Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Original

Piccoli gorghi

1911

Testi

        1. Mùnnino
        2. La croce
        3. Sotto tutela
        4. Gli ospiti
        5. Ti-nesciu
        6. Oggi a me, domani a te
        7. La nicchia vuota
        8. L’ora che passa
        9. Dopo le serenate
        10. Il ricordo
        11. La Mèrica
        12. Le scarpette
        13. Nonna Lidda

 

Mùnnino

La gna’ Mara la chiamavan la farera, ma il suo telaio, coperto di polvere e ragnateli, taceva per molti mesi di seguito.

Il marito, vecchio e bolso, veniva una sola volta all‘anno per farsi aggiustar le camicie e il giubbone sdruciti e per curarsi le febbri che pigliava a Salamuni; ben che non le mandasse un soldo, la farera non si moriva di fame, e nel vicinato si diceva che se l‘intendesse con Vanni il falegname, quello dai capelli rossi, che serviva i meglio signori del paese e ogni anno cominciava a picchiar sulle botti a luglio e finiva in ottobre, tanti erano i clienti che aveva.

Quello che se la passava male era Mùnnino, poveraccio, di cui la madre si sbarazzava il più che poteva; la mattina lo mandava a scuola con un pezzo di pane sotto il braccio, e nel pomeriggio gli faceva trovar la porta chiusa. Mùnnino che c‘era abituato, infilava i quaderni nella gattaiola e s’avviava verso la via Amarelli dove c‘era la pergola di padre Nibbio; s’accoccolava su uno scalino, coi gomiti sulle ginocchia e il mento fra le mani, e guardava i ragazzi a giocare. Lui, poiché non aveva mai trottola né pennini, non poteva unirsi ai giochi; i pennini glieli passava il maestro, e per dargliene uno nuovo voleva prima vedere il vecchio che doveva essere spuntato e ben grommato d’inchiostro; solo quando riaveva il pennino vecchio andava a giocarselo, tutto felice, ma lo perdeva subito e tornava ad accoccolarsi sullo scalino mentre i ragazzi lo schernivano. Verso l‘imbrunire andava a spiare l’uscio, e quando lo trovava aperto vi si infilava lesto lesto come quei gatti che, scacciati di casa, vi rientrano subito che possono e s’accucciano timorosi di esser veduti e rimandati via.

Una notte, poteva avere nove o dieci anni al più, fu mandato a letto presto e senza cena. Non poteva trovar sonno; verso mezzanotte, sentì come se si aprisse l‘uscio di strada; spaventato cacciò la testa sotto il tramareddo, ma udendo giù un passo pesante si mise a urlare chiamando la madre che dormiva nella stanzina sotto la sua soffitta. Poi, udendola bisbigliare, e rassicuratosi, saltò dal letto e stava per scendere la scaletta, quando se la vide davanti, in sottana, con la lucernetta in mano.

— Che vuoi? Che ti salta in mente?

— Ho sentito…

— Che hai sentito? Non hai sentito niente.

— Qualcuno, per la scaletta… Madonna santissima!

— Tu stai sognando. Va’ a ricoricarti. Non ti far sentire a strillare dalla gente. Va’!

Nella luce fioca della lucerna parve a Mùnnino di scorgere i capelli rossi del falegname, giù, e strillò:

— Hai visto? Madonna santissima!

— Senti, se tu dici un’altra mezza parola ti ammazzo. Com’è vero Iddio, ti ammazzo. Non ci sono i briganti, qui. Di che hai paura?

Ma si come Mùnnino restava inchiodato sulla scaletta, in camicia, pieno di paura, di curiosità ostinata, la farera perdé la pazienza e cominciò a picchiarlo. Ne buscò tante da restar mezzo morto sul letto, tremante di freddo e di dolore. La farera diceva, con voce roca e bassa per non farsi sentire a quell’ora dalla gente:

— E zitto, capisci? Qui non c’è da aver paura. Non ci sono i briganti. Qualunque cosa tu senta, pensa che è cosa ben fatta ch’io faccio. E non andare spifferando alla gente i tuoi sogni. Ché se vengo a sapere che tu parli, che tu dici mezza parola, mezza, capisci?, t’ammazzo, ti cavo la lingua. E dormi, adesso.

Dormire poté soltanto verso l‘alba, quando cominciarono a passare i caprai ed i contadini. Tutta la notte fu un singhiozzare continuo, sotto il tramareddo, un dormicchiare angosciato pieno di sogni paurosi, uno svegliarsi all’improvviso. Al mattino, con le gote livide, s’avviò alla scuola grondon grondoni con le mani in tasca e i quaderni sudici sotto il braccio. Ancora sull’uscio la madre gli aveva detto, facendo gli occhiacci:

— E zitto!

Zitto, sicuro, andava pensando. Le botte son botte. Pure il falegname l’aveva veduto: c‘era da giurarci. I passi li aveva sentiti.

A scuola non seppe la lezione e il maestro, per castigo, gli levò il pane Era proprio una giornata disgraziata. A mezzogiorno aveva tanta fame che avrebbe mangiato le pietre, e fattosi coraggio indugiò dietro i banchi fino a quando vide uscire tutti i suoi compagni. Come tutti furon fuori e nella stanza piena di polvere restava solo il maestro che si metteva il soprabito, Mùnnino si fece avanti.

— Ancora qui! Che fai?

— Signor maestro! Mi faccia la carità di perdonarmi.

— Non lo meriti.

— Signor maestro — supplicò Mùnnino con gli occhi velati di lacrime — ho troppa fame.

— Studia la lezione, un’altra volta. Va’ via.

Il maestro era di cattivo umore, ma Mùnnino si fece un altro po’ di coraggio.

— Le giuro che non lo farò più. Ma ho troppa fame. Lei non sa che significa aver fame! — aggiunse piangendo.

Il maestro che stava per uscire si voltò improvvisamente:

— Eccoti il pane — e prendendolo dal cassetto lo posò sulla cattedra. — Ma tu fammi un servizio. Sei capace tu di fare un servizio in segreto?

— So fare qualunque cosa.

— Giura di non dirlo a nessuno. Neanche a tua madre.

Mùnnino lo guardò mettendosi una mano sul petto.

— Beh, va a portare questo biglietto a… lo sai dove abita donna Lucia la ricamatrice? Sai quella casa rossa dove finisce la piazza e comincia la campagna? Benissimo. Proprio quella casa. Un portoncino verde. Hai proprio capito? Allora va. Ma scappa. Io ti aspetto qui con l’orologio in mano.

 

Mùnnino col biglietto ben nascosto nella tasca dei calzoni, corse come un furetto, ché a stomaco vuoto si corre meglio. E tornato trovò il maestro che l’affogò di domande: se era andato proprio dopo la casa rossa, e chi gli aveva aperto, e che gli avevan detto. E Mùnnino si buscò quattro soldi, e corse tutto felice, sbocconcellando il suo pane, a buttare i quaderni nella gattaiola; ma piuttosto che andare a guardare i ragazzi andò in piazza a spendersi il suo guadagno in pane e sarde salate, e salì su, verso il Calvario, a mangiar vicino la fontana.  Lì c‘era un cane, tutto spelato, che cominciò a guardarlo tristemente movendo un po’ la coda; Mùnnino lo scacciò ma il cane non si mosse, gli tirò un sasso ma il cane tornò, e tornò a guardare un po’ lui e un po’ il pane che accennava a finire, con quegli occhi grandi e afflitti che parevano d‘uomo. Mùnnino era sazio e soddisfatto.

— Hai fame? — brontolò.

— Toh! — e gli buttò un boccon di pane che il cane ingoiò nelle larghe fauci affamate, tornando a guardar Mùnnino, scotendo la coda.

— Brutta cosa aver fame — brontolò il ragazzo — ma per te ci vorrebbe una pagnotta! — E a poco a poco divise il resto del suo pranzo col cane; poi, contento, bevve alla cannella una buona bevuta di acqua fresca, e s’avviò verso casa, e trovato l’uscio ancora chiuso andò a guardare i ragazzi a giocare. Non seppe neanche l’indomani la lezione, ma il maestro non lo sgridò, né lo chiamò a legger le vocali alla lavagna. Nell’ora di ricreazione, mentre i ragazzi scendevano con polveroso baccano giù in cortile, gli fece segno d’aspettare, e come furon soli lo tirò dietro la porta e, messegli tra le mani due monete, gli disse d’andare a comprare due chili di maccheroni zita e un chilo di salsicce.

— Portali ben nascosti sotto lo scapolare, che non si vedano — gli raccomandò.

Mùnnino tornò giusto un minuto prima che ricominciasse la scuola, rosso affannato, con quella roba che non voleva reggersi sotto il piccolo scapolare sdrucito, e che a un segno del maestro andò a nascondere nel camerino, sotto una sporta. Dopo scuola tornò a fare il viaggio verso la casa di donna Lucia e si buscò due soldi.

Da allora non si curò più di studiar le lezioni e guardò superbiosamente i compagni con una voglia matta di dire a qualcuno del gran segreto che conosceva; ma non fiatava, ché aveva imparato come a parlare non ci guadagnava niente, quando non buscava delle botte.

La notte, pieno di curiosità, stava a sentire il solito schiudersi dell’uscio, il solito passo pesante del falegname e il bisbigliare sommesso, e se udiva salire la madre, che veniva a veder se il figlio dormiva, si cacciava sotto il tramareddo chiudendo gli occhi. Faceva gran brutti pensieri contro il falegname, e quando lo vedeva di giorno — col grembialone davanti, tutto rosso, col largo viso soddisfatto, a picchiar sulle botti — stringeva i pugni mentre il piccolo cuore gli batteva più forte nel petto.  E ogni giorno, avviandosi verso la fontana, col pane buscatosi dal maestro, pensava tante cose curiose, guardando il paziente cane spelacchiato che ritrovava sempre. Quando sarò grande — rimuginava — grande e robusto, allora accuserò il maestro al figlio. Il maestro ha paura di suo figlio. E poi darò una buona sassata in testa a Vanni, da lasciarlo mezzo morto.

Il falegname faceva come il maestro, tale e quale; con la differenza che il maestro aveva paura del figlio, e il falegname e sua madre non ne avevano di lui, perché l’avrebbero picchiato se avesse soltanto parlato. Ma quando fosse cresciuto…

Un giorno, assieme al cane, trovò anche una ragazzina dai capelli arruffati e una vestina nera arrossata e sbrandellata, che cominciò a guardarlo. Come il cane

— Hai fame anche tu?

La ragazzina stese la mano verso il pane. Mùnnino, ch’era seduto alto, sull’orlo della fontana, se lo strinse sul petto:

— Va via, tu.

La ragazzina gli mostrò un pezzo di vetro azzurro:

— Te lo do.

— Non so che farmene.

E cominciò a mangiare, tutto contento di sentirsi invidiato. Poi soggiunse:

— Come ti chiami tu?

— Concetta

— E hai fame?

Concetta s’accostò e prese il pezzetto di pane che Mùnnino le mostrava. Poi Mùnnino fece altre due parti del pane avanzato e buttò la più piccola al cane, e mangiarono tutti e tre vicini vicini. Da quel giorno al cane si unì sempre Concetta, e quando quello, finita la sua piccola razione, s’allontanava a coda bassa, i due ragazzi restavano a giocare insieme. Concetta sapeva fare i fantocci con la terra intrisa nell’acqua, le case piccole piccole coi sassi e coi mattoni rotti, e tanti altri giochi che Mùnnino imparava con piacere perché non aveva mai giocato né mai avuto compagni; ma lui preferiva andare pei campi dove cresceva il grano e zirlavano i grilli, e dove si vedevano zappare i contadini; saltava le siepi con Concetta e si sdraiava per terra, tra il grano alto ancora verde, col viso all’aria e le mani intrecciate dietro la nuca, godendo la frescura nella schiena, tutto quieto, senza moversi né scacciar le mosche cavalline che gli ronzavano intorno. Concetta, che non sapeva star ferma un momento, andava cogliendo favagelli e rosolacci e ora si rizzava diritta nel frumento verde, ora s’acquattava per paura d’essere veduta dai campieri; poi, quand’era stanca, sedeva accanto a Mùnnino, co’ fiori nel grembiule sdrucito, e si divertiva strappando le foglie rosse a una a una, a raccoglierle a palloncino tra le dita e farle scoppiare sulla mano aperta.

Si parlavano poco.

— Tu non hai madre, dunque? — chiese un giorno Mùnnino.

— Non ne ho mai avuta, io.

— E come sei nata?

— Senza madre. Ce n’è tante senza mamma. Anche Nina è nata così. Ma è cosa brutta. La gna’ Fina poi mi picchia sempre.

— Anche le madri picchiano.

— Sì?! Tu ne buschi dunque?

— Non t’ho detto che io ne buschi. T‘ho detto che anche le madri picchiano.

Un pomeriggio trovò Concetta piangente con un braccio al collo.

— Si sarà rotto — diceva con viso spaventato — e non me lo curerà nessuno!

S’avviarono pe’ campi dove Mùnnino volle vedere il braccio, tutto livido.

— Mettiamoci un po’ d’erba — disse rifasciandolo alla meglio col fazzoletto — si rinfrescherà.

— Io non ci torno più — fece Concetta improvvisamente.

— Dove?

— Dalla gna’ Fina.

— E dove andrai?

— Lo so io? — singhiozzò Concetta. — È brutto non aver nessuno! E io debbo stare per forza con la gna’ Fina.

 

Mùnnino non rispose. Anch’egli doveva star con sua madre; ma per poco tempo ancora. Egli era uomo. E un uomo può guadagnarsi il pane. Dopo un pezzo disse:

— Io mi faccio pastore. Quando viene mio padre glielo dico.  

— Tu ti fai pastore e io resto con la gna’ Fina! — sospirò Concetta con una occhiata invidiosella.

— Io sono uomo — disse Mùnnino gravemente, sputando davanti a sé. — Un uomo, è un’altra cosa.

E, guardata Concetta, aggiunse aggrottando la fronte:

— Farò il pastore e avrò di che campare. Ma penserò anche a te. Lasciami crescere ancora e vedrai. Ho già tredici anni, io.

Concetta s’asciugò le guance rosse e umide di pianto e guardò il compagno con gli occhi luminosi; e tutt‘a un tratto, con le sue mosse di gatto selvatico, gli buttò le braccia al collo stringendolo così forte da fargli male; e Mùnnino strinse anch’egli la magra vitina di Concetta, e si dettero due baci che scoppiaron come foglie di papavero. Si sentirono improvvisamente contenti; sentirono come fossero cresciuti tutt’in una volta, e tornarono al paese tenendosi per mano, in silenzio.

L‘indomani, e gli altri giorni ancora, non andò a scuola; tanto non ci guadagnava più niente. Il maestro non gli dava più incarichi e lui non si buscava più pane e sarde salate. Ma seguitò a andare verso il Calvario, nel pomeriggio; trovava Concetta immancabilmente. Il cane si fece trovare altre due o tre volte e stette a guardare Mùnnino coi grandi occhi afflitti che parevan quelli d’un uomo; poi non venne più. Forse, lui, aveva trovato fortuna altrove.

Il mese appresso tornò il padre, con le febbri, e così invecchiato che, a vedergli trascinare le gambe, faceva pena. Mùnnino gli disse che voleva farsi pastore e il padre lo guardò dalla testa ai piedi, lentamente come per misurarlo, crollando la testa.

— Non mi credi capace? Fammi far la prova. Peppe ha cominciato quand’era più piccolo di me.

— Sì, ma Peppe era due volte più grosso… Se il padrone ti volesse!

— Conducimi da lui, per prova.

Il vecchio, che amava Mùnnino, l‘unico figlio maschio, disse alla moglie di cucirgli un giubboncino di fustagno, due camicie di tela grossa e uno scapolare nuovo. La madre s’affannò anima e corpo per finire tutto quel lavoro in poche settimane, ché non le pareva vero di levarsi quel ragazzo di tra i piedi.

E finalmente Mùnnino, insaccato nel giubbone che lo faceva parere un altro, andò a cercar la sua compagna. Concetta lo guardò con invidia, accarezzò il fustagno liscio, toccò i bottoni a uno a uno, si chinò a esaminare i gammitti, mentre Mùnnino stava fermo impalato, tutto superbo. Poi sospirò:

— Beato te! Tu vai a fare il pastore e io resto qui.

— È meglio — disse Mùnnino — tanto, pane non ne buscavo più. A che ti giovavo io?

— E quando tornerai?

— Quando tornerà mio padre. Una volta all’anno

Imbruniva e si lasciarono; Mùnnino andò avanti, correndo verso casa, voltandosi ogni tanto a ridere a Concetta rimasta ferma, lontana.

Mùnnino s’allogò. Gli dettero da prima solo dieci capre da pascolare, poi gl’insegnarono anche a mungere, poiché lui era piccolo sì, ma volenteroso; e lo chiamavano ’nsunnato perché spesso rimaneva incantato come quand’era al paese.

 

Allor che stava sul monte, a guardar le capre, e vedeva giù i campi tutti verdi, pensava a Concetta e le pareva di doverla vedere fra il grano a coglier papaveri. Ma qualche volta, di sera, quando faceva freddo, sdraiandosi nella stalla — dove c‘era quel buon tepore e quell’odore acre, dove le vacche ruminavano tranquillamente — gli si guastava il piacere vedendo la lucerna appesa al trave, che gli faceva ricordar di sua madre e di Vanni; e solo rifacendo gli antichi propositi di vendetta gli pareva di rimettersi in pace con se stesso. Talvolta pensava di accusarlo al padre, ma rifletteva che questi, insieme a Vanni, avrebbe ucciso sua madre, e non voleva che sua madre patisse.

Non cresceva molto; rimaneva piccolo e s’ingialliva; il padre, guardandolo, si rammaricava d’averlo portato a Salamuni dove c‘era la malaria. Verso il luglio cominciò a contare i giorni e finalmente, per gli ultimi d‘agosto, tornò in paese. A sua madre, che gli fece festa, portò tutt’i guadagni, anche per farle vedere ch’era diventato un uomo. Nel tascapane tenne nascosta una ricottina piccola e tenera, tra due pàmpani di vite, e nel pomeriggio s’avviò su, verso il Calvario.

Gli pareva d‘aver fatto quella strada la sera innanzi e sentiva nel cuore un’allegria, come una bella canzone, a riveder tutti gli usci, e le cannelle della fontana dove sporgevano quei mascheroni dagli occhi sgranati, e la botteguccia di ssu’ Calójro dove c‘erano ancora gli stessi barattoli appannati con un po’ di pepe in grani, i datteri gialli, e la pala di baccalà infilata all’arpione. Concetta non c‘era e s’avanzò a chiamarla fin sotto la finestra della gna’ Fina. La ragazzetta corse tutta rossa, ansante di piacere, e s’avviarono al Calvario dove Mùnnino le dette la ricottina.

— E tu?

— Ne ho mangiate tante io! — rispose sdegnosamente.

— Bella cosa fare il pastore! — fece Concetta leccandosi le dita.

— Tu che fai ora?

— Che debbo fare? Scanso le busse della gna’ Fina. Ora tu sei pastore. Puoi condurmi con te.

— Non è tempo. Che faresti?

— Guarderei anch’io le capre.

— Oh, sì…

 

Credeva la Concetta che fosse una cosa tanto semplice? che uno si buscava la ricotta senza far niente? Non sapeva lei che anche a Salamuni picchiavano spesso e forte!

— Devi sapere che mènan botte da per tutto. Da per tutto ci sono i più grandi e i più robusti — sospirò il pecoraio. E che legnate davan lassù se non si stava attenti! E poi le levatacce prima dell’alba per condurre le capre al pascolo, e mungere il latte pe’ i signori e per far la ricotta!

— Ma un altr’anno avanzerò. Mi metteranno a far la ricotta nella mànnira.

Arrivò anche a esser messo a lavorar la ricotta; e ogni anno tornando al paese trovava Concetta più alta e meno sdrucita. Stava ben pettinata, portava gli scialletti al collo; ma non potevano più andare pe’ campi come quando eran ragazzi. Mùnnino era diventato un pecoraio come tutti gli altri che venivan per le feste, vestiti di velluto; solo che gli altri eran rossi e robusti e lui rimaneva sempre piccolo e giallognolo. Un anno tornò con le febbri. Andò a trovar Concetta in casa della gna’ Fina, ché oramai la ragazza non stava più per la via; e si come era la prima volta, si sentiva tutto impacciato anche perché la gna’ Fina, a veder la grossa ricotta che aveva portata, gli faceva tanti complimenti come se fosse stato il padrone di casa. Egli avrebbe voluto poter condurre Concetta con sé come quand’eran ragazzi, e sbirciando il bel viso bianco e roseo come quello d‘una signora, pensava ai baci che scoppiavan come foglie di papavero che s’eran dati senza capirli, e non sapeva dire una parola. La vecchia disse:

— Vado un momento dalla gna’ Aita. Ma abbiate giudizio, per carità!

E guardò Concetta che diventò rossa fino agli orecchi.

 

Mùnnino, quella sera, tornò a casa che il cuore pareva gli dovesse scoppiare nel petto, e non sapeva se per la febbre che si sentiva venire o se per l’agitazione che l’invadeva tutto.

Andò da Concetta tutti i giorni, portandole sempre dei regali, e trovandola sempre sola. Ma un pomeriggio, dopo esser stato a parlare con Peppe, che la sapeva lunga, salì verso il Calvario pieno di collera e d‘impazienza, e tirata Concetta in un canto le disse piantandole gli occhi addosso:

— È vero quello che m’hanno detto? sul conto tuo e di quella certa Nina?

— Che t’han detto?

— Non mi far la stupida. È vero o no?

— Madonna santissima… — mormorò Concetta stendendo le mani tremanti come per scansare tutta quella furia.

— No, non ti batto, perché non ho mai battuto nessuno. Gli altri l‘han sempre martoriato — aggiunse amaramente   — Mùnnino non ha mai offeso nessuno. Dimmi se è vero. Questo solo.

