora Leprina, por fortuna suya, se había quedado cerca de la puerta entreabierta, y, al ver que Ciano se ponía rojo como un pavo, se marchó diciendo:

– ¡Usted me perdone!… ¡Pero yo tengo que ver con ello lo mismo que Poncio Pilato con el credo!

Bien para ella que supo escaparse. Ciano, tan furioso, no se habría quedado con las manos en los bolsillos; le habría dejado una señal a esa rufiana que primero había concertado el matrimonio y luego lo había frustrado como se deshace una media. Habiéndose quedado solo, se desahogó maldiciendo más que un carretero – entre dientes, sin embargo, para que no lo llamaran loco los vecinos –, injuriando los nombres de Leprina y `Nciòcola, quienes se habían servido de él como de un hazmerreír; hasta que se persuadió de que debía también ir a acostarse.

Pero tampoco en la cama encontró paz y se revolvió toda la noche, como si le dolieran los dientes, rumiando crueles venganzas, figurándose con salvaje voluptuosidad que iba a matar, a descuartizar a esa mujer codiciosa, que formaría al menos un escándalo… ¡y quién sabe cuántas otras cosas imaginó que tenía que hacer durante esa noche en vela que no acababa nunca!

En cambio, pobre Ciano, se levantó más temprano de lo habitual y se puso a trabajar con la puerta cerrada; y la tuvo cerrada tres días seguidos, por la rabia y el escarnio; y la primera mañana que salió fue a Cicè a ver la viña, para no encontrarse con los amigos. Ya, en el casino de la “Sociedad Obrera”, tenía que saberse ciertamente todo, tras tres días, y ¡quién sabe qué risotadas habría habido a sus espaldas! Luego fue a entregar un par de botas a don Pino, todo ceñudo para que no le preguntaran, pero no le dijeron nada, y se animó; tanto, que por la tarde volvió al casino con sus pasitos cortos, el pecho alto, y la gorra torcida para tener un aire que pareciera un poco mafioso. Solo el ebanista le dijo con una risita maliciosa:

– ¿Y doña Liboriedda… con un forastero?, ¿no?

– Así es – respondió Ciano encogiendo los hombros, – son mujeres… ¡Cuando ven dinero pierden la cabeza!

Y nada más. Pero aguzó los oídos toda la tarde, pues se necesitaba poco para ser, Dios nos libre, la comidilla del casino. ¡Bastaba con decir una palabra, bastaba con dejar ver que tenía miedo de las burlas! Y, para mostrar que en verdad no lo tenía, volvió a frecuentar como antes el casino, y, para no dejarse atropellar por el ebanista que tenía fama de ser ingenioso, programaba cenas, contaba chistes y, delante de la puerta, afilaba la lengua burlándose y hablando mal de todos los que pasaban. Así en el casino estaban todos alegres como si fuera Carnaval; pero él regresaba con la boca amarga.

Cuando `Nciòcola se casó, él se escapó de nuevo a ver la viña y trajo el primer moscatel al casino. Y finalmente, poco a poco, cada cosa volvió a ser como antes, como si entre Ciano y doña Liboria no hubiera habido nunca nada.

Una tarde, mientras estaban sentados tomando el fresco en la acera, se oyó tocar una campana a muerto, luego se oyó otra, luego otra. Si tocaban todas, era señal de que se había ido un rico. El dorador, metiéndose la gorra hasta las orejas, se levantó para ir a preguntarle al sacristán de la Catedral.

– Es – dijo al volver, con aire de misterio – ese forastero de doña Liboria `Nciòcola.

Todos miraron a Ciano.

– Bien le está – dijo el ebanista.

– Mejor que no la hayas desnucado – dijo el cafetero guiñándole a Ciano – ¡quién sabe el dineral que le habrá dejado!

Al zapatero le vino una idea en medio de ese toque a muerto que subía como un llanto por el aire tibio, una idea que hizo que sonriera bajo los ralos bigotes rubios; y la maduró toda la noche y todo el día siguiente, inclinado sobre la mesa de trabajo, golpeando alegremente en una bota. Solo una semana después, que le pareció un siglo, comenzó a pasear por la tarde, al final del trabajo, bajo las ventanas cerradas de `Nciòcola, esperando que lo viera a través de las persianas. Cuando encontró a la señora Leprina, la detuvo; ella tenía prisas, quería escapar, pero él la entretuvo con buenos modos, pidiéndole noticias de la viuda.

– ¿Ve? ¡Ni siquiera rencor sé tener!

Así, la señora Leprina comenzó a venir a encontrarlo al taller, pues Ciano era un buen zapatero, `Nciòcola se había quedado viuda demasiado pronto y estaba tan fresca, que no parecía que se hubiera casado, y al retomar ese negocio ella tenía que ganarlo. Pero `Nciòcola no quería saber nada de casarse de nuevo, y le repetía a la señora Leprina, que iba y volvía como una mosca borriquera, que quería guardarle luto al muerto.

– ¿Y quiere hacer sufrir así a ese pobre hombre que está vivo y sano como un clavel?, ¿y fiel como un perro? ¿Piensa en la traición que le ha hecho?

– No vuelvo a casarme. Si el señor me quería casada, no tenía que haber dejado que se me muriera ese, que en paz descanse.

– Pero ¿qué quiere hacer? ¿No ve que estaba destinado este otro? ¿Quiere ir contra la voluntad de Dios? ¿Quiere quedarse sola tan joven? ¡Mire que se arrepentirá! Quien come solo, se ahoga, doña Liboriedda mía.

Las mujeres, como decía el ebanista, reflexionan poco, y van, como las banderas, con el viento que sopla. `Nciòcola era joven, y la señora Leprina, insinuando siempre el mismo argumento, y Ciano, pasando y volviendo a pasar por el callejón, le metían la tentación en el cuerpo. Además, ese estar encerrada en casa, vestida de negro, hacía que se desviviera por el aire y por la luz. ¡Era necesario persuadirse de que los razonamientos de la señora Leprina eran sutiles! Por ello, y también para seguir la voluntad de Dios, a fin de año, `Nciòcola, en compañía de la hermana, recibió a Ciano por la tarde a escondidas y casi a oscuras; y después de esa visita, en la que no hicieron más que reprocharse y suspirar, Ciano no faltó ni una sola tarde, quedándose a cenar hasta la una de la noche, gozando de la buena compañía de la viuda, mientras la hermana, en un rincón, mascullaba el rosario. En el casino lucía corbatas y pañuelos bordados y fumaba toscanos enteros riéndose alegremente, como quien sabe lo que se hace, sin preocuparse de los compañeros, que lo picaban llamándole papanatas.

Tras seis meses de esa vida bendita, `Nciòcola comenzó a hablar del tiempo de la boda; ¡tanto!, decía para tranquilizarse el ánimo, el luto severo lo había llevado un año, y no podía estar sacrificada con el alma del muerto toda la vida; peor para quien se maravillara…  Y Ciano aprobaba. Él estaba feliz, muy feliz… incluso para no seguir viéndose a escondidas de los vecinos, como si cometieran un delito, y ¡para acabar con las charlas del casino!

Fijaron la boda para la vigilia de San Sebastián.

A principios de agosto, la viuda amasó scattati y vuciddati [11] y les mandó una gran bandeja a todos los invitados y a todos los vecinos para cerrarles la boca a los maldicientes. La vigilia de la fiesta fue a confesarse, y con la ayuda de la hermana limpió la casa; por la tarde sacó del cajón el vestido de bodas, que olía a alcanfor, y lo extendió sobre la cama grande esperando que viniera Ciano. En el vestido había un agujerito.

– La polilla – dijo la hermana, con voz lenta. Cogió la aguja, buscó hilo de seda en casa de una vecina, y comenzó a remendar con su precisión.

– Han pasado justo dos años – suspiró inclinándose para cortar la hebra con los dientes.

– ¡San Sebastián mío, qué melancolía pensar en ello! – exclamó la viuda, que estaba lustrando los zapatos.

La hermana sacudió la cabeza y dijo entre dientes: – Yo no lo hubiera hecho.

También la viuda sacudió la cabeza, pero pensando en la hermana, que al haberse vuelto beata, ciertas cosas no podía comprenderlas.

Comenzaron a llegar las vecinas y las invitadas, vestidas unas de seda y otras, de lana, y los muchachos y las muchachas que traían en las manos grandes pañuelos blancos, planchados y doblados, para llenarlos de càlia [12] y de scattati. La salita estaba casi llena; solo Ciano no llegaba, él que era tan puntual. Doña Mara del Finocchio le sugirió a la esposa que se vistiera:

– Perderemos mucho tiempo esperando a don Ciano. Y el cura está avisado para las seis.

La viuda, ayudada por la hermana y por doña Mara, comenzó a vestirse lentamente, un poco turbada. Se puso los pendientes, el collar de coral, la cadena de oro, y Ciano no llegaba. Se entretuvo un poco en la habitación, con la excusa de buscar el mantón adecuado, y finalmente, toda azorada en el vestido de color oliva con los encajes amarillentos, venciendo su agitación, entró en la sala llena y sofocante, en la que había un zumbido como si hablaran todos a la vez en voz baja.

– ¿Qué habrá sucedido? – dijo fuerte doña Gidda, viendo llegar a la esposa.

– Son las siete – dijo don Raimondo, y añadió, colocando el reloj en la cápsula de celuloide: – si quiere, voy a ver yo.

– Quizás sea mejor – respondió la viuda con un hilo de voz mirando a su alrededor completamente perdida.

Don Raimondo no volvió enseguida. Hacia las nueve, cuando la mayor parte de los invitados se había despedido murmurando, y la viuda, ya desvestida y arrodillada en la habitación, ante el cuadro de la Virgen, le pedía perdón al alma del marido, don Raimondo entró en la salita donde se habían quedado tres o cuatro vecinas y, secándose la frente con su pañolón rojo, dijo:

–  … ¡Ese puerco! Ha huido. ¡Se ha ido a Reitano con Nina la Cicoriara!

 

[11] Dulces sicilianos. El primero con masa de harina y almendras; el segundo (bucellato en it.) va relleno de higo, chocolate, almendra, nueces, etc.

[12] Garbanzos tostados

La nicchia vuota

Come videro sfilar le donne e poi i preti e finalmente, piano piano, il loro bel San Giuseppe sulla barella dorata, tra il luccichio delle torce accese, le monache si inginocchiaron tutte dietro le grate. Ogni anno che usciva in processione era un grande avvenimento festoso. Ma quante premure! Se usciva col sole, temevan che si screpolasse il viso e scolorisse il manto, giallo e turchino; se troppo tardi, e se il cielo era velato, temevan che l’umido l’immollasse; e al suo ritorno in chiesa si adunavan dietro il confessionale sussurrando al cappellano mille raccomandazioni: che badasse come lo ricollocavano nella nicchia! che non gli sciupassero le pieghe del manto! che serrasse lui la vetrata! La mattina presto, prima che il sagrestano picchiasse alla rota per farsi dar le chiavi, scivolavano una a una, carponi, nella chiesetta, a osservare co’ propri occhi, da vicino, il San Giuseppe che — con quel suo viso bonario da vecchio tranquillo, dalle gote bianche come il latte e rosse come il fuoco, e la gran barba bianca così al naturale che uno poteva contarne i peli — era l’invidia della stessa Matrice.

Ma quel giorno erano assai preoccupate guardando il cielo incappucciato che s’annuvolava e abbuiava sempre più. Il gallo nel cortile cantava forte, qualche finestra sbatacchiò, e i passeri contro il vecchio muro volavan basso: minacciava proprio un temporale. E fu uno sgomento quando suor Orsola, accostandosi alle grate, esclamò:

—Piove!

— Piove?! — ripeteron le monache raccolte nella stanza grande, e la timorosa esclamazione si ripeté fino in cucina dove suor Dorotea preparava la cena.

 

Scrosciava. Chiusero in fretta le finestre e rimasero nello stanzone con gli occhi ai vetri dove l‘acqua scorreva a fasce.

— Mio Dio! — esclamò suor Antonietta. — Lo copriranno, almeno?

— E con che? — fece suor Tommasa.

— Con qualche cosa… se la faranno prestare!… Un sacco, un tappeto… che so io!…

— Non ci sarebbe da temere! Il cappellano è uno che capisce.

— Troverà modo di farlo riparare…

— Dio, che acqua!

— Guardate che lampi!

Sanctus Deus, Sanctus fortis, Sanctus immortalis!

Miserere nobis!

Bisbigliavano tutte in una volta, segnandosi rapidamente, piene d‘agitazione. La superiora, in un canto, pregava così assorta che trasalì quando udì la campana. Rimase immobile, e seguitò a pregar con fervore fin che senti di nuovo il passo pesante della monaca portinaia.

— Era il sacrestano — avvertì la monaca, con la voce un po’ affannata per le scale fatte. E aggiunse lietamente:

— E al sicuro.

—Dove?

— Nella chiesa di San Domenico. Dai frati. Non si è neanche bagnato.

— Che miracolo, Vergine Maria!

— Poteva mai bagnarsi un santo?

— Ma un’altra volta…

E bisbigliarono di nuovo tutte in una volta, ma gaiamente.

Intanto marzo pazzo, sfogato il malumore, s‘era rimesso in buono, e nel cielo rassettato il sole s’affacciava tra due nuvoloni grigi, così che in terra mezzo era scuro e mezzo era chiaro.

 

 

All’alba il primo pensiero della superiora fu di mandare a riprendere il San Giuseppe. E nel pomeriggio la nuova processione, con la banda, s’avviò allegramente a San Domenico. Ma nel cortile del convento si fecero trovare soltanto cinque o sei frati col padre guardiano, il quale disse pulitamente al cappellano che il santo, in chiesa, ci stava bene e che loro, le monache e i preti, non avevan nessun diritto di portarselo via. Con la forza? padronissimi. Ma alla forza si risponde con la forza; e i frati non eran da meno de’ preti, e a qualunque costo avrebbero fatto rispettare la volontà di San Giuseppe, che miracolosamente aveva chiesto ricetto alla loro chiesa.

Cose da far bestemmiare! Cose da fare ammattire!

E non ci fu verso. Dietro il convento, i preti, impazienti e sconcertati, mormorarono a lungo fra di loro sul da farsi, mentre le donne più lontano sussurravano, e la banda taceva. Quale scorbacchiatura tornarsene a quel modo! E quella musica che ci stava a fare? e tutte quelle donne? bella precessione! Si sbandarono a gruppi, chi per la via maestra e chi per le scorciatoie, commentando l’avvenimento; e i preti s’avviarono a due a due, muti curvi e frettolosi, con le zimarre nere e le bianche cotte mosse dal vento, giù per un’angusta viottola fangosa, tra due file di peschi rugiadosi che pareva sorridessero della loro fretta.

 

Per le monache fu un lutto. Il cappellano, povero vecchio, andava e tornava dal convento al collegio, rimanendo lunghe ore in parlatorio, benché ci fosse umido e lui patisse di reumatismi. Avevan tentato con le buone, con le cattive, con le minacce, con le persuasioni, senza ottenere niente; duri come sassi, i frati rispondevano che San Giuseppe aveva voluto fermarsi al loro convento, e loro lo tenevano da buoni cristiani, e se il santo avesse voluto tornare al collegio avrebbe pensato a fare un altro miracolo. Il cappellano era avvilito:

— Ma che si potrebbe fare? — ripeteva sgomenta la superiora attraverso la grata. — Se vossìa offrisse una somma… una somma forte?…

— L‘ho già tentato. A rischio d’impoverire il collegio. Ma i frati son ricchi, e dicono che lo fanno per rispetto a San Giuseppe…

— E vero… Ma allora è proprio il nostro santo che vogliono! Non se ne potrebbero procurare un altro? Essi non gli sono affezionati al modo nostro, che son tant’anni che lo custodiamo, e l‘abbiamo mantenuto nuovo che par fatto ieri!

— Sfido io! — diceva suor Dorotea, più lontano, tra le sorelle che ascoltavano. — Dove troverebbero un altro San Giuseppe come il nostro! E poi, benedetto dal Cardinale! Mica è facile una benedizione a quel modo!

— Ci pensate, suor Immacolata? A me pare che sia stato ieri. Che festa… La chiesa era un giardino, il coretto tutto a festoni di lauro e mortella…

— E la musica fuori la porta, e la sera i fochi sul Castello…

 

E a una a una le monache, aggruppate in fondo al parlatorio, ricordavano ogni particolare della festa, commovendosi fino a piangerne.

— Una querela… — disse una volta il cappellano alla superiora, lentamente, come se il suggerimento gli costasse fatica.

— Metterci in mezzo la giustizia? Gesù Maria! Tra monaci e monache? Per cose di santi?… E chi se ne occuperebbe?

