Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Matilde Serao

Il paese di cuccagna

1890

CAPITOLO I. L’ESTRAZIONE DEL LOTTO

Dopo mezzogiorno il sole penetrò nella piazzetta dei Banchi Nuovi, allargandosi dalla litografia Cardone alla farmacia Cappa e di là si venne allungando, risalendo tutta la strada di Santa Chiara, dando una insolita gaiezza di luce a quella via che conserva sempre, anche nelle ore di maggior movimento, un gelido aspetto fra claustrale e scolastico. Ma il gran movimento mattinale di via Santa Chiara, delle persone che scendono dai quartieri settentrionali della città, Avvocata, Stella, San Carlo all’Arena, San Lorenzo e se ne vanno ai quartieri bassi di Porto, Pendino e Mercato, o viceversa, dopo il mezzogiorno andava lentamente decrescendo; l’andirivieni delle carrozze, dei carri, dei venditori ambulanti, cessava: era un continuo scantonare per il Chiostro di Santa Chiara, per il vicolo Foglia, verso la viuzza di Mezzocannone, verso il Gesù Nuovo, verso San Giovanni Maggiore. Presto, la gaiezza del sole illuminò una via oramai solitaria. I mercanti del lato destro di via Santa Chiara – poiché il lato sinistro ha solo l’alta, chiusa, bruna muraglia del convento delle Clarisse – mercanti di vecchi mobili polverosi, di meschini e poveretti mobili nuovi, mercanti di stampe colorate e di vivacissime oleografie, mercanti di santi di legno, di santi di stucco, pranzavano, nel fondo delle loro botteghe oscure, sopra un cantuccio di tovaglia macchiata di vino, tenendo, a fianco del largo piatto di maccheroni, la caraffa di vetro verdastro, piena di vinello di Marano e chiusa da una foglia di vite accartocciata. I facchini dei mercanti, seduti per terra, sulla soglia della bottega, addentavano lungamente una pagnotta di pane, spartita in due, contenente qualche companatico asprigno, zucchette fritte e immerse nell’aceto, pastinache in salsa brusca, melanzane condite con aceto, pepe e aglio: e l’odore acuto e grasso del molto pomodoro che condiva tutti quei maccheroni, da un capo all’altro della strada, si univa a quell’odore acuto di aceto aspro e di grossolane spezierie. Da qualche fruttivendolo che ancora passava portando sul capo una cesta di fichi, quasi vuota, o spingendosi innanzi un carrettino le cui ceste contenevano dei fondi di prugne violette, di pesche duracine tutte maculate, i bottegai, i commessi, i facchini, con le labbra ancora rosse di pomodoro, o lucide di strutto, contrattavano due soldi di frutta, per finire il proprio pranzo; due operai, innanzi alla litografia Martello, le cui piccole macchine da biglietti di visita si erano chetate, affettavano gravemente un popone giallastro; mentre, sulla soglia di un portoncino, due sartine aspettavano, chiacchierando, che passasse il venditore di pizza, la schiacciata coperta di pomodoro, di aglio e di origano, cotta al forno e venduta a tre centesimi, a un soldo, a due soldi il pezzo. Il pizzaiuolo, infatti, passò, ma portava sotto il braccio la tavoletta di legno, tutta unta di olio, senza neppure un pezzetto di pizza: aveva venduto tutto e se ne andava a mangiare egli stesso, giù, nel quartiere di Porto, dove era la sua pizzeria. Le due sartine, deluse, si consigliarono fra loro: una di queste, bionda, con un’aureola d’oro intorno al delicato viso bianco, si mosse, con quel passo ondulante che mette come una nota orientale nella seduzione muliebre napoletana, e risalendo la via di Santa Chiara, chinando il capo per non farsi ferire in faccia dal sole, entrò nel vicolo dell’Impresa, dirigendosi verso la negra bottega del vinaio che fa anche l’oste, quasi dirimpetto al palazzo dell’Impresa; andava a comperare un po’ di roba da mangiare, per sé e per la sua compagna.

Anche il vicolo dell’Impresa si era fatto deserto, dopo il mezzogiorno, in cui tutti rientrano nelle case e nelle botteguccie per pranzare, in cui il caldo estivo cresce, cresce, e la controra, il periodo della giornata napoletana che equivale alla siesta spagnuola, comincia col cibo, col riposo, col sonno delle persone stanche. La sartina, un po’ intimidita dall’oscurità della cantina, donde un fiato acido di vino usciva, si era fermata sulla soglia, ammiccando; e guardava in terra, prima di entrare, sentendo come un pericolo di botola aperta, di sotterraneo, dalla negra bocca schiusa. Ma il garzone del cantiniere si avanzò verso lei, per servirla.

– Dammi qualche cosa da mangiare col pane, – diss’ella, dondolandosi un poco.

– Pesce fritto?

– No.

– Un po’ di baccalà, con la salsa?

– No, no, – disse ella, disgustata.

– Una zuppa di trippa?

– No, no.

– E che volete, allora? – domandò il garzone, un po’ infastidito.

– Vorrei… vorrei tre soldi di carne, la mangeremo col pane, Nannina e io, – disse ella con una graziosa smorfia di golosità.

– Non cuciniamo carne, oggi; è sabato. Solo la trippa, per chi non ci crede, al sabato.

– E dammi questo baccalà, – mormorò ella, reprimendo un sospiro.

Ora guardava curiosamente nel cortile dell’Impresa, mentre il garzone era scomparso nelle profondità nere della cantina, a prendere il baccalà. Un po’ di sole, penetrando, dall’alto, imbiondiva quel cortile: e, ogni tanto, qualche ombra feminile o maschile lo attraversava. Antonetta, la sartina, guardava sempre, mentre canticchiava sottovoce una nenia popolare, dondolandosi un poco.

– Ecco il baccalà, – disse il garzone, tornando.

Lo aveva messo in un piattello: erano quattro grossi pezzi che si disfacevano a faldette, in un sugo rossastro e fortemente punteggiato di pepe; il sugo, ondeggiando, lasciava delle traccie gialle di olio, sulla cornice del piattello bigio.

– Ed ecco i tre soldi, mormorò Antonetta, cavandoli dalla tasca. Ma rimaneva col piatto in mano, guardando il baccalà che si sfaldava nella broda.

– Se pigliassi un terno, – disse, mentre si avviava tenendo delicatamente il piattello, – vorrei cavarmi la voglia di mangiar carne, ogni giorno.

– Carne e maccheroni, – ribatté, ridendo, il garzone.

– Già: maccheroni e carne! – gridò trionfalmente la sartina, con gli occhi sempre fissi sul piattello, per non far cadere il sugo.

– Mattina e sera! – strillò, dalla soglia, il garzone.

– Mattina e sera! – strillò Antonetta.

– Vi dovete raccomandare a quel ragazzo, – urlò allegramente il garzone del cantiniere, accennando con gli occhi al cortile dell’Impresa.

– Torno più tardi, – disse, dall’angolo della strada, la sartina. – Ti porto il piatto.