— Che debbo dirti? È vero, si — rispose Concetta risolutamente, mentre ai lati della bocca le si facevan due pieghe sottili come due rughe. — È colpa di quella strega. È il suo mestiere. Tu devi capirle queste cose. Tu sei andato a fare il pastore, hai trovato la tua via; Concetta nelle mani della gna’ Fina non poteva fare altro. Ma bene ne ho voluto solo a te, Mùnnino. Io non l’avrei fatto mai.

 

A Mùnnino parve che gli buttassero un rivolo d‘acqua gelata sulla schiena nuda e chinò la testa. Concetta gli mise timidamente una mano sulla spalla, ma egli vedendo venir la gna’ Fina si tirò indietro, come avesse visto uno scorpione, e uscì facendo appena un cenno di saluto con la mano.

Si coricò presto e senza cena, col freddo della febbre e un dolore nel cuore, come un ago che lo pungesse a trafitte. Tutti gli altri giorni del congedo restò sull’uscio, a battere i denti, tutto giallo, con lo scapolare sulle spalle ben che facesse bel tempo: pensava a Concetta ma non si sentiva il coraggio di andare a trovarla in casa di quella vecchia dal riso velenoso. La madre diceva:

— Perché non esci? Più resti seduto e più ti senti debole.

E una sera borbottò:

— Dio liberi non dovessi più tornartene a Salamuni!

 

Mùnnino fece finta di non aver sentito, ma alla fine del congedo tornò a Salamuni, per non stare tra i piedi a sua madre. E pure le aveva portato i suoi guadagni per tanti anni! Quando si è malati si è scacciati da tutti come cani rognosi.

A Salamuni, dopo due mattine, fece smarrire una pecora; tornando alla stalla non seppe giustificarsi. Forse era scesa dietro la montagna, forse s‘era sbandata per la via maestra.

— E tu che facevi? pezzo di tordo! — strillò Brasi scotendolo per le spalle.

Brasi e Cola gli furono addosso e lo lasciarono malconcio e tremante.

Al mattino non poté levarsi, aveva il delirio, e gli portarono nella stalla stessa una ciotola di latte.

La sera scese per Mùnnino lenta e grave, come se quella giornata non dovesse finir mai. Di tanto in tanto sentiva la campanaccia; era la vacca che scoteva il collo e gli pareva fosse lontana lontana.  Di fuori venivan le voci dei compagni e di Brasi che facevan merenda; anch’egli aveva sempre fatto merenda fuori, con essi, nella luce rossastra del tramonto. Col buio entravano nella stalla, confusamente, tante immagini scolorate che raffigurava a pena; in fondo sua madre, con la sottana a quadrettini bianchi e rossi, gli faceva gli occhiacci, e Vanni lo minacciava col martello. Qualcuno — chi era mai? — gli stringeva la testa fra le mani che pareva la schiacciassero. E poi veniva Concetta; aveva il collo e le braccia nude e rideva forte e nel buio non si vedevano che i denti, e gli occhi che parevan due caverne; e rivedeva il maestro di scuola che gli metteva in bocca certe mandorle così amare che gli veniva di sputarle; e più sbavava, e più saliva amara si sentiva venir sulla lingua.

Era tutta gente che gli aveva fatto male. Ricordava i pensieri di vendetta fatti alla fontana, mangiando il pane del maestro; doveva uccider Vanni e accusare il maestro… e poi doveva sposar Concetta. Concetta ch’era cattiva come sua madre e gli avrebbe fatto le corna nel tempo che stesse a Salamuni. Non era riuscito a vendicarsi, e pure era cresciuto. Era rimasto troppo piccolo, lui. Perciò l’avevan sempre picchiato tutti. Se Brasi non l’avesse malmenato a quel modo, non sarebbe a giacere così quella sera.

Ma le femmine erano cattive o erano disgraziate? E Concetta, bianca e delicata, come era bella! e la chiamava:

— Concetta… Concetta!

Si lamentava, piano, piano, nel suo giaciglio, sentendosi il fuoco addosso e una gran debolezza nello stesso tempo come se gli avessero cavato tutto il sangue. E invocava la Madonna che lo facesse levare, ché era troppo triste morir lì tutto solo, come forse era morto il cane spelacchiato della fontana.

Brasi diceva, fuori:

— Bisogna far sapere al padrone che sta morendo… bisogna pensar dove metterlo…

La croce

Don Peppino Schirò non era come gli altri: aveva tanti libri, leggeva il giornale da cima a fondo, e conosceva il latino così bene che dava lezioni ai ragazzi del ginnasio.

— Se io avessi continuato!… — soleva dire a fin di cena, mentre la sorella, sparecchiata la tavola, si rimetteva a rimpedulare.[8]

— Se io avessi continuato… — e scrollando la testa grigia restava con lo sguardo fisso sul pendolo che oscillava — come se il pendolo gli mormorasse, tic tac, tic tac, quel che avrebbe fatto se avesse studiato — mentre nella testa, un po’ aggravata dal buon vino di Vittoria, passavano e ripassavano lentamente tutti i gradi e tutte le cariche che avrebbe potuto occupare.

Quello di essere una persona importante, di avere un titolo, un diploma, era sempre stato il suo sogno. Si sarebbe magari contentato di aver la laurea come don Mimì, che la teneva in bella vista nella cornice dorata!

… Invece no, egli possedeva soltanto la licenza ginnasiale; una povera licenza che faceva, si, la buona figura in salotto, fra una cornucopia e una ballerina, di carta, ma che non era l’adeguata ricompensa di tutta la sua istruzione.

In casa se la passava bene, al casino era rispettato, non aveva debiti… Quasi si sarebbe potuto dir felice… Ma il rimpianto di essere stato un oscuro impiegato di archivio, ma la crucciata e tenace speranza di esser fatto cavaliere, non lo facevan star bene; proprio come un convalescente che risenta gli strascichi d‘una lunga malattia.

Spesso, leggiucchiando «L’Ora» — sdraiato sulla poltrona turchina su cui aveva riposato suo nonno, su cui aveva dormito suo padre — ripeteva a fior di labbro:

— Cavaliere… Cavaliere Schirò…

Gran bella cosa!

Un tempo, quando aveva tutti i capelli, ci aveva pensato assai intensamente, rimuginando il mezzo di conseguir l’onorificenza, lui che non copriva nessuna carica.

Però, allora che nacque il principe ereditario, commissionò a Palermo una boccetta d’inchiostro di China e un foglio di carta pergamena, e poi si chiuse in casa. Per due giorni pensò a pena a mangiare e a dormire: col vocabolario latino davanti, fabbricava pazientemente un’ode al principe. E la sorella, passando in punta di piedi davanti alla stanza del fratello — quella benedetta casa tanto piccola! — zittiva ai ragazzi che venivano per la lezione:

— Tornate più tardi. Sta facendo la canzone al principe.

A pena il fattorino gli ebbe portato la carta e l‘inchiostro, si dette a copiare imitando la scrittura antica del messale di padre Taliento; e, come fu finita, ci fu un’aria di letizia per tutta la casa, quasi che fosse Pasqua.

Tutti i conoscenti sapevano dell’ode latina: i ragazzi l’avevano strombazzato, don Peppino aveva mancato al casino per due sere e poi vi era tornato con un’aria così strana! La volevano leggere a tutti i costi. Don Peppino si schermi calorosamente, tutto commosso per la gran voglia di far conoscere la propria coltura:

— Ma vi pare?… È una sciocchezza!… L’ho fatta, ma non la mando.

Invece la mostrò a ogni amico a parte, in piena segretezza; e, a ognuno che lesse, trattenne il respiro spiando l’effetto.

Don Mimì, che aveva la laurea, gli disse ch’era assai bella e che il re l’avrebbe ricompensato.

— Per questo! — rispose don Peppino con l’aria più indifferente, mentre il cuore gli ballava nel petto. — Non l’ho fatto per uno scopo. È stato l’impeto lirico, proprio come dico qui, nella seconda strofe…

Dopo averla spedita non ebbe più pace; era distratto nel far le lezioni e, sulla poltrona turchina, restava un pezzo col giornale in mano senza leggerlo: le parole gli ballavan davanti gli occhi; ogni parola diventava una croce, una crocetta d’oro…

E ogni sera, passando alla posta, chiedeva con la voce più calma che gli era possibile:

— C’è lettere?

— Niente.

E rincasava a testa bassa, col bastone appeso dietro la schiena, fra le mani intrecciate.

— Ci vorranno dei mesi — diceva alla sorella per confortare se stesso — mica va direttamente nelle mani del re…

Passarono i mesi, molti mesi di vana e uggiosa aspettazione. Poi non aspettò più. Era finita. Proprio finita, senza un rigo di ringraziamento.

 

Pure, quando morì l’imperatrice di Germania, si volle provare a comporre una elegia. E l’ispirazione gli venne spontanea anche questa volta, perché il suo animo era triste, e piangendo l’imperatrice piangeva anche la sua prima speranza svanita. Non lo disse neanche alla sorella; e sospirando registrò la spesa della pergamena con un segno d’intelligenza che voleva dir buttata o press’a poco. Poi aspettò senza entusiasmo, ma con una trepidazione che lo fece stare tre mesi di cattivo umore.

L’elegia fu il suo ultimo lavoro letterario; ché gli restò una profonda avversione per quel benedetto latino che l’aveva ingannato in si malo modo. E la croce restò il suo melanconico sogno. Non aveva desiderato altro, lui, e si figurava che felicità sarebbe stata presentarsi una sera al casino, sul tardi quando c’eran tutti, e dire come se niente fosse:

— Sapete, m’han fatto cavaliere…

Per fortuna nessuno sapeva il suo cruccio: altrimenti chi sa come l’avrebbero burlato! Perciò qualche volta, a proposito di onorificenze, egli s‘era affrettato a dire, movendo la pappagorgia e guardando a terra con gli occhietti vivi:

— Io a quest’ora, se avessi voluto, m’avrebbero fatto cavaliere cento volte… Ma io, no… Son fumi, ecco, son fumi…

E sbirciava il cavaliere Cartelli, per paura d’offenderlo. Era un affare delicato, quello di salvare il suo amor proprio senza pungere quello degli altri!

Il vero guaio di don Peppino fu la venuta dello zio di don Lillo, dell’onorevole Costarini, che mancava in paese da vent‘anni. Don Peppino ottenne un abboccamento solo a solo; fidando in quel viso sereno dagli occhi indulgenti parlò a cuore aperto del suo sogno e delle odi latine

— Inezie — gli disse il deputato stringendogli la mano — basta dire una parola lassù e avrete la croce.

A don Peppino parve mill’anni che l‘onorevole ripartisse per la capitale, e poi ricominciò ad aspettar la posta. Fu un doloroso risveglio della vecchia speranza quasi sopita.

— Un deputato — diceva alla sorella seguendola per tutte le camere mentre quella spazzava e rifaceva i letti — non si compromette se non è sicuro di quel che dice.

— Io — rispondeva la buona creatura che temeva una delusione, tanto più che don Peppino soffriva di mal di core — non mi affannerei troppo. Se finisce come le canzoni…

Non voleva sentirselo dire; e come la sera riceveva una lettera, correva sotto il lampione a guardar se portava il bollo di Roma, e que’ pochi passi dalla posta al lampione li faceva con tutto il sangue alla testa.

— Non scrive — cominciò a dire — Non scrive…

— Te lo dicevo io! — sospirava la sorella. — Mettiti l‘animo in pace e pensa a campare…

Fu un vero guaio la venuta dell’onorevole Costarini! Al casino tutti seppero della sua lunga e tacita aspettazione, ed egli diventò il lieto argomento d’ogni discorso, la nuova occasione dei frizzi e delle barzellette. Don Mimì lo chiamava cavaliere, scappellandosi, e il barone Barbarella gli prometteva una croce d’oro.

Ed egli si schermiva debolmente, come un bambino, facendo una risatina per dimostrare ch’era superiore a quelle sciocchezze, che sapeva stare allo scherzo.

Ma la vigilia della festa dei Gesanti gliela fecero troppo grossa: don Lillo gli andò incontro sulla porta del bigliardo e gli partecipò gravemente che lo zio aveva risposto d’averlo accontentato, mentre tutti gli amici lo circondavano congratulandosi festosamente.

Per un momento ci credette; impallidì, sorrise, stava per ringraziare, ma come vide chiaro d’essere stato burlato senti una stretta al cuore dall’umiliazione.

Ridevano, tutti accesi in viso. Lui si mise il cappello e cercò la porta che non trovava.

— Non ci metterò più piede, qui… — balbettò con voce rauca — ogni scherzo ha un limite.

Il barone Barbarella cercò di trattenerlo:

— Ma don Peppino… si scherzava…

— No. Vado via. È troppo, è troppo…

E rincasò com’uno che ha bevuto. Si mise a letto subito. Vedeva tutto rosso e le pareti gli ballavano intorno. La sorella costernata, sbigottita, mandò pe ‘l medico e accese una candela davanti l’immagine di San Sebastiano. Era rosso congestionato e tutta la notte tenne gli occhi chiusi sotto il turbante bagnato che gli gocciolava sulla fronte arida.

Solo verso l‘alba, quando la candela s‘era consumata davanti l’immagine, si sentì meglio. L’indomani era festa, e nella camera in ordine, tutta fresca di pulizia, entrava il bel sole di settembre.

Egli pareva calmo e sereno; tanto che la sorella si confortò e anche il medico assicurò che si sarebbe presto levato.

E il malato sorrise e rispose scherzosamente. Ma come restò solo, mentre la sorella guardava passare i Gesanti, si sentì improvvisamente tanto afflitto e tanto sofferente. Pensò confusamente, con dolorosa melanconia, alla propria vita sprecata come i due fogli di pergamena, all‘umiliazione della sera innanzi… ma, pur pensando così, la vocetta gli sussurrava insistente all’orecchio, con la musica della processione:

— Cavaliere Schirò… Cavaliere Schirò…

 

[8] Rimpedulare: Zurcir o rehacer, propiamente, la planta (pedule) de los calcetines.

Sotto tutela

Al casino non si parlava d‘altri fuor della signora ch’era venuta a stare nella locanda di Sciaverio, ch’era italiana e si chiamava Klepper, e chi diceva che fosse di Patti e avesse sposato un tedesco, e chi diceva che fosse una certa Mincuzza di Naso che aveva girato tutta Italia facendone di tutti i colori. Ne parlavan con boriosa noncuranza, ma la mattina, passeggiando nel ballatoio del casino che dava proprio di faccia alla locanda, alluciavan per vedere se la signora si affacciasse. Nel pomeriggio i giovanotti le andavan dietro; e molti anziani, anche di quelli che non facevano una camminata da anni e anni, si spingevano lemme lemme fino alla Cappelletta solo per veder la Klepper che faceva lunghissime passeggiate — si diceva fino al casello — con la testa alta e il viso sorridente, tutta vestita di bianco che pareva una statua.

Certuni salivano in locanda, con la scusa di parlar con Sciaverio o di salutar gli ufficiali e potevan vederla da vicino. Sempre per curiosità, — dicevan gli anziani alzando le spalle — così per uno spasso, s’intende…

 

Ma Bobò Caramagna, che passava la vita al casino, ascoltava con avidità i commenti e i sottintesi degli anziani perdendoci la testa. Lui, come se il casino non bastasse, sentiva parlarne dalle sorelle, che vedevan la Klepper attraverso le persiane e restavano incantate dei suoi vestiti pomposi e sfarfallanti, e sentiva parlarne dallo zio che a fin di desinare discuteva con la moglie se la Klepper era dipinta o no, se era imbottita o no, e che non riusciva mai a persuadere né la moglie né se stesso. Bobò non prendeva parte ai discorsi e ai commenti, un po’ perché nessuno gli avrebbe dato attenzione, un po’ perché per lui, la Klepper, era una bellezza mai vista, che uguale non avrebbe saputo sognare; e seguendola verso il Calvario, sin dove gli altri non giungevano, la trovava ogni giorno più bella, specie se la confrontava con le signorine del paese, che s’incontravan la domenica, dai visetti troppo pallidi o troppo coloriti, dai capelli lisci che pendevan sulla fronte a pena c‘era un po’ di vento. La Klepper, passando fra loro, — così alta, ben fatta, dai capelli ricciuti e col petto e i fianchi bellissimi stretti nel vestito bianco che la modellava come una statua — era una meraviglia. Più Bobò la vedeva e più s’imbietoliva e rifuggiva gli amici, rimuginando fra sé, cupo e taciturno, qualche mezzo per conoscere la signora. E intanto la seguiva disperatamente, sperando di esser veduto, guardandola cogli occhi imbambolati e strofinandosi il naso col fazzoletto spiegazzato: ma la Klepper non lo vedeva. Un mattino si decise a scriverle un biglietto che pensò anche di profumare coll’essenza di rosa delle sorelle; un biglietto in cui cacciò tutte le frasi che gli vennero in mente, lette chi sa dove, in cui — paragonando lei a una fata, a una dea, a un fiore, a una nuvola bianca che doveva pur commuoversi e sciogliersi su di lui che era la roccia arida e assetata — chiedeva pietosamente uno sguardo.

 

 

E nel pomeriggio si fermò allo chalet ad aspettar lo sguardo; ma la Klepper gli passò davanti senza vederlo. Cose da morire!

Pure seguitò a andarle dietro, quel giorno e tanti altri ancora, solo come un matto, col viso giallo, e al ritorno d’ogni passeggiata andava a buttarsi su un divano del casino, in un cantuccio mezzo al buio, per sentir parlare della Klepper.

Un pomeriggio la seguì piano piano, oltre il casello, dove la strada, sotto le colline brulle, si prolungava larga e deserta; camminava piano piano e quando lei si voltò per tornare, egli seguitò un’altra decina di passi e tornando la trovò ferma che guardava coll’occhialetto il mare lontano incassato fra i monti; dovendo passarle davanti e trovandosi in campagna si rammentò che poteva scappellarsi.

Bonjour, monsieur! — sentì rispondersi.

Bobò che avrebbe dato la vita per fermarsi, non essendovi occasione migliore, s’avanzò lentamente.

— Lei — disse la signora fissandolo con l’occhialetto — dev‘essere il nipote del barone Caramagna.

— Sì, per servirla! — rispose Bobò con voce rauca, fermandosi di botto come una marionetta.

— Ho sentito parlarne da Sciaverio. Bello questo panorama — aggiunse la signora — e bellissimo il paese. Peccato che siate tanti orsi. Le signore escon poco.

— Già. Escon poco.

— Non c’è modo di fare una conoscenza. Ci si annoia mortalmente. Ci fosse almeno una biblioteca, dei giornali!

— Se vuole dei libri… — disse Bobò con un tono di voce come se avesse fatto una scoperta. E si cacciò rapidamente le mani in tasca, ma pensando che non era una mossa da persona per bene, le cavò subito mentre la signora gli diceva:

— Sì, sì, caro monsieur Caramagna. Portatemi dei romanzi se potete. Ma io casco sempre a dar del voi, parlando alle persone. Scusi. È una abitudine presa a Parigi.

— Oh!, le pare! È stata a Parigi?

— Sì, anche a Parigi, per molti anni. Il mio povero marito era pittore, stabilito a Parigi. Dunque v’aspetto domani — aggiunse dandogli la mano — au revoir.

Bobò, congedato, s’allontanò pieno di turbamento e di felicità. A cena mangiò poco; l’indomani — dopo aver aspettato con impazienza che lo zio si fosse deciso a andare a letto per il sonnellino del dopopranzo — andò a scartabellare nello studio trascinandosi in camera una decina di romanzi di Werner e di Ohnet e poi, sceltine tre o quattro fra quelli illustrati e che gli parvero i più impressionanti, s’avviò alla locanda.

Vi tornò l’indomani per portar le prime màmmole alla Klepper e rincasando trovò lo zio incollerito:

— Eccolo l’eroe del giorno, il babbuino che fa il galante coi miei libri, e che si fa mettere su un corno da tutto il paese. Ti par d‘esser solo, libero di romperti il collo?

E giù una terribile paternale che Bobò prese senza fiatare come se non fosse per lui, aspettando il momento buono per svignarsela, e chiedendosi come si dicesse «vestita elegantemente» in francese.

Seguitava ad andare ogni pomeriggio alla locanda, e al ritorno d’ogni visita correva in casa a sfogliar la grammatica francese per non cascar negli scerpelloni e per paura di esserci già cascato parlando con quella signora ch’era tanto istruita. E le portava libri e fiori, fiori e libri, credendo di far cosa gradita e cercando continuamente il modo di dirle quel che pativa e sentiva per lei; ma quando gli pareva di aver trovato, allora la signora, come a farlo apposta, saltava con una domanda, con una osservazione che gli scombussolava le frasi preparate.

Nella locanda passava lunghe ore che gli parevan minuti, angustiato dalla propria timidità e dalla bellezza della Klepper; spessissimo questa sonava per ore ed ore e lui, in piedi accanto al pianoforte, stava a voltar le pagine sul leggio a un cenno degli occhi, tutto turbato, con lo sguardo avido fisso su di lei, sul suo collo nudo, sulle mani bianche, sul petto che s’alzava e s’abbassava al respirare leggero mentre la musica, che non intendeva, lo stordiva affatto.  Dopo aver sonato, la Klepper lo congedava dicendo ch’era l’ora di cena, ed egli usciva, eccitato, scontento e commosso senza veder niente davanti a sé; una di queste sere inciampò lo zio giù nelle scale.

— Madonna mia! — balbettò svegliandosi, mentre lo zio gli afferrava un orecchio stringendolo forte tra il pollice e l’indice poderosi:

— Canaglietta! Esci!

— Non qui zio — trovò il coraggio di dire Bobò, piegando la testa per il verso dell’orecchio afferrato. — Fa’ di me quel che vuoi, ma a casa. Per carità!

 

La voce era supplichevole, e lo zio rimise le mani in tasca, ma rincasò anche lui.

E a casa ci fu l’inferno, il diluvio; le sorelle si chiusero in camera per non sentir le male parole che lo zio gridava appioppando ceffoni al nipote, malgrado che la moglie lo supplicasse di finirla, di non mortificarlo a quel modo.