— Eh, magari io…

— Vossìa?… — E la superiora sospirò profondamente. E poi no. Non era affare da metterci in mezzo la giustizia degli uomini; solo Dio poteva farli ravvedere, que’ benedetti frati! Se la Madonna facesse il miracolo!? Se tutt’a un tratto, mentre meno se l’aspettavano, avessero sentito la musica e visto spuntar la processione che riportava il santo nella sua piccola chiesa?!

 

Dovettero rassegnarsi; ma nel coretto non sapevan pregare guardando rimpetto la nicchia dell’altare maggiore, vuota e squallida, che pareva un’occhiaia, si, proprio un’occhiaia, come aveva detto suor Immacolata, perché San Giuseppe era veramente lo sguardo benevolo della chiesetta.

— Gesù Maria — mormorò un giorno suor Dorotea dopo la novena. — Non può stare così la nicchia di San Giuseppe. Tanto non c’è più speranza.

— E che s’ha da fare?

— Lo so io? Ma un santo ci vuole.

— Un santo! Come metterne un altro nella nicchia di San Giuseppe!

— Dovete dire, anzi, nella chiesa, nel collegio di San Giuseppe!

Il collegio era povero e non c‘era speranza di poter comprare un’altra statua. Bisognava ingegnarsi. Suor Immacolata fu quella che seppe trovare.

 

Su, nel coretto vecchio, non c‘era abbandonato un San Giuda Taddeo? con una bella barba, che quasi pareva un San Giuseppe?

La proposta accolta a malincuore fu poi discussa con entusiasmo; e le monache più giovani corsero lietamente su nel vecchio coretto umido e buio a impossessarsi della statua abbandonata; e trascinandola con gran fatica la portaron giù in un angolo del refettorio. Tutte le furono intorno un po’ liete e un po’ in timore, a guardar da vicino quel grosso viso imbronciolito che le riguardava con rancore. Era sciupato, il santo, un po’ screpolato, non era bello… E durarono un mese buono a pulire e a grattare. Ogni monaca aveva da fare. Chi s’occupò di colorire ben bene le guance, e fu difficile, ché una volta eran troppo rosse, una volta troppo sbiancate. In molte ricamarono il manto, giallo e turchino, per rassomigliare l’altro. Chi fece tre gigli da mettere in cima alla mazza da far tenere in mano al santo; chi imbiaccò barba e capelli.

E finalmente — col ricco manto drappeggiato addosso e la mazza appoggiata su un braccio — la statua fu collocata nella nicchia; e le monache, pregando, si illusero di aver davanti San Giuseppe. Ma, parlando, spesso s’imbrogliavano chiamandolo:

— San Giuda…

Allora qualche altra suggeriva pronta, con un sospiro:

— San Giuseppe…

Ma passando pe ‘l coretto e vedendo quel viso rabbuffato, malgrado i gigli, malgrado i peli imbiaccati e le gote rosse, oh, come rimpiangevano il viso bonario e l’attitudine curva e mansueta del loro bel San Giuseppe che stava in mano ai frati!

La hornacina vacía

Apenas vieron desfilar a las mujeres, y luego a los sacerdotes, y al final, despacito, a su buen San Giuseppe en las andas doradas, en medio del centelleo de las antorchas encendidas, todas las monjas se arrodillaron tras las celosías. Cada año que salía en procesión era un gran acontecimiento festivo. Pero ¡cuántas preocupaciones! Si salía con el sol, temían que se le agrietara la cara y se destiñera el manto, amarillo y azul; si era muy tarde, y si el cielo estaba cubierto, temían que la humedad lo calara; y al regreso a la iglesia, se reunían tras el confesonario susurrándole al capellán mil recomendaciones: ¡que estuvieran atentos a cómo volvían a colocarlo en la hornacina!, ¡que no le estropearan los pliegues del manto!, ¡que cerrara él la vidriera! Bien temprano por la mañana, antes de que el sacristán llamase al torno para que le dieran las llaves, se deslizaban una tras otra, a gatas, en la iglesia, para observar con sus propios ojos, desde cerca, a San Giuseppe que – con el rostro bonachón de viejo tranquilo, con las mejillas blancas como la leche y rojas como el fuego, y la gran barba blanca, así, tan natural que se le podían contar los pelos – era la envidia de la misma Catedral.

Pero ese día estaban bastante preocupadas mirando el cielo encapotado que se nublaba y se oscurecía cada vez más. El gallo cantaba alto en el patio, alguna ventana se agitó, y los pájaros volaban bajos contra el viejo muro: justo amenazaba un temporal. Y fue una consternación cuando sor Orsola, acercándose a las celosías, exclamó:

– ¡Llueve!

– ¡¿Llueve?! – repitieron las monjas recogidas en la habitación grande, y la temerosa exclamación se repitió hasta la cocina, donde sor Dorotea preparaba la cena.

Llovía a cántaros. Cerraron deprisa las ventanas y se quedaron en la habitación con los ojos fijos en los vidrios por los que el agua se deslizaba como una cortina.

– ¡Dios mío! – exclamó sor Antonietta. – ¿Lo cubrirán al menos?

– ¿Y con qué? – dijo sor Tommasa.

– Con cualquier cosa… ¡la pedirán prestada!… Un saco, un mantel… ¡qué sé yo!

– ¡No deberíamos temer! El capellán es alguien que entiende.

– Encontrará un modo de protegerlo.

– ¡Dios, qué agua!

– ¡Mirad qué relámpagos!

Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus immortalis!

Miserere nobis!

Susurraban todas a la vez, persignándose rápidamente, llenas de agitación. La superiora, en un rincón, rezaba tan absorta, que se sobresaltó cuando oyó la campana. Se quedó inmóvil, y siguió rezando con fervor hasta que oyó de nuevo el paso pesado de la monja portera.

– Era el sacristán – advirtió la monja, con la voz un poco jadeante tras subir las escaleras. Y añadió alegremente:

– Está al seguro.

– ¿Dónde?

– En la iglesia de San Domenico. Con los frailes. Ni siquiera se ha mojado.

– ¡Qué milagro, Virgen María!

– ¿Acaso podía mojarse un santo?

– Pero otra vez…

Y susurraron de nuevo todas a la vez, pero alegremente.

Entretanto el loco mes de marzo, desahogado el malhumor, se había calmado, y en el cielo ya en orden, el sol se asomaba entre dos grandes nubes grises, de modo que en la tierra la mitad estaba oscura y la otra mitad, clara.

     

Al alba, el primer pensamiento de la superiora fue mandar a que recogieran a San Giuseppe. Y por la tarde, la nueva procesión, con la banda, se dirigió alegremente a San Domenico. Pero en el patio del convento se dejaron ver solo cinco o seis frailes con el padre guardián, el cual le dijo limpiamente al capellán que el santo estaba bien en la iglesia, y que ellas, las monjas y los sacerdotes, no tenían ningún derecho a llevárselo. ¿Por la fuerza?, muy señores. Pero a la fuerza se responde con la fuerza; y los frailes no eran menos que los sacerdotes, y a cualquier precio harían que se respetara la voluntad de San Giuseppe que, milagrosamente, había pedido hospitalidad en la iglesia de ellos.

¡Cosas para maldecir! ¡Cosas para enloquecer!

Y no hubo manera. Detrás del convento, los sacerdotes, impacientes y desconcertados, murmuraban largo rato entre ellos sobre lo que harían, mientras las mujeres, más lejos, susurraban, y la banda callaba. ¡Qué escarnio regresar de ese modo! ¿Y qué estaba haciendo ahí esa música?, ¿y todas esas mujeres?, ¡bonita procesión! Se separaron en grupos, unos por la calle principal, otros por los atajos, comentando lo sucedido; y los sacerdotes se encaminaron de dos en dos, mudos, cabizbajos y apresurados, con los gabanes negros y las blancas sobrepellices blancas agitadas por el viento, por una callejuela enlodada, entre dos filas de melocotoneros rociados que parecía que se reían de su prisa.

Para las monjas fue un duelo. El capellán, un pobre viejo, iba y venía del convento al colegio, permaneciendo largas horas en el locutorio, aunque hubiera humedad y él padeciera reumatismo. Lo habían intentado por las buenas, por las malas, con amenazas, con persuasiones, sin obtener nada; duros como piedras, los frailes respondían que San Giuseppe había querido pararse en su convento, y que ellos lo tenían como buenos cristianos, y que si el santo hubiera querido volverse al colegio, ya habría pensado hacer otro milagro. El capellán estaba humillado:

– Pero ¿qué se podía hacer? – repetía apesadumbrada la superiora a través de la celosía.- ¿Si usía ofreciera una suma… una suma grande?…

– Lo he intentado ya. A riesgo de empobrecer el colegio. Pero los frailes son ricos, y dicen que lo hacen por respeto a San Giuseppe…

– Es verdad… Pero ¡entonces, lo que quieren es justo a nuestro santo! ¿No se podría intentar otra cosa? Ellos no están encariñados con él como nosotros, que son ya tantos los años que lo custodiamos, y lo hemos mantenido nuevo, ¡que parece que lo hicieron ayer!

– ¡Cómo no! – decía sor Dorotea, más lejos, entre las hermanas que escuchaban. – ¿Dónde iban a encontrar a otro San Giuseppe como el nuestro? Y además, ¡bendecido por el Cardenal! ¡En modo alguno es fácil una bendición de este modo!

– ¿Qué piensa, sor Immacolata? A mí me parece que fue ayer. Qué fiesta… La iglesia era un jardín, el coro, entero con festones de laurel y arrayán…

– Y la música fuera de la puerta, y por la tarde los fuegos artificiales en el Castillo…

Y una tras otra, las monjas, agrupadas al fondo del locutorio, recordaban cada detalle de la fiesta, conmoviéndose hasta llorar.

– Una querella… – le dijo una vez el capellán a la superiora, lentamente, como si la sugerencia le supusiera un gran esfuerzo.

– ¿Ponernos en manos de la justicia? ¡Jesús María! ¿Entre monjes y monjas? ¿Por cosas de santos?… ¿Y quién se haría cargo?

– Eh, quizás yo…

– ¿Usía?… – Y la superiora suspiró profundamente. Vamos, no. No era un asunto que había que poner en manos de la justicia de los hombres; ¡solo Dios podía hacer que se arrepintieran esos benditos frailes! ¿¡Si la Virgen hiciera el milagro!?  ¡¿Si de pronto, mientras menos se lo esperaran, oyeran la música y vieran asomarse la procesión que traía al santo a su pequeña iglesia?!

Tuvieron que resignarse; pero en el pequeño coro no sabían rezar viendo en frente, vacía y escuálida, la hornacina del altar mayor, que parecía la órbita de un ojo, sí, precisamente una órbita de un ojo, como había dicho sor Immacolata, porque San Giuseppe era verdaderamente la mirada benévola de la pequeña iglesia.

– ¡Jesús María! – murmuró un día sor Dorotea después de la novena. – Así no puede estar la hornacina de San Giuseppe. Además, ya no hay esperanza.

– ¿Y qué vamos a hacer?

– ¿Acaso lo sé yo? Pero aquí se necesita un santo.

– ¡Un santo! ¡Cómo vamos a meter a otro en la hornacina de San Giuseppe!

– ¡Tiene que decir mejor en la iglesia, en el colegio de San Giuseppe!

El colegio era pobre y no había esperanza de comprar otra estatua. Era necesario que se las ingeniaran. Sor Immacolata fue la que supo encontrar algo.

¿Arriba, en el pequeño coro viejo, no había un San Giuda Taddeo abandonado?

La propuesta, acogida con mucho pesar, fue luego discutida con entusiasmo; y las monjas más jóvenes corrieron alegremente al viejo coro húmedo y oscuro a apoderarse de la estatua abandonada; y arrastrándola con gran esfuerzo, la llevaron abajo, a un rincón del refectorio. Estaba estropeado, el santo, un poco agrietado, no era hermoso… Y tardaron un mes largo en limpiarlo y raspar. Cada monja tenía algo que hacer. Una se ocupó de darle color muy bien a las mejillas, y fue difícil, pues una vez eran demasiado rojas, otra, demasiado pálidas. Para que se pareciera al otro, muchas bordaron el manto, amarillo y azul. Otra hizo tres lirios para que se lo pusieran encima del mazo que llevaría el santo en la mano; otra le blanqueó la barba y los cabellos.

Y finalmente – con el abundante manto drapeado encima y la maza apoyada en un brazo – colocaron la estatua en la hornacina; y las monjas, cuando rezaban, se ilusionaban con que tenían delante a San Giuseppe. Pero, cuando hablaban, a menudo se liaban llamándolo:

– San Giuda…

Entonces otra le sugería rápida, con un suspiro:

– San Giuseppe…

Pero, al pasar por el pequeño coro y ver ese rostro desencajado, a pesar de los lirios, a pesar de los pelos blanqueados y las mejillas rojas, ¡oh, cómo añoraban el rostro bonachón y la actitud inclinada y dócil de su buen San Giuseppe que estaba en poder de los frailes!

Il ricordo

La madre, poveraccia, s‘ingegnava a intrecciar corbelli e sporte, ma i pochi soldi che ne ricavava non eran bastanti manco pe ‘l carbone. Chi manteneva la casa era Vastiana, che dall’alba a un‘ora di notte faticava sempre trovando buono ogni guadagno. Per una schiacciata impastava il pane alle vicine, trastullava I bambini di donna Mena, e lavava certi canestri di panni che non finivano mai, contentandosi d’un po’ di farina, d‘uno staio di fave, della roba smessa.

«Gallina che cammina, torna col gozzo pieno»; era caso raro che uscendo rientrasse a mani vuote. Tutto il tempo che le restava libero sferruzzava, con una sveltezza indiavolata, come avesse la macchina nelle mani; di modo che a fin di settimana si trovava sempre qualche paio di solette da vendere. Almeno non si morivan di fame. E Vastiana, non sperando di poter campare meglio, non si lagnava mai, e lavorava cosi di buona voglia che tutte le vicine le volevan bene.

Qualche volta, la domenica, pettinandosi i lunghi capelli si guardava nel pezzo di specchio che teneva serbato come una reliquia, e vedendosi il viso lungo e senza colore, e i grandi occhi chiari, sospirava un poco pensando ch’era pure una cosa melanconica l‘esser tanto brutta, e che i ragazzi non avevan poi torto a chiamarla lampiuni e perciò i pecorai, che ne’ giorni di festa passavan pe ‘l vicolo vestiti di velluto cercando la zita, non la guardavan mai. Ma se ne rammaricava per poco; a pena riposti specchio e pettini e data cura alla vecchia madre — che l’aspettava per esser vestita e messa a sedere davanti l’uscio — si dava della babbalea e della pretenziosa. Anche la bellezza ci voleva! Come non bastasse aver di che sfamarsi!

A tempo di mietitura Vastiana raccomandava la madre a Crocifissa — ch’era una vecchia da potercisi fidare — e andava a spigolare con certe sue vicinette più povere. Spigolare era una festa — ben che rincasasse con la schiena indolenzita — perché portava una buona sacca di spighe che poi batteva da sé, e una piccola parte ne faceva farro e il resto portava a macinare facendone tutta farina; e più di tutto perché pigliava un po’ d’aria e di sole, lei che stava sempre nel vicoletto.

Un’estate dovevano andare a Salamuni, e poi ch’era lontano e si doveva rimanere due giorni, dormendo al Capannone, la madre non si voleva persuadere a lasciarla andare. Ma Vastiana tanto fece e tanto disse che al mattino presto, quando le vicine, passando davanti l’uscio, le gridarono:

— O Vastiana, ci vieni? — lei ch’era pronta scese di corsa con la sua sacca e s’avviò.

Le pareva una festa, nello stradone bianco e fresco; e, a pena arrivata, cominciò a raccogliere e a raccogliere, curva con la sacca sulle spalle, pazza di piacere a sentirsela diventar sempre più pesa: non si riposò neanche a mezzogiorno quando il sole scottava; mangiucchiò un cantuccio di pane raccogliendo sempre. Ubbriacata di sole, non sentiva niente, non vedeva che giallume di stoppie accese, e se si drizzava un momento, guardava subito nella bocca del sacco, come ci fosse un tesoro, e sentiva gonfiarsi il cuore al pensiero che quello era frumento e sarebbe diventato tanto buon pane bruno e odoroso da riempirne la madia.

Ma quando il cielo diventò viola e i grilli cominciarono a frinire, si trovò improvvisamente sola, lontana dalle compagne, nel gran campo segato che non finiva mai; guardò davanti a sé abbacinata, si voltò guardandosi intorno; solo dietro le sue spalle c‘era una cinta di sassi, mortella e pugnitopo. S’era spinta sino al limite di Salamuni. Sgomenta, chiamò:

– … Oh… Maru…zza!