Di nuovo, il vicolo dell’Impresa rimase deserto, per molto tempo. D’inverno è molto frequentato, nel pomeriggio, dai giovani studenti che escono dall’Università e prendono la scorciatoia per trovarsi in via Gesù o a Toledo; ma era estate, gli studenti si trovavano in vacanza. Pure, ogni tanto, come l’ora si avanzava, qualche persona scantonava, da via Santa Chiara o da Mezzocannone, e veniva a ficcarsi nel portone dell’Impresa; alcuni con aria guardinga, altri fingendo la indifferenza.

Uno dei primi era stato un lustrino, con la sua cassetta: un vecchio gobbo, sciancato, che sollevava la cassetta sul fianco più alto, piegato in due, avvolto in una vecchia palandrana verdastra, tutta macchie, tutta toppe, con un berretto senza visiera, abbassato sugli occhi. Sotto l’androne del palazzo dell’Impresa, il lustrino aveva deposta per terra la cassetta, egli stesso si era sdraiato per terra, come se aspettasse gli avventori; ma dimenticava di battere quei due colpi secchi della spazzola, sul legno, per richiamare la clientela; e con una lunga lista di bollette in mano, assorto profondamente, la sua faccia gialla e contorta di vecchio rachitico aveva una intensità di passione che la trasformava; mentre, innanzi a lui, come l’ora si approssimava, continuava a passar gente, e dal cortile sorgeva un brusìo di voci napoletane, fra stridule e grasse. Un uomo, un operaio, si fermò presso il lustrino; poteva avere trentacinque anni, ma era scialbo e aveva gli occhi smorti, la giacchetta buttata sulle spalle, che lasciava vedere la camicia di percalla colorata.

– Lustriamo? – domandò macchinalmente il lustrino, abbassando la lista delle sue bollette.

– Sì, proprio! – rispose l’altro sogghignando. – Ho voglia di lustro, io. Se avevo un altro paio di soldi, oggi, avrei giocato un ultimo biglietto da donna Caterina.

– Gioco piccolo? – chiese sottovoce il lustrino.

– Già: un poco al Governo e un poco a donna Caterina.

– Sono tutti ladri, tutti ladri, – soggiunse poi l’operaio masticando il suo mozzicone nero e crollando la testa, con un atto di suprema sfiducia.

– Hai fatto mezza festa, oggi? Non sei andato a tagliar guanti?

– Non ci vado mai, di sabato, – fece l’altro, abbozzando un pallido sorriso. – Vado a cercar fortuna: l’ho da trovare, un sabato mattina!

– E i denari della settimana, quando li prendi?

– Eh! – disse l’operaio, levando una spalla, – per lo più al venerdì, non ho da prender niente.

– Come fai a giocare?

– Per giocare si trova sempre. La sorella di donna Caterina, quella del gioco piccolo, dà denaro in prestito…

– Interesse forte?

– Un soldo a lira, ogni settimana.

– Non ci è male, non ci è male, – disse il lustrino, con aria convinta.

– Io le ho da dare settantacinque lire, – rispose il tagliatore di guanti, – e ogni lunedì è una tempesta. Mi aspetta fuori la porta della fabbrica, grida, bestemmia. Michele: è proprio una strega. Ma che ci posso fare? Un giorno o l’altro prenderò un terno e la pagherò…

– E del resto della vincita, che ne fai? – domandò Michele, ridendo.

– Lo so io che ne fo! – esclamò Gaetano, il tagliatore. – Col vestito nuovo, con la penna di fagiano al cappelletto, nella carrozza coi sonagli, andiamo tutti a scialare ai Due Pulcinelli, al Campo di Marte.

– O dal Figlio di Pietro, a Posillipo…

– O da Asso di coppe, a Portici…

– Taverna per taverna…

– Carne e maccheroni…

– E vino del Monte di Procida.

– Tanto, una volta sola si campa, – concluse filosoficamente il tagliatore di guanti, rialzandosi la giacchetta sulla spalla.

– Io non faccio debiti, – soggiunse, dopo un minuto di silenzio, il lustrino.

– Beato te!

– Tanto, non troverei chi mi presti un soldo. Ma gioco tutto. Non ho famiglia, posso fare quello che mi piace.

– Beato te! – ripeté Gaetano, il cui volto si era turbato.

– Tre soldi per dormire, otto o dieci soldi per mangiare, – continuò il lustrino, – e chi mi dice niente? Ah, io non l’ho voluta prendere, la moglie, io! Avevo la passione della giuocata, io, e mi basta per tutto!

– Sia ucciso chi ha inventato il matrimonio! – bestemmiò Gaetano, facendosi terreo.

Le quattro si approssimavano e il cortile dell’Impresa si riempiva di gente. In quel centinaio di metri di spazio, una folla popolana s’infittiva, chiacchierando vivacemente, o aspettando in silenzio, rassegnatamente, guardando lassù, al primo piano, la terrazzina coperta, dove si doveva fare l’estrazione. Ma tutto era chiuso, lassù, anche le imposte di legno, dietro i cristalli del grande balcone. Come altra gente arrivava, sempre, la folla giungeva sino alla muraglia del cortile; delle donne respinte, si erano accoccolate sui primi scalini della scala; qualcuna, più vergognosa, si nascondeva sotto il terrazzino, fra i pilastri che lo sostenevano, addossandosi alla porta chiusa di una grande stalla. Un’altra giovane ancora, ma dal pallido e seducente volto consumato, dai grandi occhi neri, un po’ malinconici, un po’ stravaganti, con le occhiaie livide, dalla grossa treccia nera disfatta sul collo, era salita sopra un macigno abbandonato in quel cortile, forse dai tempi in cui era stato costruito o restaurato il palazzo; e lì sopra, tutta magra nella sua veste ritinta di nero, che le faceva cento pieghe sullo scarno petto e sui fianchi, dondolando un piede in uno stivaletto rotto e scalcagnato, rialzandosi sulle spalle, ogni tanto, un gramo scialletto anche ritinto di nero, ella dominava la folla, guardandola coi suoi occhi abbattuti e tristi. La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d’inverno impegnato, sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d’impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba, non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello, al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell’estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vicoli San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l’estrazione del Lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l’opificio, la bottega, abbandonato il duro e mal retribuito lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, erano venuti a palpitare innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell’estremo avvilimento.

*

Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate, e, fra tutte, il volto pallido e attraente di Carmela, quella seduta sul macigno, volto sfiorito, dai grandi occhi stanchi e addolorati.