E questa volta, se rimetteva piede nella locanda l’avrebbe chiuso in collegio, a costo di spender tutto il patrimonio per quell’animale — urlava il barone — per quel burattino che faceva parlare tutto il paese! Che inferno, che inferno! …

Bobò andò a letto senza cena, tremante di febbre e stordito da quel vociare; pure, a letto rimase con tanto d’occhi spalancati che al buio lucevan come quelli d’un gatto.

Sul tardi, forse le undici, quando le sorelle dormivano e il barone era tornato al casino, salì su piano piano la zia, pallida come avesse pianto, a chiedergli, carezzandolo fra i capelli, se voleva prendere un boccone.

— No — rispose Bobò duro duro.

— Anima mia, non far così. Lo zio ha ragione, non c’è che dire. Smettila, figlio mio. Smettila con quella lì che è una mala cristiana. Non vedi che i libri non li ha più resi? Tu sei un ragazzo e fai di queste cose? Da un mese a questa parte c’è l‘inferno per causa tua. Fallo per le tue sorelle!

La queta luce della candela e la voce, dolce e triste, della zia furono a poco a poco per Bobò come una carezza della Mamma che non aveva più; e cominciò improvvisamente a singhiozzare, con la testa sotto la coperta chiamando:

— Mamma, mamma mia!

La zia lo accarezzò dolcemente fra i capelli arruffati, e restò in camera, fin che lo vide addormentarsi, rincalzandogli il letto come a un suo bambino.

Pure l’indomani — come se la strada lo tirasse — Bobò nel pomeriggio s’avviò verso il Calvario; vicino alla Cappelletta scorse la Klepper che gli sorrise, dritta sotto l’ombrellino bianco, con un sorriso che fece svanire tutte le pene e tutte le minacce. Si scappellò profondamente, Bobò, cercando una parola da dire, una parola succosa. Ma non trovò nulla, proprio nulla, e rosso fino alle orecchie, non vedendo che tutto quel bianco abbagliante nel sole alto, con gli occhi avidi, estatici, mormorò:

Comme vuscette belle, matame…

E dopo averlo detto, temendo di aver sbagliato, non osò guardare in viso matame, e si precipitò a spolverar la banchina col fazzoletto. Ma la Klepper sempre sorridendo gli disse con la sua voce tranquilla:

— C’è troppo sole, qui, mon enfant. Più in la troveremo un po’ d’ombra.

— È vero —. E Bobò alla sinistra della dama s’avviò moderando il proprio passo, mentre le gambe tremanti volevan correre e correre, mentre tutto il suo corpo era in sussulto.

 

Sedettero all’ombra e mentre Bobò pensava e pensava cosa potesse dirle di bello, come potesse dirle quel che non aveva mai potuto in tutto quel mese, taceva oppresso dal suo stesso silenzio e dal rimpianto del tempo che passava. La Klepper, sorridendo, gli chiese all‘improvviso:

— Siete triste, piccolo Bobò? So che avete molti dispiaceri in casa.

Chi aveva mai parlato? Sciaverio forse?

— No. Perché? — disse fieramente.

— Ah, no? Credevo.

Bobò capì che quella era l’occasione buona, parlando delle proprie pene, di manifestarle i suoi sentimenti, e si morse le labbra per non aver capito subito; ma si riprese.

— Sì — disse risolutamente — è lo zio. Non vuole che io vi veda, signora. Mentre io, signora… — e con la voce tremante ripeté — mentre io…

— Toh, — fece improvvisamente con voce gaia la signora Klepper puntando l’ombrellino verso la collinetta — vostro zio!

— Eh?… mio zio? Proprio lui! Allora è meglio che non ci veda insieme signora. Penserà male di noi, di lei. Scusi. Arivederla!

E s’alzò porgendo la mano a matame che guardava sempre la collina coll’occhialetto senza badargli, e poi s’allontanò tutto rosso con gli occhi pieni di lacrime e le gambe tremanti, con un mondo di pensieri che lo torturavano; dandosi dello stupido, dell’imbecille, rimpiangendo la signora che aveva avuto per male la sua fuga; e pur dandosi dell’imbecille correva sempre per quella maledetta paura di essere veduto dallo zio.

Ma lo zio, che montava il suo bel sauro, girò dietro la collinetta e si fermò davanti alla Klepper con molto scalpitìo; smontò e sorridendo strinse la mano inguantata che quella gli tese, scambiando qualche parola.

E il piccolo Bobò, intanto, buttato su una panchina dello chalet, aspettava di vedere ripassare matame, col cuore nero d’infelicità.

Gli ospiti

Lucia aveva appuntato l‘ago e guardava fuori, tutta presa dal lungo stridere delle rondini che passavano a stormi neri e veloci sul cielo turchino. All‘infuori del cielo e delle case che, coi loro tetti rossicci e muscosi, pareva si prolungassero fino alle montagne bigie, non si vedeva altro.

Pure in quell’aria tepida d’aprile che faceva battere più rapido il cuore mentre il corpo era dolcemente spossato da un’insolita mollezza, Lucia sognava i prati verdi e sconfinati, e pensava a un lungo stradone bianco, tra due file di platani, veduto una volta, tanto tempo addietro.

 

Venivan dalla stanza attigua i soliti piccoli rumori fastidiosi del frequente annusar di tabacco, d‘uno sfogliar di giornali, d’un tamburellar di dita sul tavolino, e corrugò un poco la fronte. Da quanti anni era così suo padre? Quasi non lo rammentava più sano e diritto.

Oppressa dal silenzio e dalla noia di quel sonnolento pomeriggio, avrebbe voluto almeno moversi un poco per la casa, ma non c‘era dove andare. Nella camera grande del malato, dove le finestre eran sempre chiuse e la madre lavorava assiduamente, non voleva andare; l‘altre stanze disabitate, e il salotto freddo e mezzo buio — co’ suoi quadri a olio, cupi e paurosi, le campane di vetro sui fiori di carta e i mori di velluto bruno dagli smisurati occhi bianchi — non la invitavano. Restava la cucina; spesso vi entrava con la scusa di sorvegliare — perché li si stava bene e le grandi finestre davan sui campi. Ma se Turiddo, Lisa e Nena eran riuniti a ciarlare, facendo chiasso, al suo comparire tacevano improvvisamente, dandosi gran da fare, strofinando i rami, o spazzando di furia, ancora tutti rossi e animati. E questo le dispiaceva perché sentiva più forte come tutto al suo avvicinarsi diventasse freddo e grave. Il suo viso pallido, un po’ lentigginoso, dai grandi occhi castani, appariva sempre triste; e triste era il vestito a bruno che portava già da tre anni per la morte di uno zio. Quel bruno non sarebbe riuscita a toglierlo mai, perché fra tanti vecchi parenti, vicini e lontani, le toccava di rinnovarlo per una nuova morte quando non aveva finito di portarlo per una recente.

 

Quel giorno non aveva voluto entrare neanche in cucina perché passandovi davanti aveva udito così liete e schiette risate che le era parso peccato interromperle. Ma aspettava più che mai impaziente che qualche cosa di nuovo accadesse; che almeno qualcuno picchiasse alla loro porta, magari Nina la filatrice che sapeva tante strane e paurose storie di spiriti: una creatura qualunque, per sentirla parlare. Perché le faceva troppo pena che le giornate finissero tutte così uguali, così silenziose. E a mano a mano che i tetti rosseggiavano per il vicino crepuscolo, vedeva avvicinarsi la sera, la sera come tutte le altre. Allora avrebbe posato il ricamo, e poi avrebbe aiutata la madre a spingere il malato, nella sua poltrona a rotelle, nella stanza da pranzo dove Lisa accendeva il lume, quel lume che ogni sera filava un poco.

Poi picchiava zio Nicolino che veniva a far la partita col fratello. Zio Nicolino grande e grigio, che parlava poco, ma quel poco diceva come sentenze; e quando finiva di giocare, aspettando che venisse il servo a riprenderlo, taceva con le mani sulle ginocchia avvolgendo un pollice sull’altro per una mossa abituale che riempiva i suoi lunghi silenzi. Lei e la madre lavoravano una coperta bianca interminabile.

 Lucia non riprendeva ancora l’ago, ammaliata dalla gran luce rossastra e arancione che avvampava i tetti muscosi, allor che nella cameretta, già mezzo buia, entrò la madre:

— Oh, Lucietta — disse, — Bitto ha portato una lettera di tua zia.

— Zia Fifina?

— Proprio. Arriva domani a mezzogiorno.

— Domani a mezzogiorno! — esclamò forte Lucia arrossendo di piacere.

— Piano. Non gliel’ho ancora detto. Ma non aver paura. Glielo dico stasera quando c’è Nicolino, che ha piacere di veder la sorella.

E passarono a prendere il malato. Lucia animata e intimorita, spinse la poltrona con maggior garbo del solito davanti la tavola da pranzo, mentre Lisa temperava la fiamma del lume che al solito filava un poco.

Don Mariannino era di malumore e cominciò a tamburellare con le grosse dita sul tappeto rosso e nero. Lucia riprese a lavorare spiando ora il viso della madre nel timore di scorgervi il suo stesso sgomento, ora quello del padre sperando si rasserenasse. Come entrò zio Nicolino donna Peppina disse:

— Oggi ha scritto Fifina.

Don Mariannino cominciò a mescolare le carte come se non avesse udito; ma il fratello guardò la cognata, in segno che voleva sapere.

— Credo che venga… con suo marito.

— Carte — disse don Mariannino accennando con la testa di aver capito.

Seguì un lungo silenzio.

— Scopa — avvertiva di tanto in tanto don Mariannino buttando una carta.

E Lucia sospirò di sollievo, perché quando vinceva c‘era da sperar bene.

— Debbono venire? — chiese il vecchio guardando accigliato la moglie, quand’ebbe finita la partita.

— Pare che sì. Io non ho letto bene.

— Da’ qui —. E lesse fra di sé lentamente la breve lettera che gli porse la moglie, mentre il fratello col largo mento sul petto aspettava avvolgendo un pollice sull’altro.

— Ha il proposito di levarmi la pace, costui — borbottò il malato passando la lettera al fratello — avremo la casa sossopra per una settimana buona!

Lucia con le mani umide per l‘ansia respirò di sollievo.

 

E l’indomani Lucia passò le ore dell’attesa preparando, tutta felice, la camera per gli zii, passando in punta di piedi accanto a quella del padre per non fargli sentire alcun fastidio dei preparativi.

Fu una gioia fare spazzare con le finestre spalancate la stanza piena di sole, e aiutare a spolverare e a sprimacciar le materasse; e tutto in fretta per paura di non finire a tempo, e ripetendo:

— Svelta, Lisa, se mi trovassero così! — E rideva anche lei, finalmente, mentre nel piacevole lavoro le guance le si colorivano e i capelli castani, così buttati all’indietro e disordinati, apparivan più morbidi e più lucidi.

     

In fine, con gran cura, apparecchiò il letto con l‘aiuto di Lisa ch’era giovane, svelta e cianciona.

— Oh, i bei lenzoli! — esclamava schioccando la lingua.

— Zitta, che mamma non lo sa.

— Già la signora non vuole usare che la roba ordinaria!

— È giusto, per tutti i giorni. Ma per zia Fifina! Pensa, Lisa, che bella signora!

— Oh, sì! Ma non è poi meno gentile voscenza.

— Che c’entra, Lisa?… Non c’è da far paragoni — corresse Lucia scotendo la testa.

— Eh, sì! Vorrei vedere se voscenza facesse la vita della signora sua zia! Vesti cioccone e pare barone. Lei sempre in moto, lei fino a Roma, ai bagni, in campagna, vestita dalle meglio sarte, come una forestiera!… Voscenza sempre chiusa fra quattro mura… Vorrei vedere, io! Ma quando ci sarà lo sposo… Eh! Uno sposetto bello, ricco e affezionato come il signore suo zio… Chi sa, allora, i bei lenzoli che verranno fuori…

— Se’ matta, Lisa! Che sciocchezze vai dicendo? Va’, ciarlona, mentre io metto le federe ai guanciali, va’ a prendere il tappeto della mia camera.

E scosse la testa pensando che mai, lei, avrebbe avuto lo sposo che le augurava Lisa. Chi si poteva scordare l’ira di don Mariannino quando zia Fifina sposò, e il rancore che portava anche adesso, dopo tanti anni, a zio Giovanni il forestiero?

     

Guardò la stanza e si compiacque a vederla tutta fresca e ordinata, e, appannate le imposte, corse a pettinare i suoi lunghi capelli e a vestirsi. E poi dovette aspettare molto tempo prima che Turiddo strillasse dal portone: — E venuta la signorinedda — e zia Fifina fosse in casa con le sue valigie e le tre cappelliere e il suo riso gentile che pareva un campanello.

Zia Fifina trovò la sua unica nipote un po’ sciupata; e insistè perché gliela lasciassero condurre a Palermo.

— Abbiamo, da tre anni, un villino alle Falde. Un paradiso. E tu ci verrai…

Lucia, stordita da tutto quel parlare, confusa e felice, non sapeva rispondere nulla fuor che ripetere: — C’è papà… non vorrà…

— C’è papà, c’è papà — esclamò una sera zia Fifina — come se ci fosse il Padreterno. Si rispetta il padre, e Dio sa se ho rispettato il mio. Ma le cose giuste… Vuoi stare anche tu su una poltrona a rotelle? Ora ci vado.

— Non ora, per carità. A quest’ora legge il giornale e non si può disturbare.

— Sta’ zitta, tu.

E col suo impeto corse dal fratello mentre Lucia, sbigottita, si raccomandava a tutti i santi. Li sentì bisticciare, sentì anche la voce di sua madre, e poi udì chiamarsi. Con le ginocchia tremanti, entrò anche lei, mentre zia Fifina le diceva all’orecchio:

— Non fare la marmotta, adesso.

Il malato chiese, guardandola con collera:

— Tu ci vuoi andare?

— Come vossìa vuole.

— Sciocca! — mormorò la zia. — Sbrigati. Di’ tu quel che vuoi fare

— A me… mi piacerebbe — rispose Lucia con la gola piena di lacrime, evitando quello sguardo severo — ma sempre se a vossìa non dispiace.

Il vecchio crollò la testa e non rispose nulla, annusando lentamente una presa di tabacco. Le tre donne aspettarono un pezzo una risposta.

— Allora — disse zia Fifina adirata — verrà con noi per una settimana. La ricondurremo noi stessi.

E uscì, lasciando il fratello a borbottare qualche cosa che non si capiva.

— Ma così — faceva Lucia nella saletta — senza permesso? No, no.

— Se aspetti il permesso!

— No, no, mi si guasterebbe il piacere.

— Intanto ti divertiresti!

— E la mamma? No, no. Tu non sai come s‘incollerisce quando si contraria.

 

E scappò in camera a piangere come una matta, disperatamente, come se tutto fosse finito per lei, perché tutto le era negato così, a poco a poco, continuamente.

Sul tardi, quand’era tanto abbattuta, col naso rosso e le palpebre gonfie, venne a trovarla la zia. Era triste anche la zia, quella sera:

— Mi pare — disse lentamente — di tornare indietro di sei anni. In questa casa la vecchiezza piglia avanti tempo, per contagio. Anch’io facevo questa vita d’agonia. Ma io avevo più coraggio di te. E poi, che Dio lo benedica, Giovannino m’ha cavato da’ guai. Ero una stupida come te, come l‘altre. Ma lui m’ha aperto gli occhi. Mi par di vivere solo da sei anni a questa parte. Vedrai — esclamò sorridendo — te lo manderò io uno sposetto come ci vuole!

Ma Lucia, che non poteva ancora parlare, faceva segno di no e di no con la testa, mentre lacrime più grosse delle prime scorrevano sulle guance arrossate.

— Non piangere. Se proprio vuoi un permesso vado a parlargli di nuovo. ..

— Non è questo — fece Lucia con un gesto vago, alzando le spalle.

— Ma dimmi, anima mia — pregava la zia fattasi di nuovo pensierosa — dimmi quel che soffri, quel che pensi! Confidati in me. Tante volte, quando si e ragazze come te, si soffrono pene fantastiche. Io lo so…

Ma per quanto parlasse e pregasse, Lucia non disse una parola, benché il cuore fosse oppresso e la zia ispirasse una certa fiducia; perché lei non s‘era mai confidata con alcuno, e i tristi e malinconici pensieri non li aveva confessati neanche alla mamma, parendole che nessuno avrebbe potuto capirli.

Partivano. Zia Fifina era andata a fare visita ai Barbagallo, e Lucia, aspettandola in camera, andava osservando ammirata a uno a uno i gingilli che ingombravano il tavolino da notte e la cantoniera, quando entrò lo zio.

— Resta pure — invitò cortesemente, vedendola confusa. — Guardavi le sue bazzecole! Vedi quanto denaro mi fa spendere quella cutrèttola…

E accarezzandosi i baffi, con la testa un po’ china, la fissava con i suoi occhi che quando osservavano pareva si ficcassero a guardare nell’anima.

— Hai fatto una sciocchezza a non volere interrompere questa noia — aggiunse poi.

— Non mi annoio, io — rispose dignitosamente Lucia come per difendersi dall’esame di quello sguardo.

— Davvero? Beh, non ne parliamo più. Oh, eccoti un piccolo ricordo della nostra visita, già che ti piaccion tanto queste sciocchezze — e scelto un piccolo portafiori azzurro gliel’offrì.

— Grazie — disse Lucia commossa di tanta cortesia a cui non era avvezza, vergognandosi della propria goffaggine. Poi improvvisamente volle andar via, ma non osò dirlo. Sentiva uno strano turbamento dentro di sé, le pareva di fare cosa scorretta a restare in camera, sola con lo zio, mentre strani, confusi e cattivi pensieri l’assalivano, facendola arrossire come se lo zio avesse potuto leggere nella sua anima agitata.

— Vado giù — disse risolutamente.

— Sento Fifina per le scale — rispose lo zio che andava chiudendo ogni oggetto nelle valigie — la saluterai meglio qui.

— Tornerete qualche altra volta? — chiese Lucia con sincerità.

— Chi sa. Tuo padre non si mostra molto lieto delle nostre visite.

— Ma noi?

— Ah, va bene. Per te verremo.

 

La voce dello zio era grave e Lucia sentì un gran tuffo al cuore perché nella sua insolita agitazione, quelle parole le parve volessero dire altre cose ancora che soltanto lei capiva. Si calmò quando vide finalmente entrare zia Fifina.

— Mi sono stancata, sapete — disse entrando — e poi c’è nebbia! Don Mommo ti saluta — aggiunse, e intrecciando le mani intorno al collo del marito e costringendolo a chinarsi lo baciò sulle guance come se non lo vedesse da un pezzo.

Lucia si sentì girare la testa, mentre gli occhi le si velavano. Sentiva un fastidio insopportabile, e quel fastidio glielo dava zia Fifina. Finalmente discese, tanto più che gli zii avevan cominciato a parlare animatamente, sotto voce, come se fossero soli.

Collocò il piccolo portafiori sul marmo deserto del suo cassettone; e quel gingillo che in camera di zia Fifina pareva tanto grazioso, su quel mobile apparve sperduto, fuor di posto, come un bottone dorato su una mantellina.

Quando udì lo scalpitio della carrozza uscì nella saletta. Una gran nebbia abbuiava ogni cosa; Turiddo portava le valigie. Gli zii andarono a salutare i due fratelli, che erano già riuniti; zia Fifina baciò commossa la cognata e Lucia che non piangeva. Zio Giovanni le strinse la mano quasi in fretta, dando gli ordini a Turiddo. Erano un po’ commossi ma lieti della partenza. Finalmente discesero e si udì allontanarsi rumorosamente la carrozza sul lastricato ineguale.

Lucia volle andare ancora nella camera degli zii, per ritrovarvi ancora quel non so che di caldo e di allegro che mancava a tutto il resto della casa, e che presto sarebbe mancato anche lì; e le parve, nel crepuscolo grigio e annebbiato, che velava ogni oggetto, di riudire ancora il suono di un piccolo bacio.

La chiamavano. Entrò, un po’ pallida e distratta, nella sala da pranzo dove i fratelli avevano già cominciato la solita partita, e la madre era di già seduta a lavorare la coperta bianca, come ogni sera, come sempre, come se la venuta degli zii fosse stata sognata in una tepida notte di primavera.

Ti-nesciu

L’avvocato Scialabba, ai suoi tempi, era stato il meglio del paese, tanto che lo chiamavan «l’avvocato» senz’altro. Ma da che la moglie era morta e Nina Bellocchio — dopo avergli mangiato persino la vigna — l’aveva piantato come un cane, anche la buona fortuna aveva cominciato ad abbandonarlo. Sosteneva, quando sì e quando no, qualche piccola causa, e quando doveva sostenerne una si sentiva rinfrancare e si preparava gran parlate ampollose; ma come giungeva in tribunale, fra i colleghi giovani che lo punzecchiavano e i giudici che aggrottavan le ciglia per non ridere, allora perdeva il filo delle idee — filo troppo debole per idee troppo gravi — e avviava discorsi sconclusionati, affastellando vecchie frasi cento volte ripetute, mentre l’avvocato Millone gli faceva la caricatura sulla copertina del Codice. Pure si presentava assiduamente in tribunale, tutto lindo, col solino sfilacciato ma candido e le magre gote sbarbate: era un’abitudine che non sapeva lasciare, come quell’altra di parlar sempre italiano anche con la figlia e con i contadini.

D’inverno, e per lui l’inverno cominciava in ottobre, portava un pastrano verdognolo, e come gli pareva che tornasse l’estate rimetteva i suoi famosi calzoni color ferrigno, lunghissimi e stretti, che gli stavano attillati sul collo del piede, e la giacchetta nera ripulita ogni stagione a forza di benzina. A fargli rassegnatamente compagnia, nella sua trista e misera vecchiaia, era rimasta la figlia; ed egli per darle almeno uno svago, la conduceva ogni sera lungo il corso; salivano sino allo châlet, e seduti su una panchina, al vento o all’umido o al chiaro di luna, vi rimanevano un pezzo, muti, immobili e tristi, fin che lo châlet rimaneva deserto.