Le rispose l’eco. Tornò a spiare ogni parte. Tese l’orecchio e non udì che i grilli. C’era al di là della cinta uno fermo a cavallo, e se ne spaventò più forte e fece per correre; ma vedendo che quello s‘avvicinava, le gambe cominciarono a tremarle e restò inchiodata, gridando con voce di pianto:

— Oh, Maru…zza…

— Che fai qui?

Voscenza benedica — balbettò Vastiana ravvisando Pepè Guastella — aspetto le compagne

— Che compagne?

— Siam venute per le spighe, Eccellenza.

E mosse qualche passo per avviarsi verso una parte qualunque.

— Tu sei Vastiana di Turi?

— Eccellenza si.

— Quello che fu mio mulattiere?

— Quello, buon’anima.

— Ma dove vai? Ti vuoi sperdere? Ti par che Salamuni si possa attraversare sta sera? Aspetta, non t‘avviare come una matta. Verso che parte vai? Fammi sapere…!

 

E don Pepè rise rumorosamente guardandola tutta, mentre Vastiana si passava forte la mano sulla fronte sudata, lamentandosi e battendo i denti come avesse la terzana:

— Matruzza mia, t’avessi ascoltata! Per il pane è stato! Per il panuzzo!

— Aspetta — disse don Pepè saltando dalla giumenta — vieni da questa parte.

— Eccellenza no.

— Bestia! Dal mio campo accorcerai la strada.

— Eccellenza, mi lasci stare…

— E sta’. Cosi di notte, come una matta! E qualche campiere t’accoppa come un pulcino.

—Matruzza mia! — gemeva Vastiana avvilita.

— Non gridare e dammi retta. T’insegno la strada. Le altre sono al Capannone.

Era vero. Al Capannone. E a quell’ora avrebbero cotta la minestra, e non c‘era nessuno che pensasse a cercar di lei.

— Salta! — ordinò. Don Pepè aveva una voce di comando che uno non poteva contrariarlo. Pure Vastiana, col coraggio che le dava quello spavento disperato, mormorò:

— Ma che c‘entra il campo di voscenza con quello di Salamuni?

— Bestia! T‘insegnerò la strada.

— Me l‘insegni da qui. Mi dica da che parte debbo andare ed io camminerò tanto che li troverò.

— Pezzo di villana! cosi osi trattare il padrone di tuo padre? Ti par che ti mangi?

E Vastiana, raccogliendosi le gonne, si arrampicò sulla siepe, sdrucendosi le mani e saltò finalmente nel campo di Guastella. Ma una volta li, ricominciò a tremare e a sudar freddo come se avesse fatto una mal’azione. Don Pepè, senza badarle, tenendo le guide della giumenta, le fece segno di camminare. E Vastiana camminò secondo il passo del padrone che andava lentamente e a testa bassa. Attraversarono il campo segato; i campieri salutavano don Pepè che rispondeva a pena; a uno che voleva accompagnarlo disse congedandolo con un cenno:

— Insegno io la strada a costei.

E camminavano. Vastiana, pur guardandosi a destra e a sinistra per scorgere il limite, era un po’ rassicurata. Ma andavano nel mezzo del campo. Scorse, lontano, la casina di Guastella e sbirciò il padrone.

— Siamo arrivati — disse don Pepè — dalla casina, per una viottola si è a due passi dalla via maestra. E un campiere ti condurrà al Capannone.

— Che il Signore glie lo renda, Eccellenza.

— Prima — disse don Pepè mettendole una mano sulla spalla mentre Vastiana si scostava trasalendo — voglio lasciarti un ricordo. Per quanto tu possa spigolare!… — e rise allegramente. — Tua madre non se la sciala!

— Qui non porto nulla— aggiunse toccandosi le tasche del giubbone di velluto. — Non dovrai fare altro che salire su alla casina. Un momento solo.

— No Eccellenza— esclamò Vastiana— alla casina non può essere.

— Sei pazza? Tutti cosi questi villani! Che t’ho fatto? Che t’ho detto? Non basta che ti voglia beneficare? Telo faccio, il bene, cosi, per niente. Perché mi piaci. Non vedi che se avessi voluto tu eri nelle mie mani?

E Vastiana segui il padrone, senza sapere quel che si facesse, ubbriacata di sole e di fatica.

Alla casina restò tre giorni; sino al mattino che don Pepè, mettendole tra le mani il ricordo promesso, la mandò via facendola accompagnare al paese dal campiere. Vastiana non guardò che fosse il dono; pareva incantata e andò appresso al campiere com’una che ha la sonnaia. Si scosse quando si sentì dire:

— Ora puoi andare.

Andare? Guardò con occhi di scema il campiere che voltava la giumenta, guardò la strada avanti a sé, le prime case piccole e affumicate appese alle falde del Castello, ricominciando a tremare perché cominciava finalmente a capire. Gesù, Gesù Maria! Che era mai successo? Com’era successo? Con qual coraggio tornava in paese? Cosa dire a sua madre? a sua madre che doveva esser morta di spavento e di dolore? Gesù, Gesù! E le picchiavan le tempie, e si sentiva debole quasi che le avessero cavato tutto il sangue, e pure camminava; eran le gambe che la portavano… Come l‘asino di suo padre buon’anima, quella sera della Candelora, aveva trovato la strada da solo mentre il padrone era morto a Guastella.

Se ne rammentò improvvisamente, senza saper come; allora sua madre aveva gridato intendendo la sciagura, e griderebbe anche adesso perché adesso era successa una cosa più brutta della morte.

Passò le prime case, la fontana che frusciava nella quiete, la strada del Rosario, e finalmente imboccò il suo vicoletto con gli occhi a terra, stretta nella mantellina nera. Non c‘era nessuno. Solo Crocifissa che lavava davanti casa si rizzò esclamando:

— Sei tu, Vastiana?

Ma Vastiana non l’udi. Entrò. Sua madre giaceva ancora a letto; a quell’ora nessuno ci aveva pensato. Chiuse l’uscio, s’inginocchiò accanto al saccone e col viso tra le mani cominciò a piangere piano piano, poi così forte che pareva il petto le si dovesse spezzare La vecchia nel letto, con occhi spaventati, ripeteva, poi che capiva, poi che sapeva:

— O Vastiana, Vastiana, Vastiana!

E Vastiana piangeva con certi lamenti lunghi e cupi come quelli d’un cane battuto.

Come seppero che Vastiana era tornata, le vicine non dormiron più per la curiosità di sapere com’era andata e che ne dicevan la madre e la figlia; tutte poi morivan dalla voglia di conoscere quel che avesse regalato don Pepè. Don Pepè, ricco signore, e strampalato, che se glie lo diceva la testa era capace di donare una quota e se no neanche un limone fradicio. Mormoravan che Vastiana avesse oro e quattrini:

— Cent’onze, le ha dato.

— E il vitalizio alla madre, non lo contate?

— Chi l‘avrebbe detto, quel lampione!

— Sì, ma è sempre una vergogna.

— Vergogna o no, si morivan di fame e ora faran le signore. Tanto non l‘avrebbero sposata lo stesso.

— Mentre adesso, chi sa? I quattrini accecano.

Vastiana intanto non si vedeva neanche sull’uscio, perché donna Mena l‘aveva licenziata e nessuna vicina la chiamava per impastare il pane o lavar le robe. E le vicine cominciarono a entrare in casa, a cercar notizie, badando a non farsi vedere l‘una dall’altra. La vecchia taceva del piccolo dono — dieci onze che s‘era subito cucite nella veste — e si lamentava imprecando contro I signori. Non ci credevano, e spiavan la casa per scoprir la verità; e allorché si persuasero che veramente non s‘era buscato niente, cominciarono chi ad allontanarsi e chi a consigliare:

 

— Il vitalizio doveva darvi! Queste son cose che si pagan care, e voi lo sapete, babbalee! Mariannina, con don Ciccio, s’è fatta i muri d’oro!

— Ma non lo vedete! — piagnucolava la paralitica — che io son qui come un ciocco? O allora perché se n’è approfittato? Ci fosse stato qualcuno a rompergli le ossa!

— Vostra figlia deve fare il gioco. Fossi io nei suoi panni andrei a dirgli quel che si merita! Tanto…

Vastiana con le labbra strette, scalzettava, diventando di mille colori. E quando le vicine se n’andavano, sospirava levandosi un peso dallo stomaco. Ma allora doveva sentir la madre che non la smetteva neanche la notte.

— Potessi andare a cavargli il core! Almeno ci desse qualche altra cosa! Perché non ci vai? Tanto non c’è altro da perdere. T’ha buttata via come un limone spremuto. Maledetto lui e i suoi figli! Maledetta la razza dei signori!

Ma la figlia udiva quella voce ronzarle alle orecchie come un moscone; tornava indietro indietro nel ricordo di quei tre giorni ch’eran fuggiti com’un brutto fatto sognato che lascia la bocca amara e la testa vuota. Pensando alla casina di Guastella si scordava delle vicine, della sua catapecchia e dei lamenti della madre; e rivedeva don Pepè e si sentiva nelle orecchie quella gran risata d‘uomo contento. Che volevano tutte costoro? Che voleva sua madre? Si può mai riparare al male successo?

 

Era finita la sua pace. Prima, quando alla sera, dopo aver faticato come un bue, si faceva la croce, s’addormentava subito, e ora non prendeva più sonno per tanti pensieri e tante immagini che le ballavano davanti, e si vergognava a nominar la Madonna. Andava in chiesa con le compagne e chi la chiamava di qua e chi la chiamava di là, e ora nessuna vicina l‘avrebbe invitata in casa, e i piccini di donna Mena, che le volevan bene, non li avrebbe più potuti tenere in collo. Il male era fatto. Il male! Sentiva un tuffo di sangue alla testa a pensar questa parola. Era tanto brutta, lei, s‘era sentita cosi misera, che non aveva mai pensato che qualcuno avesse potuto volerle un po’ di bene E quella sera, quand’era stanca e la testa le girava per il sole preso, uno, un signore, le aveva detto:

— Sai che mi piaci, tu?

E quelle poche parole le avevan fatto girare la testa più del sole di Salamuni.

Che volevano? Perché l’insultavano, don Pepè? Lei gli voleva bene, sissignore, si sarebbe fatta svenare solo per fargli piacere, e un giorno o l‘altro l‘avrebbe gridato forte a chi l’avesse voluto sentire. Che volevano? E godeva con amarezza grande del ricordo della sua vergognosa felicità, torturandosi di pena e di piacere. Perciò taceva. E quanto più le vicine si allontanavano dalla sua casa e la madre borbottava, tanto più lei taceva e ricordava, scalzettando svelta perché doveva affrettarsi in questo solo lavoro che le era rimasto di poter fare, se non voleva morir di fame.

E chi cominciò a chiamarla scema e chi sfacciata, tanto più che s‘era fatto un viso stralunato; intanto Nino del Castello le aveva fatto una canzone, e i ragazzi la sera gliela cantavano al chiaro di luna, accompagnati dalle grasse risate dell’ubbriaco:

Vastiana lampiuni
Si ‘nni ju mrnilleggiatura,
Fici un jornu la signura
E turnau cchiù lampiuni!

     Ma Vastiana non ci badava.

El recuerdo

La madre, pobrecilla, se las ingeniaba trenzando serones y espuertas, pero el poco dinero que sacaba por ello no era suficiente ni para el carbón. Quien mantenía la casa era Vastiana, que desde el alba hasta la una de la noche se esforzaba siempre, encontrando buena cualquier ganancia. Por una hogaza les amasaba el pan a las vecinas, entretenía a los niños de doña Mena, y lavaba algunos cestos de ropa que no acababan nunca, contentándose con un poco de harina, una fanega de habas, ropa usada.

“Gallina que camina, vuelve con el gaznate lleno”; raro era el caso en el que, tras salir, regresara con las manos vacías. Todo el tiempo que le quedaba libre hacía punto, con una ligereza endiablada, como si tuviese una máquina en las manos; de modo que, al final de la semana, se encontraba siempre algún par de plantillas que vender. Al menos no se morían de hambre. Y Vastiana, que no esperaba vivir mejor, nunca se quejaba, y trabajaba tan de buena gana, que todas las vecinas la querían bien.

Alguna vez, el domingo, mientras se peinaba los largos cabellos, se miraba en el trozo de espejo que tenía guardado como una reliquia, y viéndose la cara larga y sin color, los grandes ojos claros, suspiraba un poco pensando que, sin embargo, era una cosa melancólica ser tan fea, y que los muchachos no se equivocaban al llamarla lampiuni,[13] y por ello los pastores que en los días de fiesta pasaban por el callejón vestidos de terciopelo buscando zita,[14] nunca la miraban. Pero se lamentaba poco; apenas recogidos el espejo y el peine y cuidado a la vieja madre – que la esperaba para vestirse y ponerse sentada ante la puerta – se llamaba simple y pretenciosa. ¡Pues no que quería también la belleza! ¡Como si no bastara con quitarse el hambre!

En el tiempo de la siega, Vastiana le encomendaba su madre a Crocifissa – que era una anciana de la que podía fiarse – y se iba a espigar con algunas vecinillas suyas más pobres. Espigar era una fiesta – aunque regresara con la espalda dolorida –, porque traía una buena saca de espigas que luego golpeaba sola, y con una pequeña parte hacía farro, y el resto lo llevaba a moler para hacer de ello harina; y sobre todo porque tomaba un poco de aire y de sol, ella que estaba siempre en el callejón.

Un verano tenían que ir a Salamuni, y como estaba lejos y tenía que quedarse dos días, durmiendo en el cobertizo, la madre no quería persuadirse a dejarla ir. Pero Vastiana hizo y dijo tanto, que por la mañana temprano, cuando las vecinas, al pasar delante de la puerta, le gritaron:

– ¡Eh, Vastiana!, ¿vienes? – ella, que era rápida, bajó corriendo con su saca y se encaminó.

Le parecía una fiesta, en la carretera blanca y fresca; y, apenas llegó, comenzó a recoger y a recoger, doblada con la saca en los hombros, loca de placer al sentir que se hacía cada vez más pesada: no descansó ni siquiera a mediodía cuando el sol quemaba; comiscó un trozo de pan mientras continuaba recogiendo. Borracha de sol, no sentía nada, no veía más que la amarillez de los rastrojos encendidos, y se erguía un momento, miraba enseguida en la boca de la saca, como si fuera un tesoro, y sentía que se le hinchaba el corazón al pensar que eso era trigo y se convertiría en tanto pan bueno oscuro y oloroso que llenaría la artesa.

Pero cuando el cielo se puso violeta y los grillos comenzaron a chirriar, se encontró de improviso sola, lejos de las compañeras, en el gran campo segado que no terminaba nunca; miró encandilada delante, se giró en torno; solo detrás de su espalda había un cerco de piedras, arrayán y jusbarba. Se había adelantado hasta el límite de Salamuni. Consternada, llamó:

– Maruzza… ¡Eh… Maru…zza !

Le respondió el eco. Volvió a observar cada parte. Aguzó el oído, y no oyó más que a los grillos. Al otro lado del cerco estaba quieto un caballo, y se asustó más y casi se echó a correr; pero, al ver que este se acercaba, las piernas comenzaron a temblarle y se quedó clavada, gritando con voz de llanto:

– ¡Eh, Maru… zza…!

– ¿Qué haces aquí?

Voscenza benedica [15] – balbució Vastiana distinguiendo a Pepè Guastella – espero a las compañeras.

– ¿Qué compañeras?

– Hemos venido por las espigas, Excelencia.

Y dio algún paso para encaminarse hacia alguna parte cualquiera.

– ¿Tú eres Vastiana, la hija de Turi?

– Sí, Excelencia.

– ¿El que fue mi arriero?

– Ese, que en paz descanse.

– Pero ¿dónde vas? ¿Te quieres perder? ¿Te parece que Salamuni se puede atravesar esta noche? Espera, no vayas como una loca. ¿Hacia qué parte vas? ¡Hazme saber…!

Y don Pepè se rio ruidosamente mirándola por completo, mientras Vastiana se pasaba fuerte la mano por la frente sudorosa, lamentándose y batiendo los dientes como si tuviera la terciana:

– ¡Ay, mamá, si te hubiese escuchado! ¡Ha sido por el pan! ¡Por el pobre pan!

– Espera – dijo don Pepè saltando de la yegua – ven por este lado.

– No, Excelencia.

– ¡Animal! Por mi campo acortarás el camino.

– Excelencia, déjeme…

– Vale. Así de noche, ¡como una loca! Y algún guarda del campo te desnuca como a un pollito.

– ¡Mamá mía! – gemía Vastiana abatida.

– No grites y échame cuenta. Te muestro el camino. Las otras están en el cobertizo.

Era verdad. En el cobertizo. A esa hora ya habrían hervido la sopa, y no habría nadie que pensara buscarla.