Più tardi, come maggiormente si appressava l’ora dell’estrazione, e più il chiasso cresceva, fra le poche faccie smorte muliebri e i laceri vestiti di percalla scolorita a furia di troppe lavature, una assai diversa figura di donna apparve. Era una popolana alta e robusta, dal viso bruno fortemente colorito, dai capelli castani tirati su, pettinati con molta cura e la cui frangetta, sulla breve fronte, aveva anche un’ombra di cipria; i pesanti orecchini di perle scaramazze, rotondi, bianco-verdastri, le tiravano le orecchie, tanto che aveva dovuto assicurarli sopra l’orecchio, con un cordoncino di seta nera, temendo che dovessero spezzare il lobo; una collana d’oro, con un grosso medaglione d’oro, posava sul giubbetto di mussola bianca, tutto ricami e gale di merletto; ella sollevava ogni tanto, sulle spalle, uno scialle trasparente di crespo di seta nero e allora mostrava le mani, ricche di grossi anelli d’oro sino alla metà della seconda falange. L’occhio era serio e tranquillo, con una lieve aria di quietissima audacia, la bocca composta a severità; ma nell’attraversare la folla, nell’andare a mettersi sul terzo gradino della scala, per vedere e per udire meglio, ella conservava quella inclinazione della testa, speciale delle popolane napoletane, un po’ civettuola, un po’ mistica; conservava quella ondulazione della persona così seducente sotto lo scialle, e che le borghesi napoletane perdono subito nel vestito alla moda francese. Pure, malgrado la simpatia naturale che ispirava quella figura femminile, al suo passaggio vi fu un mormorio quasi ostile e come un movimento di repulsione tra la folla. Ella ebbe un moto di disdegno, levando le spalle; e restò sola, ritta sul terzo scalino, tenendo alzato lo scialle sulle braccia, e le mani cariche di anelli incrociate sullo stomaco. Il mormorio, qua e là, continuò; ella guardò la folla, due o tre volte, serenamente, anzi non senza fierezza. Le voci tacquero; le palpebre della donna batterono, due o tre volte, come per orgoglio appagato.

*

Ma, finalmente, su tutte le altre, su Carmela dal volto sfiorito e dai grandi occhi dolorosi, su donna Concetta dalle dita inanellate e dalla frangetta incipriata, Concetta, la bella, robusta e ricca usuraia, sorella di donna Caterina, sorella della tenitrice di gioco piccolo, sopra la folla del cortile, dell’androne, della via, una figura di donna emergeva, attirava almeno uno sguardo della gente raccolta. Era la donna, al primo piano del palazzo dell’Impresa, seduta dietro la ringhiera di un balconcino: seduta di fianco, si vedeva il suo profilo chinarsi e sollevarsi, ogni tanto, sul lucido ingranaggio d’acciaio di una macchina da cucire Singer; mentre il piede, uscendo dalla modesta gonna di percalla azzurra a pisellini bianchi, batteva metodicamente sul pedale di ferro, che si abbassava e si alzava, con moto uniforme. Fra il brusio delle voci, e i dialoghi da un capo all’altro del cortile, e lo stropiccio dei piedi, si perdeva il trillo sordo della macchina da cucire; ma sul fondo scuriccio del balcone, la figura della cucitrice si disegnava tutta, di profilo, con le mani che portavano il pezzo di tela bianca sotto l’ago saliente e discendente della macchina, col piede che piegava il pedale, instancabilmente, con la testa che si alzava e si abbassava sul lavoro, senza vivacità, ma senza stanchezza, continuamente. Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l’angolo di una bocca fine, e l’ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull’alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un’ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull’ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l’estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente.

*

Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell’androne, quella che era nell’androne si accalcò nel cortile; vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un’ardente curiosità, prese da un’angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano; mentre Carmela, la fanciulla dall’attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l’urna, per i novanta numeri. È grande, l’urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all’altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra; sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L’urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c’è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l’urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po’ curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò:

– Andiamo, andiamo!

*

*

Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall’urna i numeri dell’estrazione.

Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell’Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, come i napoletani chiamano l’ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo senza madre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull’uniforme da serragliuolo, una tunica di lana bianca; un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell’innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all’altezza dell’urna. Di sotto, la folla tumultuava:

– Bel figliuolo, bel figliuolo!

– Che tu possa essere benedetto!

– Mi raccomando a te e a San Giuseppe!

– La Madonna ti benedica le mani!

– Benedetto, benedetto!

– Santo e vecchio, santo e vecchio!

Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un’invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell’urna; e un po’ discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v’era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell’estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava; era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. E le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano:

– Pare un piccolo San Giovanni, pare!

– Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia!

– Core di mamma, quanto è caro!

Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell’urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un’occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell’urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni o dalla Smorfia, o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza; il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta.

– Due!

– … la bambina!

– … la lettera!

– … fammi arrivare questa lettera. Signore!

– Cinque!

– … la mano!

– … in faccia a chi mi vuol male!

– Otto!

– … la Madonna la Madonna, la Madonna!

Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell’urna dell’estrazione dal piccolo serragliuolo vestito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell’urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava:

– Gira, gira, vecchiarello!

– Ancora un giro per me!

– Dammi la giusta misura!

I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell’urna; per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza.

– Tredici!

– … le candele!

– … il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia!

– … smorziamo, smorziamo! – rombava il coro.

– Ventidue!

– … il pazzo!

– … il pazzarello!

– … come te!

– … come me!

– … come chi giuoca alla bonafficiata!

Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l’agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull’alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo; donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano; niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico:

– Trentatré!

– … anni di Cristo!

– … anni suoi!

– … questo esce.

– … non esce!

– … vedrete che esce!

– Trentanove!

– … l’impiccato!

– … nella gola, nella gola!

– … così debbo vedere chi dico io!

– … stringi, stringi!

*

*

Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie; solo l’altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere; piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L’operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma; a ogni nuova diecina di numeri messi nell’urna, l’usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo.

Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all’altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L’operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l’ultimo numero, anzitutto perché era l’ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico; novanta fa la paura, novanta fa il mare, novanta fa il popolo, e insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l’omega del Lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece; una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione.

Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l’altro usciere dava gli ultimi giri all’urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell’urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell’urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso.

– Dieci, – gridò l’usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella.

Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi.

Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell’urna.

– Due, – gridò l’usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella.

Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell’urna, qualcuno gridò, angosciosamente:

– Cerca bene, scegli bene, bambino!

– Ottantaquattro, – gridò l’usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella.

Qui scoppiò il grande urlo d’indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l’estrazione e per i giuocatori. Con l’ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! gridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l’espressione paurosa della infinita delusione popolare.

– Settantacinque, – dichiarò con voce più fiacca l’usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella.

Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente.

– Quarantatrè, – finì di proclamare l’usciere, collocando il quinto ed ultimo numero.

*

*

E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del Lotto; sparvero i due bimbi, le tre autorità, l’urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione.