 

Liboria, poi che vestiva assai modestamente, preferiva uscir di sera nella luce incerta dei lampioni; pure le signorine più ricche del paese trovavan modo di ridere osservando la piuma nera dei suoi cappelli che restava fedelmente, ora dritta, ora piegata a destra, ora piegata a sinistra, d’estate e d‘inverno o per un nastro che ora diventava un fiocco e ora si mutava in cintura. Ma Liboria, che passeggiava impassibile con la sua piuma e il suo fiocco, abbassava gli occhi e impallidiva sol quando vedeva passarsi accanto le signorine Saitta o la baronessa Caramagna le quali, allor che uscivano col cappello, pareva riempissero tutta la strada.

Passeggiava animata ogni sera dalla stessa muta e timida speranza di trovare… Buon Dio! non sapeva dir neanche a se stessa che cosa e chi voleva trovare; a fermarvi il pensiero sentiva turbarsi tutta e chiamava la sua «fortuna», il suo «avvenire», quel che aspettava così vagamente. Chi sa che uno del paese, anche un forestiero, a vederla sempre così tranquilla, così modesta, non pensasse ad accasarsi? Non era cosa facile, lo sapeva bene, ché di questi tempi non c’è nessuno che sposi con niente, ma — insinuava arrossendo alla gna’ Filippa e alla gna’ ‘Ntonia che, nei lunghi pomeriggi, salivan su con una scusa e poi entravano e poi accostavan l’uscio e avviavano quello stesso discorso che non aveva fine — ma, diceva, bisognerebbe che si persuadessero che una la quale sappia bene governar la casa, e sia economa e pulita, ha la dote nelle mani; che farsene di certe farfalline che posseggono anche venti anche trentamila lire e ne buttan cinquanta dalla finestra? E accennava timidamente ai propri casi, senza mai lamentarsi del padre, mentre le sue donne elogiandola con gran gesti finivano col riempirla di buone speranze. Se non ci fossero state loro! La gna’ Filippa aveva sempre qualche buon partito sott’occhio; e Liboria si privava a desinare del suo bicchier di vino e faceva più scarso il suo pasto per offrire qualche cosa alle donne.

Ma col tempo, piano piano, i partiti immaginari della gna’ Filippa cominciarono a svanire; la piuma del cappello scoloriva sempre più, e i guadagni dell’avvocato diventavan sempre più incerti. Ma padre e figlia seguitavano a uscire la sera, dopo l’Ave Maria, sempre più tristi; e Liboria seduta sulla panchina dello châlet deserto sentiva un gran peso al cuore come di pianto che non vuol sfogare; e nel buio le chiome larghe e cupe degli alberi che stormivan leggermente in alto, pareva mormorassero tristi cose. E, scendendo tardi pel corso male illuminato, essa sentiva più forte la vergogna delle sue passeggiate. L’amarezza di tanti anni, di tutta la sua gioventù, diventò acredine, e rincasando cominciò a sfogarsi anche col padre:

— Capisce che io sono una disgraziata? Che non mi resta che andare a buttarmi in mare?!

— Che posso farti? — mormorava il vecchio con la sua voce tremante — io ti nesciu, ti nesciu ogni sera! È colpa mia?

E sospirava, scordandosi di parlare italiano. Lo sentirono una sera e in paese lo chiamarono Ti-nesciu.

Non andò più assiduamente al tribunale; cominciavano a ridergli sul viso. Sosteneva qualche rara causa, con poche parole dette lentamente con voce tremante, fissando ansiosamente i giudici e i colleghi giovani con i suoi occhietti chiari un po’ velati dalle palpebre gonfie. Ne ricavava poche lire che portava umilmente alla figlia, togliendo prima qualche moneta che andava a giocare al lotto. Una sua speranza fissa e lontana.

E non ebbero più ogni giorno a desinare una minestra calda; Ti-nesciu, la mattina per tempo, entrava timidamente nella bottega di donna Mariannina per comprare una pagnottella da due soldi, spiegando con la voce tremante, come se volesse scusarsi:

— Sà… noi… mangiamo poco… Io e mia figlia soltanto. Donne in casa non ne teniamo più. Siamo a pena due… persone!

E ripeteva le stesse vaghe parole, cansando le serve che s’affollavano al banco, e mettendo delicatamente la pagnotta nella tasca del pastrano che ora portava anche d‘estate, un po’ per il gran freddo che sentiva, un po’ per nascondere il vestito.

Una mattina la fornaia avvolse due pagnotte invece d’una, senza dir niente. L‘avvocato non aveva che due soldi in tasca e arrossì:

— Ne ho chiesto una soltanto. Sà… noi mangiamo poco… Avanzerebbe…

— Perdoni la libertà, signor avvocato. Lo porti alla signorina. È fresco… e ancora caldo. Guardi!

Arrossì ancora l’avvocato; diventò paonazzo, ma abbassò gli occhi e ringraziò, avviandosi traballando penosamente sulle magre gambe, come se gli avessero dato uno schiaffo.

Liboria cominciò a cavar la biancheria che le aveva lasciata la madre e che doveva essere la sua dote; la gna’ Filippa usciva con le fini camicie e i bei lenzoli sotto la mantellina, e tornava con poche monete che consegnava con grossi sospiri:

— Non potrebbe crederlo, la signorina, quanto ho girato! Allor che si tratta di comprare disprezzan tutto!

— Mi raccomando, gna’ Filippa! non fate il mio nome! Sarebbe cosa da morire!

Un giorno, dalla vendita dell’ultimo paio di lenzoli ricamati, si fece una veste rossa. Stava male uscir vestita sempre a un modo; pareva più vecchia, più goffa e più misera, e bisognava pure che la vedessero. E col vestito nuovo, col cappellone nero piumato, uscì anche di giorno a braccetto del padre sempre più curvo e più piccolo nel vecchio pastrano verdognolo. E camminava, cercando di mantenere dritte le spalle che s’incurvavano involontariamente, coi grandi occhi inquieti nel viso pallido e affloscito, e la bocca che voleva atteggiarsi a espressione di sorriso, mentre nella sua mente si agitavano i più strani e melanconici pensieri. Ma a casa, fin dalle scale, si lasciava andare, il suo viso riprendeva la solita amara espressione, e sfogava col padre con la voce piena di lagrime.

— È colpa mia? — rispondeva lui. — Io ti- nesciu!

E si vedevan sempre per la via; e dietro tutte le processioni, alla coda, tra il nero ondeggiamento delle mantelline e degli scapolari, risaltava il vestito rosso della figlia dell’avvocato che pareva, come diceva don Pepè, un cannello di ceralacca. E la sera immancabilmente si rivedevan seduti immobili e muti, su una panchina dello châlet mezzo deserto, dove gli alberi, che stormivan leggermente, pareva mormorassero tristi cose.

Oggi a me, domani a te

Ciano aveva commesso le vesti a Catania e stabilito persino il giorno dello sposalizio quando una sera, mentre riponeva bischetto e lesine, si vide venir la Leprina che, dopo un giro di parole e dopo tanti «bisogna considerare» e «solo il Papa non falla», gli disse chiaro e tondo che la Nciòcola lo mandava a licenziare perché un forestiero ricco l’aveva richiesta. Santo e santissimo…! La Leprina, per fortuna sua, s‘era tenuta vicino l’uscio socchiuso, e, vedendo Ciano diventar paonazzo come un tacchino, se la batté dicendo:

— Vossìa mi scusa!… Ma io c‘entro come Ponzio Pilato nel credo!

Buon per lei che seppe svignarsela. Ciano, così infuriato, non avrebbe certo tenuto le mani in tasca; le avrebbe lasciato il segno, a quella ruffiana che aveva prima combinato il matrimonio e poi lo aveva scombinato come si disfà una calza. Rimasto solo si sfogò a bestemmiare peggio d’un turco — fra i denti però, per non farsi dar del matto dai vicini — ingiuriando i nomi della Leprina e della Nciòcola le quali si eran servite di lui come di uno zimbello; fino a che si persuase che doveva pure andare a coricarsi.

 

Ma anche a letto non trovò pace e si dimenò tutta la notte, come avesse avuto il mal di denti, rimuginando crudeli vendette, figurandosi con selvaggia voluttà di andare a ammazzare, a squartare, quella femmina venale, di fare almeno uno scandalo… e chi sa quante altre cose s’immaginò di dover fare in quella nottata che non finiva mai!

Invece, povero Ciano, si levò più presto del consueto mettendosi a lavorare coll’uscio serrato; e lo tenne serrato tre giorni di seguito per la rabbia e lo scorno; e la prima mattina che uscì se n’andò a Cicè a veder la vigna, per non imbattersi con gli amici. Già, al casino della «Società Operaia» si doveva risapere certamente ogni cosa, dopo tre giorni, e chi sa che risate alle sue spalle! Poi andò a consegnare un par di stivali a don Pino, tutto accigliato per non farsi domandare, ma non gli dissero niente, e mise coraggio; tanto che la sera tornò al casino coi suoi passi piccini piccini, il petto alto, e il berretto di sghembo per avere un’aria che paresse un po’ maffiosa. Soltanto l’ebanista gli disse con un risolino malizioso:

— E donna Liboriedda… con un forestiero, eh?

— Eh! — rispose Ciano stringendosi nelle spalle, — son donne… Quando vedon quattrini perdon la testa!

E nient’altro. Ma tese gli orecchi per tutta la serata, ché ci voleva poco a diventar, Dio liberi, la favola del casino. Bastava tenersi una parola sola, bastava far vedere che avesse paura delle beffe! E, per mostrar che non ne aveva davvero, tornò a bazzicare come prima il casino, e, per non farsi sopraffare dall’ebanista che aveva fama d’essere spiritoso, avviava cenette, contava barzellette e, davanti la porta, affilava la lingua burlando e sparlando tutti quelli che passavano. Così al casino stavan tutti allegri come fosse Carnovale; ma lui rincasava con la bocca amara.

 

Quando la ‘Nciòcola si maritò, egli scappò di nuovo a veder la vigna e portò la prima moscadella al casino. E finalmente, a poco a poco, ogni cosa tornò come prima, come se fra Ciano e donna Liboria non ci fosse mai stato niente.

Una sera, mentre eran seduti a prendere il fresco sul marciapiede, si sentì sonare una campana a morto, poi se ne sentì un’altra, poi un’altra ancora. Per sonar tutte, era segno che se n‘era andato un ricco. Il doratore, calcandosi il berretto sugli orecchi, s’alzò per andare a domandarne al sacrestano della Matrice.

— É — disse tornando, con aria di mistero — quel forestiero di donna Liboria ‘Nciòcola.

Tutti guardaron Ciano.

— Ben le sta — disse l‘ebanista.

— Meglio che non l‘hai accoppata — disse il caffettiere strizzando l‘occhio a Ciano — chi sa che bei quattrini le avrà lasciato!

Al calzolaio venne un’idea tra quel sonare a morto che saliva come un pianto su per l’aria tepida, un’idea che lo fece sorridere sotto i radi baffetti biondastri; e la maturò tutta la notte e tutto il giorno appresso, curvo sul bischetto, picchiando allegramente su uno stivale. Dopo una settimana sola, che gli parve un secolo, cominciò a passeggiar di sera, a fin di lavoro, sotto le finestre chiuse della ‘Nciòcola sperando di esser veduto a traverso le persiane. Incontrata la Leprina la fermò; aveva fretta, voleva scappare, ma egli la trattenne con buone maniere chiedendole notizie della vedova.

— Vedete? Neanche rancore so portarle!

Così la Leprina ricominciò a venire a trovarlo in bottega, ché Ciano era un buon calzolaio, la ‘Nciòcola rimasta vedova troppo presto era così fresca da non parer che si fosse maritata, e a riprendere quell’affare lei aveva da guadagnarci.  Ma la ‘Nciòcola non voleva saperne di rimaritarsi, e ripeteva alla Leprina, che andava e tornava come una mosca cavallina, di voler portare il lutto al morto.

— E volete far soffrire così quel pover’omo che è vivo e sano come un garofano? e fedele come un cane? Ci pensate al tradimento che gli avete fatto?

— Non mi rimarito. Se il Signore mi voleva maritata non mi doveva far morire quello, bon’anima.

— Ma che ci volete fare? Non vedete che era destinato quest’altro? Volete andare contro il volere di Dio? Volete rimaner sola tanto giovane? Badate che ve ne pentirete! Chi mangia solo s’affoga, donna Liboriedda mia.

Le donne, come diceva l‘ebanista, rifletton poco, e vanno, come le bandiere, col vento che soffia. La ‘Nciòcola era giovane, e la Leprina che insinuava sempre quello stesso argomento, e Ciano che passava e ripassava pel vicoletto, le mettevan la tentazione in corpo. Poi quello star serrata in casa, vestita di nero, le metteva la smania dell’aria e della luce. Bisognava pure persuadersi che i ragionamenti della Leprina eran sottili! Perciò, e anche per seguire il volere di Dio, a fin d’anno la ‘Nciòcola, in compagnia della sorella, ricevette Ciano di sera di nascosto e mezzo al buio; e dopo quella visita, in cui non fecero che rimbrontolarsi e sospirare, Ciano non mancò una sera sola, restando a cena sino a un‘ora di notte, godendosi la buona compagnia della vedova, mentre la sorella in un cantuccio biascicava il rosario. Al casino sfoggiava cravatte e fazzoletti ricamati, e fumava toscani interi ridendo allegramente, com’uno che sa il fatto suo, senza curarsi dei compagni che lo punzecchiavano dandogli del minchione.

Dopo sei mesi di quella vita beata la ‘Nciòcola cominciò a parlare del tempo dello sposalizio; tanto!, diceva per chetarsi l’animo, il lutto grave l’aveva portato un anno, e non poteva star sacrificata coll’anima del morto per tutta la vita; peggio per chi se ne sarebbe maravigliato… E Ciano approvava. Egli ne era felice, felicissimo… anche per non seguitare a vedersi di nascosto ai vicini come facessero un delitto, e per finirla con le ciarle del casino!

Fissarono la vigilia di San Sebastiano.

E ai primi d’agosto la vedova impastò scattati e vuciddati, mandandone gran vassoi a tutti gli invitati e a tutti i vicini per chiuder la bocca ai maldicenti. La vigilia della festa andò a confessarsi, e con l‘aiuto della sorella ripulì la casa; nel pomeriggio cavò dalla cassa la veste da sposalizio, odorosa di canfora, e la spiegò sul letto grande aspettando che venisse Ciano. Nella veste c‘era un forellino.

— La tarla — disse la sorella, con voce lenta. Prese l’ago, cercò un fil di seta a una vicina, e cominciò a rammendare con la sua precisione.

— Son passati giusto due anni — sospirò chinandosi a spezzar la gugliata co’ denti.

— San Sebastiano mio, che melanconia a pensarci! — esclamò la vedova che si stava lustrando gli stivaletti.

La sorella scrollò la testa tristemente e disse fra le labbra: — Io non l’avrei fatto.

Anche la vedova scrollò la testa, ma pensando che la sorella, diventata pinzochera, certe cose non poteva capirle.

Cominciarono a venir le vicine e le invitate, vestite chi di seta e chi di lana, e i ragazzini e le ragazzine che portavan tra le mani i grandi fazzoletti bianchi, stirati e piegati, da riempir di càlia e di scattati. La saletta era quasi piena; solo Ciano non veniva, lui ch’era tanto puntuale. Donna Mara del Finocchio suggerì alla sposa di vestirsi:

— Si perde troppo tempo ad aspettar don Ciano. E il prete è avvisato per le sei.

La vedova, aiutata dalla sorella e da donna Mara, cominciò a vestirsi lentamente, un poco turbata. Si mise le bùccole, il vezzo di corallo, la catena d’oro, e Ciano non veniva. Indugiò un po’ in camera, con la scusa di cercar lo scialle buono, e finalmente tutta impacciata nella veste color d’oliva dai merletti giallognoli, vincendo l’agitazione entrò nella saletta piena e afosa, dove c‘era un brusio come se parlassero tutti in una volta a voce bassa.

— Che sia successo qualche cosa? — disse forte donna Gidda vedendo venir la sposa.

— Son le sette — disse don Raimondo, e aggiunse, rimettendo l’orologio nel guscio di celluloide: — se volete, vado a vedere io.

— Forse è meglio — rispose la vedova con un fil di voce guardandosi intorno affatto smarrita.

Don Raimondo non tornò subito. Verso le nove, quando il più degli invitati s‘era congedato mormorando, e la vedova spogliata e inginocchiata in camera, davanti il quadro della Madonna, chiedeva perdono all’anima del marito, don Raimondo entrò nella saletta dov’eran rimaste tre o quattro vicine e, asciugandosi la fronte col suo fazzolettone rosso, disse:

— … quel porco! È scappato. Se n’è andato a Reitano con Nina la Cicoriara!

La nicchia vuota

Come videro sfilar le donne e poi i preti e finalmente, piano piano, il loro bel San Giuseppe sulla barella dorata, tra il luccichio delle torce accese, le monache si inginocchiaron tutte dietro le grate. Ogni anno che usciva in processione era un grande avvenimento festoso. Ma quante premure! Se usciva col sole, temevan che si screpolasse il viso e scolorisse il manto, giallo e turchino; se troppo tardi, e se il cielo era velato, temevan che l’umido l’immollasse; e al suo ritorno in chiesa si adunavan dietro il confessionale sussurrando al cappellano mille raccomandazioni: che badasse come lo ricollocavano nella nicchia! che non gli sciupassero le pieghe del manto! che serrasse lui la vetrata! La mattina presto, prima che il sagrestano picchiasse alla rota per farsi dar le chiavi, scivolavano una a una, carponi, nella chiesetta, a osservare co’ propri occhi, da vicino, il San Giuseppe che — con quel suo viso bonario da vecchio tranquillo, dalle gote bianche come il latte e rosse come il fuoco, e la gran barba bianca così al naturale che uno poteva contarne i peli — era l’invidia della stessa Matrice.

Ma quel giorno erano assai preoccupate guardando il cielo incappucciato che s’annuvolava e abbuiava sempre più. Il gallo nel cortile cantava forte, qualche finestra sbatacchiò, e i passeri contro il vecchio muro volavan basso: minacciava proprio un temporale. E fu uno sgomento quando suor Orsola, accostandosi alle grate, esclamò:

—Piove!

— Piove?! — ripeteron le monache raccolte nella stanza grande, e la timorosa esclamazione si ripeté fino in cucina dove suor Dorotea preparava la cena.

 

Scrosciava. Chiusero in fretta le finestre e rimasero nello stanzone con gli occhi ai vetri dove l‘acqua scorreva a fasce.

— Mio Dio! — esclamò suor Antonietta. — Lo copriranno, almeno?

— E con che? — fece suor Tommasa.

— Con qualche cosa… se la faranno prestare!… Un sacco, un tappeto… che so io!…

— Non ci sarebbe da temere! Il cappellano è uno che capisce.

— Troverà modo di farlo riparare…

— Dio, che acqua!

— Guardate che lampi!

Sanctus Deus, Sanctus fortis, Sanctus immortalis!

Miserere nobis!

Bisbigliavano tutte in una volta, segnandosi rapidamente, piene d‘agitazione. La superiora, in un canto, pregava così assorta che trasalì quando udì la campana. Rimase immobile, e seguitò a pregar con fervore fin che senti di nuovo il passo pesante della monaca portinaia.

— Era il sacrestano — avvertì la monaca, con la voce un po’ affannata per le scale fatte. E aggiunse lietamente:

— E al sicuro.

—Dove?

— Nella chiesa di San Domenico. Dai frati. Non si è neanche bagnato.

— Che miracolo, Vergine Maria!

— Poteva mai bagnarsi un santo?

— Ma un’altra volta…

E bisbigliarono di nuovo tutte in una volta, ma gaiamente.

Intanto marzo pazzo, sfogato il malumore, s‘era rimesso in buono, e nel cielo rassettato il sole s’affacciava tra due nuvoloni grigi, così che in terra mezzo era scuro e mezzo era chiaro.

 

 

All’alba il primo pensiero della superiora fu di mandare a riprendere il San Giuseppe. E nel pomeriggio la nuova processione, con la banda, s’avviò allegramente a San Domenico. Ma nel cortile del convento si fecero trovare soltanto cinque o sei frati col padre guardiano, il quale disse pulitamente al cappellano che il santo, in chiesa, ci stava bene e che loro, le monache e i preti, non avevan nessun diritto di portarselo via. Con la forza? padronissimi. Ma alla forza si risponde con la forza; e i frati non eran da meno de’ preti, e a qualunque costo avrebbero fatto rispettare la volontà di San Giuseppe, che miracolosamente aveva chiesto ricetto alla loro chiesa.

Cose da far bestemmiare! Cose da fare ammattire!

E non ci fu verso. Dietro il convento, i preti, impazienti e sconcertati, mormorarono a lungo fra di loro sul da farsi, mentre le donne più lontano sussurravano, e la banda taceva. Quale scorbacchiatura tornarsene a quel modo! E quella musica che ci stava a fare? e tutte quelle donne? bella precessione! Si sbandarono a gruppi, chi per la via maestra e chi per le scorciatoie, commentando l’avvenimento; e i preti s’avviarono a due a due, muti curvi e frettolosi, con le zimarre nere e le bianche cotte mosse dal vento, giù per un’angusta viottola fangosa, tra due file di peschi rugiadosi che pareva sorridessero della loro fretta.

 

Per le monache fu un lutto. Il cappellano, povero vecchio, andava e tornava dal convento al collegio, rimanendo lunghe ore in parlatorio, benché ci fosse umido e lui patisse di reumatismi. Avevan tentato con le buone, con le cattive, con le minacce, con le persuasioni, senza ottenere niente; duri come sassi, i frati rispondevano che San Giuseppe aveva voluto fermarsi al loro convento, e loro lo tenevano da buoni cristiani, e se il santo avesse voluto tornare al collegio avrebbe pensato a fare un altro miracolo. Il cappellano era avvilito:

— Ma che si potrebbe fare? — ripeteva sgomenta la superiora attraverso la grata. — Se vossìa offrisse una somma… una somma forte?…

— L‘ho già tentato. A rischio d’impoverire il collegio. Ma i frati son ricchi, e dicono che lo fanno per rispetto a San Giuseppe…

— E vero… Ma allora è proprio il nostro santo che vogliono! Non se ne potrebbero procurare un altro? Essi non gli sono affezionati al modo nostro, che son tant’anni che lo custodiamo, e l‘abbiamo mantenuto nuovo che par fatto ieri!