– ¡Salta! – le ordenó. Don Pepè tenía una voz de mando tal, que uno no lograba contrariarlo. Sin embargo, Vastiana, con el valor que le daba ese susto desesperado, murmuró:

– Pero ¿qué tiene que ver el campo de su Excelencia con el de Salamuni?

– ¡Animal! Te mostraré el camino.

– Muéstremelo desde aquí. Dígame por qué lado debo ir, y yo caminaré hasta encontrarlo.

– ¡Pedazo de villana!, ¿así te atreves a tratar al amo de tu padre? ¿Crees que voy a comerte?

Y Vastiana, recogiéndose las faldas, se encaramó en el seto, desgarrándose las manos, y finalmente saltó al campo de Guastella. Pero una vez allí, volvió a temblar y a sudar frío como si hubiera cometido una mala acción. Don Pepè, sin prestarle atención, teniendo las bridas de la yegua, le indicó que caminara. Y Vastiana caminó de acuerdo con el paso del amo, que iba lentamente y con la cabeza baja. Cruzaron el campo segado; los guardas saludaban a don Pepè, que apenas respondía; a uno que quería acompañarlo le dijo despidiéndolo con una señal:

– Yo le muestro el camino a esta.

Y caminaban. Vastiana, mirando a la derecha y a la izquierda para descubrir el límite, estaba un poco tranquila. Pero iban por medio del campo. Descubrió, a lo lejos, la casa de Guastella y miró de reojo al amo.

– Hemos llegado – dijo don Pepè – desde la casa, por un sendero, se está a dos pasos del camino principal. Y un guarda te llevará al cobertizo.

– Que el Señor se lo pague, Excelencia.

– Antes – dijo don Pepè poniéndole una mano en el hombro, mientras Vastiana se separaba estremeciéndose – quiero dejarte un recuerdo. ¡Por mucho que espigues!… – y se rio alegremente. – ¡Tu madre no vive a lo grande!

– Aquí no llevo nada – añadió tocándose los bolsillos del chaquetón de terciopelo. – Solo tendrás que subir a la casa. Solo un momento.

– No, Excelencia – exclamó Vastiana – en la casa no puede ser.

– ¿Estás loca? ¡Todos estos villanos! ¿Qué te he hecho? ¿Qué te he dicho? ¿No basta con quiera beneficiarte? Te hago este bien así, por nada. Porque me gustas. ¿No ves que, si hubiera querido, tú estabas en mis manos?

Y Vastiana siguió al amo, sin saber lo que hacía, borracha de sol y de cansancio.

En la casa se quedó tres días; hasta la mañana en que don Pepè, poniéndole en las manos el recuerdo prometido, la mandó fuera haciendo que la acompañara un guarda. Vastiana no miró qué era el regalo; parecía encantada y  caminó junto al guarda como quien está aletargado. Se sacudió cuando oyó decir:

– Ahora puedes ir.

¿Ir? Miró con ojos de estúpida al guarda que volvía la yegua, miró la carretera delante, las primeras casas pequeñas y tiznadas colgadas en la falda del Castillo, y volvió a temblar porque empezaba finalmente a comprender. ¡Jesús, Jesús María! ¿Qué había pasado? ¿Cómo había pasado? ¿Con qué valor volvía al pueblo? ¿Qué le diría a su madre?, ¿a su madre que tenía que estar muerta de susto y de dolor? ¡Jesús, Jesús! Y le latían las sienes, y se sentía débil como si le hubieran sacado toda la sangre, y, sin embargo, caminaba; eran las piernas las que la llevaban… Como el asno de su padre, que en paz descanse, aquella tarde de la Candelora, había encontrado solo el camino, mientras el amo estaba muerto en Guastella.

Se acordó de ello de improviso, sin saber cómo; entonces su madre había gritado entendiendo la desgracia, y gritaría también ahora porque ahora había sucedido algo peor que la muerte.

Pasó las primeras casas, la fuente que susurraba en la calma, el camino del Rosario, y finalmente desembocó en su callejón con los ojos por el suelo, estrechándose en la mantilla negra. No había nadie. Solo Crocifissa que lavaba delante de la casa se irguió exclamando:

– ¿Eres tú, Vastiana?

Pero Vastiana no la oyó. Su madre aún estaba en la cama; a esa hora nadie había pensado en ella. Cerró la puerta, se arrodilló al lado de la saca y con la cara entre las manos comenzó a llorar lentamente, luego, tan fuerte, que parecía que el pecho se le iba a romper. La anciana en la cama, con los ojos espantados, repetía, pues comprendía, pues sabía:

– ¡Oh, Vastiana, Vastiana, Vastiana!

Y Vastiana lloraba con unos lamentos largos y tristes como los de un perro golpeado.

Cuando supieron que Vastiana había vuelto, las vecinas se desvivieron por la curiosidad de saber cómo había ido y qué decían la madre y la hija; todas se morían, además, de ganas de conocer lo que le había regalado don Pepè. Don Pepè, rico señor, y estrafalario, que si se lo decía la cabeza, era capaz de regalarle parte de la herencia, y si no, ni siquiera un limón podrido. Murmuraban que Vastiana tenía oro y dinero:

– Cien onzas le ha dado.

– ¿Y el vitalicio a la madre no lo contáis?

– ¡Quién lo hubiera dicho de ese adefesio!

– Sí, pero siempre es una vergüenza.

– Vergüenza o no, se morían de hambre, y ahora podrán vivir como señoras. De todas formas, con ella no se habría casado nadie.

– Mientras ahora, ¿quién sabe ? El dinero ciega.

Vastiana, entretanto, no se dejaba ver ni en la puerta, porque doña Mena la había despedido, y ninguna vecina la llamaba para amasar el pan o lavar la ropa. Y las vecinas comenzaron a entrar en casa, a buscar noticias, procurando cada una no dejarse ver por las demás. La anciana no hablaba sobre el pequeño regalo – diez onzas que enseguida se había cosido en el vestido – y se lamentaba imprecando contra los señores. No creían en ello, y espiaban la casa para descubrir la verdad; y cuando se persuadieron de que verdaderamente no había ganado nada, comenzaron unas a alejarse y otras, a aconsejar:

– ¡Tendría que daros el vitalicio! ¡Estas son cosas que se pagan caras, y vosotras lo sabéis, memas! ¡Mariannina, con don Ciccio, se ha hecho las paredes de oro!

– ¡Pero no veis! – lloriqueaba la paralítica – ¿que yo estoy aquí como un tronco? ¿Por qué se ha aprovechado, si no?  ¡Si hubiera habido alguien que le rompiera los huesos!

– Su hija debe seguir el juego. Si yo estuviera en su situación, ¡iría a decirle lo que se merece! Tanto…

Vastiana, con los labios apretados, hacía punto, se ruborizaba. Y cuando las vecinas se iban, suspiraba quitándose un peso del estómago. Pero entonces tenía que escuchar a la madre que no cesaba ni siquiera de noche.

– ¡Ojalá pudiera ir a sacarle el corazón! ¡Al menos, que nos diese otra cosa! Además, no hay nada más que perder. Te ha tirado como a un limón exprimido. ¡Maldito él y sus hijos! ¡Maldita la raza de los señores!

Pero la hija oía esa voz que le zumbaba los oídos como un moscón; volvía muy atrás en el recuerdo de esos tres días que habían huido como una mala acción soñada que deja la boca amarga y la cabeza vacía. Pensando en la casa de Guastella se olvidaba de las vecinas, de su casucha y de los lamentos de su madre; y volvía a ver a don Pepè y oía con sus oídos esa gran risotada de hombre contento. ¿Qué querían todas estas? ¿Qué quería su madre? ¿Se puede acaso arreglar la desgracia?

Su paz se había terminado. Antes, cuando por la tarde, después de haberse esforzado como un buey, se hacía la cruz, se dormía enseguida, y ahora no cogía ya sueño con tantas preocupaciones y tantas imágenes como le bailaban delante, y se avergonzaba de nombrar a la Virgen. Iba a la iglesia con las compañeras, unas la llamaban por aquí y otras la llamaban por allí, y ahora ninguna vecina la habría invitado a su casa; a los pequeños de doña Mena, que la querían bien, no habría podido ya cogerlos en sus brazos. El mal estaba hecho. ¡El mal! Sentía un vuelco de sangre en la cabeza pensando en esa palabra. Era tan fea ella, se había sentido tan desgraciada, que nunca había pensado que alguno hubiera podido quererla un poco bien. Y esa tarde, cuanto estaba cansada y la cabeza le giraba por el sol que había tomado, uno, un señor, le había dicho:

– ¿Sabes que tú me gustas?

Y esas pocas palabras habían hecho que la cabeza le girara más que el sol de Salamuni.

¿Qué querían? ¿Por qué insultaban a don Pepè? Ella lo quería bien, sí, señor, se habría dejado cortar las venas solo para darle un placer, y un día u otro lo gritaría fuerte a quien quisiera escucharlo. ¿Qué querían? Y gozaba, con gran amargura, del recuerdo de su vergonzosa felicidad, torturándose de pena y de placer. Por ello callaba. Y cuanto más se alejaban de su casa las vecinas y la madre mascullaba, tanto más callaba y recordaba ella, haciendo punto rápida porque tenía que aligerarse en este trabajo que ahora era el único que podía hacer, si no quería morirse de hambre.

Y alguien empezó a llamarla estúpida, otro, descarada, sobre todo porque se le había puesto una cara trastornada; entretanto, Nino del Castello le había hecho una canción, y los muchachos por la noche se la cantaban al claro de luna, acompañados por las grandes risotadas del borracho:

Vastiana lampiuni
Si ‘nni ju mrnilleggiatura,
Fici un jornu la signura
E turnau cchiù lampiuni![16]

      Pero Vastiana no prestaba atención.

 

[13] Voz siciliana (it. Lampione): farol. Aquí se refiere tal vez a su fealdad. Se traducirá por ahora como adefesio.

[14] Novia. Véase la nota 3 del cuento primero, Mùnnino.

[15] Saludo siciliano (literalmente: Vuestra excelencia me bendiga).

[16] ¡Vastiana, adefesio (farol) / se fue de veraneo / hizo un día la señora / y volvió más adefesio (farol)!

La Mèrica

Di poi, passaru l’autri cchiu di trenta:
li picciotti sciamaru comu l’api;
Mi parsi ca lu scum ad uno ad uno
si l’avissi agghiuttutu, e ca lu ventu,
‘ntra dda negghia tirrana ‘mpiccicusa
l’avissi straminatu pri lu munnu.
Lu scum li tirava, una centona,
un ciarmulizzu, e nomi, e vuci, e chianti:
unu cantava cu tuttu lu ciatu
ma c’era tanta rabbia ‘tra dda vuci
la dispirazioni e lu duluri
paria mrnalidicissi e celu e terra.

VITO MERCADANTE,  Focu di Mungibeddu

 

Mariano lo disse la sera di San Michele tornando da Baronia col vecchio padre. Catena, che allattava il bimbo, si fece pallida come una morta, e rispose:

— Ci son riusciti, i birbanti, a ficcartelo in testa! Ma se proprio ci vuoi andare pensa ch’io non mi son maritata per restar né vedova né ragazza dopo un anno di matrimonio!

Mariano buttò la vanga in un canto rabbiosamente, bestemmiando; Catena, con le labbra pallide, scrollava la testa ripetendo:

— Ci vengo. O ci vengo o mi butto dal Castello.

Mamma Vita, risalendo dalla stalla, li trovò a leticare. Quando si bisticciavano essa non parlava mai, per prudenza; ma come li vide accesi e senti nominar l’America, le parve che le attanagliassero il cuore e mormorò:

— Figlio, che stai dicendo?

Era curva sull’uscio, nera e piccina, con una manciata di fieno nel grembiule sollevato, e Mariano a vedersi guardato da quegli occhi chiari sgomenti, si chetò e disse:

— Faccio quel che fanno tutti nell’Amarelli. E costei mi sta martoriando col suo lagno. Vedi se è possibile che una come Catena debba partire.

 

Mamma Vita restava immobile come se non capisse; poi si piegò sulla cassapanca coprendosi la faccia tra le mani. Catena, col bimbo addormentato sulle ginocchia, guardava, senza vedere, davanti a sé co’ grandi occhi neri appassionati e dolorosi. Poi sali anche il vecchio; egli sapeva la trista decisione del figlio e andò a mettersi sulla scala senza parlare

Tutti partivano, nel quartiere dell’Amarelli; non c‘era casa che non piangesse. Pareva la guerra; e come quando c’è la guerra, le mogli restavan senza marito e le mamme senza figlioli.

La gna’ Maria, quella vecchia dalla testa bianca e arruffata come una conocchia, gridava davanti all’uscio la sua pena senza curarsi che la sentissero, gridava i nomi de’ suoi due figlioli maledicendo l’America con tutta l’anima, con le mani alzate. La Varvarissa restava giovane giovane senza marito con una creatura al petto; e poi partiva il figlio unico di mastro Antonino, e Ciccio Spiga, e il marito di Maruzza la biondina… Chi poteva contarli? Partivan tutti e nelle case in lutto le donne restavano a piangere. Pure ognuno possedeva un pezzo di terra, una quota, la casa, pure ognuno partiva. E i meglio giovani del paese andavano a lavorare in quella terra incantata che se li tirava come una mala femmina.

Ora anche Mariano. E Mariano aveva un poderetto che dava pane e olio, un poderetto zappato e lavorato come un giardino, e la moglie giovane, bellina, dolce come il miele. Quel che avevano fatto per trattenerlo, per levargli il pensiero della Mèrica, non si rammentava più.

Aveva voluto il mulo e ssù ‘Ntoni glie l‘aveva comprato; mamma Vita gli aveva cucito un altro vestito di velluto e Catena non aveva saputo che dirgli per tenerselo legato.

Ma l’America, diceva la gna’ Maria, è un tarlo che rode, una malattia che s’attacca; come viene il tempo che uno si deve comprare la valigia, non c’è niente che lo tenga.

In quella grigia serata di San Michele, i vecchi pensarono che questo tempo era venuto anche per Mariano.

Ma Catena con gli occhi fissi davanti a sé non si voleva persuadere a restar sola; con la piccola faccia olivastra abbuiata di passione e di paura, pensava di seguire il marito. Pensava: e pareva che il pensiero fosse una ferita, fosse una febbre, tanto le dolevano le tempie e il cuore.

Dopo quella brutta serata, gli altri giorni ancora seguitò a dire, implorando con gli occhi e minacciando con la voce:

— Ci vengo. Se parti, parto anch’io. O mi butto dal Castello.

Mamma Vita non seppe darle torto:

— E giusto, è giusto… — ripeteva con voce rassegnata.

— Ma il bambino! — gridava Mariano indispettendosi d’essere contrariato anche dalla madre

Il bambino! Era vero. Si poteva uccidere un piccino con un viaggio tanto lungo?

— Oh! — implorava Catena. — Non sono mamma io? Lo terrò nel mio scialle, lo terrò sul petto come un uccellino nel nido. Non ci pensate.

Tristi giorni! Marito e moglie non fecero che bisticciarsi. Ma poi vinse Catena, e quando Mariano comprò la valigia a mantice e cominciò a prepararsi le sue robe, Catena tremante ma decisa ordinò le proprie e quelle del piccino.

C’era nel suo viso un pallore di bimba spaurita. Spiava tutto e tutti, continuamente in palpito che all’ultimo momento qualche cosa impreveduta, un tradimento di Mariano, la facesse restare. E nella valigia confondeva furiosamente la biancheria sua con quella del marito per stabilire da vero la propria partenza.

Solo la sera che le valigie furon pronte e Mariano le mostrò i due biglietti, si rasserenò e gli occhi le tornaron dolci e ridenti come sempre.

Allora solo cominciò a sentir la pena della partenza e le parve mill’anni che ne venisse l’ora per levarsi dalla casetta dove era stata felice un anno — dopo I maltrattamenti subiti in casa del patrigno e della sorellastra — per levarsi dalle lacrime della gna’ Vita, che le aveva fatto da mamma, e dal dolore muto e profondo di papà ‘Ntoni.

Quando furon partiti, ssù ‘Ntoni tornò al podere: la terra non si può abbandonare.

Mamma Vita l‘aiutò — come al solito — a incavezzar l’asino, e gli dette un pane.

— Io non vengo — aggiunse. — E come se m’avessero dato un carico di legnate.

Rientrò curva nella casetta, e chiuse uscio e finestra come quando c’è lutto.

— Che farò d’ora innanzi? — pensava guardandosi intorno — avevo due mosche e mi son volate via.

A che serviva lavorar la terra? A che serviva filare il lino e tesser la tela, d’ora innanzi? Si figurò mestamente il vecchio ‘Ntoni che, solo e afflitto, seminava il buon frumento d’oro lassù a Baronia, nella bella terra solatia che il figlio aveva male apprezzata. E rivide la scena della sera innanzi; eran partiti a mezzanotte; non c‘era luna e a pena si scorgevano i due carretti pronti, nello stradone, già occupati dagli altri emigranti; i carretti pieni che s‘erano allontanati nella notte buia, col canto dei giovani e il tintinnio delle bubbole.