El país de jauja

Versión enero de 2022

CAPÍTULO I. LA EXTRACCIÓN DE LA LOTERÍA

Después de mediodía el sol penetró en la placita de los Banchi Nuovi, ensanchándose desde la litografía Cardone hasta la farmacia Cappa, y desde allí fue extendiéndose, subiendo toda la calle de Santa Chiara, dándole una insólita alegría de luz a esa travesía que conserva siempre, incluso en las horas de mayor movimiento, un gélido aspecto entre claustral y escolar. Pero el gran movimiento matinal de la calle Santa Chiara, de las personas que bajan de los barrios septentrionales de la ciudad, Avvocata, Stella, San Carlo all’Arena, San Lorenzo, y se dirigen a los barrios bajos de Porto, Pendino y Mercato, o al contrario, después de mediodía iba decreciendo lentamente; el vaivén de las carrozas, de los coches, de los vendedores ambulantes cesaba: era una continua fuga por el claustro de Santa Chiara, por el callejón Foglia, hacia la calleja de Mezzocannone, hacia Gesù Nuovo, hacia San Giovanni Maggiore. Pronto, la alegría del sol iluminó una calle ya solitaria. Los comerciantes del lado derecho de la calle Santa Chiara – pues el lado izquierdo solo tiene el alto, cerrado y pardo muro del convento de las clarisas -, comerciantes de viejos muebles polvorientos y de mezquinos y pobres muebles nuevos, de estampas de colores y de vivísimas oleografías, de santos de madera y de santos de estuco, almorzaban, en el fondo de sus tiendas oscuras, sobre una esquina de un mantel manchado de vino, teniendo, junto al abundante plato de macarrones, una botella de cristal verdoso, llena de vinillo de Marano y cerrada con una hoja de vid prensada. Los mozos de los comerciantes, sentados en el suelo, en el umbral de la tienda, le hincaban el diente lentamente a una hogaza de pan, partida en dos y con algún fiambre áspero, calabacines fritos y bañados en vinagre, chirivías con aliño agrio, berenjenas sazonadas con vinagre, pimienta y ajo: y el olor agudo y mantecoso del exceso de tomate que condimentaba todos esos macarrones, de un lado a otro de la calle, se unía a ese olor agudo de vinagre áspero y de vulgares especias. A los fruteros que aún pasaban con una cesta de higos, casi vacía, en la cabeza o empujando un carrito con cestas que contenían en sus fondos ciruelas moradas y melocotones jaspeados, los tenderos, los empleados y los mozos, aún con los labios rojos de tomate o brillantes por la manteca, les compraban diez céntimos de fruta para terminar su propio almuerzo; delante de la litografía Martello, cuyas pequeñas máquinas de tarjetas de visita se habían detenido, dos obreros cortaban en tajadas un melón amarillento con gravedad; mientras, en el umbral de un portoncito, dos costureritas esperaban, charlando, que pasara el vendedor de pizzas, la hogaza cubierta de tomate, ajo y orégano, cocida al horno y vendida a tres, a cinco o a diez céntimos la porción. El pizzero, de hecho, pasó, pero llevaba bajo el brazo la plancha de madera, toda grasienta, sin siquiera una porción de pizza; lo había vendido todo y se iba a comer, allí abajo, al barrio de Porto, donde estaba su pizzería. Las dos costureritas, desengañadas, hablaron; una de ellas, rubia, con una aureola de oro alrededor de su delicada cara blanca, se movió, con ese paso ondulante que pone como una nota oriental en la seducción de la mujer napolitana, y subiendo la calle Santa Chiara, inclinando la cabeza para que no le hiriera el sol en la cara, entró en el callejón de la Impresa y se dirigió hacia la negra tienda del vinatero, que también era mesonero, casi en frente del palacio de la Impresa; iba a comprar algo de comer para ella y para su compañera.

También el callejón de la Impresa se había quedado desierto, después de mediodía, cuando todos regresaban a sus casas y a sus tienduchas para almorzar, cuando el calor del verano crece y crece, y la controra – el momento de la jornada napolitana que equivale a la siesta española – comienza con la comida, con el descanso y con el sueño de las personas cansadas. La costurerita, un poco cohibida por la oscuridad de la cantina, de la que salía un ácido olor a vino, se había detenido en el umbral, haciendo señales; y miraba al suelo, antes de entrar, al sentir como el peligro de una trampilla abierta, subterránea, con la negra boca entreabierta. Pero el muchacho del cantinero se adelantó hacia ella, para atenderla.

– Dame algo de comer con pan, – dijo ella, balanceándose un poco.

– ¿Pescado frito?

– No.

– ¿Un poco de bacalao con salsa?

– No, no, – dijo ella, asqueada.

– ¿Una sopa de tripas?

– No, no.

– ¿Y qué quiere, entonces? – le preguntó el muchacho, un poco irritado.

– Querría… querría quince céntimos de carne, nos la comeremos con pan, Nannina y yo, – dijo ella con una graciosa mueca de golosinería.

– Hoy no cocinamos carne, es sábado. Solo tripas, para quien no cree en el sábado.

– Pues dame ese bacalao, – murmuró ella, reprimiendo un suspiro.

Ahora miraba con curiosidad el patio de la Impresa, mientras el muchacho había desaparecido en las profundidades de la cantina para coger el bacalao. Un poco de sol que penetraba desde lo alto doraba el patio; y de vez en cuando, alguna sombra de mujer o de hombre lo cruzaba. Antonetta, la costurerita, miraba siempre, mientras canturreaba en voz baja una cancioncilla popular, balanceándose un poco.

– Aquí está el bacalao, – dijo el muchacho al volver.

Lo había puesto en un platito; eran cuatro porciones grandes que se deshacían en capas, en una salsa rojiza y fuertemente moteada de pimienta; la salsa, al oscilar, dejaba marcas amarillas de aceite en los bordes del platito grisáceo.

– Y aquí están los quince céntimos, murmuró Antonetta, mientras se los sacaba del bolsillo. Pero permanecía con el plato en la mano, mirando el bacalao que se exfoliaba en el caldo.

– Si me tocara un terno, – dijo mientras se alejaba sujetando delicadamente el platito, – quisiera quitarme las ganas de comer carne, todos los días.

– Carne y macarrones, – acentuó, riéndose, el muchacho.

– Claro, ¡macarrones y carne! – gritó triunfalmente la costurerita, con los ojos siempre fijos en el platito, para que no se le derramara la salsa.

– ¡Mañana y tarde! – chilló, desde el umbral, el muchacho.

– ¡Mañana y tarde! – chilló Antonetta.

– Tiene que consultar a ese joven, – gritó alegremente el muchacho del cantinero, señalando con los ojos el patio de la Impresa.

– Vuelvo más tarde, – dijo, desde la esquina de la calle, la costurerita. – Te traigo el plato.

De nuevo se quedó desierto el callejón de la Impresa, durante mucho tiempo. En invierno está muy concurrido, por la tarde, por jóvenes estudiantes que salen de la universidad y cogen ese atajo para llegar a la calle Gesù o a la calle Toledo; pero era verano, y los estudiantes estaban de vacaciones. Sin embargo, de vez en cuando, conforme avanzaba la hora, alguna persona giraba desde la calle Santa Chiara o Mezzocannone, y se instalaba en el portal de la Impresa; algunos, con aspecto circunspecto, otros, fingiendo indiferencia.

Uno de los primeros había sido un limpiabotas con su caja; un viejo jorobado, tulllido, que llevaba la caja en la cadera más alta, doblado en dos, envuelto en una vieja bata verdosa, toda llena de manchas y remiendos, con una gorra sin visera calada hasta los ojos. Bajo el pórtico del palacio de la Impresa, en el suelo, el limpiabotas había colocado la caja, y él mismo se había tumbado, como si esperara a los clientes; pero olvidaba dar los dos golpes secos del cepillo sobre la madera para llamar a la clientela. Y con una larga lista de décimos en la mano, profundamente absorto, su cara amarillenta y torcida de viejo raquítico mostraba una pasión intensa que la transformaba; mientras, ante él, dado que la hora se acercaba, continuaba pasando gente, y del patio surgía un rumor de voces napolitanas, chillonas y graves. Un hombre, un obrero, se detuvo junto al limpiabotas; podía tener treinta y cinco años, pero estaba pálido y tenía los ojos apagados; llevaba la chaqueta echada sobre los hombros, dejando ver la camisa de percal de colores.