— Sfido io! — diceva suor Dorotea, più lontano, tra le sorelle che ascoltavano. — Dove troverebbero un altro San Giuseppe come il nostro! E poi, benedetto dal Cardinale! Mica è facile una benedizione a quel modo!

— Ci pensate, suor Immacolata? A me pare che sia stato ieri. Che festa… La chiesa era un giardino, il coretto tutto a festoni di lauro e mortella…

— E la musica fuori la porta, e la sera i fochi sul Castello…

 

E a una a una le monache, aggruppate in fondo al parlatorio, ricordavano ogni particolare della festa, commovendosi fino a piangerne.

— Una querela… — disse una volta il cappellano alla superiora, lentamente, come se il suggerimento gli costasse fatica.

— Metterci in mezzo la giustizia? Gesù Maria! Tra monaci e monache? Per cose di santi?… E chi se ne occuperebbe?

— Eh, magari io…

— Vossìa?… — E la superiora sospirò profondamente. E poi no. Non era affare da metterci in mezzo la giustizia degli uomini; solo Dio poteva farli ravvedere, que’ benedetti frati! Se la Madonna facesse il miracolo!? Se tutt’a un tratto, mentre meno se l’aspettavano, avessero sentito la musica e visto spuntar la processione che riportava il santo nella sua piccola chiesa?!

 

Dovettero rassegnarsi; ma nel coretto non sapevan pregare guardando rimpetto la nicchia dell’altare maggiore, vuota e squallida, che pareva un’occhiaia, si, proprio un’occhiaia, come aveva detto suor Immacolata, perché San Giuseppe era veramente lo sguardo benevolo della chiesetta.

— Gesù Maria — mormorò un giorno suor Dorotea dopo la novena. — Non può stare così la nicchia di San Giuseppe. Tanto non c’è più speranza.

— E che s’ha da fare?

— Lo so io? Ma un santo ci vuole.

— Un santo! Come metterne un altro nella nicchia di San Giuseppe!

— Dovete dire, anzi, nella chiesa, nel collegio di San Giuseppe!

Il collegio era povero e non c‘era speranza di poter comprare un’altra statua. Bisognava ingegnarsi. Suor Immacolata fu quella che seppe trovare.

 

Su, nel coretto vecchio, non c‘era abbandonato un San Giuda Taddeo? con una bella barba, che quasi pareva un San Giuseppe?

La proposta accolta a malincuore fu poi discussa con entusiasmo; e le monache più giovani corsero lietamente su nel vecchio coretto umido e buio a impossessarsi della statua abbandonata; e trascinandola con gran fatica la portaron giù in un angolo del refettorio. Tutte le furono intorno un po’ liete e un po’ in timore, a guardar da vicino quel grosso viso imbronciolito che le riguardava con rancore. Era sciupato, il santo, un po’ screpolato, non era bello… E durarono un mese buono a pulire e a grattare. Ogni monaca aveva da fare. Chi s’occupò di colorire ben bene le guance, e fu difficile, ché una volta eran troppo rosse, una volta troppo sbiancate. In molte ricamarono il manto, giallo e turchino, per rassomigliare l’altro. Chi fece tre gigli da mettere in cima alla mazza da far tenere in mano al santo; chi imbiaccò barba e capelli.

E finalmente — col ricco manto drappeggiato addosso e la mazza appoggiata su un braccio — la statua fu collocata nella nicchia; e le monache, pregando, si illusero di aver davanti San Giuseppe. Ma, parlando, spesso s’imbrogliavano chiamandolo:

— San Giuda…

Allora qualche altra suggeriva pronta, con un sospiro:

— San Giuseppe…

Ma passando pe ‘l coretto e vedendo quel viso rabbuffato, malgrado i gigli, malgrado i peli imbiaccati e le gote rosse, oh, come rimpiangevano il viso bonario e l’attitudine curva e mansueta del loro bel San Giuseppe che stava in mano ai frati!

Il ricordo

La madre, poveraccia, s‘ingegnava a intrecciar corbelli e sporte, ma i pochi soldi che ne ricavava non eran bastanti manco pe ‘l carbone. Chi manteneva la casa era Vastiana, che dall’alba a un‘ora di notte faticava sempre trovando buono ogni guadagno. Per una schiacciata impastava il pane alle vicine, trastullava I bambini di donna Mena, e lavava certi canestri di panni che non finivano mai, contentandosi d’un po’ di farina, d‘uno staio di fave, della roba smessa.

«Gallina che cammina, torna col gozzo pieno»; era caso raro che uscendo rientrasse a mani vuote. Tutto il tempo che le restava libero sferruzzava, con una sveltezza indiavolata, come avesse la macchina nelle mani; di modo che a fin di settimana si trovava sempre qualche paio di solette da vendere. Almeno non si morivan di fame. E Vastiana, non sperando di poter campare meglio, non si lagnava mai, e lavorava cosi di buona voglia che tutte le vicine le volevan bene.

Qualche volta, la domenica, pettinandosi i lunghi capelli si guardava nel pezzo di specchio che teneva serbato come una reliquia, e vedendosi il viso lungo e senza colore, e i grandi occhi chiari, sospirava un poco pensando ch’era pure una cosa melanconica l‘esser tanto brutta, e che i ragazzi non avevan poi torto a chiamarla lampiuni e perciò i pecorai, che ne’ giorni di festa passavan pe ‘l vicolo vestiti di velluto cercando la zita, non la guardavan mai. Ma se ne rammaricava per poco; a pena riposti specchio e pettini e data cura alla vecchia madre — che l’aspettava per esser vestita e messa a sedere davanti l’uscio — si dava della babbalea e della pretenziosa. Anche la bellezza ci voleva! Come non bastasse aver di che sfamarsi!

A tempo di mietitura Vastiana raccomandava la madre a Crocifissa — ch’era una vecchia da potercisi fidare — e andava a spigolare con certe sue vicinette più povere. Spigolare era una festa — ben che rincasasse con la schiena indolenzita — perché portava una buona sacca di spighe che poi batteva da sé, e una piccola parte ne faceva farro e il resto portava a macinare facendone tutta farina; e più di tutto perché pigliava un po’ d’aria e di sole, lei che stava sempre nel vicoletto.

Un’estate dovevano andare a Salamuni, e poi ch’era lontano e si doveva rimanere due giorni, dormendo al Capannone, la madre non si voleva persuadere a lasciarla andare. Ma Vastiana tanto fece e tanto disse che al mattino presto, quando le vicine, passando davanti l’uscio, le gridarono:

— O Vastiana, ci vieni? — lei ch’era pronta scese di corsa con la sua sacca e s’avviò.

Le pareva una festa, nello stradone bianco e fresco; e, a pena arrivata, cominciò a raccogliere e a raccogliere, curva con la sacca sulle spalle, pazza di piacere a sentirsela diventar sempre più pesa: non si riposò neanche a mezzogiorno quando il sole scottava; mangiucchiò un cantuccio di pane raccogliendo sempre. Ubbriacata di sole, non sentiva niente, non vedeva che giallume di stoppie accese, e se si drizzava un momento, guardava subito nella bocca del sacco, come ci fosse un tesoro, e sentiva gonfiarsi il cuore al pensiero che quello era frumento e sarebbe diventato tanto buon pane bruno e odoroso da riempirne la madia.

Ma quando il cielo diventò viola e i grilli cominciarono a frinire, si trovò improvvisamente sola, lontana dalle compagne, nel gran campo segato che non finiva mai; guardò davanti a sé abbacinata, si voltò guardandosi intorno; solo dietro le sue spalle c‘era una cinta di sassi, mortella e pugnitopo. S’era spinta sino al limite di Salamuni. Sgomenta, chiamò:

– … Oh… Maru…zza!

Le rispose l’eco. Tornò a spiare ogni parte. Tese l’orecchio e non udì che i grilli. C’era al di là della cinta uno fermo a cavallo, e se ne spaventò più forte e fece per correre; ma vedendo che quello s‘avvicinava, le gambe cominciarono a tremarle e restò inchiodata, gridando con voce di pianto:

— Oh, Maru…zza…

— Che fai qui?

Voscenza benedica — balbettò Vastiana ravvisando Pepè Guastella — aspetto le compagne

— Che compagne?

— Siam venute per le spighe, Eccellenza.

E mosse qualche passo per avviarsi verso una parte qualunque.

— Tu sei Vastiana di Turi?

— Eccellenza si.

— Quello che fu mio mulattiere?

— Quello, buon’anima.

— Ma dove vai? Ti vuoi sperdere? Ti par che Salamuni si possa attraversare sta sera? Aspetta, non t‘avviare come una matta. Verso che parte vai? Fammi sapere…!

 

E don Pepè rise rumorosamente guardandola tutta, mentre Vastiana si passava forte la mano sulla fronte sudata, lamentandosi e battendo i denti come avesse la terzana:

— Matruzza mia, t’avessi ascoltata! Per il pane è stato! Per il panuzzo!

— Aspetta — disse don Pepè saltando dalla giumenta — vieni da questa parte.

— Eccellenza no.

— Bestia! Dal mio campo accorcerai la strada.

— Eccellenza, mi lasci stare…

— E sta’. Cosi di notte, come una matta! E qualche campiere t’accoppa come un pulcino.

—Matruzza mia! — gemeva Vastiana avvilita.

— Non gridare e dammi retta. T’insegno la strada. Le altre sono al Capannone.

Era vero. Al Capannone. E a quell’ora avrebbero cotta la minestra, e non c‘era nessuno che pensasse a cercar di lei.

— Salta! — ordinò. Don Pepè aveva una voce di comando che uno non poteva contrariarlo. Pure Vastiana, col coraggio che le dava quello spavento disperato, mormorò:

— Ma che c‘entra il campo di voscenza con quello di Salamuni?

— Bestia! T‘insegnerò la strada.

— Me l‘insegni da qui. Mi dica da che parte debbo andare ed io camminerò tanto che li troverò.

— Pezzo di villana! cosi osi trattare il padrone di tuo padre? Ti par che ti mangi?

E Vastiana, raccogliendosi le gonne, si arrampicò sulla siepe, sdrucendosi le mani e saltò finalmente nel campo di Guastella. Ma una volta li, ricominciò a tremare e a sudar freddo come se avesse fatto una mal’azione. Don Pepè, senza badarle, tenendo le guide della giumenta, le fece segno di camminare. E Vastiana camminò secondo il passo del padrone che andava lentamente e a testa bassa. Attraversarono il campo segato; i campieri salutavano don Pepè che rispondeva a pena; a uno che voleva accompagnarlo disse congedandolo con un cenno:

— Insegno io la strada a costei.

E camminavano. Vastiana, pur guardandosi a destra e a sinistra per scorgere il limite, era un po’ rassicurata. Ma andavano nel mezzo del campo. Scorse, lontano, la casina di Guastella e sbirciò il padrone.

— Siamo arrivati — disse don Pepè — dalla casina, per una viottola si è a due passi dalla via maestra. E un campiere ti condurrà al Capannone.

— Che il Signore glie lo renda, Eccellenza.

— Prima — disse don Pepè mettendole una mano sulla spalla mentre Vastiana si scostava trasalendo — voglio lasciarti un ricordo. Per quanto tu possa spigolare!… — e rise allegramente. — Tua madre non se la sciala!

— Qui non porto nulla— aggiunse toccandosi le tasche del giubbone di velluto. — Non dovrai fare altro che salire su alla casina. Un momento solo.

— No Eccellenza— esclamò Vastiana— alla casina non può essere.

— Sei pazza? Tutti cosi questi villani! Che t’ho fatto? Che t’ho detto? Non basta che ti voglia beneficare? Telo faccio, il bene, cosi, per niente. Perché mi piaci. Non vedi che se avessi voluto tu eri nelle mie mani?

E Vastiana segui il padrone, senza sapere quel che si facesse, ubbriacata di sole e di fatica.

Alla casina restò tre giorni; sino al mattino che don Pepè, mettendole tra le mani il ricordo promesso, la mandò via facendola accompagnare al paese dal campiere. Vastiana non guardò che fosse il dono; pareva incantata e andò appresso al campiere com’una che ha la sonnaia. Si scosse quando si sentì dire:

— Ora puoi andare.

Andare? Guardò con occhi di scema il campiere che voltava la giumenta, guardò la strada avanti a sé, le prime case piccole e affumicate appese alle falde del Castello, ricominciando a tremare perché cominciava finalmente a capire. Gesù, Gesù Maria! Che era mai successo? Com’era successo? Con qual coraggio tornava in paese? Cosa dire a sua madre? a sua madre che doveva esser morta di spavento e di dolore? Gesù, Gesù! E le picchiavan le tempie, e si sentiva debole quasi che le avessero cavato tutto il sangue, e pure camminava; eran le gambe che la portavano… Come l‘asino di suo padre buon’anima, quella sera della Candelora, aveva trovato la strada da solo mentre il padrone era morto a Guastella.

Se ne rammentò improvvisamente, senza saper come; allora sua madre aveva gridato intendendo la sciagura, e griderebbe anche adesso perché adesso era successa una cosa più brutta della morte.

Passò le prime case, la fontana che frusciava nella quiete, la strada del Rosario, e finalmente imboccò il suo vicoletto con gli occhi a terra, stretta nella mantellina nera. Non c‘era nessuno. Solo Crocifissa che lavava davanti casa si rizzò esclamando:

— Sei tu, Vastiana?

Ma Vastiana non l’udi. Entrò. Sua madre giaceva ancora a letto; a quell’ora nessuno ci aveva pensato. Chiuse l’uscio, s’inginocchiò accanto al saccone e col viso tra le mani cominciò a piangere piano piano, poi così forte che pareva il petto le si dovesse spezzare La vecchia nel letto, con occhi spaventati, ripeteva, poi che capiva, poi che sapeva:

— O Vastiana, Vastiana, Vastiana!

E Vastiana piangeva con certi lamenti lunghi e cupi come quelli d’un cane battuto.

Come seppero che Vastiana era tornata, le vicine non dormiron più per la curiosità di sapere com’era andata e che ne dicevan la madre e la figlia; tutte poi morivan dalla voglia di conoscere quel che avesse regalato don Pepè. Don Pepè, ricco signore, e strampalato, che se glie lo diceva la testa era capace di donare una quota e se no neanche un limone fradicio. Mormoravan che Vastiana avesse oro e quattrini:

— Cent’onze, le ha dato.

— E il vitalizio alla madre, non lo contate?

— Chi l‘avrebbe detto, quel lampione!

— Sì, ma è sempre una vergogna.

— Vergogna o no, si morivan di fame e ora faran le signore. Tanto non l‘avrebbero sposata lo stesso.

— Mentre adesso, chi sa? I quattrini accecano.

Vastiana intanto non si vedeva neanche sull’uscio, perché donna Mena l‘aveva licenziata e nessuna vicina la chiamava per impastare il pane o lavar le robe. E le vicine cominciarono a entrare in casa, a cercar notizie, badando a non farsi vedere l‘una dall’altra. La vecchia taceva del piccolo dono — dieci onze che s‘era subito cucite nella veste — e si lamentava imprecando contro I signori. Non ci credevano, e spiavan la casa per scoprir la verità; e allorché si persuasero che veramente non s‘era buscato niente, cominciarono chi ad allontanarsi e chi a consigliare:

 

— Il vitalizio doveva darvi! Queste son cose che si pagan care, e voi lo sapete, babbalee! Mariannina, con don Ciccio, s’è fatta i muri d’oro!

— Ma non lo vedete! — piagnucolava la paralitica — che io son qui come un ciocco? O allora perché se n’è approfittato? Ci fosse stato qualcuno a rompergli le ossa!

— Vostra figlia deve fare il gioco. Fossi io nei suoi panni andrei a dirgli quel che si merita! Tanto…

Vastiana con le labbra strette, scalzettava, diventando di mille colori. E quando le vicine se n’andavano, sospirava levandosi un peso dallo stomaco. Ma allora doveva sentir la madre che non la smetteva neanche la notte.

— Potessi andare a cavargli il core! Almeno ci desse qualche altra cosa! Perché non ci vai? Tanto non c’è altro da perdere. T’ha buttata via come un limone spremuto. Maledetto lui e i suoi figli! Maledetta la razza dei signori!

Ma la figlia udiva quella voce ronzarle alle orecchie come un moscone; tornava indietro indietro nel ricordo di quei tre giorni ch’eran fuggiti com’un brutto fatto sognato che lascia la bocca amara e la testa vuota. Pensando alla casina di Guastella si scordava delle vicine, della sua catapecchia e dei lamenti della madre; e rivedeva don Pepè e si sentiva nelle orecchie quella gran risata d‘uomo contento. Che volevano tutte costoro? Che voleva sua madre? Si può mai riparare al male successo?

 

Era finita la sua pace. Prima, quando alla sera, dopo aver faticato come un bue, si faceva la croce, s’addormentava subito, e ora non prendeva più sonno per tanti pensieri e tante immagini che le ballavano davanti, e si vergognava a nominar la Madonna. Andava in chiesa con le compagne e chi la chiamava di qua e chi la chiamava di là, e ora nessuna vicina l‘avrebbe invitata in casa, e i piccini di donna Mena, che le volevan bene, non li avrebbe più potuti tenere in collo. Il male era fatto. Il male! Sentiva un tuffo di sangue alla testa a pensar questa parola. Era tanto brutta, lei, s‘era sentita cosi misera, che non aveva mai pensato che qualcuno avesse potuto volerle un po’ di bene E quella sera, quand’era stanca e la testa le girava per il sole preso, uno, un signore, le aveva detto:

— Sai che mi piaci, tu?

E quelle poche parole le avevan fatto girare la testa più del sole di Salamuni.

Che volevano? Perché l’insultavano, don Pepè? Lei gli voleva bene, sissignore, si sarebbe fatta svenare solo per fargli piacere, e un giorno o l‘altro l‘avrebbe gridato forte a chi l’avesse voluto sentire. Che volevano? E godeva con amarezza grande del ricordo della sua vergognosa felicità, torturandosi di pena e di piacere. Perciò taceva. E quanto più le vicine si allontanavano dalla sua casa e la madre borbottava, tanto più lei taceva e ricordava, scalzettando svelta perché doveva affrettarsi in questo solo lavoro che le era rimasto di poter fare, se non voleva morir di fame.

E chi cominciò a chiamarla scema e chi sfacciata, tanto più che s‘era fatto un viso stralunato; intanto Nino del Castello le aveva fatto una canzone, e i ragazzi la sera gliela cantavano al chiaro di luna, accompagnati dalle grasse risate dell’ubbriaco:

Vastiana lampiuni
Si ‘nni ju mrnilleggiatura,
Fici un jornu la signura
E turnau cchiù lampiuni!

     Ma Vastiana non ci badava.

La Mèrica

Di poi, passaru l’autri cchiu di trenta:
li picciotti sciamaru comu l’api;
Mi parsi ca lu scum ad uno ad uno
si l’avissi agghiuttutu, e ca lu ventu,
‘ntra dda negghia tirrana ‘mpiccicusa
l’avissi straminatu pri lu munnu.
Lu scum li tirava, una centona,
un ciarmulizzu, e nomi, e vuci, e chianti:
unu cantava cu tuttu lu ciatu
ma c’era tanta rabbia ‘tra dda vuci
la dispirazioni e lu duluri
paria mrnalidicissi e celu e terra.

VITO MERCADANTE,  Focu di Mungibeddu

 

Mariano lo disse la sera di San Michele tornando da Baronia col vecchio padre. Catena, che allattava il bimbo, si fece pallida come una morta, e rispose:

— Ci son riusciti, i birbanti, a ficcartelo in testa! Ma se proprio ci vuoi andare pensa ch’io non mi son maritata per restar né vedova né ragazza dopo un anno di matrimonio!

Mariano buttò la vanga in un canto rabbiosamente, bestemmiando; Catena, con le labbra pallide, scrollava la testa ripetendo:

— Ci vengo. O ci vengo o mi butto dal Castello.

Mamma Vita, risalendo dalla stalla, li trovò a leticare. Quando si bisticciavano essa non parlava mai, per prudenza; ma come li vide accesi e senti nominar l’America, le parve che le attanagliassero il cuore e mormorò:

— Figlio, che stai dicendo?

Era curva sull’uscio, nera e piccina, con una manciata di fieno nel grembiule sollevato, e Mariano a vedersi guardato da quegli occhi chiari sgomenti, si chetò e disse:

— Faccio quel che fanno tutti nell’Amarelli. E costei mi sta martoriando col suo lagno. Vedi se è possibile che una come Catena debba partire.

 

Mamma Vita restava immobile come se non capisse; poi si piegò sulla cassapanca coprendosi la faccia tra le mani. Catena, col bimbo addormentato sulle ginocchia, guardava, senza vedere, davanti a sé co’ grandi occhi neri appassionati e dolorosi. Poi sali anche il vecchio; egli sapeva la trista decisione del figlio e andò a mettersi sulla scala senza parlare

Tutti partivano, nel quartiere dell’Amarelli; non c‘era casa che non piangesse. Pareva la guerra; e come quando c’è la guerra, le mogli restavan senza marito e le mamme senza figlioli.

La gna’ Maria, quella vecchia dalla testa bianca e arruffata come una conocchia, gridava davanti all’uscio la sua pena senza curarsi che la sentissero, gridava i nomi de’ suoi due figlioli maledicendo l’America con tutta l’anima, con le mani alzate. La Varvarissa restava giovane giovane senza marito con una creatura al petto; e poi partiva il figlio unico di mastro Antonino, e Ciccio Spiga, e il marito di Maruzza la biondina… Chi poteva contarli? Partivan tutti e nelle case in lutto le donne restavano a piangere. Pure ognuno possedeva un pezzo di terra, una quota, la casa, pure ognuno partiva. E i meglio giovani del paese andavano a lavorare in quella terra incantata che se li tirava come una mala femmina.