— Poveri figlioli! — sospirò forte col cuore stretto.

Ssù ‘Ntoni la sera, scavezzando l’asino, ripeté:

— Vita, la terra vuole braccia, e io che son vecchio non basto.

— Si — rispose la gna’ Vita — ma io voglio aspettare la lettera. Come posso pensare al podere, mentre non so neanche se quelle creature sono in viaggio?

Il cuore glielo diceva; di fatti la lettera da Palermo le portò una strana notizia inaspettata.

La lesse il postino; e lei la tenne a lungo fra le mani — fra le povere mani ignoranti, brune e rugose di fatica e di vecchiezza — guardando le poche righe nere e contorte come avesse potuto capirne il senso.

— Al peggio non c’è fine — disse tristamente al marito la sera. — Quel figlio bello come una bandiera parte e la moglie torna!

Addio sementa, addio podere! Con le mani e i piedi legati, non poteva più neanche seguire il vecchio, lassù a Baronia che aveva bisogno di braccia. Che farsene d‘una giovane e d’un piccino?

Catena tornò di sera, in diligenza; gialla, spettinata, con le labbra pallide e gli occhi lustri, pareva malata, pareva avesse la febbre.

Posò il bimbo sul letto e si lasciò cadere sulla cassapanca con le braccia sulle ginocchia sconsolatamente.

Mamma Vita prese fra le braccia il bimbo che piangeva, per chetarlo; e nel sentirselo di nuovo sul petto provò una dolcezza grande come se con quella piccola creatura fosse tornato qualche cosa di Mariano.

— Ma com’è andata, Catena? — le chiese.

La nuora taceva.

— E gli altri, Catena?

La nuora taceva. Il bimbo pianse più forte per la fame.

— Dammelo — disse bruscamente la giovane.

— No. Hai il latte cattivo, in questo momento. Ti par che non ti capisca, io?

La voce piana e tremante della vecchia le scese nel cuore, e Catena cominciò a piangere e a raccontare confusamente, calmandosi a poco a poco per il benefico sfogo.

 

Era stata una giornata d’inferno. Erano in venticinque, con quella demonia della sorellastra. E tutti per le vie, per le vie grandi della città; storditi dal chiasso, accecati dalla polvere e stanchi, specialmente stanchi, da buttarsi a dormire per terra, e tutti uniti e sbigottiti come anime del Purgatorio, come non avessero anche loro, in paese, una casa propria; scansando carrozze con cavalli, e carrozze senza cavalli che arrotano un cristiano come niente, rimandati dal piroscafo, rimandati dal medico che doveva visitarli. Finalmente li avevano esaminati, a uno a uno. Lei era stata l’ultima ed era andata così sicura dopo che ognuno era stato accettato!

— E poi… Capisci? — gridò — dopo la vergogna di farti vedere da quel medico forestiero, sentirti dire che hai gli occhi malati! Io! Gli occhi miei che sono stati l‘invidia di tutti!…

 

Parlava a tratti, senza finir le parole rotte dai singhiozzi che le straziavano il petto.

— Non ho pianto, li. No. Ti ho scritto. Non ho alcuno, io. Non madre, non fratelli, nessuno. Li ho visti salire sul vapore, tutti, a uno a uno. Anche quell’altra, capisci! che mi rideva sul viso salutandomi!

E Mariano!? Neanche una parola buona, una sola parola d’incoraggia-mento! Aveva pensato a farle il biglietto di ritorno, oh quello si! Di modo che a pena partito il vapore, uno della stazione l‘aveva accompagnata sino al treno.

— E la roba?

La roba! Come si vedeva che mamma Vita non aveva idea di quel che fosse una città! Chi poteva aprir la valigia e cercar la roba in quell’inferno?

Mostrò alla suocera una ricetta. Glie l‘aveva fatta il medico. Bisognava mettere, ogni mattina, poche gocce del rimedio ordinato, sugli occhi; poteva medicarli un farmacista, una persona pratica qualunque.

— M’ha assicurato che dopo un mese di cura sarò guarita.

— Hai veduto? — esclamò la vecchia dondolando il piccino per tenerlo buono — non è poi finito il mondo…

Catena crollò la testa. E il tempo che sarebbe passato tra la cura e il viaggio? E quelli, laggiù? quella demonia di Rosa che s‘era tirato Mariano con un fil di seta, che gli aveva messo in mente il pensiero della Mèrica? Davanti agli occhi le appari la figura flessuosa della sorellastra, il bel corpo dalla vita sottile e dal petto procace, il viso olivigno dalle labbra rosse e dal riso sfrontato.

Per la cura non volle perder tempo. E l‘indomani, a pena papà ‘Ntoni si fu avviato a Baronia, la gna’ Vita mise la mantellina in testa e il bimbo in collo per accompagnar la nuora da don Graziano il farmacista.

Insisterono perché cominciasse le medicature subito, quella mattina stessa. Il vecchio s’aggiustò gli occhiali, e fatta seder la giovane, tenendole la fronte con una mano, con l‘altra le fece gocciolar sugli occhi una medicina che aveva preparata.

— Poche gocce, ha detto — mormorò Catena mordendosi le labbra mentre la medicina le inondava le tempie e le orecchie.

— Don Graziano — ripeté mamma Vita più forte poi che il vecchio era mezzo sordo — poche, poche gocce.

— Zitta, voi — rispose impermalito il farmacista — se non m’avete fiducia cercatevi un altro medico.

— Vossìa ci scusi — pregò la giovane — gli è che avevo letto la prescrizione

E segui la suocera tenendosi il fazzoletto sugli occhi pe ‘l gran bruciore che provava.

Mattina per mattina le due donne andavano da don Graziano. Dopo una settimana di quella tortura la suocera domandò:

— Ma ti giova, il medicamento? A me pare che ti faccia più male che bene

— Volevo dirlo anch’io — sospirò la nuora. — Non avevo mai patito male agli occhi e ora me li sento pungere da cento spilli.

Che fare? Forse il meglio era smetter la medicazione e domandar consiglio a un medico. Però mamma Vita andò sola a ringraziare il farmacista portandogli un paio di pollastre rosse, scelte fra le più belle del pollaio, e poi andò con la nuora da don Pidduzzu Saitta, ch’era il medico più anziano del paese.

Egli osservò Catena, che lo guardava sgomenta, poi le sollevò un poco, delicatamente, le palpebre indolenzite.

— Chi ve l’ha curati? — chiese.

— Don Graziano.

— Il farmacista?

— Sissignore

— Benedetti villani! — mormorò il medico. — E voi volete andare alla Mèrica?

— Sissignore.

— Speriamo. Tornate domattina alle nove. Proveremo a causticare.

Catena segui la suocera con la morte nel cuore; e a pena a casa buttò la mantellina sul letto e, nascosto il viso fra le materasse abballinate, cominciò a piangere angosciosamente come la sera in cui era tornata da Palermo.

Mamma Vita, in piedi, col bimbo addormentato fra le braccia, non sapeva che dire per calmare quel pianto.

— Senti — disse poi risoluta, — Saitta è un corvo di malaugurio. Vede le cose peggio di quel che sono. Io non ci tornerei più. C’è Panebianco, sai? Quello è il medico dei poveri!

Catena levò il viso umido di lacrime e guardò la suocera con un po’ di speranza.

— Dopo pranzo ci andiamo — asserì la vecchietta, — coraggio, figlia, credi che non ti capisca?

E la guardò con tanta mestizia nei piccoli occhi chiari, perché, lei, le voleva bene proprio quanto a una figlia.

— Guarda che boccio di rosa — disse chinando la testa sul bimbo addormentato — e come gli somiglia! Perché piangi, tu? — la confortò sospirando — tu hai il tuo piccino e rivedrai tuo marito. Io son vecchia, vedi, e mi son divisa viva da quel figliolo che non vedrò più. E io pensavo di tenerlo sempre con me, e tessevo la tela per la sua famiglia. Ora è finita. Non vedi ssù ‘Ntoni com’è diventato? e la bella terra di Baronia com’è desolata?

 

Nel pomeriggio andarono da Panebianco per l’ultima prova. Panebianco, grasso bracato, rise come quando gli si portava un regalo e poi osservò lungamente gli occhi di Catena, palpandole le guance con le sue dita massicce e leggere.

— Rovinati? — andava ripetendo col suo fare d‘uomo che trova tutto facile. — Rovinati? La vedremo noi! Alla fine del mese partirete.

Mattina per mattina, col bimbo in collo, andarono da Panebianco; e sempre mamma Vita portava sotto la mantellina un cestino d’ova o di frutta, un sacchetto di frumento, un pollastro, un par di piccioni torraioli, perché Panebianco, il medico dei poveri, accettava ogni cosa.

Ma gli occhi andavano di male in peggio; e Catena, levandosi, vi teneva un pezzo il fazzoletto per abituarli alla luce. Non ne poteva più; cominciò a diffidare anche di Panebianco e volle cambiar medico.

Verso la fine del mese giunse la lettera di Mariano. Cominciava a guadagnare; erano trentacinque, tutti Mistrettesi, e stavano insieme; anche le donne s‘erano impiegate. Tutte notizie che le parvero schiaffi. Lesse e rilesse la lettera diverse volte, piena di rabbia. Egli appariva lieto e la gna’ Vita ripensò alle amare parole della gna’ Maria quando disse, un giorno, che i figli, una volta laggiù, si scordano sino della mamma che li ha fatti.

Catena disperò della sua partenza e non credé più ai medici; tutti birbanti, tutti imbroglioni, buoni a smungere il sangue ai poveri. Il solo Panebianco aveva avuto sei polli e non si sa quanta frutta e quante uova.

 

Nella piccola casa di ssù ‘Ntoni i giorni passavano pieni di malinconia. Non c‘era festa né processione per le due donne; sempre casa e casa, la domenica in chiesa a pregar davanti l’altare di Santa Lucia. Ssù ‘Ntoni, poi che la moglie non poté seguirlo, si era cercato un mezzaiolo, un compagno che l’aiutasse a lavorar la terra. Egli parlava sempre meno, col pensiero fisso al suo figliolo bello e forte come un querciolo, che lavorava per gli altri.

Il piccino cresceva male, stento stento, un po’ perché aveva avuto il latte cattivo, un po’ perché, in vece di giocare con gli altri piccini, passava dalle braccia della nonna a quelle della madre, essendo egli tutto ciò che fosse rimasto di Mariano.

 

Catena, ch’era diventata selvatica, rifuggiva anche le vicine. Nella piccola faccia olivastra, scarnita come se ci fosse un fuoco dentro che la consumasse, gli occhi apparivan più grandi, più neri pe ‘i calamai lividi che li cerchiavano.

Non amava più neanche lavorare, benché fosse stata sempre la più laboriosa dell’Amarelli. Passava le sue giornate accoccolata sullo scalino davanti l’uscio, mentre mamma Vita filava o rattoppava, ascoltando il parlottar del bimbo che aveva imparato a chiamare papà; e tutte e due senza dirselo mai, tenevan gli occhi alla cantonata dalla quale soleva spuntare il postino, trasalendo se lo vedevano avvicinare alla loro casetta.

Ma lettere ne venivano sempre più raramente. E Catena non si sfogava più neanche con la suocera; nella testa le si agitavano tanti pensieri che le facevan battere le tempie come avesse la febbre; pensava alla Mèrica, alle case alte e alle strade buie, pensava a Mariano giovane e forte, alla buona terra di Baronia, e rivedeva la bella e sfrontata persona della sorellastra.

 

Le vicine non riuscivano mai a farla chiacchierare un poco. Ma certe volte udivano la sua voce, fattasi tanto strana e acuta; l’udivan parlare al suo bimbo come avesse potuto capirla, dandogli un brusio di nomignoli bizzarri, con accento alterato mutevole e frenetico.

–  Stella, tesoro, Cavaleri finu, San Giorgiu biunnu, Apuzza nica. Tu mi ristasti. Chiamalu, papà, chiamalu ca è luntanu…

Il piccino sulle prime, sollevato dalle braccia nervose della madre, rideva, ma, soffocato dalle impetuose carezze, finiva col piangere

Una mattina vedendo passare la gna’ Maria le chiese se avesse due corbelli per metterci l‘uva e i fichidindia da portare a Mariano.

— I fichidindia gli piacciono tanto, e laggiù non ce n’è… Sì, parto col bimbo — disse sbarrandole in faccia i grandi occhi neri spauriti.

— Io lo so, adesso, come si viaggia!

E si come la gna’ Maria scrollava la testa, essa le voltò le spalle, stizzita, e sedette di nuovo innanzi all’uscio.

Lettere non ne venivano e gli occhi non guarivano. Pure s’eran fatte tre novene e offerte due torce a Santa Lucia, ma la santa non aveva voluto far la grazia.

Oramai non c‘era più speranza di guarire E Catena era diventata cosi stizzosa che la povera mamma Vita solo per la gran pietà e l‘affetto non la contrariava mai.

Una mattina, era proprio un’altra volta il giorno di San Michele, la gna’ Vita chiuse l’uscio perché faceva freddo.

La nuora che, non si sa perché, era scesa nella stalla, le disse tornando:

— Ma’, vai a prendermi i corbelli che m’ha promesso la gna’ Maria per metterci i pomodori e i fichidindia.

— Che dici, Catena? non è più tempo di pomodori questo!

Catena apri l’uscio con violenza tenendo il bimbo per mano.

– Che fai? non è più estate, vien freddo! Como sei diventata dispettosa, figlia! Non ne hai più, cuore, nel petto!

Catena la guardò. Nella faccia olivastra non si vedevano che gli occhi dalle palpebre gonfie e livide come due macchie.

Sedette sull’uscio, si mise il piccino sulle ginocchia e facendolo ballare cominciò a dirgli, prima piano, poi più forte, poi con la sua voce strana e acuta che feriva le orecchie:

Stella, tesoro, apuzza nica, spica d’oro! Chiamalu, papà! chiamalu ca è luntanu! Stella! Cavaleri finu…

Lo stringeva forte tra le piccole mani nervose, alzandolo per aria, e il bimbo si divincolava e piangeva.

La gna’ Vita, spaventata, s’accostò per levarglielo ma Catena stringeva forte, come tra due morse, e la povera vecchia non ci poteva.

Accorsero anche le vicine incuriosite dal vociar delle donne e dal pianto del bimbo; pregandola, minacciandola glie lo strapparono di mano, a costo di fargli male, mentre Catena ripeteva, ridendo, co’ grandi occhi sbarrati:

– Tesoro! Stella! chiamalo, chiamalo…

 

Credevano che morisse con le convulsioni com’era morta sua madre Ma poi si calmò. E mai più si ripeterono i furori di quella mattina.

Non riconosceva il figlio, non riconosceva la suocera ma non dava fastidio ad alcuno. Passava le intere giornate accoccolata sull’uscio, senza sentire il freddo del rovaio, col mento tra le mani; e se una vicina le si accostava essa spiegava — con un sorriso strano nel piccolo viso scuro — come aspettasse il vapore, di laggiù.

— Vedete? — indicava — laggiù nel mare grande grande il vapore che fuma e che fischia…

I corbelli con l’uva e i fichidindia eran pronti.

— Parto domani. Son guarita — aggiungeva toccandosi gli occhi con le palme aperte. — Son guarita. Vedete? Parto domani…

La Mérica

Di poi, passaru l’autri cchiu di trenta:
li picciotti sciamaru comu l’api;
Mi parsi ca lu scum ad uno ad uno
si l’avissi agghiuttutu, e ca lu ventu,
‘ntra dda negghia tirrana ‘mpiccicusa
l’avissi straminatu pri lu munnu.
Lu scum li tirava, una centona,
un ciarmulizzu, e nomi, e vuci, e chianti:
unu cantava cu tuttu lu ciatu
ma c’era tanta rabbia ‘tra dda vuci
la dispirazioni e lu duluri
paria mrnalidicissi e celu e terra. [17]

VITO MERCADANTE, Focu di Mungibeddu

 

Mariano lo dijo la tarde de San Michele al volver de Baronia con el padre anciano. Catena, que amamantaba al niño, se puso pálida como una muerta, y respondió:

– ¡Ya consiguieron esos bribones metértelo en la cabeza! ¡Pero, si justo quieres ir, piensa que yo no me he casado para quedarme ni viuda ni soltera después de un año de matrimonio!

Mariano tiró la laya en un rincón con rabia, blasfemando; Catena, con los labios pálidos, desaprobaba repitiendo:

– Yo voy. O voy o me tiro del Castillo.