– ¿Limpiamos? – preguntó maquinalmente el limpiabotas, bajando la lista de sus décimos.

– ¡Sí, claro! – respondió el otro guiñando.- Para limpiezas estoy yo. Si tuviera otros diez céntimos, habría jugado otro décimo de doña Caterina.

– ¿Juego clandestino? – preguntó en voz baja el limpiabotas.

– Así es: un poco con el gobierno y un poco con doña Caterina.

– Son todos ladrones, todos ladrones, – añadió luego el obrero masticando su colilla negra y hundiendo la cabeza, con un acto de suprema desconfianza.

– ¿Has hecho hoy media jornada? ¿No has ido a cortar guantes?

– No voy nunca los sábados, – dijo el otro esbozando una pálida sonrisa. – Voy a buscar fortuna: ¡tengo que encontrarla un sábado por la mañana!

– ¿Y el dinero de la semana cuándo lo cobras?

– ¡Eh! – dijo el obrero levantando un hombro, – generalmente el viernes, no tengo nada que cobrar.

– ¿Y cómo haces para jugar?

– Para jugar se encuentra siempre. La hermana de doña Caterina, la del juego clandestino, presta dinero…

– ¿Con mucho interés?

– Cinco céntimos por lira, cada semana.

– No está mal, no está mal, – dijo el limpiabotas con aire convencido.

– Tengo que darle setenta y cinco liras, – respondió el cortador de guantes, – y todos los lunes hay una tempestad. Me espera fuera de la puerta de la fábrica, grita, maldice. Michele, es justo una bruja. Pero ¿qué puedo hacer? Un día u otro me tocará un terno y le pagaré…

– ¿Y con el resto del premio, qué haces? – le preguntó Michele, riendo.

– ¡Muy bien sé lo que haré! – exclamó Gaetano, el cortador. – Con el traje nuevo, la pluma de faisán en el sombrero, en la carroza con campanillas, vamos todos a regalarnos a lo grande a Due Pulcinelli, al Campo di Marte.

– O al Figlio di Petro, en Posillipo…

– O a Asso di coppe, en Portici…

– Taberna tras taberna…

– Carne y macarrones…

– Y vino del Monte di Procida.

– Además, solo se vive una vez, – concluyó filosóficamente el cortador de guantes, levantándose la chaqueta sobre el hombro.

– Yo no me endeudo, – añadió, tras un minuto de silencio, el limpiabotas.

– ¡Bendito tú!

– Además, no encontraría quien me prestara nada. Pero me lo juego todo. No tengo familia, puedo hacer lo que me parezca.

– ¡Bendito tú! – repitió Gaetano, a quien se le había turbado la cara.

– Quince céntimos para dormir, ocho o diez para comer, – continuó el limpiabotas, – ¿y quién me dice nada? ¡Ah, yo no he querido casarme! Yo tenía la pasión del juego, ¡y eso me basta por completo!

– ¡Que maten a quien ha inventado el matrimonio! – maldijo Gaetano, poniéndose lívido.

Eran cerca de las cuatro, y el patio de la Impresa se llenaba de gente. En ese espacio de un centenar de metros, el gentío popular se iba haciendo más denso, charlaba con vivacidad o esperaba en silencio, resignadamente, mirando hacia arriba, hacia el primer piso, la galería cubierta donde se haría la extracción. Pero todo estaba cerrado, allí arriba, incluso los postigos de madera tras los cristales del gran balcón. Dado que cada vez acudía más gente, esta llegaba hasta el muro del patio; algunas mujeres, empujadas, estaban en cuclillas en los primeros escalones de la escalera; alguna, más vergonzosa, se escondía bajo la galería, entre los pilares que la sostenían, arrimándose a la puerta cerrada de una gran caballeriza. Otra joven, pero esta con la pálida y seductora cara consumida, con grandes ojos negros un poco melancólicos, un poco extravagantes, con ojeras lívidas, con una gran trenza negra deshecha en el cuello, se había subido sobre un peñasco abandonado en ese patio, quizás desde los tiempos en que el edificio había sido construido o restaurado; y allí encima, muy delgada en su vestido teñido de negro que le hacía mil pliegues en el descarnado pecho y en las caderas, haciendo oscilar un pie en una bota rota y gastada, incorporando los hombros de vez en cuando, con un mísero mantoncito también teñido de negro, dominaba el gentío, mirándolo con sus ojos abatidos y tristes. Toda la multitud estaba compuesta de gente pobre: zapateros, que habían cerrado el negocio en el cuchitril en el que vivían, se habían enrollado el delantal de piel alrededor de la cintura, y en mangas de camisa, con la gorra hasta los ojos, les daban mil vueltas con la cabeza a los números jugados, con un imperceptible movimiento de los labios; sirvientes de paseo que, en lugar de buscar señor, se gastaban las últimas liras del gabán empeñado y soñaban con el terno que de sirvientes los convirtiera en amos, mientras una contracción de impaciencia les retorcía la cara cadavérica, en la que la barba, sin afeitar, crecía de forma desigual; había cocheros de alquiler que habían dejado la carroza en manos del compadre, del hermano, del hijo, y esperaban, pacientemente, con las manos en los bolsillos, con la flema del cochero que está acostumbrado a esperar al pasajero durante horas; había corredores de habitaciones amuebladas, corredores de criadas, que, en verano, cuando se habían ido los extranjeros y los estudiantes, languidecían sentados en sus sillas, bajo el letrero que es todo su negocio, en las esquinas de las callejas de San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, y que, al haber jugado algún dinero sustraído a la comida diaria, desocupados, ociosos, venían a oír la extracción del Lotto; había jornaleros de las humildes artes napolitanas que, tras dejar el almacén, la fábrica, la tienda, tras abandonar el duro y mal retribuido trabajo, apretando en el bolsillo del chaleco desgarrado el décimo de veinticinco céntimos, o el montoncito de los décimos del juego clandestino, habían venido a abrasarse ante ese sueño que podía hacerse realidad; había personas incluso más infelices, es decir todos los que en Nápoles ni siquiera viven al día, sino a horas, intentando mil trabajos, buenos para todo e incapaces, por mala suerte, de encontrar un trabajo seguro y retribuido, infelices sin casa, sin abrigo, tan vergonzosamente andrajosos y sucios, que daban asco, habiendo renunciado al pan, ese día, para jugar un décimo, en la cara de los cuales se leía la doble huella del ayuno y de una degradación extrema.

Entre el gentío, también se distinguían algunas mujeres, mujeres descuidadas, sin edad, como sin belleza; criadas sin trabajo, mujeres de jugadores empedernidos, jugadoras ellas mismas, obreras despedidas, y, entre todas, la cara pálida y atractiva de Carmela, la que estaba sentada en el peñasco, una cara marchita, con los grandes ojos cansados y apenados.