Ora anche Mariano. E Mariano aveva un poderetto che dava pane e olio, un poderetto zappato e lavorato come un giardino, e la moglie giovane, bellina, dolce come il miele. Quel che avevano fatto per trattenerlo, per levargli il pensiero della Mèrica, non si rammentava più.

Aveva voluto il mulo e ssù ‘Ntoni glie l‘aveva comprato; mamma Vita gli aveva cucito un altro vestito di velluto e Catena non aveva saputo che dirgli per tenerselo legato.

Ma l’America, diceva la gna’ Maria, è un tarlo che rode, una malattia che s’attacca; come viene il tempo che uno si deve comprare la valigia, non c’è niente che lo tenga.

In quella grigia serata di San Michele, i vecchi pensarono che questo tempo era venuto anche per Mariano.

Ma Catena con gli occhi fissi davanti a sé non si voleva persuadere a restar sola; con la piccola faccia olivastra abbuiata di passione e di paura, pensava di seguire il marito. Pensava: e pareva che il pensiero fosse una ferita, fosse una febbre, tanto le dolevano le tempie e il cuore.

Dopo quella brutta serata, gli altri giorni ancora seguitò a dire, implorando con gli occhi e minacciando con la voce:

— Ci vengo. Se parti, parto anch’io. O mi butto dal Castello.

Mamma Vita non seppe darle torto:

— E giusto, è giusto… — ripeteva con voce rassegnata.

— Ma il bambino! — gridava Mariano indispettendosi d’essere contrariato anche dalla madre

Il bambino! Era vero. Si poteva uccidere un piccino con un viaggio tanto lungo?

— Oh! — implorava Catena. — Non sono mamma io? Lo terrò nel mio scialle, lo terrò sul petto come un uccellino nel nido. Non ci pensate.

Tristi giorni! Marito e moglie non fecero che bisticciarsi. Ma poi vinse Catena, e quando Mariano comprò la valigia a mantice e cominciò a prepararsi le sue robe, Catena tremante ma decisa ordinò le proprie e quelle del piccino.

C’era nel suo viso un pallore di bimba spaurita. Spiava tutto e tutti, continuamente in palpito che all’ultimo momento qualche cosa impreveduta, un tradimento di Mariano, la facesse restare. E nella valigia confondeva furiosamente la biancheria sua con quella del marito per stabilire da vero la propria partenza.

Solo la sera che le valigie furon pronte e Mariano le mostrò i due biglietti, si rasserenò e gli occhi le tornaron dolci e ridenti come sempre.

Allora solo cominciò a sentir la pena della partenza e le parve mill’anni che ne venisse l’ora per levarsi dalla casetta dove era stata felice un anno — dopo I maltrattamenti subiti in casa del patrigno e della sorellastra — per levarsi dalle lacrime della gna’ Vita, che le aveva fatto da mamma, e dal dolore muto e profondo di papà ‘Ntoni.

Quando furon partiti, ssù ‘Ntoni tornò al podere: la terra non si può abbandonare.

Mamma Vita l‘aiutò — come al solito — a incavezzar l’asino, e gli dette un pane.

— Io non vengo — aggiunse. — E come se m’avessero dato un carico di legnate.

Rientrò curva nella casetta, e chiuse uscio e finestra come quando c’è lutto.

— Che farò d’ora innanzi? — pensava guardandosi intorno — avevo due mosche e mi son volate via.

A che serviva lavorar la terra? A che serviva filare il lino e tesser la tela, d’ora innanzi? Si figurò mestamente il vecchio ‘Ntoni che, solo e afflitto, seminava il buon frumento d’oro lassù a Baronia, nella bella terra solatia che il figlio aveva male apprezzata. E rivide la scena della sera innanzi; eran partiti a mezzanotte; non c‘era luna e a pena si scorgevano i due carretti pronti, nello stradone, già occupati dagli altri emigranti; i carretti pieni che s‘erano allontanati nella notte buia, col canto dei giovani e il tintinnio delle bubbole.

— Poveri figlioli! — sospirò forte col cuore stretto.

Ssù ‘Ntoni la sera, scavezzando l’asino, ripeté:

— Vita, la terra vuole braccia, e io che son vecchio non basto.

— Si — rispose la gna’ Vita — ma io voglio aspettare la lettera. Come posso pensare al podere, mentre non so neanche se quelle creature sono in viaggio?

Il cuore glielo diceva; di fatti la lettera da Palermo le portò una strana notizia inaspettata.

La lesse il postino; e lei la tenne a lungo fra le mani — fra le povere mani ignoranti, brune e rugose di fatica e di vecchiezza — guardando le poche righe nere e contorte come avesse potuto capirne il senso.

— Al peggio non c’è fine — disse tristamente al marito la sera. — Quel figlio bello come una bandiera parte e la moglie torna!

Addio sementa, addio podere! Con le mani e i piedi legati, non poteva più neanche seguire il vecchio, lassù a Baronia che aveva bisogno di braccia. Che farsene d‘una giovane e d’un piccino?

Catena tornò di sera, in diligenza; gialla, spettinata, con le labbra pallide e gli occhi lustri, pareva malata, pareva avesse la febbre.

Posò il bimbo sul letto e si lasciò cadere sulla cassapanca con le braccia sulle ginocchia sconsolatamente.

Mamma Vita prese fra le braccia il bimbo che piangeva, per chetarlo; e nel sentirselo di nuovo sul petto provò una dolcezza grande come se con quella piccola creatura fosse tornato qualche cosa di Mariano.

— Ma com’è andata, Catena? — le chiese.

La nuora taceva.

— E gli altri, Catena?

La nuora taceva. Il bimbo pianse più forte per la fame.

— Dammelo — disse bruscamente la giovane.

— No. Hai il latte cattivo, in questo momento. Ti par che non ti capisca, io?

La voce piana e tremante della vecchia le scese nel cuore, e Catena cominciò a piangere e a raccontare confusamente, calmandosi a poco a poco per il benefico sfogo.

 

Era stata una giornata d’inferno. Erano in venticinque, con quella demonia della sorellastra. E tutti per le vie, per le vie grandi della città; storditi dal chiasso, accecati dalla polvere e stanchi, specialmente stanchi, da buttarsi a dormire per terra, e tutti uniti e sbigottiti come anime del Purgatorio, come non avessero anche loro, in paese, una casa propria; scansando carrozze con cavalli, e carrozze senza cavalli che arrotano un cristiano come niente, rimandati dal piroscafo, rimandati dal medico che doveva visitarli. Finalmente li avevano esaminati, a uno a uno. Lei era stata l’ultima ed era andata così sicura dopo che ognuno era stato accettato!

— E poi… Capisci? — gridò — dopo la vergogna di farti vedere da quel medico forestiero, sentirti dire che hai gli occhi malati! Io! Gli occhi miei che sono stati l‘invidia di tutti!…

 

Parlava a tratti, senza finir le parole rotte dai singhiozzi che le straziavano il petto.

— Non ho pianto, li. No. Ti ho scritto. Non ho alcuno, io. Non madre, non fratelli, nessuno. Li ho visti salire sul vapore, tutti, a uno a uno. Anche quell’altra, capisci! che mi rideva sul viso salutandomi!

E Mariano!? Neanche una parola buona, una sola parola d’incoraggia-mento! Aveva pensato a farle il biglietto di ritorno, oh quello si! Di modo che a pena partito il vapore, uno della stazione l‘aveva accompagnata sino al treno.

— E la roba?

La roba! Come si vedeva che mamma Vita non aveva idea di quel che fosse una città! Chi poteva aprir la valigia e cercar la roba in quell’inferno?

Mostrò alla suocera una ricetta. Glie l‘aveva fatta il medico. Bisognava mettere, ogni mattina, poche gocce del rimedio ordinato, sugli occhi; poteva medicarli un farmacista, una persona pratica qualunque.

— M’ha assicurato che dopo un mese di cura sarò guarita.

— Hai veduto? — esclamò la vecchia dondolando il piccino per tenerlo buono — non è poi finito il mondo…

Catena crollò la testa. E il tempo che sarebbe passato tra la cura e il viaggio? E quelli, laggiù? quella demonia di Rosa che s‘era tirato Mariano con un fil di seta, che gli aveva messo in mente il pensiero della Mèrica? Davanti agli occhi le appari la figura flessuosa della sorellastra, il bel corpo dalla vita sottile e dal petto procace, il viso olivigno dalle labbra rosse e dal riso sfrontato.

Per la cura non volle perder tempo. E l‘indomani, a pena papà ‘Ntoni si fu avviato a Baronia, la gna’ Vita mise la mantellina in testa e il bimbo in collo per accompagnar la nuora da don Graziano il farmacista.

Insisterono perché cominciasse le medicature subito, quella mattina stessa. Il vecchio s’aggiustò gli occhiali, e fatta seder la giovane, tenendole la fronte con una mano, con l‘altra le fece gocciolar sugli occhi una medicina che aveva preparata.

— Poche gocce, ha detto — mormorò Catena mordendosi le labbra mentre la medicina le inondava le tempie e le orecchie.

— Don Graziano — ripeté mamma Vita più forte poi che il vecchio era mezzo sordo — poche, poche gocce.

— Zitta, voi — rispose impermalito il farmacista — se non m’avete fiducia cercatevi un altro medico.

— Vossìa ci scusi — pregò la giovane — gli è che avevo letto la prescrizione

E segui la suocera tenendosi il fazzoletto sugli occhi pe ‘l gran bruciore che provava.

Mattina per mattina le due donne andavano da don Graziano. Dopo una settimana di quella tortura la suocera domandò:

— Ma ti giova, il medicamento? A me pare che ti faccia più male che bene

— Volevo dirlo anch’io — sospirò la nuora. — Non avevo mai patito male agli occhi e ora me li sento pungere da cento spilli.

Che fare? Forse il meglio era smetter la medicazione e domandar consiglio a un medico. Però mamma Vita andò sola a ringraziare il farmacista portandogli un paio di pollastre rosse, scelte fra le più belle del pollaio, e poi andò con la nuora da don Pidduzzu Saitta, ch’era il medico più anziano del paese.

Egli osservò Catena, che lo guardava sgomenta, poi le sollevò un poco, delicatamente, le palpebre indolenzite.

— Chi ve l’ha curati? — chiese.

— Don Graziano.

— Il farmacista?

— Sissignore

— Benedetti villani! — mormorò il medico. — E voi volete andare alla Mèrica?

— Sissignore.

— Speriamo. Tornate domattina alle nove. Proveremo a causticare.

Catena segui la suocera con la morte nel cuore; e a pena a casa buttò la mantellina sul letto e, nascosto il viso fra le materasse abballinate, cominciò a piangere angosciosamente come la sera in cui era tornata da Palermo.

Mamma Vita, in piedi, col bimbo addormentato fra le braccia, non sapeva che dire per calmare quel pianto.

— Senti — disse poi risoluta, — Saitta è un corvo di malaugurio. Vede le cose peggio di quel che sono. Io non ci tornerei più. C’è Panebianco, sai? Quello è il medico dei poveri!

Catena levò il viso umido di lacrime e guardò la suocera con un po’ di speranza.

— Dopo pranzo ci andiamo — asserì la vecchietta, — coraggio, figlia, credi che non ti capisca?

E la guardò con tanta mestizia nei piccoli occhi chiari, perché, lei, le voleva bene proprio quanto a una figlia.

— Guarda che boccio di rosa — disse chinando la testa sul bimbo addormentato — e come gli somiglia! Perché piangi, tu? — la confortò sospirando — tu hai il tuo piccino e rivedrai tuo marito. Io son vecchia, vedi, e mi son divisa viva da quel figliolo che non vedrò più. E io pensavo di tenerlo sempre con me, e tessevo la tela per la sua famiglia. Ora è finita. Non vedi ssù ‘Ntoni com’è diventato? e la bella terra di Baronia com’è desolata?

 

Nel pomeriggio andarono da Panebianco per l’ultima prova. Panebianco, grasso bracato, rise come quando gli si portava un regalo e poi osservò lungamente gli occhi di Catena, palpandole le guance con le sue dita massicce e leggere.

— Rovinati? — andava ripetendo col suo fare d‘uomo che trova tutto facile. — Rovinati? La vedremo noi! Alla fine del mese partirete.

Mattina per mattina, col bimbo in collo, andarono da Panebianco; e sempre mamma Vita portava sotto la mantellina un cestino d’ova o di frutta, un sacchetto di frumento, un pollastro, un par di piccioni torraioli, perché Panebianco, il medico dei poveri, accettava ogni cosa.

Ma gli occhi andavano di male in peggio; e Catena, levandosi, vi teneva un pezzo il fazzoletto per abituarli alla luce. Non ne poteva più; cominciò a diffidare anche di Panebianco e volle cambiar medico.

Verso la fine del mese giunse la lettera di Mariano. Cominciava a guadagnare; erano trentacinque, tutti Mistrettesi, e stavano insieme; anche le donne s‘erano impiegate. Tutte notizie che le parvero schiaffi. Lesse e rilesse la lettera diverse volte, piena di rabbia. Egli appariva lieto e la gna’ Vita ripensò alle amare parole della gna’ Maria quando disse, un giorno, che i figli, una volta laggiù, si scordano sino della mamma che li ha fatti.

Catena disperò della sua partenza e non credé più ai medici; tutti birbanti, tutti imbroglioni, buoni a smungere il sangue ai poveri. Il solo Panebianco aveva avuto sei polli e non si sa quanta frutta e quante uova.

 

Nella piccola casa di ssù ‘Ntoni i giorni passavano pieni di malinconia. Non c‘era festa né processione per le due donne; sempre casa e casa, la domenica in chiesa a pregar davanti l’altare di Santa Lucia. Ssù ‘Ntoni, poi che la moglie non poté seguirlo, si era cercato un mezzaiolo, un compagno che l’aiutasse a lavorar la terra. Egli parlava sempre meno, col pensiero fisso al suo figliolo bello e forte come un querciolo, che lavorava per gli altri.

Il piccino cresceva male, stento stento, un po’ perché aveva avuto il latte cattivo, un po’ perché, in vece di giocare con gli altri piccini, passava dalle braccia della nonna a quelle della madre, essendo egli tutto ciò che fosse rimasto di Mariano.

 

Catena, ch’era diventata selvatica, rifuggiva anche le vicine. Nella piccola faccia olivastra, scarnita come se ci fosse un fuoco dentro che la consumasse, gli occhi apparivan più grandi, più neri pe ‘i calamai lividi che li cerchiavano.

Non amava più neanche lavorare, benché fosse stata sempre la più laboriosa dell’Amarelli. Passava le sue giornate accoccolata sullo scalino davanti l’uscio, mentre mamma Vita filava o rattoppava, ascoltando il parlottar del bimbo che aveva imparato a chiamare papà; e tutte e due senza dirselo mai, tenevan gli occhi alla cantonata dalla quale soleva spuntare il postino, trasalendo se lo vedevano avvicinare alla loro casetta.

Ma lettere ne venivano sempre più raramente. E Catena non si sfogava più neanche con la suocera; nella testa le si agitavano tanti pensieri che le facevan battere le tempie come avesse la febbre; pensava alla Mèrica, alle case alte e alle strade buie, pensava a Mariano giovane e forte, alla buona terra di Baronia, e rivedeva la bella e sfrontata persona della sorellastra.

 

Le vicine non riuscivano mai a farla chiacchierare un poco. Ma certe volte udivano la sua voce, fattasi tanto strana e acuta; l’udivan parlare al suo bimbo come avesse potuto capirla, dandogli un brusio di nomignoli bizzarri, con accento alterato mutevole e frenetico.

–  Stella, tesoro, Cavaleri finu, San Giorgiu biunnu, Apuzza nica. Tu mi ristasti. Chiamalu, papà, chiamalu ca è luntanu…

Il piccino sulle prime, sollevato dalle braccia nervose della madre, rideva, ma, soffocato dalle impetuose carezze, finiva col piangere

Una mattina vedendo passare la gna’ Maria le chiese se avesse due corbelli per metterci l‘uva e i fichidindia da portare a Mariano.

— I fichidindia gli piacciono tanto, e laggiù non ce n’è… Sì, parto col bimbo — disse sbarrandole in faccia i grandi occhi neri spauriti.

— Io lo so, adesso, come si viaggia!

E si come la gna’ Maria scrollava la testa, essa le voltò le spalle, stizzita, e sedette di nuovo innanzi all’uscio.

Lettere non ne venivano e gli occhi non guarivano. Pure s’eran fatte tre novene e offerte due torce a Santa Lucia, ma la santa non aveva voluto far la grazia.

Oramai non c‘era più speranza di guarire E Catena era diventata cosi stizzosa che la povera mamma Vita solo per la gran pietà e l‘affetto non la contrariava mai.

Una mattina, era proprio un’altra volta il giorno di San Michele, la gna’ Vita chiuse l’uscio perché faceva freddo.

La nuora che, non si sa perché, era scesa nella stalla, le disse tornando:

— Ma’, vai a prendermi i corbelli che m’ha promesso la gna’ Maria per metterci i pomodori e i fichidindia.

— Che dici, Catena? non è più tempo di pomodori questo!

Catena apri l’uscio con violenza tenendo il bimbo per mano.

– Che fai? non è più estate, vien freddo! Como sei diventata dispettosa, figlia! Non ne hai più, cuore, nel petto!

Catena la guardò. Nella faccia olivastra non si vedevano che gli occhi dalle palpebre gonfie e livide come due macchie.

Sedette sull’uscio, si mise il piccino sulle ginocchia e facendolo ballare cominciò a dirgli, prima piano, poi più forte, poi con la sua voce strana e acuta che feriva le orecchie:

Stella, tesoro, apuzza nica, spica d’oro! Chiamalu, papà! chiamalu ca è luntanu! Stella! Cavaleri finu…

Lo stringeva forte tra le piccole mani nervose, alzandolo per aria, e il bimbo si divincolava e piangeva.

La gna’ Vita, spaventata, s’accostò per levarglielo ma Catena stringeva forte, come tra due morse, e la povera vecchia non ci poteva.

Accorsero anche le vicine incuriosite dal vociar delle donne e dal pianto del bimbo; pregandola, minacciandola glie lo strapparono di mano, a costo di fargli male, mentre Catena ripeteva, ridendo, co’ grandi occhi sbarrati:

– Tesoro! Stella! chiamalo, chiamalo…

 

Credevano che morisse con le convulsioni com’era morta sua madre Ma poi si calmò. E mai più si ripeterono i furori di quella mattina.

Non riconosceva il figlio, non riconosceva la suocera ma non dava fastidio ad alcuno. Passava le intere giornate accoccolata sull’uscio, senza sentire il freddo del rovaio, col mento tra le mani; e se una vicina le si accostava essa spiegava — con un sorriso strano nel piccolo viso scuro — come aspettasse il vapore, di laggiù.

— Vedete? — indicava — laggiù nel mare grande grande il vapore che fuma e che fischia…

I corbelli con l’uva e i fichidindia eran pronti.

— Parto domani. Son guarita — aggiungeva toccandosi gli occhi con le palme aperte. — Son guarita. Vedete? Parto domani…

Le scarpette

Vanni e Maredda si volevano bene, ma di maritarsi non potevano parlare perché erano poveri. Tutti e due orfani di padre, Maredda faceva la tessitrice, Vanni lavorava nella bottega di mastro Nitto il calzolaio. Spesso, egli, diceva alla madre:

— Ma’, per quanto si lavori, si fa come le formiche; raspa e raspa e a pena a pena si riesce a campare.

— Che ci puoi fare, figliolo? Campare è già qualche cosa.

Con Maredda si vedeva un poco verso sera, allo smettere del lavoro, e, la domenica, alla prima messa della Matrice. Più d’un’occhiatina e d‘una paroletta amorosa, non osava. E pure diverse volte s’eran trovati soli, al chiaro di luna, sotto la pergola del Sinibbio, e senza paura di esser veduti; ma anche allora Vanni non aveva fatto altro che prenderle una mano e dirle piano piano:

— Bruttona! Ti voglio bene assai, a te!

Aveva sentito tremare la mano gelata di Maredda nella sua, aveva capito che, se pure l’avesse abbracciata non si sarebbe difesa, ma non aveva osato. Pure, quando le era vicino non sentiva altro desiderio che di baciarla; e spesso nella bottega di mastro Nitto, si dava del minchione rimpiangendo di non averlo fatto. Ma lui — ch’era cresciuto attaccato alle gonne della mamma come una ragazza — aveva certe delicatezze che non si sapeva chi glie le avesse insegnate.

La stessa Maredda gli aveva detto tante volte, quando s’eran bisticciati:

— Già tu non farai mai niente di buono perché tu non sei che un poesiante!

Se n’offendeva. Ma lo chiamavano tutti così e perché sonava il mandolino come pochi lo sonavano e perché era il più buon giovane del Sinibbio.

— Non è vero — soleva dire alla ragazza — ch’io non pensi al sodo. Io che non fumo un sigaro e non bevo un bicchier di vino manco se m’invitano!… Eh! presto potrò parlare a tua madre senza paura d’essere scacciato com’un morto di fame. Ho già cominciato a far le spese, io!

S’era provveduto d’un paiolo di rame, d‘una dozzina di piatti, e aveva lavorato a pezzi e a bocconi un par di scarpette gialle col fiocco di seta, che avevan fatto arrossire di piacere Maredda quando glie l‘aveva mostrate.

— Si comincia dal poco e piano piano si va al grande — diceva Vanni — verrà il tempo che comprerò l’oro e le vesti, e allora!…

E guardava in fondo in fondo agli occhi della ragazza che diventava rossa come un papavero.