Mamá Vita, volviendo a subir desde el establo, los encontró discutiendo. Cuando peleaban, ella no hablaba nunca, por prudencia; pero, como los vio encendidos y oyó nombrar América, le pareció que le atenazaban el corazón, y murmuró:

– Hijo, ¿qué estás diciendo?

Estaba encorvada en la entrada, negra y pequeñita, con un puñado de heno en el delantal levantado, y Mariano, al sentirse mirado por esos ojos claros abatidos, se calmó y dijo:

– Hago lo que hacen todos en Amarelli. Y esta me está martirizando con su queja. Mira si es posible que alguien como Catena pueda ir.

Mamá Vita permanecía inmóvil, como si no comprendiera; luego se dobló sobre el baúl cubriéndose la cara entre las manos. Catena, con el niño dormido en las rodillas, miraba, sin ver, delante de ella, con los grandes ojos negros apasionados y dolorosos. Luego subió también el anciano; él conocía la triste decisión del hijo y se quedó en la escalera sin hablar.

Todos, en el barrio de Amarilli, se iban; no había casa que no llorara. Parecía la guerra; y al igual que cuando hay guerra, las mujeres se quedaban sin marido, y las madres, sin hijos.

La señá Maria, la vieja con la cabeza blanca y despeinada como el copo de una rueca, gritaba delante de la puerta su pena, sin preocuparse de que la oyeran, gritaba los nombres de sus dos hijos maldiciendo América con toda el alma, con las manos levantadas. Varvarissa se quedaba muy joven sin marido, con una criatura de pecho; y luego se iba el hijo único de maese Antonino, y Ciccio Spiga, y el marido de Maruzza la rubita… ¿Quién podía contarlos? Se iban todos, y en las casas de luto las mujeres se quedaban llorando. Aunque cada uno tenía un pedazo de tierra, una quota, una casa; sin embargo, todos se iban. Y los mejores jóvenes del pueblo se marchaban a trabajar a esa tierra encantada que los atraía como una mala mujer.

Ahora también Mariano. Y Mariano tenía una pequeña finca que daba pan y aceite, una pequeña finca labrada y trabajada como un jardín, y una mujer joven, guapa, dulce como la miel. Lo que habían hecho para sujetarlo, para quitarle ese pensamiento de América, ya ni lo recordaban.

Había querido un mulo, y el señó ´Ntoni se lo había comprado; mamá Vita le había hecho otro traje de terciopelo, y Catena no había sabido qué más decirle para mantenerlo a su lado.

Pero América, decía la señá Maria, es una carcoma que roe, una enfermedad que se pega; y si llega el tiempo en que uno debe comprarse la maleta, no hay nada que lo sujete.

En esa tarde gris de San Michele, los viejos pensaron que este tiempo había llegado también para Mariano.

Pero Catena, con los ojos fijos delante de ella, no quería convencerse de que se iba a quedar sola; con la pequeña cara olivácea oscurecida por la pasión y el miedo, pensaba seguir al marido. Pensaba: y parecía que el pensamiento era una herida, una fiebre, tanto le dolían las sienes y el corazón.

Después de esa mala tarde, los demás días aún siguió diciendo, implorando con los ojos y amenazando con la voz:

– Me voy. Si te marchas, me marcho yo también. O me tiro del Castillo.

Mamá Vita no pudo contradecirla:

– Es justo, es justo… – repetía con voz resignada.

– Pero ¡y el niño! – gritaba Mariano enfadado al verse contrariado también por su madre.

¡El niño! Era verdad. ¿Se podía matar a un pequeñín con un viaje tan largo?

– ¡Oh! – imploraba Catena. – ¿No soy yo madre? Lo tendré en mi mantón, lo tendré en los brazos como a un pajarito en el nido. No os preocupéis.

¡Tristes días! Marido y mujer no hicieron más que pelear. Pero luego ganó Catena, y cuando Mariano compró la maleta con fuelle y comenzó a preparar sus cosas, Catena, temblando, ordenó las suyas y las del pequeño.

 

Tenía en el rostro una palidez de niña asustada. Lo espiaba todo, y a todos, continuamente, con la aprensión de que en el último momento algo imprevisto, una traición de Mariano, hiciera que se quedara. Y en la maleta confundía furiosamente su lencería con la del marido para establecer de verdad su propia marcha.

Solo la tarde en que las maletas estuvieron preparadas y Mariano le mostró los dos billetes, se serenó y los ojos volvieron a ser dulces y risueños como siempre.

Solo entonces comenzó a sentir la pena de la ida y le parecieron mil años que llegara la hora de separarse de la casita donde había sido feliz un año – después de los maltratos sufridos en la casa del padrastro y de la hermanastra – para apartarse de las lágrimas de la señá Vita, quien le había hecho de madre, y del dolor mudo y profundo de papá ´Ntoni.

Cuando se marcharon, el señó ´Ntoni volvió a la finca: la tierra no puede abandonarse.

Mamá Vita lo ayudó – como era habitual – a encabestrar el asno, y le dio un pan.

– Yo no voy – añadió. – Es como si me hubieran dado una paliza.

Regresó encorvada a la casa, y cerró la puerta y la ventana como cuando hay luto.

– ¿Qué haré a partir de ahora? – pensaba mirando a su alrededor – tenía dos pajaritos, y han volado.

¿Para qué servía trabajar la tierra? ¿Para qué servía hilar el lino y tejer la tela a partir de ahora? Se imaginó tristemente al viejo ´Ntoni, solo y afligido, sembrando el buen trigo de oro allí arriba, en Baronia, en la hermosa tierra soleada que el hijo había apreciado poco. Y volvió a ver la escena de la tarde anterior; se habían marchado a medianoche; no había luna y apenas se distinguían los dos carros preparados, en el callejón, ya ocupados por los demás emigrantes; los carros llenos se habían alejado en la noche oscura, con el canto de los jóvenes y el tintineo de los cascabeles.

– ¡Pobres hijos! – suspiró profundamente con el corazón oprimido.

El señó ´Ntoni, por la tarde, quitándole las bridas al asno, repitió:

– Vita, la tierra necesita brazos, y yo, que soy viejo, no basto.

– Sí – respondió la señá Vita -, pero yo quiero esperar la carta. ¿Cómo puedo pensar en la finca, mientras no sé siquiera si esas criaturas están ya de viaje?

El corazón se lo decía; de hecho, la carta desde Palermo le trajo una noticia inesperada.

Se la leyó el cartero; y ella la tuvo un buen rato entre las manos – entre las pobres manos ignorantes, oscuras y arrugadas por el trabajo y la vejez – mirando las pocas líneas negras y torcidas como si hubiera podido entender su sentido.

– Lo malo no tiene final – le dijo tristemente al marido por la tarde. – ¡Nuestro hijo, hermoso como un ángel, se marcha, y la mujer vuelve!

¡Adiós siembra, adiós finca! Con las manos y los pies atados, no podía ya siquiera acompañar al viejo allá arriba a Baronia, que necesitaba brazos. ¿Qué iba a hacer con una joven y un niño?

Catena volvió por la tarde, en la diligencia; amarilla, despeinada, con los labios blancos y los ojos brillantes, parecía enferma, parecía que tenía fiebre.

Puso al niño en la cama y se dejó caer sobre el arca con los brazos en las rodillas desconsoladamente.

Mamá Vita cogió en los brazos al niño que lloraba, para tranquilizarlo; y al notarlo de nuevo en el pecho, sintió una gran dulzura, como si con esa pequeña criatura hubiera vuelto algo de Mariano.

– Pero ¿qué ha pasado, Catena? – le preguntó.

La nuera callaba.

– ¿Y los otros, Catena?

La nuera callaba. El niño lloró más fuerte, por el hambre.

– Dámelo – dijo bruscamente la joven.

– No. Tienes la leche mala en este momento. ¿Crees que yo no te comprendo?

La voz lenta y temblorosa de la vieja le bajó al corazón, y Catena comenzó a llorar y a contar de modo confuso, calmándose poco a poco con el beneficio del desahogo.

Había sido un día de infierno. Eran veinticinco, con ese demonio de la hermanastra. Y todos, en la calle, en las calles grandes de la ciudad; aturdidos por el ruido, cegados por el polvo y cansados, muy cansados, como para tirarse a dormir en el suelo, y todos unidos y sobrecogidos como almas del purgatorio, como si ellos no tuvieran también, en el pueblo, sus propias casas; sorteando carrozas con caballos, y carrozas sin caballos que arrollaban a un cristiano como si no fuera nada, echados del barco de vapor, echados a casa del médico que tenía que verlos. Finalmente los examinaron, uno tras otro. Ella había sido la última y ¡había ido tan segura, después de que todos habían sido aceptados!

– Y luego… ¿Comprendes? – gritó – después, la vergüenza de dejar que te viera ese médico forastero, ¡oír que te decía que tienes los ojos enfermos! ¡Mis ojos que han sido la envidia de todos!

Hablaba entrecortadamente, sin terminar las palabras rotas por los sollozos que le desgarraban el pecho.

– No he llorado, allí. No. Te he escrito. No tengo a nadie, yo. Ni madre, ni hermanos, nadie. Los he visto subir al vapor, a todos, uno tras otro. ¡Incluso a esa, comprendes!, ¡que se reía en mi propia cara despidiéndose!

¿Y Mariano? ¡Ni siquiera una palabra hermosa, una única palabra de ánimo! Se preocupó por comprarle el billete de regreso, ¡oh, eso sí! De modo que, apenas partió el vapor, uno de la estación la acompañó hasta el tren.

– ¿Y tus cosas?

¡Sus cosas! ¡Cómo se veía que mamá Vita no tenía idea de lo que era una ciudad! ¿Quién podía abrir la maleta y buscar sus cosas en ese infierno?

Le mostró a la suegra una receta. Se la había hecho el médico. Era necesario que se pusiera cada mañana unas pocas gotas del remedio prescrito, en los ojos; se los podía medicar un farmacéutico, cualquier persona que entendiera.

– Me ha asegurado que en un mes me curaré.

– ¿Has visto? – exclamó la anciana meciendo al pequeño para que estuviera tranquilo – el mundo no se ha acabado…

Catena hundió la cabeza. ¿Y el tiempo que tendría que pasar entre la cura y el viaje? ¿Y ellos, allí?, ¿y ese demonio de Rosa que había arrastrado a Mariano con un hilo de seda, que le había metido en la cabeza la idea de América? Ante sus ojos apareció la figura cimbreante de la hermanastra, el hermoso cuerpo de cintura delgada y pecho procaz,  la cara olivácea con los labios rojos y la risa descarada.

Para la cura no quiso perder tiempo. Y al día siguiente, apenas papá ´Ntoni se dirigió a Baronia, la señá Vita se puso la mantilla en la cabeza y el niño en los brazos para acompañar a la nuera a la farmacia de don Graziano.

Insistieron para que comenzara la medicación enseguida, esa misma mañana. El viejo se ajustó las gafas, y tras haber hecho que la joven se sentara, cogiéndole la frente con una mano, con la otra le puso en los ojos unas gotas de un medicamento que había preparado.

– Pocas gotas, ha dicho – murmuró Catena mordiéndose los labios, mientras el medicamento le inundaba las sienes y las orejas.

– Don Graziano – repitió mamá Vita más fuerte, pues el viejo estaba medio sordo – pocas, pocas gotas.

– Callad, vosotras – respondió irritado el farmacéutico – si no tenéis confianza en mí, buscad otro médico.

– Usía nos disculpe – rogó la joven – es que había leído la receta.

Y siguió a la suegra con el pañuelo en los ojos por el gran ardor que sentía.

Mañana tras mañana, las dos mujeres iban a la farmacia de don Graziano. Tras una semana de esa tortura, la suegra preguntó:

– Pero ¿te beneficia ese medicamento? A mí me parece que te hace más mal que bien.

– Yo también quería decirlo – suspiró la nuera. – Los ojos no me habían hecho daño nunca, y ahora siento que me clavan cien alfileres.

¿Qué hacer? Quizás lo mejor era dejar la medicación y pedirle consejo a un médico. Por ello, mamá Vita fue sola a darle las gracias al farmacéutico y le llevó un par de pollastras rojas, elegidas entre las mejores del gallinero, y luego fue con la nuera a casa de don Pidduzzu Saitta, que era el médico más viejo del pueblo.

Él observó a Catena, quien lo miraba abatida, luego le levantó un poco, delicadamente, los párpados doloridos.

– ¿Quién se los ha curado? – preguntó.

– Don Graziano.

– ¿El farmacéutico?

– Sí, señor.

– ¡Benditos villanos! – murmuró el médico. – ¿Y usted quiere ir a América?

– Sí, señor.

– Esperemos. Volved mañana por la mañana, a las nueve. Intentaremos cauterizar.

Catena siguió a la suegra con la muerte en el corazón; apenas en casa, tiró la mantilla en la cama y, escondiéndose la cara entre los colchones enrollados, comenzó a llorar angustiosamente, como la tarde en que había vuelto de Palermo.

Mamá Vita, en pie, con el niño dormido entre los brazos, no sabía qué decir para calmar ese llanto.

– Oye – dijo después decidida, – Saitta es un cuervo de mal agüero. Ve las cosas peor de lo que son. Yo no volvería más. Está Panebianco, ¿sabes? ¡Ese es el médico de los pobres!

Catena levantó la cara llena de lágrimas y miró a la suegra con un poco de esperanza.

– Después del almuerzo vamos – aseguró la anciana, – ánimo, hija, ¿crees que no te comprendo?

Y la miró con mucha tristeza en los pequeños ojos claros, porque ella justo la quería bien, como a una hija.

– Mira qué pimpollo – dijo inclinando la cabeza sobre el niño dormido – ¡y cómo se le parece! ¿Por qué lloras tú?, – la consoló suspirando – tú tienes a tu pequeñín, y volverás a ver a tu marido. Yo soy vieja, mira, y me he separado viva de ese hijo que ya no volveré a ver. Y yo que pensaba que siempre estaría a mi lado, y tejía la tela para su familia. Ahora ha terminado. ¿No ves cómo se ha puesto el señó ´Ntoni?, ¿y lo desolada que está la hermosa tierra de Baronia?

A media tarde fueron a ver a Panebianco para la última prueba. Panebiando, un cebón con pantalones, se rio como cuando se le llevaba un regalo, y luego observó largo tiempo los ojos de Catena, palpándole las mejillas con los dedos macizos y ligeros.

– ¿Arruinados? – iba repitiendo con su modo de hacer de hombre que lo encuentra todo fácil. – ¿Arruinados? ¡Ya lo veremos! A final de mes se marchará.

Mañana tras mañana, con el niño en los brazos, fueron a ver a Panebianco; y siempre mamá Vita llevaba bajo la mantilla un cestillo de huevos o de frutas, un saquito de trigo, un pollo, un par de pichones salvajes, porque Panebianco, el médico de los pobres, aceptaba cualquier cosa.

Pero los ojos iban de mal en peor; y Catena, al levantarse, tenía un rato sobre ellos el pañuelo, para que se habituaran a la luz. No podía más; comenzó a desconfiar también de Panebianco y quiso cambiar de médico.

Hacia final de mes llegó la carta de Mariano. Comenzaba a ganar; eran treintaicinco, todos de Mistretta, y estaban juntos; también las mujeres se habían colocado. Todas las noticias le parecieron bofetones. Leyó y releyó la carta varias veces, llena de rabia. Él parecía alegre, y la señá Vita volvió a pensar en las amargas palabras de la señá Maria cuando dijo, un día, que los hijos, una vez allí, se olvidaban de la madre que los había hecho.

Catena desesperaba de su marcha y no creyó más en los médicos; todos unos bribones, todos unos liantes, buenos para exprimirles la sangre a los pobres. Solo Panebianco se había llevado seis pollos y no se sabe cuánta fruta y cuántos huevos.

En la pequeña casa del señó ´Ntoni los días pasaban llenos de melancolía. No había fiesta ni procesión para las dos mujeres; siempre, casa y más casa; el domingo, a la iglesia a rezar ante el altar de Santa Lucia. El señó ´Ntoni, dado que la mujer no pudo acompañarlo, se había buscado un medianero, un compañero que lo ayudara a trabajar la tierra. Hablaba cada vez menos, con el pensamiento fijo en el hijo hermoso y fuerte como un roble que trabajaba para otros.

El pequeño crecía mal, con mucha dificultad, un poco porque había mamado leche mala, un poco porque, en lugar de jugar con los demás pequeños, pasaba de los brazos de la abuela a los de la madre, al ser él todo lo que les había quedado de Mariano.

Catena, que se había vuelto salvaje, huía de las vecinas. En su pequeña cara olivácea, enflaquecida como si tuviera dentro un fuego que la consumiera, los ojos parecían más grandes, más negros por las ojeras lívidas que los cercaban.