Más tarde, conforme se acercaba la hora de la extracción y el ruido crecía, entre las pocas caras apagadas de las mujeres y sus harapientos vestidos de percal descolorido a fuerza de demasiados lavados, apareció la figura de una mujer muy diferente. Era una mujer del pueblo, alta y robusta, con la cara morena muy saludable, con los cabellos castaños recogidos arriba, peinados con mucho cuidado y cuyo flequillo, en la pequeña frente, tenía una sombra de polvo; los pesados zarcillos de barruecos, redondos, de un blanco verdoso, le estiraban las orejas tanto, que había tenido que asegurárselos sobre las mismas con un cordoncito de seda negra, temiendo que le rompieran el lóbulo; un collar de oro, con una gran medallón también de oro, descansaba sobre el jubón de muselina blanca, lleno de bordados y de volantes de encaje; de vez en cuando se levantaba, sobre los hombros, un mantoncito transparente de crespón de seda negro, y entonces mostraba sus manos, repletas de grandes anillos de oro hasta la mitad de la segunda falange. Su mirada era seria y tranquila, con un leve aire de sosegadísima audacia; su expresión, de severidad; pero, al atravesar el gentío, al ir a situarse en el tercer escalón para ver y oír mejor, mantenía esa inclinación de la cabeza, especial de las mujeres del pueblo napolitanas, un poco coqueta, un poco mística; mantenía esa ondulación de su persona tan seductora bajo el mantoncito, y que las burguesas napolitanas pierden enseguida con el vestido de moda francesa. Sin embargo, a pesar de la simpatía natural que inspiraba la figura de esta mujer, hubo a su paso un murmullo casi hostil y como un movimiento de repulsión entre el gentío. Ella tuvo un arranque de desdén y alzó los hombros; y se quedó sola, derecha en el tercer escalón, con el mantón levantado sobre los brazos y las manos cargadas de anillos cruzadas sobre el estómago. El murmullo, aquí y allá, continuó; ella miró al gentío, dos o tres veces, con serenidad, incluso con fiereza. Las voces callaron; los párpados de la mujer se movieron dos o tres veces, como por el orgullo satisfecho.

Pero, finalmente, sobre todas las demás, sobre Carmela, con su cara marchita y con sus grandes ojos dolientes, sobre doña Concetta, con sus dedos ensortijados y con el flequillo empolvado, Concetta, la hermosa, robusta y rica usurera, hermana de doña Caterina, hermana de la gestora del juego clandestino, sobre la multitud del patio, del pórtico, de la calle, la figura de otra mujer sobresalía, o al menos atraía una mirada de la gente reunida. Era una mujer, en el primer piso del palacio de la Impresa, sentada tras la barandilla de un balconcito; sentada de lado, se veía su perfil inclinarse y levantarse, de vez en cuando, sobre el brillante engranaje de acero de una máquina de coser Singer; mientras el pie, saliendo de la modesta falda de percal azul con motitas blancas, movía metódicamente el pedal de hierro, que bajaba y subía, con movimiento uniforme. En medio del murmullo de las voces, de los diálogos que había de un lado a otro del patio, y del trapaleo de los pies, el tintineo de la máquina de coser se perdía; pero en el fondo parduzco del balcón, la figura de la costurera se dibujaba completa, de perfil, con las manos que llevaban el pedazo de tela blanca bajo la aguja que bajaba y subía de la máquina, con el pie que plegaba el pedal, incansablemente, con la cabeza que se levantaba y se bajaba sobre el trabajo, sin vivacidad, pero sin cansancio, continuamente. De perfil se veía una mejilla delicada, delicadamente rosa, y una gran trenza castaña modesta-mente arreglada y sujeta en la nuca, se veía la comisura de una boca fina, y la sombra que las largas pestañas bajadas dejaban en la parte superior de las mejillas. La joven costurera, durante la hora en que el gentío se había ido agolpando en el patio, no había mirado más que un par de veces, lanzando sobre él una breve ojeada indiferente, y volviendo a bajar la cabeza enseguida sobre el engranaje brillante de la máquina, deslizando lentamente con las manos el pedazo de tela, para que la costura resultara muy derecha. Nada la distraía de su trabajo, ni las voces, ni las vivas exclamaciones, ni el creciente ruido de los pasos de la multitud; nunca había mirado hacia la galería cubierta en la que dentro de poco se proclamaría la extracción. La gente la miraba, desde abajo, a la delicada e infatigable costurera de blanco, pero ella proseguía su trabajo sosegadamente, como si ni siquiera un eco de esa gran pasión, entre secreta y manifiesta, llegara hasta ella; parecía tan lejana, tan esquiva, tan absorta en un mundo absolutamente apartado, diferente, que la fantasía podía suponer que era más una imagen que una realidad, más una figura ideal que una persona viva.

Pero, de pronto, un largo grito de satisfacción salió del pecho de la multitud, con las variaciones de todos los tonos, subiendo hasta las notas más agudas y bajando hasta las más graves; el gran balcón de la galería se había entreabierto. La gente que esperaba en la calle intentó penetrar en el pórtico, la que estaba en este se agolpó en el patio; hubo como un encierro, mientras todas las caras se levantaban, presas de una ardiente curiosidad, presas de una angustia creciente. Un gran silencio. Y mirando bien el movimiento de los labios de ciertas mujeres, se veía que rogaban; mientras, Carmela, la muchacha del atractivo rostro marchito y de los ojos negros infinitamente tristes, jugueteaba con un cordoncito negro que le colgaba del cuello, al que estaban prendidos una medallita de la Virgen de los Dolores y un pequeño cuerno de coral. Silencio universal: de espera, de estupor. En la galería, dos ujieres del Real Lotto habían colocado una larga y estrecha mesa cubierta con un tapete verde; y detrás de la mesa, tres sillas, para que se sentaran las tres autoridades: un consejero de la prefectura, el director del Lotto de Nápoles y un representante del municipio. En otra mesa pequeña se colocó la urna para los noventa números. La urna es grande; toda ella formada por una red metálica, transparente, con forma de limón, con unas tiras de latón que van de un lado a otro, ciñéndola como los círculos del meridiano circundan la tierra, sutiles tiras resplandecientes que aseguran su fuerza, sin impedirle la perfecta transparencia. La urna está suspendida en el aire, entre dos ganchos de latón; junto a uno de ellos hay una manivela, también metálica, que, al ser girada, hace que rápidamente ruede sobre su eje toda la urna. Los dos ujieres que habían llevado todo este material a la galería eran viejos, un poco encorvados, como soñolientos. Incluso las tres autoridades, con gabán y sombrero de copa, parecían aburridas y soñolientas, mientras se sentaban tras la mesita; entre ellos, el consejero de la prefectura con los bigotes teñidos de un negro intensísimo, que parecía que se habían desteñido y se habían vuelto morenos en su morena cara brillante y adormilada; también un consejero del ayuntamiento, un jovencito con barbilla oscura. Esta gente se movía lentamente, con la mesura de movimientos y la precisión de los autómatas, tanto, que un hombre del pueblo, desde la multidud, les gritó:

– ¡Vamos, vamos!

De nuevo, silencio, pero la emoción fluctuó de modo notable cuando apareció en la galería el muchacho que tenía que extraer de la urna los números.