 

Ma per quanto s‘industriasse non poteva far gran che. Ogni tanto, per la provvista del grano e della legna, se n’andava in una volta il gruzzolo messo su, a soldo a soldo, per mesi e mesi. Così un inverno, che non poté metter da parte manco quattr’onze, cominciò a scoraggiarsi. La gna’ Nunzia, a vederlo afflitto, gli andava dietro rincorandolo:

— Buon tempo e malo tempo non duran tutto il tempo… Vedrai che passerà questa miseria.

Ma Vanni non rispondeva; e in bottega lavorava a testa china come quando si pensa. Una sera, mentre la gna’ Nunzia stava al focolare per cocere un cavolo, disse:

— Io me ne vado alla Mèrica.

La vecchia trasalì come se le avessero dato una botta sulle spalle e posò la vèntola.

— Sì, me ne vado. Che faccio qui a sprecare il meglio della gioventù con mastro Nitto che mi succhia il sangue? Me ne vado.

— Pure si campa — osservò la madre.

— E ci facciamo vecchi.

La testa l‘aveva a Maredda e la gna’ Nunzia, che lo sapeva, non gliene faceva carico perché la ragazza era onesta e laboriosa.

Cenarono senza dirsi altro; la gna’ Nunzia guardava il figlio come se lo vedesse per l’ultima volta, e gli occhi le si gonfiavano di lacrime; Vanni, ora che la madre non l‘aveva contrariato, sentiva il peso della propria risoluzione.

Ne parlò a Maredda come d‘una cosa fatta. Maredda pianse disperatamente ma si chetò alla voce sicura del giovane:

— Che faccio qui? Laggiù… Più d’un anno non ci resto. Guadagnerò tanto da poterci maritare e metter su bottega per conto mio. Laggiù l’oro costa poco e le buccole te le porterò da lì…

Maredda sorrise fra le lagrime e Vanni la guardò girando il berretto fra le mani e movendo la testa come per dire:

— Non sono uno qualunque, io!

Altro che uno qualunque! aveva tanti progetti per la testa e diceva:

— … ti farò passare davanti, bruttona, il mare con tutti i pesci, ti farò fare la signora…

E già gli pareva di essere ricco, di avere una casa e la moglie, e la bottega per conto proprio.     

Da principio fu un poco sbigottito della sua stessa decisione; poi, a poco a poco, cominciò a abituarcisi, ne fece l‘argomento di tutti i discorsi, e volle sembrare allegro; quando cominciò a prepararsi per la partenza non volle che sua madre piangesse:

— Non vado alla guerra, io! vedrai che non mi riconoscerai più. Se non altro, mastro Nitto mi rispetterà.

 

Gli pareva d‘esser diventato un uomo di quelli anziani, e camminava superbamente con Peppe Sciuto e Cola Spica ch’erano ammogliati e partivano anch’essi per la Mèrica.

Anche la sera della partenza volle parere allegro. Peppe e Cola vennero a prenderlo verso le otto e la gna’ Nunzia lo seguì per accompagnarlo fino a Cicè. Maredda, con gli occhi rossi, s’affacciò sulla finestra, a salutarlo, sporgendo un po’ la testa fra un basilico e una rosa.

Per la via incontrarono gli altri emigranti; non si conoscevano bene fra di loro, ma si unirono come se fossero stati amici dalla nascita. Tutti volevano parere tranquilli; ma tutti lasciavano una casa e una donna. Cola teneva per mano il figlioletto e gesticolando alzava, a strappate, anche il braccino che teneva stretto nella mano callosa, così che il bimbo levava i grandi occhi sgomenti. Passando davanti la propria quota aggrottò la fronte e scosse la testa e maledì la terra ingrata.

Ma Peppe Sciuto cominciò a cantare e allora ognuno lo accompagnò. E la strada si riempì d’un canto forte e melanconico che pareva tutto d‘una voce, e ora si levava cupo come una minaccia, a momenti tremulo come un pianto sconfortato, a momenti piano come una preghiera.

Maredda aspettava notizie di Vanni e le pareva una festa quando la gna’ Nunzia glie ne dava.

Dopo due mesi il postino le consegnò una lettera gialla coll’indirizzo stampato, e lesse, trepidante e commossa.

Vanni le diceva tante parole amorose che la riempirono di felicità, ma la madre cominciò a borbottare. La lettera era venuta in una brutta giornata: il pane della madia era finito e, poi che non c‘era denaro per provvedersi del nuovo grano, madre e figlia s‘erano avvilite sino a comprare il pane in bottega, come l’ultime delle poverette, come quelle che campano alla giornata. Però la gna’ Liboria, ch’era di malumore pe’ I fatti propri, se la sfogò con quella povera lettera innocente e con la figlia che credeva alle ciance di quel babbaleo, che se fosse tornato con qualche soldo non l‘avrebbe neanche guardata in faccia. Essa vedeva girare nel vicoletto mastro Cristoforo di Licata — un potatore che guadagnava dieci lire la settimana — e si struggeva a veder la ragazza, dura dura, voltargli le spalle o chiudergli la finestra sul muso. Cose da pigliarla a schiaffi!

— Io sono vecchia — le diceva spesso, — tu sei povera. Che ti aspetti dalla vita? Mica sei una signora da potere stare con la testa fra le nuvole! Non vedi che quel barbagianni non s’è promesso?

Maredda si mortificava ma pensava a Vanni suo. Avrebbe voluto al meno mandarlo a salutare, ma non eran fidanzati e sarebbe stata una sfacciataggine, sarebbe stato peggio che farsi baciare davanti a un popolo.

Dopo quella non ebbe altre lettere. Venne la primavera e passò l‘estate, e di Vanni non sentì più parlare. Le vicine dicevano che la Mèrica non lascia più tornare alcuno, che il meglio della gioventù si consuma in quella terra sconosciuta e l‘emigrante non rimpatria se non ha cent’onze per farsi una casa.

Maredda credeva a quei discorsi sconfortanti, e tessendo canticchiava, per scordarsi la pena di Vanni:

Vitti tri rosi a ‘na rama pinniri
Nun sacciu di li tri qual è a pigghiari…
Nun c’è ghiurnata chi nun scura mai
Nun c’è mumentu chi nun penzu a ttia…

Ma Vanni tornò nell’altra primavera. Aveva seco il suo piccolo baule bigio che sapeva anch’esso di strade e gente straniera e fumo di ferrovia. Non portava altro che trentacinque onze; una miseria, in paragone ai capitali sognati e progettati sotto la pergola del Sinibbio. Ma non aveva potuto più resistere laggiù…

Parlò subito di questo alla madre che gli venne incontro sino al Rosario. La gna’ Nunzia, con la mantellina calata sulle spalle, non sapeva dir nulla; se lo guardava da capo a piedi, quel figliolo, e le pareva smagrito e le pareva d’averlo ritrovato. Aprendo l’uscio lo fece passare avanti e gli indicò il lettuccio col tramareddo pulito e la tovaglia stesa sulla cassapanca, per fargli capire che l‘aveva aspettato. E Vanni le disse, ancora in piedi:

— Non ho fatto gran cosa, ma’…

— Non fa niente, figlio. Purché sii tornato. Mi pareva di dover morire senza più vederti.

— Solo trentacinque onze. E Dio solo sa quel che ho patito per metterle insieme.

— Non fa niente, figlio. Qui c’è lavoro perché il mese passato è morto mastro Nitto il calzolaio.

— Non ho altro — continuò Vanni. — Ma io mi contento d’un pezzo di pane quassù al mio paese. Maledetta la Mèrica… È una vecchia ruffiana che porta alla mala via con le lusinghe. Mica la gente onesta s’arricchisce, laggiù! Ma mi bastano per comprar l’oro e le vesti e anche un po’ di coio da poter lavorare.

— Mangia, Vannuzzo — disse la gna’ Nunzia abbuiandosi — e non pensare ad altro, per ora.

— Perché, ma’? — chiese Vanni guardandola sospettosamente.

La gna’ Nunzia sospirò, e sì come Vanni sgranava gli occhi e corrugava la fronte, gli toccò un braccio e gli disse:

— Vanni, Vanni! Sei dunque venuto solo per quella! per la tua mamma non saresti tornato?

— Che discorsi! — fece il giovanotto alzando le spalle — o allora perché son partito?

— Vanni — disse la vecchia — tu se’ ancora un poesiante e nulla più Quando l‘uccello vola vuoi che la rama resti deserta? La rama è ferma e l‘uccello si move, ne vola uno e se ne posa un altro.

— Ma io… come è vero Dio…!

— Vanni, Vanni, che dici, che bestemmi? Che vuoi? La gioventù vuole l‘amore e le donne voglion marito!

Vanni guardava a terra nero e torvo, coi pollici irrequieti nei taschini della sottoveste. La gna’ Nunzia un po’ timorosa scodellava.

— Si fredda, figlio.

— Io li scanno — mormorava Vanni. — Vergogna! Non aspettare un anno e mezzo! E io minchione che ho mangiato pane asciutto e ho dormito sulla paglia per fare a soldo a soldo queste miserabili trentacinque onze. Ma chi è? Lo sai, almeno?

— Uno di Licata, un potatore. Il partito era buono e Maredda è povera. C’è da compatirla. Anch’io mi son sentita bollire il sangue nelle vene. Ma poi l’ho perdonata. Bisogna sapere come stanno le cose…

— Ma se mi capita davanti gli dirò due paroline Lui si piglia le bucce, vergogna! Il meglio, l’ho avuto io; ché il primo amore d’una ragazza è ciò che vale, il secondo no. Glie lo dico. E la lascerà. E allora non me la piglio neanche io!

La gna’ Nunzia scodellava e lo lasciava parlare Quand’ebbe sfogato bene, parlò e a poco a poco lo calmò. Che voleva fare? Ora mai, Maredda, s‘era rovinata, s‘era ridotta al punto che, se il potatore non l’avesse voluta, poteva legarsi una pietra al collo e buttarsi a mare. Il male era stato a non promettersi. Non era preferibile, adesso, lasciare andare ognuno per la propria via e non impicciarsi di que’ pezzenti disonorati?

Lo persuase anche a mangiare. E dopo aver mangiato Vanni si sentì un altro, così che la vecchia disse:

— Era la fame e la stanchezza, figlio. Tu vedevi le cose con gli occhi del bove. Allegramente, che sei giovanotto e le ragazze non sono finite

— Oh, questo sì! — approvò Vanni. — Ora la moglie me la cercherai tu. Com’è vero Dio, mi voglio maritare per la festa di San Giuseppe!

 

Sul tardi vennero amici e parenti a festeggiare il ritorno di Vanni che, tutto acceso, si sentiva un uomo esperiente e parlava della Mèrica sputando a terra.

Verso sera, quando tutti furono andati via, Vanni cercò nella cassapanca una camicia pulita, di quelle vecchie. Con le mani toccò qualche cosa di duro; la scatola di cartone con le scarpette di Maredda.

— Cose di femmine!… — mormorò, abbuiandosi in viso, e la scaraventò lontano, in un canto.

— No, no — fece la gna’ Nunzia correndo a raccattarla — se, mettiamo caso, un’altra… la sposa, ha lo stesso piede? Non è peccato spendere altro denaro? E poi — aggiunse soffiando delicatamente su un fiocchetto che s‘era un po’ pigiato — son proprio nuove, nuove!

Vanni, chiuse la cassapanca, scrollando la testa in segno d‘approvazione.

Nonna Lidda

Il Signore, la gna’ Lidda, pareva avesse voluto metterla alla prova con tanti malanni che le aveva mandati. Era vedova e povera; e, come non bastasse, la nuora era morta e il figlio aveva la testa alla Mèrica. Di tutto questo dirupio le era rimasto Nenè soltanto; la nuora buon’anima, glie l‘aveva lasciato che manco poppava bene, tanto che la sera in cui dovette portarselo a casa fu per la gna’ Lidda un vero sbigottimento. Nessuno aveva pensato a un po’ di latte nella trista confusione; e lo mantenne tutta la nottata con una pezzolina inzuppata d’acqua, mentre il cuore le si stringeva a sentir piangere di fame quella creatura.

Poi, dopo poco tempo, il figlio volò in America.

— Te lo lascio — le disse, — come hai allevato me, alleva mio figlio.

Laggiù e senza mamma, quell’anima di Dio sarebbe morta di sicuro. E il pensiero del piccolo non dette tempo alla vecchia di piangere per il figlio che partiva. Non poté neanche accompagnarlo a Santo Stefano, e lo seguì a pena sino al Rosario — gli vide svoltar la cantonata con gli altri giovanotti, lo salutò con la mano, da lontano, sin che poté vederlo, ché lui si voltò tre volte, col sorriso sulla bocca e col viso sbiancato, e subito poi s’avviò verso casa, curva nella mantellina nera, a ritrovare il piccolo lasciato nella zana. Altro che piangere, con quella creatura che ora aveva fame, ora strillava senza un perché, e ora voleva esser mutata! La gna’ Lidda sentiva una gran tenerezza a coricarsi col piccino accanto; e certe volte, nella notte, svegliandosi per una subitanea paura di soffocarlo nel sonno, le pareva proprio di esser tornata giovane e aver accanto il figlioletto. Tempo beato, quello! E sospirava forte col cuore tanto gonfio di tristezza che pareva non capisse più nel petto.

Quel piccolino era un’ansietà continua. Dovette svezzarlo presto, non potendogli comprare ogni giorno tanto latte da nutrirlo, e lo abituò alla pappina di pancotto, di pastina fine fine. Gli dava il bagno tutt‘i giorni, come i signori, e lo mutava spesso, poi che a lavargli le robe non le costava nulla; era quello il suo mestiere.

Faceva pena veder la gna’ Lidda, a quell’età, andare a Buscardo con la cesta del bucato in testa e il bimbo in collo. Prendeva la biancheria dai signori, la riportava, sempre con Nenè in collo. E Nenè si buscava ora una zolletta di zucchero, ora un pugno di riso per la pappina, ora le vesticciole smesse dei bambini ricchi. Perché, se la gna’ Lidda era povera, il Signore è grande; e a questo mondo non c’è da disperarsi, e il povero che si contenta di poco trova cibo e aiuti senza saper dove e come, al pari dei passeri e degli storni.

 

Ogni mese, come giungeva la lettera dalla Mèrica, andava a farsela leggere da mastro Nitto, il coco del barone don Cesarino, ch’era un brav’omo; e da mastro Nitto stesso si faceva far subito subito la risposta. Il figlio dava buone notizie di sé, cominciava a guadagnar benino, in seguito avrebbe mandato qualcosa, ma ora non poteva; chiedeva nòve di Nenè e mandava a salutar gli amici. Sempre le stesse lettere e le stesse risposte. Ma la gna’ Lidda aspettava con premura grande, e se il postino tardava d’un giorno, si disperava. Mentre il coco le scriveva la risposta, essa lo stava a guardare coi suoi occhietti verdolini, lo guardava nella mano, nella penna sottile che scriveva le parole dettate. Ma scriveva proprio come lei dettava, mastro Nitto? No. Un giorno glie l‘aveva detto:

— Mica si scrive come si parla! Ma però si capisce lo stesso.

Da allora non ebbe più pace la gna’ Lidda. E quando diceva: — che non si curi di me che son povera ma campo. Nenè sta bene e cresce. Ti benedico figlio mio! — tendeva il collo bruno, rugoso, stringendo un po’ le labbra come avesse voluto infondere il suo pensiero nella carta. E ogni volta aggiungeva:

— Avete scritto proprio: ti benedico?

Povero figliolo! Con tutto il cuore la tua mamma che è lontana ti benedice!

E restava a guardare fin che il coco chiudeva la sopraccarta gialla coll’indirizzo stampato — glie la mandava ogni volta il figlio — e impostandola le restava sempre il dubbio che il coco non avesse scritto quel che lei aveva dettato.

Nenè cresceva piano piano, un po’ palliduccio «come tutti i figlioli senza mamma», diceva la stessa gna’ Lidda con angustia. E a poco a poco cominciò a trotterellare, per un pezzo di strada, dietro la nonna che lo spiava e a pena lo vedeva stanco si chinava, allungava un braccio e se lo metteva in collo. E Nenè, per non pesare — di già capiva tanto — le avvinghiava le braccine al collo. Poi crescendo ancora giunse sino a Buscardo tutto solo. Allora la gna’ Lidda cominciò a respirare. Meno cure, meno fastidi. Si levavan presto presto, chiudevan l’uscio, e con una pagnotta nel cesto e due lattughe si mantenevan sino a sera. A sera la gna’ Lidda faceva prendere al piccolo, ch’era delicato, un uovo o una pappina di pasta per non farlo andare a letto con lo stomaco freddo. Lei mangiava la ministra solo la domenica, benché certe volte, nella notte, si sentisse male per la debolezza.

 

In una lettera il figlio le fece sapere che s‘era maritato con una di Patti che in America faceva la stiratrice. Si dispiacque assai, la gna’ Lidda; ora mai con la famiglia nòva non avrebbe più pensato alla vecchia. Ma pazienza, almeno il piccolo, che cresciuto sarebbe stato un appoggio, restava a lei. E sospirando dettò al coco:

— …e benedico anche la tua nuova moglie. Ma non ti dimenticare della mamma, che è povera.

Quel che era fatto era fatto, ed era inutile affliggerlo coi rimbrotti. Rincasando, chiamò Nenè con maggior tenerezza del solito. Soltanto lui le era rimasto; la nuora morta… il figlio in America, senza speranza di rivederlo…

Chi sa che almeno non mandasse qualcosa questa volta che quasi glie l‘aveva domandato!? E aspettò con più premura del solito che finisse il mese, era il mese dei morti, per avere la risposta. Natale era vicino. In cinque Natali non aveva mai mandato nulla. Ma questa volta, chi sa. Aveva sposato, diceva di guadagnar tanto… E lavando ripeteva a Nenè, che accoccolato su un masso giocava coi sassolini della ripa:

– A Natale faremo festa grande. Papà ti manderà una bella cosa.

Non s’ingannò. L’ultimo giorno di novembre venne la lettera, e nella lettera c‘erano tre grossi biglietti, di quelli che la vecchia gna’ Lidda non aveva mai toccati in vita sua. Doveva dirlo a mastro Nitto, adesso, per farsi invidiare e farsi fare il malocchio? Rimpianse come non mai di non saper leggere; ma dovette dirglielo per forza. Ascoltò la lettera col cuore sospeso. Era più lunga e più affettuosa del solito. Ma a mano a mano che il coco leggeva con la sua voce uguale, le labbra della gna’ Lidda s’assottigliavano e si scolorivano. Un momento s’appoggiò al muro, parendole che la casa le ballasse intorno. E come il coco ebbe terminato, lo pregò con voce malferma:

— Rileggete, mastro Nitto, ci sarà sbaglio.

No, che non c‘era sbaglio. Aveva letto bene. E lo stesso mastro Nitto, che non si commoveva mai, ripiegò lentamente il foglio, lo rimise nella sopraccarta e guardò con pietà la vecchia lisciandosi la breve barba ricciuta.

— E ora? — disse finalmente nonna Lidda con una voce che non pareva la sua.

Mastro Nitto alzò lentamente le spalle e scotendo la testa disse:

— È suo figlio. Non c’è che fare…

Ma così, tutt’in una volta? E senza lasciar neanche un mese di tempo? Forse compare Tano era in viaggio, forse era già in paese. E insieme a compare Tano lui non poteva venir a veder la mamma? Richiedeva il piccolo così, come niente fosse. Scordandosi che se l‘era cresciuto lei, povera vecchia, con la sua fatica, che glie l‘aveva lasciato quant’un gattino! Non lo sapeva lui che schianto le dava, oh, figliolo disamorato! oh figliolo sciagurato!

E taceva la vecchia, e nella mente le turbinavano tanti pensieri sconvolti, guardando mastro Nitto con i piccoli occhi asciutti: solo, alzandosi e riprendendo la lettera, mormorò:

— Sia fatta la volontà di Dio. Potessi almeno piangere!

Ma non poteva. La gola asciutta pareva legata con una fune.

 

Compare Tano era in paese. Passava il Natale coi parenti e voleva subito ripartire. La vecchia fece Natale col pianto nel core; pure si fece forza e volle rallegrare almeno quello del piccolo. A desinare gli dette il brodo di gallina e i dolci. Lei non poté toccar cibo, ma si sentì sazia solo a veder mangiare Nenè con tanta gioia. Gli comprò uno zufoletto e un carrettino di legno. Gli lavò tutto il corredino, rimendò qui dove c‘era uno strappo, attaccò un bottone lì dove mancava, e poi, scelti i pezzi migliori, glie ne fece un fagottino; c‘era le camicine di flanella, le scarpette nuove, il vestitino della festa, il primo vestitino da omo che l‘era costato tre bucati…

Nel fagottino mise anche l‘abito della Madonna delle Grazie — dicevan che laggiù fossero senza religione — e all’ultimo vi aggiunse anche lo zufoletto di Natale perché il piccolo si ricordasse poi della nonna lontana. Povero piccolo, chi sa se l‘avrebbero curato come lei l‘aveva curato! Poi aspettò che compare Tano venisse a prenderlo. Venne, la sera di Santo Stefano; una serata grigia come il piombo: s’affacciò sull’uscio, imbacuccato nel ferraiolo nero, col cappello a cencio sugli occhi:

— È pronto, comare Lidda?

Nonna Lidda gli porse senza parlare il fagottino; aveva paura a aprir bocca perché le parole sarebbero uscite senza regola. Poi prese il bimbo in collo.

— Copritelo bene.

Allora cercò lo scialle nuovo a colore, che non aveva portato mai. Vi avvolse il piccolo così che appariva soltanto la faccetta rossa e gli occhietti neri e vispi, come un passeretto.

Lo baciò sulle piccole gote, con un bacio forte forte che sapeva di pianto. Ma non piangeva. Lo mise in braccio al compare che lo prese con delicatezza perché capiva la pena della nonna. Solo quando vide che l’uomo voltava, col fagottino sotto, e il bimbo nel ferraiolo, gridò:

— Compare Tano, ve lo raccomando!…

E restò a guardare, con le mani ossute nei capelli grigi scompigliati dalla tramontana.