No quería ya ni siquiera trabajar, aunque siempre hubiera sido la más diligente de Amarelli. Se pasaba los días en cuclillas en el escalón delante de la puerta, mientras mamá Vita hilaba o zurcía, escuchando parlotear al niño, que había aprendido a llamar a papá; y las dos sin decírselo nunca, tenían los ojos en la esquina por la que solía asomar el cartero, estremeciéndose si lo veían acercarse a su casa.

Pero las cartas llegaban cada vez más raramente. Y Catena no se desahogaba ya ni siquiera con la suegra; en la cabeza se le agitaban tantos pensamientos, que le latían las sienes como si tuviera fiebre; pensaba en la Mérica, en las casas altas y en las calles oscuras, pensaba en Mariano, joven y fuerte, en la hermosa tierra de Baronia, y volvía a ver la hermosa y descarada figura de la hermanastra.

Las vecinas no lograban nunca hacerla hablar un poco. Pero algunas veces oían su voz, que se había vuelto muy extraña y aguda; la oían hablarle a su niño, como si este pudiera comprenderla, dándole un runrún de sobrenombres extraños, con acento alterado, mudable y frenético.

– Estrella, tesoro, Cavaleri finu, San Giorgiu biunnu, Apuzza nica. Tu mi ristasti. Chiamalu, papà, chiamalu ca è luntanu… [18]

El pequeño al principio, levantado en los brazos nerviosos de la madre, se reía, pero, sofocado por las impetuosas caricias, acababa llorando.

Una mañana, viendo pasar a la señá Maria, le preguntó si tenía dos canastas para meter uva e higos  para llevárselos a Mariano.

– Los higos le gustan tanto, y allí no hay… Sí, me marcho con el niño – dijo abriendo desmesuradamente los grandes ojos negros asustados.

– ¡Yo sé, ahora, cómo se viaja!

Y como la señá Maria sacudía la cabeza, ella le volvió la espalda, airada, y se sentó de nuevo ante la puerta.

Cartas no llegaban, y los ojos no se curaban. Sin embargo, habían hecho tres novenas y habían ofrecido dos antorchas a Santa Lucia, pero la santa no había querido concederle la gracia.

Ahora ya no había esperanza de curarse. Y Catena se había vuelto tan colérica, que la pobre mamá Vita solo por la gran piedad y el afecto no la contrariaba nunca.

Una mañana, era precisamente otra vez el día de San Michele, la señá Vita cerró la puerta porque hacía frío.

La nuera que, no se sabe por qué, había bajado al establo, le dijo al volver:

– Mamá, ve a recoger las canastas que me ha prometido la señá Maria para meter los tomates y los higos.

– ¿Qué dices, Catena ?, ¡este no es el tiempo de los tomates!

Catena abrió la puerta con violencia llevando al niño de la mano.

– ¿Qué haces ? ¡Ya no es verano, viene el frío! ¡Qué fastidiosa te has vuelto, hija! ¡Ya no tienes corazón en el pecho!

Catena la miró. En la cara olivácea no se le veían sino los ojos con los párpados hinchados y lívidos como dos manchas.

Se sentó en la puerta, se puso al pequeño en las rodillas y haciéndolo bailar, comenzó a decirle, primero despacio, luego más fuerte, luego con su extraña y aguda voz que hería los oídos.

– Estrella, tesoro, apuzza nica, spica d’oro! Chiamalu, papà! chiamalu ca è luntanu! Stella! Cavaleri finu…[19]

Lo estrechaba fuerte entre las pequeñas manos nerviosas, levantándolo en el aire, y el niño se debatía y lloraba.

La señá Vita, asustada, se acercó para quitárselo, pero Catena lo estrechaba fuerte, como entre dos mordiscos, y la pobre vieja no podía.

Acudieron también las vecinas, curiosas por las voces de las mujeres y por el llanto del niño; rogándole, amenazándola, se lo arrancaron de las manos, a costa de hacerle daño, mientras Catena repetía, riendo, con los grandes ojos desencajados:

– ¡Tesoro! ¡Estrella!, llámalo, llámalo…

Creían que se iba a morir con las convulsiones, como se había muerto su madre. Pero luego se calmó. Y nunca más se repitieron los furores de esa mañana.

No reconocía al hijo, no reconocía a la suegra, pero no molestaba a nadie. Se pasaba los días enteros en cuclillas en la puerta, sin sentir el frío del cierzo, con el mentón entre las manos; y si una vecina se le acercaba, ella le explicaba – con una sonrisa extraña en la pequeña cara oscura – como si esperara el vapor, de allí.

– ¿Veis?, – indicaba – allí en el gran mar el vapor echa humo y silba…

Las canastas con la uva y los higos estaban preparados.

– Me marcho mañana. Me he curado – añadía tocándose los ojos con las palmas abiertas. – Me he curado. ¿Veis? Me marcho mañana…

 

[17] Más tarde, pasaron otros, más de treinta: / los jóvenes se movían como las abejas; / Me pareció que la oscuridad, uno tras otro, / se los había tragado, y que el viento, / en la niebla baja y pegajosa / los había esparcido por el mundo. / La oscuridad los atraía, un ruido confuso, / un charloteo, y nombres, y gritos, y llantos: / uno cantaba con todo el aliento / pero había tanta ira en esas voces / desesperación y dolor, / que parecía que maldecían cielo y tierra. //

[18] Se suceden palabras italianas (las dos primeras) y sicilianas: Estrella, tesoro, lindo caballero, San Jorge rubio, pequeña Abeja. Tú te has quedado conmigo. Llama a papá, llámalo, que está lejos.

[19] ¡Estrella, tesoro, pequeña abeja, espiga de oro! ¡Llama a papá!, ¡llámalo que está lejos! ¡Estrella! Lindo caballero…

Le scarpette

Vanni e Maredda si volevano bene, ma di maritarsi non potevano parlare perché erano poveri. Tutti e due orfani di padre, Maredda faceva la tessitrice, Vanni lavorava nella bottega di mastro Nitto il calzolaio. Spesso, egli, diceva alla madre:

— Ma’, per quanto si lavori, si fa come le formiche; raspa e raspa e a pena a pena si riesce a campare.

— Che ci puoi fare, figliolo? Campare è già qualche cosa.

Con Maredda si vedeva un poco verso sera, allo smettere del lavoro, e, la domenica, alla prima messa della Matrice. Più d’un’occhiatina e d‘una paroletta amorosa, non osava. E pure diverse volte s’eran trovati soli, al chiaro di luna, sotto la pergola del Sinibbio, e senza paura di esser veduti; ma anche allora Vanni non aveva fatto altro che prenderle una mano e dirle piano piano:

— Bruttona! Ti voglio bene assai, a te!

Aveva sentito tremare la mano gelata di Maredda nella sua, aveva capito che, se pure l’avesse abbracciata non si sarebbe difesa, ma non aveva osato. Pure, quando le era vicino non sentiva altro desiderio che di baciarla; e spesso nella bottega di mastro Nitto, si dava del minchione rimpiangendo di non averlo fatto. Ma lui — ch’era cresciuto attaccato alle gonne della mamma come una ragazza — aveva certe delicatezze che non si sapeva chi glie le avesse insegnate.

La stessa Maredda gli aveva detto tante volte, quando s’eran bisticciati:

— Già tu non farai mai niente di buono perché tu non sei che un poesiante!

Se n’offendeva. Ma lo chiamavano tutti così e perché sonava il mandolino come pochi lo sonavano e perché era il più buon giovane del Sinibbio.

— Non è vero — soleva dire alla ragazza — ch’io non pensi al sodo. Io che non fumo un sigaro e non bevo un bicchier di vino manco se m’invitano!… Eh! presto potrò parlare a tua madre senza paura d’essere scacciato com’un morto di fame. Ho già cominciato a far le spese, io!

S’era provveduto d’un paiolo di rame, d‘una dozzina di piatti, e aveva lavorato a pezzi e a bocconi un par di scarpette gialle col fiocco di seta, che avevan fatto arrossire di piacere Maredda quando glie l‘aveva mostrate.

— Si comincia dal poco e piano piano si va al grande — diceva Vanni — verrà il tempo che comprerò l’oro e le vesti, e allora!…

E guardava in fondo in fondo agli occhi della ragazza che diventava rossa come un papavero.

 

Ma per quanto s‘industriasse non poteva far gran che. Ogni tanto, per la provvista del grano e della legna, se n’andava in una volta il gruzzolo messo su, a soldo a soldo, per mesi e mesi. Così un inverno, che non poté metter da parte manco quattr’onze, cominciò a scoraggiarsi. La gna’ Nunzia, a vederlo afflitto, gli andava dietro rincorandolo:

— Buon tempo e malo tempo non duran tutto il tempo… Vedrai che passerà questa miseria.

Ma Vanni non rispondeva; e in bottega lavorava a testa china come quando si pensa. Una sera, mentre la gna’ Nunzia stava al focolare per cocere un cavolo, disse:

— Io me ne vado alla Mèrica.

La vecchia trasalì come se le avessero dato una botta sulle spalle e posò la vèntola.

— Sì, me ne vado. Che faccio qui a sprecare il meglio della gioventù con mastro Nitto che mi succhia il sangue? Me ne vado.

— Pure si campa — osservò la madre.

— E ci facciamo vecchi.

La testa l‘aveva a Maredda e la gna’ Nunzia, che lo sapeva, non gliene faceva carico perché la ragazza era onesta e laboriosa.

Cenarono senza dirsi altro; la gna’ Nunzia guardava il figlio come se lo vedesse per l’ultima volta, e gli occhi le si gonfiavano di lacrime; Vanni, ora che la madre non l‘aveva contrariato, sentiva il peso della propria risoluzione.

Ne parlò a Maredda come d‘una cosa fatta. Maredda pianse disperatamente ma si chetò alla voce sicura del giovane:

— Che faccio qui? Laggiù… Più d’un anno non ci resto. Guadagnerò tanto da poterci maritare e metter su bottega per conto mio. Laggiù l’oro costa poco e le buccole te le porterò da lì…

Maredda sorrise fra le lagrime e Vanni la guardò girando il berretto fra le mani e movendo la testa come per dire:

— Non sono uno qualunque, io!

Altro che uno qualunque! aveva tanti progetti per la testa e diceva:

— … ti farò passare davanti, bruttona, il mare con tutti i pesci, ti farò fare la signora…

E già gli pareva di essere ricco, di avere una casa e la moglie, e la bottega per conto proprio.     

Da principio fu un poco sbigottito della sua stessa decisione; poi, a poco a poco, cominciò a abituarcisi, ne fece l‘argomento di tutti i discorsi, e volle sembrare allegro; quando cominciò a prepararsi per la partenza non volle che sua madre piangesse:

— Non vado alla guerra, io! vedrai che non mi riconoscerai più. Se non altro, mastro Nitto mi rispetterà.

 

Gli pareva d‘esser diventato un uomo di quelli anziani, e camminava superbamente con Peppe Sciuto e Cola Spica ch’erano ammogliati e partivano anch’essi per la Mèrica.

Anche la sera della partenza volle parere allegro. Peppe e Cola vennero a prenderlo verso le otto e la gna’ Nunzia lo seguì per accompagnarlo fino a Cicè. Maredda, con gli occhi rossi, s’affacciò sulla finestra, a salutarlo, sporgendo un po’ la testa fra un basilico e una rosa.

Per la via incontrarono gli altri emigranti; non si conoscevano bene fra di loro, ma si unirono come se fossero stati amici dalla nascita. Tutti volevano parere tranquilli; ma tutti lasciavano una casa e una donna. Cola teneva per mano il figlioletto e gesticolando alzava, a strappate, anche il braccino che teneva stretto nella mano callosa, così che il bimbo levava i grandi occhi sgomenti. Passando davanti la propria quota aggrottò la fronte e scosse la testa e maledì la terra ingrata.

Ma Peppe Sciuto cominciò a cantare e allora ognuno lo accompagnò. E la strada si riempì d’un canto forte e melanconico che pareva tutto d‘una voce, e ora si levava cupo come una minaccia, a momenti tremulo come un pianto sconfortato, a momenti piano come una preghiera.

Maredda aspettava notizie di Vanni e le pareva una festa quando la gna’ Nunzia glie ne dava.

Dopo due mesi il postino le consegnò una lettera gialla coll’indirizzo stampato, e lesse, trepidante e commossa.

Vanni le diceva tante parole amorose che la riempirono di felicità, ma la madre cominciò a borbottare. La lettera era venuta in una brutta giornata: il pane della madia era finito e, poi che non c‘era denaro per provvedersi del nuovo grano, madre e figlia s‘erano avvilite sino a comprare il pane in bottega, come l’ultime delle poverette, come quelle che campano alla giornata. Però la gna’ Liboria, ch’era di malumore pe’ I fatti propri, se la sfogò con quella povera lettera innocente e con la figlia che credeva alle ciance di quel babbaleo, che se fosse tornato con qualche soldo non l‘avrebbe neanche guardata in faccia. Essa vedeva girare nel vicoletto mastro Cristoforo di Licata — un potatore che guadagnava dieci lire la settimana — e si struggeva a veder la ragazza, dura dura, voltargli le spalle o chiudergli la finestra sul muso. Cose da pigliarla a schiaffi!

— Io sono vecchia — le diceva spesso, — tu sei povera. Che ti aspetti dalla vita? Mica sei una signora da potere stare con la testa fra le nuvole! Non vedi che quel barbagianni non s’è promesso?

Maredda si mortificava ma pensava a Vanni suo. Avrebbe voluto al meno mandarlo a salutare, ma non eran fidanzati e sarebbe stata una sfacciataggine, sarebbe stato peggio che farsi baciare davanti a un popolo.

Dopo quella non ebbe altre lettere. Venne la primavera e passò l‘estate, e di Vanni non sentì più parlare. Le vicine dicevano che la Mèrica non lascia più tornare alcuno, che il meglio della gioventù si consuma in quella terra sconosciuta e l‘emigrante non rimpatria se non ha cent’onze per farsi una casa.

Maredda credeva a quei discorsi sconfortanti, e tessendo canticchiava, per scordarsi la pena di Vanni:

Vitti tri rosi a ‘na rama pinniri
Nun sacciu di li tri qual è a pigghiari…
Nun c’è ghiurnata chi nun scura mai
Nun c’è mumentu chi nun penzu a ttia…

Ma Vanni tornò nell’altra primavera. Aveva seco il suo piccolo baule bigio che sapeva anch’esso di strade e gente straniera e fumo di ferrovia. Non portava altro che trentacinque onze; una miseria, in paragone ai capitali sognati e progettati sotto la pergola del Sinibbio. Ma non aveva potuto più resistere laggiù…

Parlò subito di questo alla madre che gli venne incontro sino al Rosario. La gna’ Nunzia, con la mantellina calata sulle spalle, non sapeva dir nulla; se lo guardava da capo a piedi, quel figliolo, e le pareva smagrito e le pareva d’averlo ritrovato. Aprendo l’uscio lo fece passare avanti e gli indicò il lettuccio col tramareddo pulito e la tovaglia stesa sulla cassapanca, per fargli capire che l‘aveva aspettato. E Vanni le disse, ancora in piedi:

— Non ho fatto gran cosa, ma’…

— Non fa niente, figlio. Purché sii tornato. Mi pareva di dover morire senza più vederti.

— Solo trentacinque onze. E Dio solo sa quel che ho patito per metterle insieme.

— Non fa niente, figlio. Qui c’è lavoro perché il mese passato è morto mastro Nitto il calzolaio.

— Non ho altro — continuò Vanni. — Ma io mi contento d’un pezzo di pane quassù al mio paese. Maledetta la Mèrica… È una vecchia ruffiana che porta alla mala via con le lusinghe. Mica la gente onesta s’arricchisce, laggiù! Ma mi bastano per comprar l’oro e le vesti e anche un po’ di coio da poter lavorare.

— Mangia, Vannuzzo — disse la gna’ Nunzia abbuiandosi — e non pensare ad altro, per ora.

— Perché, ma’? — chiese Vanni guardandola sospettosamente.

La gna’ Nunzia sospirò, e sì come Vanni sgranava gli occhi e corrugava la fronte, gli toccò un braccio e gli disse:

— Vanni, Vanni! Sei dunque venuto solo per quella! per la tua mamma non saresti tornato?

— Che discorsi! — fece il giovanotto alzando le spalle — o allora perché son partito?

— Vanni — disse la vecchia — tu se’ ancora un poesiante e nulla più Quando l‘uccello vola vuoi che la rama resti deserta? La rama è ferma e l‘uccello si move, ne vola uno e se ne posa un altro.

— Ma io… come è vero Dio…!

— Vanni, Vanni, che dici, che bestemmi? Che vuoi? La gioventù vuole l‘amore e le donne voglion marito!

Vanni guardava a terra nero e torvo, coi pollici irrequieti nei taschini della sottoveste. La gna’ Nunzia un po’ timorosa scodellava.