Era un muchacho vestido con el uniforme ceniciento del Hospicio de los Pobres, un pobre muchacho de la Jaula, como llaman los napolitanos al asilo de esas criaturas abandonadas, un pobre enjaulado sin madre ni padre, o hijo de padres que, por miseria o por crueldad, habían abandonado a su prole. El muchacho, ayudado por uno de los ujieres, vistió, encima de su uniforme de enjaulado, una túnica de lana blanca; le pusieron en la cabeza una gorra blanca, también de lana, porque la leyenda del Lotto quiere que el pequeño inocente lleve el traje blanco de la inocencia. Y rápidamente subió sobre un taburete, para situarse a la altura de la urna. Abajo, el gentío levantaba tumulto:

– ¡Hermoso niño, hermoso niño!

– ¡Que te bendigan!

– ¡Me encomiendo a ti y a san José!

– ¡Que la Virgen te bendiga las manos!

– ¡Bendito, bendito!

– ¡Santo y querido, santo y querido!

Todos le decían algo, un voto, una bendición, un deseo, una invocación piadosa, una oración. El niño callaba, mirando, con la manita apoyada en la red metálica de la urna; y un poco alejado, apoyado en la jamba del balcón, había otro niño de la Jaula, muy serio, a pesar de las rosadas mejillas y los rubios cabellos cortados sobre la frente; era el muchacho que tenía que extraer los números el sábado siguiente y que venía para aprender, para familiarizarse con la maniobra de la extracción y con los gritos del gentío. Pero por él no se preocupaba nadie; era el que estaba vestido de blanco, el de ese día, al que se dirigían las mil exclamaciones de la gente; era la pequeña alma inocente vestida de blanco, la que hacía que se sonriera de ternura, la que hacía que se le saltaran las lágrimas de los ojos a esa multitud de seres atormentados y esperanzados solo con la Fortuna. Algunas mujeres habían levantado en sus brazos a sus propios niños y los tendían hacia el pequeño enjaulado. Y las voces, tiernas, apasionadas, desgarradas, continuaban:

– ¡Parece un pequeño San Juan, eso parece!

– ¡Que siempre encuentres gracia, si me haces que tenga esta gracia!

– ¡Corazón de madre, qué lindo es!

Enseguida hubo en ello una diversión. Uno de los ujieres cogía el número que había que meter en la urna, se lo mostraba al pueblo, anunciándolo con voz clara, se lo pasaba a las tres autoridades, que le echaban un vistazo distraído. Uno de los tres, el consejero de la prefectura, cerraba el número en una cajita redonda, el segundo ujier se lo pasaba al muchacho vestido de blanco, quien enseguida lo echaba en la urna por la pequeña boca de metal abierta. Y ante cada número que se anunciaba había exclamaciones, gritos, guiños, risas. Ante cada número el público ofrecía su explicación, sacada del Libro de los sueños o de la Smorfia, o de la leyenda popular que se propagaba sin libros, sin figuritas. Y había estallidos de risotadas, bromas pesadas, interjecciones de miedo o de esperanza; todo acompañado por un clamor sordo, como si fuera el coro menor de esa tempestad.

– ¡Dos!

– … ¡la niña!

– … ¡la carta!

– … páseme esta carta. ¡Señor!

– ¡Cinco!

-… ¡la mano!

– … ¡a la cara a quien no me quiere!

– ¡Ocho!

-… ¡la Virgen, la Virgen, la Virgen!

Pero apenas el pequeño enjaulado vestido de lana cándida echaba un grupo de diez números, cerrados en sus cajitas redondas y cenicientas, en la urna de la extracción, el segundo ujier cerraba la boca de la urna, y, girando la manivela de metal, le imprimía una vuelta sobre su eje, haciendo que los números rodaran, bailaran y saltaran. Y abajo gritaban:

– ¡Gira, gira, viejecito!

– ¡Otro giro más para mí!

– ¡Dame la medida exacta!

Los cabalistas, que no hablaban, ni siquiera miraban las vueltas de la urna; para ellos no existía ni el niño inocente, ni el sentido de los números, ni la vuelta lenta o vivaz de la gran urna metálica; para ellos solo existía la Cábala, la Cábala oscura y, sin embargo, nitidísima, la gran fatalidad, dominante, imperante, que lo sabe todo, que todo lo puede y todo lo hace, sin que ningún poder, humano o divino, pueda oponerse a ella. Solo ellos callaban, pensativos, concentrados, incluso desdeñosos de esa fuerte algazara popular, absortos en un mundo espiritual, místico, esperando con una profunda seguridad.

– ¡Trece!

-… ¡las velas!

-… ¡el hachón, la antorcha; apaguemos esta antorcha!

-… ¡apaguemos, apaguemos! – tronaba el coro.

– ¡Veintidós!

-… ¡el loco!

-… ¡el locuelo!

-… ¡como tú!

-… ¡como yo!

-… ¡como quien juega a la bonafficiata!

El pueblo se sobreexcitaba. Largos bramidos corrían entre el gentío, que oscilaba como si lo agitara el mismo movimiento impetuoso del mar. Las mujeres, especialmente, se habían puesto nerviosas, temblorosas, y apretaban entre sus brazos a los niños, con tanta fuerza, que hacían que estos palidecieran y lloraran. Carmela, sentada en el alto peñasco, tenía una mano apretada alrededor de la medalla de la Virgen y del pequeño cuerno de coral; doña Concetta, la usurera, olvidaba levantarse el mantoncito de crespón negro que se le caía por las caderas poderosas, mientras los labios tenían un breve movimiento convulso. Y se había ahogado el trino sordo de la máquina de coser, en el balcón del primer piso; nadie se preocupaba de la infatigable costurera de lencería. La fiebre del pueblo napolitano ante la inminencia del sueño que estaba a punto de volverse realidad se hacía cada vez más aguda, dando un salto más vivo y más largo cuando se nombraba un número popular, un número simpático:

– ¡Treinta y tres!

– … ¡los años de Cristo!

-… ¡sus años!

-… este sale.

-… ¡que no sale!

-… ¡verá que sale!

– ¡Treinta y nueve!

-… ¡el ahorcado!

-… ¡por el cuello, por el cuello!

– … ¡así tengo que ver a quien yo digo!

– … ¡aprieta, aprieta!

Imperturbables, en la galería, las autoridades, los ujieres, el muchacho vestido de blanco, continuaban su obra, como si todo ese tumulto de gente no llegara a sus oídos; solo el otro niño, nuevo en ese extravagante espectáculo, miraba abajo, desde la barandilla, atónito, pálido, con los rojos labios hinchados, como si quisiera llorar; una pequeña alma inconsciente y perdida en el torbellino de la profunda pasión humana. La operación, en la galería, procedía con la mayor calma; con cada nueva decena de números que se ponía en la urna, el ujier hacía que esta diera vueltas un poco más de tiempo, haciendo que bailaran y saltaran las bolitas alegremente en la transparente red de metal.