 

Andò di qua e di là due giorni, senza pianto, per la stanza vuota; senza saper che fare, pregando Iddio, che le aveva levato ogni cosa, che le levasse anche la povera vita inutile. Poi al terzo giorno, prese il cesto e s’avviò a Buscardo. E guardava a terra, e le pareva di dover sentire nella sua mano la manina di Nenè. Era ancora in viaggio, certamente, e c‘era tanto freddo. Ma gli aveva dato lo scialle, meno male

Una donna la guardò, e disse a Nino il carrettiere che passava:

— La gna’ Lidda pare intontita quest’oggi. Va come un corpo senz’anima.

Sofflava il vento che sferzava le carni. A Buscardo era tutto grigio e l‘acqua era gelata. A lavare non c‘era nessuno, perché ognuno aveva avuto paura del freddo. Ma la gna’ Lidda non sentiva niente. Con un sasso ruppe l‘acqua ghiacciata e cominciò a lavare. Le mani le si intirizzivano e non lo sentiva. Restava curva sulla pietra liscia, senza lavare il panno che aveva bagnato.

Pensava: ora che non aveva più bisogno di lavorare, ora al piccolo che viaggiava ancora sul vapore, nello scialle nuovo. Chi sa se compare Tano gli badava… Essa non glielo aveva raccomandato…

Verso sera Nino tornava nel suo carretto, con la testa avvolta nello scialle, frustando il mulo per non gelarsi. Passando per Buscardo fu caso se guardò verso la ripa dove c‘era una cosa che pareva un cristiano messo a giacere. Stupìto e curioso andò a vedere da vicino e si fece la croce, raffigurando la gna’ Lidda bocconi stecchita sulla pietra liscia.

L’ora che passa

Le bambine uscivano rumorosamente raccogliendo i quaderni nelle cartelle. Rosalia aspettò che andassero via tutte e finalmente mise il cappello, girò il boa nero intorno al collo, prese dalla cattedra un giornale e uscì fuori sul corridoio ancora pieno del brusio infantile rotto da risatine e da piccoli gridi.

Restavan soltanto le maestre che si salutavano:

— Maria. .. Vincenzina. ..

— Addio.

— A rivederla. ..

— Vieni?

— Sì.

— E tu?

— Vado con Marietta.

— E Rosalia? Andiamo insieme? — fece la maestra di seconda.

— No — rispose Rosalia — io aspetto mio padre.

— Ritarda, quest’oggi!

— Pazienza.

— Allora addio.

— Addio.

Udì un passo pesante sull’impiantito di legno, dal corridoio delle classi maschili. Trasalì, voltandosi. Una testa calva s’affacciò a un uscio socchiuso:

— Signorina..?

— Ecco il giornale — rispose con voce commossa Rosalia.

— L’è giovato?

— Sì. Un poco la didattica.

L’uscio si aprì e il professore Mirtoli passò nel corridoio delle classi femminili inchinandosi a Rosalia e guardandola. Questa arrossì, abbassando gli occhi, stringendosi il boa intorno all’esile collo.

— Che cosa mi dice? — chiese Mirtoli a voce bassa.

Rosalia levò gli occhi riabbassandoli subito con un impercettibile sorriso che voleva dir di sì.

— Grazie… finalmente… — fece Mirtoli. — Allora, verrò… a salutare suo padre?

Rosalia trasalì. Poi disse:

— A momenti esce la quinta.

— È vero. A rivederla.

Se avesse visto la mamma! Rosalia si rammentò quale inquietudine aveva manifestata sua madre un giorno, udendo della visita del direttore che si era fermato un po’ a lungo a osservare i registri. Anche essa aveva ereditato quel fiero sentimento d‘onestà e quell’eccessiva timidezza. E sempre, una parola, un saluto scambiati con un estraneo, l’avevan turbata. Ma oggi la cosa era diversa. Molto diversa.

— Rosalia — sentì dirsi — scusa, se ho fatto tardi…

— Ma niente, papà. Pochi minuti di differenza — e seguì la piccola figura del padre.

Nella strada c‘era il sole, un bel sole d‘inverno che ristorava, e c‘era poca gente. Il vecchio s’andava scusando…

Alle tecniche avevan fatto tardi, poi con la mamma, a casa, s’eran bisticciati.

– Ma niente, papà…

— Sai, la mamma… Con la mamma ci siamo bisticciati.

 

Aveva un gran bisogno di dire quel ch’era successo, e guardava la figliola che camminava a testa bassa, col pensiero molto lontano dalla casa. La guardava ripetendo le stesse parole, fin che Rosalia si scosse e chiese:

— Che ha avuto la mamma?

— Sai… Ha scritto Filippo da Palermo.

— Beh?

— Ha scritto. Chiede un piccolo aiuto, per la fine del mese…

— Non ha il suo stipendio, adesso? — interruppe con voce dura Rosalia. Il vecchio sorpreso di quel tono inusitato, s’intimidì.

— Sai… È poco… È al principio. Anche tua madre s’è stizzita. Dice ch’io le guasto i figli! Capisci? Io, le guasto i figli…

— Hai ragione, papà… Lo stipendio è piccolo, è vero. Fa impressione — aggiunse con voce rassegnata — perché dopo tanti sacrifici, dopo tante privazioni, pareva che fosse tempo di finirla con loro. Ci siamo lusingati sperando che una volta laureati… Ci pareva la liberazione. Non ci sono soltanto loro al mondo!… Non dico per me. Ma Maria! Le altre!… Basta… Si aiuteranno ancora. Poi, oramai, il tuo stipendio è sufficiente. Hai avuto un aumento…

— Già, ho avuto un aumento. Spero di lasciare presto intatto il tuo, Rosaliuccia. Dopo tanti anni di lavoro!… Ma per ora…

 

Si diceva sempre per ora, e si era sempre allo stesso caso.

Erano giunti. Rosalia che passò avanti andò difilato nella stanza da pranzo. La madre, al solito, lavorava seduta davanti alla finestra co’ piedi enfiati sullo sgabellino. La tavola era apparecchiata, Maria in cucina preparava il desinare. Baciò la madre prima di levarsi il cappello, come al solito, e la madre sorridendole le chiese notizie della scuola e chi fosse venuto e se avesse veduta la direttrice. Ma Rosalia rispose breve breve e andò subito in camera a mutarsi.

Anche quel giorno non sapeva dir nulla. Da molto tempo non faceva le lunghe chiacchierate con sua madre. Si sentiva ostile verso tutti, anche verso Maria che sfaccendava dall’alba alla sera; e non sapeva spiegarsi da che le venisse quel cambiamento in male e perché non trovasse più tutte le premure che prima usava ai suoi. Forse perché in casa cominciavano a sentire meno il bisogno di lei? Meno bisogno! Pure Prospero e Filippo chiedevano aiuti. Pure i debiti c’erano. Le strettezze c’erano.

Ma no. Non c‘era il bisogno d‘una volta. O al meno se ne voleva convincere, voleva scacciare ogni dubbio, ogni rimorso. Ma la sua coscienza era inquieta. Una voce interna l’ammoniva di non abbandonare la famiglia.

Quanti anni di lavoro, quanti sacrifici aveva sostenuto! L’intera giovinezza sacrificata alla famiglia era passata senza che un solo pensiero egoista l’avesse inasprita, un solo pensiero impuro l’avesse intorbidata. Aveva sempre lavorato lietamente per i suoi fratelli aspettando con la fiducia di una mamma di vederli a posto parendole questo il sogno più bello, la ricompensa più gloriosa delle sue fatiche. Aveva sempre incoraggiato gli altri; e i parchi desinari le eran sembrati veri pranzi, e aveva portato i vestiti di sei anni avanti con lo stesso piacere come se fossero stati nuovi. Ma da qualche tempo non sapeva più dove attinger nuova forza. Il suo animo era sconvolto, si sentiva inquieta, alcuni giorni, inquieta al segno da soffrirne. E guardandosi allo specchio, prima di uscire, le saliva su su fino agli occhi l‘amaro rimpianto della giovinezza forte e serena, di cui cominciava ad avvedersi solo ora che andava via poco a poco insieme alla dolcezza dello sguardo, al rigoglio del corpo, alla freschezza della carnagione. La casa le sembrava troppo grande, troppo fredda, e a volte l’assaliva una sorda irritazione contro le infermità della madre e l’eterna tristezza di Maria. Sentiva un vuoto intorno a sé, come uno che ha perduto qualche cosa di vitale. E quand’era chiusa nella scuola, fra le sue bambine, che fra una lezione e l‘altra cinguettavano come cingallegre, la prendeva con violenza un’ardente, insaziabile voglia dell’aria libera, del cielo aperto.

 

Mirtoli… Nella sua scialba vita era spuntata ancora una volta la scialba figura di Mirtoli che da tanti anni le offriva il cuore fedele col tondo faccione e la testa calva, la casa comoda e il pingue stipendio.

Aveva risposto no, sempre no. Non le destava simpatia, non le destava antipatia, ma non poteva accettare come non aveva accettato chi le aveva veramente riempito il cuore di amore ma non era più  tornato.

Mirtoli, sapendo i fratelli di Rosalia a posto, aveva gironzato di nuovo, stringendo la ruota. E Rosalia, smarrita in quella triste ora di sgomento, credendo che quel galantuomo, col suo affetto calmo e fedele, fosse davvero quel che le mancava, aveva finalmente accettato.

— Anche Prospero ha scritto — sospirò il vecchio riaccompagnandola a scuola. — Il concorso si dà soltanto in novembre. Sino allora aspetterà qui. Vuole tornare

Rosalia taceva.

— Sono stanco, Rosaliuccia — aggiunse con dolore.

— Hai ragione papà. Ma hai messo a posto i tuoi figli.

— A posto! Ma se ti dico che Prospero torna, e per tornare ha bisogno di denaro! E poi ci sarà il concorso, il viaggio a Roma. E se il concorso fallisce? E la cambiale con Mincuzzi che scade a settembre? E l’ipoteca sulla casa… e il conto con Li Gregni? Non la finiremo più.

— Proprio così. Non la finiremo più.

Il vecchio si cacciò le mani in tasca e la guardò sbigottito. Rosalia, che gli aveva fatto sempre coraggio, era per la prima volta abbattuta.

— Rosalia — mormorò — che brutta sorte è la nostra…

 

Rosalia taceva. Più che mai era rientrata nella miseria della famiglia, in quella miseria, dignitosamente celata, inguaribile. Quando sarebbe cessato il bisogno del momento?

E Maria? Le sorelline minori, i genitori vecchi?

Fu ripresa dalla sorda irritazione contro tutti, contro se stessa specialmente; perché le parve di non esser proprio lei, con la sua volontà, a reclamare i diritti della vita, ma un’altra persona, fusa nella sua, che guardava con implacabile desiderio una via differente.

Entrò a scuola senza guardare il padre: ma voltandosi, vedendolo allontanare curvo e accasciato, sentì un pungente rimorso. Avrebbe voluto poter tornare indietro per dirgli una parola di conforto, una di quelle buone parole che, povero vecchio, gli facevano brillare gli occhi di lacrime dietro le lenti appannate.

Pensieri tristissimi la tennero occupata tutta la mattina mentre spiegava svogliatamente le lezioni; sulla grande carta d’Italia appesa alla parete, le sue riflessioni fecero un lungo e doloroso cammino. Il suono della campana le parve una liberazione, e mentre le bimbe s’affollavano all’uscita, si affrettò a mettersi il boa e il cappellino. Aspettò con impazienza, con le gambe tremanti, davanti la porta; salutò appena le colleghe, che sfilavano nel corridoio, con gli occhi fissi alla porta grande delle scuole maschili.

Finalmente l’aspettato s‘affacciò, essa lo chiamò con un cenno della testa; e quando Mirtoli con le gote rugose d’un beato sorriso le fu vicino, gli disse con voce ferma:

— Non dica niente a mio padre. Non posso.

Il buon Mirtoli allargò le braccia sgranando gli occhi.

— E… quel che abbiamo detto ieri?

— Non può essere, signor Mirtoli.

— Per ora?

— Non so. No, mai — aggiunse con un melanconico sorriso. — È stata una sciocchezza.

— Ma signorina! Ma io… ma lei…

— No, no, non può essere. Lei sa che ho tre sorelline, dopo di me, e io sono un poco la loro mamma. Vada via. Viene mio padre.

Mirtoli s’allontanò a testa bassa. Il vecchio s’avvicinava, e scrutando la figlia co’ suoi occhi chiari e onesti chiese:

— Che voleva?

— Niente, papà. Gli ho reso un giornale di scuola. Andiamo.

E seguì la curva persona del padre, tenendosi il boa sulla bocca serrata, perché, dopo lo sforzo fatto per sembrare calma, le lacrime trattenute le stringevano la gola. Pur nel suo cuore non restava più dolore ma solo una pacata melanconia.

Dopo le serenate

La bon’anima di Cola Burgio aveva lasciato a Melina, ch’era l‘unica sua nipote, tutte le masserizie così come si trovavano, coll’obbligo di lasciarle godere alla vedova fin che vivesse.

Però Melina e la madre, con la scusa di dar cura e compagnia alla vecchia, facevan la guardia alla casa — la madre ci restava tutta la giornata, la figlia veniva la sera e se n’andava al mattino — per paura che don Tanu e don Vincenzo, i nipoti della vecchia, facessero sparire qualche attrezzo e, chi poteva fidarsene?, magari qualche mobile.

La vecchietta si sentiva più tranquilla da quando s‘era messi in casa que’ due pezzi d’uomini gravi e posati che la sera giravan per la casa, frugando in ogni canto e inchiavacciavan la porta. Solo così poteva dormire sicura, e solo così poteva sopportare la compagnia di quelle benedette donne che non la lasciavano sola e in pace manco un minuto.

Melina dormiva a canto al suo letto, nella sua camera, e i nipoti nella stanza appresso, quasi dietro la porta. Certe volte nella notte, si sentiva un tremulo accordo di chitarre giù per ‘l vicoletto e poi si levava una voce alta e sonora:

Bella, avanti ‘sta porta nun ci stari
Ca l’òmini di pena fai muriri;
Li capidduzzi toi nun li ‘ntrizzari
Facci ‘na scocca…

Allora don Tanu spalancando di furia la finestra, s’affacciava in camicia ingiuriando i sonatori:

— Ve n’andate? Sangue di…

Le chitarre tacevano, don Tanu richiudeva la finestra; e dopo poco la serenata ricominciava tra le risate dei giovanotti:

Chisti canzuni li cantu pi ttia
Li cantu pi dispettu di li genti,
Chiddi chi n’hannu raggia e gilusia.

— Ve n’andate? Santo e santissimo…! Parola d’onore che vi butto una brocca d’acqua.

Melina tendeva un po’ l’orecchio da sotto le lenzola e ascoltava con la bocca nel guanciale per non farsi sentire a ridere.

La vecchia sonnecchiava; già, lei, ci sentiva poco da molti anni. Quando le vicine le raccontavan ridendo l‘accaduto, si faceva la croce e ringraziava la Madonna per averla ispirata a mettersi in casa que’ due galantuomini che al meno eran sangue suo.

Chi sa che pazzie doveva far quella vagheggina tutta la santa giornata poi che venivano a trovarla fin lassù con le serenate! A casa sua insegnava ricamo per una lira al mese e v’andavan molte ragazze. E le vicine dicevano che quando faceva bel tempo stava col balconcino spalancato, e che sotto il balconcino era un continuo passare e ripassare di sfaccendati col naso all’aria e il berretto sghembo.

La vecchia non poteva soffrirla, questa intrusa che si credeva d‘esser venuta a prendersi il posto della figlia morta. E si raccomandava a tutti i santi, con tutte le giaculatorie che sapeva, quando quella toccava un oggetto che fosse stato toccato o usato dalla morta.

— Gesù Maria, datemi pazienza — biascicava quando la sera vedeva venir la ragazza con la camicetta turchina e i capelli castani rigonfi a pallone, come una signorina.

Era la sua croce; e que’ capelli, poi, l’infastidivano assai, perché Melina voleva sempre lisciarseli allo specchio, e lei, lo specchio voleva tenerlo coperto con un pezzo di panno: vi s‘era guardata sua figlia e non vi si doveva più guardare alcuno. E facevan sempre quella storia: Melina a togliere il panno e la vecchia a rimetterlo con ogni cura.

— Fin che son viva — ripeteva — me lo tengo io come mi pare e piace… Ah, Cola Burgio, Cola Burgio — sospirava poi allontanandosi dallo specchio — pace all’anima tua ch’era bona assai! Ma però mi hai lasciato un bell’osso duro da rosicchiare!

La gna’ Peppa, la madre, aveva più prudenza, la figlia né punto né poco. La sera a cena, dopo ch’eran stati tutti seduti fuori col vicinato, si divertiva a far montare in collera don Tanu. Era felice e rideva sino alle lacrime, senza riguardare all’età, quando lo vedeva soffiare come un vecchio gatto. Don Vincenzo era più posato, e non le rispondeva mai con parole ma con mosse di sprezzo.

Dopo cena facevan la pace. Melina, che stava tra la madre e la vecchia, girava e andava a mettersi dietro le spalle di don Tanu:

— Mi serbate rancore? — diceva con la sua voce chiara e dolce che pareva una musica. Don Tanu scrollava la testa grigia con aria di compatimento.

— Don Ta’, facciamo la pace Non ho voluto offendervi. Come si può andare a letto così? Se viene il terremoto?… dobbiamo morire in questione?

E rideva mostrando i denti bianchi bianchi, e con la bocca le ridevano gli occhi ch’erano a volte chiari a volte scuri. Don Tanu finiva con stringerle la mano, sempre crollando la testa, e la pace era fatta; salvo a ricominciare dopo un po’ per una sciocchezza qualsiasi. Se pure don Tanu diceva: la serata è bella! Melina rispondeva: è brutta!

 

Gli è che non poteva soffrirlo. E pure dovevano stare insieme, perché ognuno guardava i suoi interessi. Se Melina aveva le sue masserizie, gli uomini avevan la casa e tutta la biancheria, che non era poca, e cent’onze in oro. Quelle donne sarebbero state capaci di fare sparire ogni cosa poco alla volta; già la vecchia né ci sentiva né ci vedeva quasi più, sia per l‘età avanzata, sia per quel continuo pensare alla figlia morta. Si rimpiccioliva sempre, e piegava sempre più la testa sul petto. Melina e la madre pensavano:

— Un altro po’, e possiamo ritirare in casa nostra le masserizie.

Pensavano i nipoti:

— Un altro po’, e restiamo noi i padroni.

 

La vecchia un mattino non si levò. Non poteva. Don Tanu andò pel medico, e Melina restò con la madre ad assister la malata. Altro che scuola di ricamo!

La porta restava chiusa, e anche le finestre. Melina usciva nel vicolo solo per comprare il latte, e indugiava a respirare un po’ d‘aria, con la scusa di dar nuove alle vicine Né si udivan più serenate.

Tutti erano preoccupati. Forse la vecchia non si sarebbe più levata. Come fare quando sarebbe morta? Ritirar subito le masserizie?… e il riguardo al lutto? Farle restare un po’ di giorni… e chi poteva rimanere a guardarle in quella casa di uomini?

Che farsene della casa nuda? E che farsene di tutta quella roba senza casa? Don Tanu e Melina non questionavano più, e preparavano il brodo l‘una sospirando, l‘altro crollando la testa.

Una bella sera, di giugno, la gna’ Peppa disse a don Vincenzo:

— Ci vole un lenzolo buono, e la coperta di seta.

Don Vincenzo apri la cassapanca, con una grossa chiave, e prese coperta e lenzolo, che sapevan di spigo. Addobbarono il letto della vecchia, e poi apersero uscio e finestre. Portavano il viatico, e il vicoletto era tutto pieno del canto degli uomini e dei ragazzi che seguivano il prete in cotta bianca. Le vicine s’inginocchiavano al passaggio, e qualcuna pianse; ché la morte stringe sempre il cuore a chi resta, e la vecchia poi era stata una buona vicina e ora moriva, cosi pazientemente e tranquillamente come era vissuta, in una bella sera d‘estate, mentre l’aria era fresca e odorosa di fieno.

Se la dovevan portar via la mattina. Don Vincenzo vegliava nella camera, a capo scoperto, seduto, immobile nel chiarore dei ceri accesi. Le donne e don Tanu erano nella stanza appresso, muti, immersi ciascuno nei propri pensieri.

Che fare della casa senza masserizie? E delle masserizie senza casa?

Melina avrebbe dovuto pensar sul serio a lavorare; in questo mondo non si vive di serenate, e se anche uno di quelli che gliene facevano si fosse offerto per marito era gente che non valeva due soldi. A questo né Melina né la madre ci avevan pensato prima, e neanche i due sabihondos avean considerato che con le masserizie sarebbero andate via le due donne, che tenevan la casa pulita come uno specchio, sapevan tutti i loro versi, e a maggio facevano per don Tanu la frittella di fave e pisellini come poche sapevan farla.

— Se tu le dici di restare, Melina resta… — borbottò don Vincenzo al fratello, che pensava confusamente alla sua età, ai riccioli della ragazza, ai giovanotti delle serenate… E cosi, come se si fossero parlati da prima, s’accordarono con la gna’ Peppa, a voce bassa, tra frequenti sospiri, mentre la ragazza in camera faceva un fagottino delle sue robicciole.

Durante l’anno del lutto, alla casa badò solo la gna’Peppa. Don Tanu vedeva la fidanzata di sera, prendendo tutti assieme un boccone nella stanzetta da lavoro, ché le allieve di Melina andavan via sull’imbrunire. In giugno sposarono. Neanche c‘era stato bisogno di preparare il corredo, perché la vecchia oltre alla biancheria sua aveva lasciato intatto il corredo della figlia morta.

Nel vicoletto non si udirono più serenate. Le sere d’estate sedevan tutti a circolo coi vicini, discorrevano sotto il lampione, e sempre era Melina che faceva sentire più alta fra tutte la sua voce dolce che pareva una musica. Poi rientravano. Don Vincenzo inchiavacciava la porta, e Melina sbadigliando rifaceva il letto, combinato col lettino ch’era stato suo, e con quello della vecchia morta.

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