— Si fredda, figlio.

— Io li scanno — mormorava Vanni. — Vergogna! Non aspettare un anno e mezzo! E io minchione che ho mangiato pane asciutto e ho dormito sulla paglia per fare a soldo a soldo queste miserabili trentacinque onze. Ma chi è? Lo sai, almeno?

— Uno di Licata, un potatore. Il partito era buono e Maredda è povera. C’è da compatirla. Anch’io mi son sentita bollire il sangue nelle vene. Ma poi l’ho perdonata. Bisogna sapere come stanno le cose…

— Ma se mi capita davanti gli dirò due paroline Lui si piglia le bucce, vergogna! Il meglio, l’ho avuto io; ché il primo amore d’una ragazza è ciò che vale, il secondo no. Glie lo dico. E la lascerà. E allora non me la piglio neanche io!

La gna’ Nunzia scodellava e lo lasciava parlare Quand’ebbe sfogato bene, parlò e a poco a poco lo calmò. Che voleva fare? Ora mai, Maredda, s‘era rovinata, s‘era ridotta al punto che, se il potatore non l’avesse voluta, poteva legarsi una pietra al collo e buttarsi a mare. Il male era stato a non promettersi. Non era preferibile, adesso, lasciare andare ognuno per la propria via e non impicciarsi di que’ pezzenti disonorati?

Lo persuase anche a mangiare. E dopo aver mangiato Vanni si sentì un altro, così che la vecchia disse:

— Era la fame e la stanchezza, figlio. Tu vedevi le cose con gli occhi del bove. Allegramente, che sei giovanotto e le ragazze non sono finite

— Oh, questo sì! — approvò Vanni. — Ora la moglie me la cercherai tu. Com’è vero Dio, mi voglio maritare per la festa di San Giuseppe!

 

Sul tardi vennero amici e parenti a festeggiare il ritorno di Vanni che, tutto acceso, si sentiva un uomo esperiente e parlava della Mèrica sputando a terra.

Verso sera, quando tutti furono andati via, Vanni cercò nella cassapanca una camicia pulita, di quelle vecchie. Con le mani toccò qualche cosa di duro; la scatola di cartone con le scarpette di Maredda.

— Cose di femmine!… — mormorò, abbuiandosi in viso, e la scaraventò lontano, in un canto.

— No, no — fece la gna’ Nunzia correndo a raccattarla — se, mettiamo caso, un’altra… la sposa, ha lo stesso piede? Non è peccato spendere altro denaro? E poi — aggiunse soffiando delicatamente su un fiocchetto che s‘era un po’ pigiato — son proprio nuove, nuove!

Vanni, chiuse la cassapanca, scrollando la testa in segno d‘approvazione.

Los zapatitos

Vanni y Maredda se querían bien, pero de casarse no podían hablar porque eran pobres. Los dos eran huérfanos de padre, Maredda era tejedora, Vanni trabajaba en el taller de maese Nitto, el zapatero. A menudo, él le decía a la madre:

– Mamá, por mucho que se trabaje, hacemos como las hormigas; escarbamos y escarbamos, y a duras penas logramos sustentarnos.

– ¿Qué se puede hacer, hijo? Sustentarnos ya es algo.

Maredda y él se veían un poco por la tarde, al terminar el trabajo, y, el domingo, en la primera misa de la Catedral. Más de una mirada y de una palabrita amorosa no osaba. Y sin embargo, varias veces se habían encontrado a solas, al claro de luna, bajo la pérgola del Sinibbio, y sin miedo de ser vistos; pero incluso entonces Vanni no había hecho sino cogerle una mano y decirle muy bajito:

– ¡Feúcha! ¡Yo a ti te quiero mucho!

Había sentido temblar la mano helada de Maredda en la suya, había comprendido que, aunque la hubiera abrazado, no se habría defendido, pero no se había atrevido. Pero, cuando estaba a a su lado, no sentía más deseo que besarla; y a menudo en el taller de maese Nitto, se llamaba papanatas, arrepintiéndose de no haberlo hecho. Pero él – que había crecido pegado a las faldas de la madre como una muchacha – tenía ciertas delicadezas que no se sabía quién se las había enseñado.

La misma Maredda se lo había dicho muchas veces, cuando habían peleado:

– ¡Tú nunca harás nada importante porque no eres más que un poesiante! [20]

Se ofendía. Pero lo llamaban todos así porque tocaba la mandolina como pocos y porque era el mejor joven de Sinibbio.

– No es verdad – solía decirle a la muchacha – que yo no piense en lo importante. ¡Yo que no me fumo un cigarro, ni me bebo un vaso de vino ni aunque me inviten! ¡Eh!, pronto podré hablar con tu madre sin miedo de ser rechazado como un muerto de hambre. ¡Yo ya he comenzado a hacer las compras!

Se había provisto de un caldero de cobre, de una docena de platos, y había trabajado a ratos en un par de zapatitos amarillos con un lazo de seda, que habían hecho que Maredda se ruborizara de placer cuando se los enseñó.

– Se comienza con poco, y lentamente se prospera – decía Vanni – llegará el tiempo en que compraré el oro y los trajes, ¡y entonces!

Y miraba muy en el fondo de los ojos de la muchacha, que se ponía roja como una amapola.

Pero por mucho que se las ingeniaba no podía hacer casi nada. De vez en cuando, para proveerse del trigo y de la leña, se iba de un tirón, con los ahorros encima, moneda a moneda, durante meses y meses. Así un invierno, que no pudo poner aparte ni cuatro onzas, comenzó a desanimarse. La señá Nunzia, viéndolo afligido, iba tras él animándolo:

– Buen tiempo y mal tiempo no duran todo el tiempo… Verás que pasará esta miseria.

Pero Vanni no respondía; y en el taller trabajaba con la cabeza inclinada como cuando se piensa. Una tarde, mientras la señá Nunzia estaba ante el fogón cociendo una col, dijo:

– Yo me voy a América.

La vieja se estremeció como si le hubieran dado un golpe en la espalda y soltó el soplillo.

– Sí, me voy. ¿Qué hago aquí malgastando lo mejor de la juventud con maese Nitto que me chupa la sangre? Me voy.

– Sin embargo, nos sustentamos – observó la madre.

– Y nos hacemos viejos.

La cabeza la tenía en Maredda, y la señá Nunzia, que lo sabía, no lo culpaba porque la muchacha era honesta y trabajadora.

Cenaron sin decirse nada más; la señá Nunzia miraba al hijo como si lo viera por última vez, y los ojos se le hinchaban de lágrimas; Vanni, ahora que la madre no lo había contrariado, sentía el peso de su propia resolución.

Le habló de ello a Maredda como de una cosa hecha. Maredda lloró desesperadamente, pero se tranquilizó con la voz segura del joven:

– ¿Qué hago aquí ? Allí… Más de un año no me quedo. Ganaré tanto como para poder casarnos y poner un taller por mi cuenta. Allí el oro cuesta poco y los pendientes te los traeré de allí…

Maredda sonrió entre lágrimas, y Vanni la miró dándole vueltas a la gorra entre las manos y moviendo la cabeza como para decir:

– ¡Yo no soy un cualquiera!

¡Seguro que no era un cualquiera!, ¡tenía en la cabeza tantos proyectos!, y decía:

– … te haré pasar delante, feúcha, el mar con todos los peces, haré que tengas una vida de señora…

Y ya le parecía que era rico, que tenía casa y mujer, y taller por cuenta propia.

Al principio estuvo un poco desconcertado con su propia decisión; luego, poco a poco, comenzó a acostumbrarse, hizo de ello el tema de todos los discursos, y quiso parecer alegre; cuando comenzó a prepararse para su partida, no quiso que su madre llorara:

– ¡Que no voy a la guerra!, verás que ya no me reconocerás. Si no es otra cosa, al menos maese Nitto me respetará.

Le parecía que se había vuelto un hombre de los mayores, y caminaba soberbiamente con Peppe Sciuto y Cola Spica que estaban casados y se marchaban también ellos a América.

También la tarde de la partida quiso parecer alegre. Peppe y Cola vinieron a recogerlo sobre las ocho, y la señá Nunzia lo siguió para acompañarlo hasta Cicè. Maredda, con los ojos rojos, se asomó a la ventana, a saludarlo, sacando un poco la cabeza entre una albahaca y una rosa.

Por el camino encontraron a otros emigrantes; no se conocían bien entre ellos, pero se unieron como si fueran amigos de nacimiento. Todos querían parecer tranquilos; pero todos dejaban una casa y a una mujer. Cola llevaba de la mano al hijo y gesticulando alzaba, a tirones, también el bracito que tenía estrechado en la mano callosa, de modo que el niño tenía los ojos apesadumbrados. Pasando por delante de la propia quota [21] frunció la frente y sacudió la cabeza y maldijo la tierra ingrata.

Pero Peppe Sciuto comenzó a cantar, y entonces todos lo acompañaron. Y la carretera se llenó de un canto fuerte y melancólico que parecía todo a una voz, y se elevaba triste como una amenaza, trémulo por momentos como un llanto desconsolado, bajo otras veces como una oración.

Maredda esperaba noticias de Vanni y le parecía una fiesta cuando la señá Nunzia se las daba.

Dos meses después, el cartero le entregó una carta amarillenta con la dirección impresa, y la leyó, ansiosa y conmovida.

Vanni le decía muchas palabras amorosas que la llenaron de felicidad, pero la madre comenzó a mascullar. La carta había llegado un mal día: el pan de la artesa se había terminado y, como no tenían dinero para proveerse de más grano, madre e hija tuvieron que humillarse incluso a comprar el pan en la tienda, como la última de las pobres, como las que viven al día. Por ello, la señá Liboria, que estaba de malhumor por sus asuntos, se desahogó con esa pobre carta inocente y con la hija que creía en las chácharas de ese papanatas que si volviera con algún dinero, ni la miraría a la cara. Ella veía dar vueltas por el callejón a maese Cristoforo de Licata – un podador que ganaba diez liras a la semana – y se consumía viendo que la muchacha, muy dura, le volvía la espalda o le cerraba la ventana en su cara. ¡Cosas para cogerla a bofetadas!

– Yo soy vieja – le decía a menudo, –  y tú eres pobre. ¿Qué esperas de la vida? ¡No eres para nada una señora que pueda estar con la cabeza en las nubes! ¿No ves que ese mochuelo no se ha prometido?

Maredda se mortificaba, pero consideraba a Vanni suyo. Habría querido al menos despedirse, pero no eran novios y habría sido una desfachatez, habría sido peor que dejarse besar delante de un pueblo.

Después de esa no hubo más cartas. Vino la primavera y pasó el verano, y de Vanni no se oyó hablar más. Las vecinas decían que América no deja que vuelva nadie, que lo mejor de la juventud se consume en esa tierra desconocida, y el emigrante no vuelve a la patria si no tiene cien onzas para hacerse una casa.

Maredda se creía esos discursos desalentadores, y tejiendo canturreaba, para olvidar la pena de Vanni:

Vitti tri rosi a ‘na rama pinniri
Nun sacciu di li tri qual è a pigghiari…
Nun c’è ghiurnata chi nun scura mai
Nun c’è mumentu chi nun penzu a ttia… [22]

Pero Vanni volvió la primavera siguiente. Traía su pequeño baúl ceniciento que también sabía de carreteras y gente extranjera y humo de trenes. No traía más que treintaicinco onzas; una miseria, en comparación con los capitales soñados y proyectados bajo la pérgola de Sinibbio. Pero no había podido resistir más allí…

Le habló de ello enseguida a la madre que fue a su encuentro hasta Rosario. La señá Nunzia, con la mantilla bajada sobre los hombros, no podía decirle nada; lo miraba de arriba abajo, a ese hijo, y le parecía más delgado y le parecía que lo había reencontrado. Al abrir la puerta lo hizo pasar adelante y le indicó la camita con el tramareddo [23] limpio y el mantel sobre el arcón, para hacerle entender que lo había esperado. Y Vanni le dijo, aún de pie:

– No he hecho gran cosa, madre…

– No importa, hijo. Con que hayas vuelto. Me parecía que iba a morirme sin verte más.

– Solo treintaicinco onzas. Y Dios sabe lo que he padecido para reunirlas.

– No importa, hijo. Aquí hay trabajo porque el mes pasado se murió maese Nitto el zapatero.

– No tengo más – continuó Vanni. – Pero yo me contento con un pedazo de pan aquí en mi tierra. Maldita América… Es una vieja rufiana que lleva a la mala vida con las lisonjas. ¡Para nada la gente honesta se enriquece allí! Pero me bastan para comprar el oro y los trajes e incluso un poco de cuero con el que poder trabajar.

– Come, Vannuzzo – le dijo la señá Nunzia entristeciéndose – y no pienses nada más, por ahora.

– ¿Por qué, madre? – le preguntó Vanni con desconfianza.

La señá Nunzia suspiró, y como Vanni abría los ojos de par en par y arrugaba la frente, le tocó un brazo y le dijo:

– ¡Vanni, Vanni! ¡Entonces, solo has venido por ella!, ¿por tu madre no habrías vuelto?

– ¡Tonterías! – dijo el joven levantando los hombros – entonces, ¿por qué me he ido?

– Vanni – dijo la anciana – tú eres aún un poesiante y nada más. Cuando el pájaro vuela, ¿pretendes que la rama permanezca desierta? La rama está quieta y el pájaro se mueve, vuela uno y se posa otro.

– Pero yo… ¡Como que Dios existe…!

– Vanni, Vanni, ¿qué dices?, ¿qué blasfemas? ¿Qué quieres? ¡La juventud quiere amor y las mujeres quieren marido!

Vanni miraba el suelo, triste y torvo, con los pulgares inquietos en los bolsillos del chaleco. La señá Nunzia, un poco temerosa, le servía la sopa.

– Se enfría, hijo.

– Yo los degüello – murmuraba Vanni. – ¡Qué vergüenza! ¡No esperar un año y medio! Y yo haciendo el tonto y comiendo pan a secas y durmiendo sobre paja para ahorrar moneda tras moneda estas treintaicinco onzas miserables. Pero ¿quién es? ¿Lo sabes al menos?

– Uno de Licata, un podador. El partido era bueno, y Maredda es pobre. Hay que compadecerse de ella. También yo sentí que me hervía la sangre en las venas. Pero luego la he perdonado. Hay que saber cómo están las cosas…

– Pero si se me lo encuentro, le diré unas palabritas. Él se lleva las cáscaras, ¡qué vergüenza! Lo mejor lo he tenido yo; pues el primer amor de una muchacha es el que vale, el segundo, no. Se lo digo. Y la dejará. ¡Y luego no me la quedo ni yo!

La señá Nunzia servía y lo dejaba hablar. Cuando se desahogó bastante, ella le habló y él poco a poco se calmó. ¿Qué quería hacer? Ahora, Maredda, se había arruinado, había llegado a un punto en que, si el podador no la quería, podía atarse una piedra al cuello y arrojarse al mar. El mal estaba en no haberse prometido. ¿No era preferible, ahora, dejar que cada uno se fuera por su propio camino y no entrometerse en los asuntos de esos miserables deshonrados?

Lo persuadió incluso para que comiera. Y tras haber comido, Vanni se sintió distinto, así que la anciana le dijo:

– Era el hambre y el cansancio, hijo. Tú veías las cosas con cristal de aumento. Alégrate, que eres joven y las muchachas no se han terminado.

– ¡Oh, esto sí! – aprobó Vanni. – Ahora serás tú la que me buscarás una esposa. ¡Como que Dios existe, quiero casarme para la fiesta de San Giuseppe!

Al atardecer vinieron los amigos y los parientes a celebrar el regreso de Vanni que, todo encendido, se sentía un hombre experto y hablaba de América escupiendo en el suelo.

Por la noche, cuando todos se fueron, Vanni buscó en el arcón una camisa limpia, de las viejas. Tocó con las manos algo duro, la caja de cartón con los zapatitos de Maredda.

– ¡Cosas de mujeres!… – murmuró, entristeciéndosele el rostro, y la lanzó lejos, a un rincón.

– No, no – dijo la señá Nunzia corriendo a recogerla – ¿y si, supongamos, otra… tu esposa tiene el mismo pie? ¿No es una pena gastar más dinero? Y además – añadió soplando delicadamente sobre un lazo que se había aplastado un poco – ¡están nuevas del todo, nuevas!

Vanni cerró el arcón y sacudió la cabeza en señal de aprobación.

 

[20] Voz siciliana (it. Poetante): ´Quien ve el lado poético de las cosas`. Se correspondería con soñador.

[21] Voz siciliana. En este caso, ´parcela de tierra`.

[22] Vi tres rosas pender de la rama / no sé cuál coger de las tres/ … No hay día que no tenga su noche / No hay momento que no piense en ti.

[23] Voz siciliana: ´manta`.

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