No intercambiaban, allí arriba, ni una palabra, ni una sonrisa; la fiebre permanecía a la altura de las personas, en el patio, no subía al primer piso. Abajo, ahora, las personas más serias reían convulsamente, en voz baja, hundían la cabeza, como si se les hubiera comunicado la enfermedad del modo más ruidoso. La operación pareció aligerarse, hacia el final. Nuevos gritos acogieron el setenta y cinco, que es el número de Pulcinella, y el setenta y siete, que es el del diablo; pero un largo, larguísimo aplauso saludó al noventa, el último número, sobre todo porque era el último, además porque es un número extremadamente simpático; el noventa da miedo, hace el mar, hace al pueblo, y junto a ello tiene cinco o seis significados, todos populares. Todos aplaudían, en el patio, hombres, mujeres, muchachos, ante el gran noventa, que es el omega del Lotto. Luego, enseguida, como por encanto, se hizo un profundo silencio; una inmovilidad paralizó todos esos cuerpos, todas esas caras; esa gran cantidad de gente temblorosa pareció petrificada en los sentimientos, en la palabra, en los actos, en la expresión.

El primer ujier, el que había declarado los noventa números, acercó a la barandilla un tablero, largo y estrecho, con cinco casillas vacías, semejante a la de los bookmakers en los campos de las carreras, mientras el otro ujier le daba las últimas vueltas a la urna llena con los noventa números. El tablero estaba girado hacia el pueblo. Luego el consejero sacudió una campanilla, la vuelta de la urna se detuvo; el tercer ujier le puso una venda en los ojos al niño vestido de blanco; este, rápidamente, metió la mano en la urna abierta y buscó un momento, solo un momento, sacando inmediatamente una bolita con el número. Mientras esta bolita pasaba de mano en mano, abajo, de esos pechos petrificados, de esas bocas petrificadas, salió un suspiro bronco, sombrío, angustioso.

– Diez, – gritó el ujier, declarando el número extraído y poniéndolo enseguida en la primera casilla.

Murmullo y agitación en el pueblo: todos los que habían tenido esperanzas en el primer número extraído estaban desengañados.

Nueva sacudida de la campanilla: el niño metió, por segunda vez, la manita delicada en la urna.

– Dos, – gritó el ujier, declarando el número extraído y poniéndolo en la segunda casilla.

Al murmullo creciente se sumó alguna maldición: todos los que habían jugado al segundo número extraído estaban desengañados; todos los que habían esperado acertar cuatro números estaban desengañados; todos los que habían jugado el terno a secas comenzaban a temer fuertemente el desengaño. Tanto, que cuando por tercera vez la manita del muchachito penetró en la urna, alguien gritó, angustiosamente:

– ¡Busca bien, elige bien, niño!

– Ochenta y cuatro, – gritó el ujier, declarando el número y colocándolo en la tercera casilla.

Entonces estalló un gran grito de indignación, hecho de maldiciones, de lamentos, de exclamaciones coléricas y dolorosas. Este tercer número, feo, era decisivo para la extracción y para los jugadores. Con el ochenta y cuatro estaban desengañados ya todos los que habían jugado el primero, el segundo y el tercer número extraído; estaban desengañados todos los que habían jugado los cinco, los cuatro, el terno, el terno a secas, esperanza y amor del pueblo napolitano, esperanza y deseo de todos los jugadores, desde los empedernidos hasta los que solo jugaban una vez, por si la suerte; el terno, la palabra fundamental de todos esos deseos, de todas esas necesidades, de todas esas estrecheces, de todas esas miserias. Un coro de maldiciones se levantaba desde abajo contra la mala fortuna, contra la mala suerte, contra el Lotto y contra quien cree en ello, contra el gobierno, contra ese desventurado muchacho que tenía una mano tan desgraciada. ¡Enjaulado, enjaulado!, gritaban desde abajo, para insultarlo, mostrándole el puño. Del tercer al cuarto número pasaron dos o tres minutos; todas las semanas sucedía lo mismo: el tercer número era la expresión temerosa del infinito desengaño popular.

– Setenta y cinco, – declaró con voz débil el ujier, poniendo el número extraído en la cuarta casilla.

Entre las voces airadas que no se calmaban, algún silbido volvió a sonar, vengativo. Las injurias llovían sobre la cabeza del niño; pero las mayores imprecaciones iban contra el Lotto, en el que nunca se puede ganar, nunca, en el que todo está manipulado para que no se gane nunca, nunca, especialmente la pobre gente.

– Cuarenta y tres, – acabó por proclamar el ujier, colocando el quinto y último número.

Y un último soplo de cólera en el pueblo: nada más. En un momento, desapareció de la galería toda la fría máquina del Lotto; desaparecieron los dos niños, las tres autoridades, la urna con los ochenta y cinco números y su pedestal, desaparecieron las mesitas, los silloncitos, los ujieres, se cerraron los cristales y los postigos del gran balcón, en solo un momento. Solo, erguido, al lado de la balaustrada, permaneció el tablero con sus cinco números, esos, esos, la gran fatalidad, el gran desengaño.

Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile; quelli che avevano giuocato tutt’i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l’infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco; altri, i più folli, caduti dall’altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti – ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco; e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell’alta matematica del Lotto, dove vivono le figure, le cadenze, le triple, la ragione algebrica del quadrato maltese e le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa.

Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell’esistenza.

Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l’estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello.

– Niente? – domandò una voce sorda accanto a lui.

Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l’accasciamento degli esaltati delusi.

– Niente, – disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi.

– E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò.

– Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, – mormorò disperatamente il lustrino.

– Addio, compare, – disse, con voce rude, il tagliatore di guanti.

– Addio, compare, – rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato.

Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d’oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate.

– Avete guadagnato nulla, Gaetano? – domandò ella, con un lieve sorriso.

– Ho preso una saetta che mi colga! – gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l’usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento.

– Va bene, va bene, – ribatté ella, freddamente. – Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate.

– Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, – le gridò appresso, lui, con voce fischiante.

Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, che non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme; se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina; ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell’audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all’altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori.

Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota delle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l’entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz’affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate.Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell’Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva.

Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po’ gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull’alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino:

– Oh, Carmela!

– Buon giorno, Annarella, – disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso.

– Stai qua anche tu? – chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa.

– Eh… già, – rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione.

– Hai visto Gaetano, mio marito? – domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente.

Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì.

– Non l’ho visto per niente, – disse, chinando gli occhi.

– Ci doveva essere, – mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta.

– Ti assicuro che non vi era affatto.

– Non lo avrai visto, – ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. – Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia.

– Gioca assai, non è vero? – disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi.

– Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, siamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature!

E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile.

– E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata?- domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano.

– Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? – disse l’altra, con la sua armoniosa voce infranta; – che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l’innamorato mio e…un’altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un’ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l’altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò.

– Oh, povera sorella mia! povera sorella! – disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza.

– Deve venire quel giorno, deve venire… – susurrò l’appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere.

– Possa passare un angiolo e dire amen – mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. – Ma dove sarà Gaetano? – riprese, vinta dalla sua cura.

– Di’ la verità, Annarella, – chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, – non hai niente da dare, ai bambini, oggi?

– Niente, – disse con quella voce fioca.

– Prendi questa mezza lira, prendi, – disse l’altra, cavandola dalla tasca e dandogliela.

– Iddio te lo renda, sorella mia.

E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell’Impresa, non scoppiarono in singhiozzi.

– Addio, Annarella.

– Addio, Carmela.

La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull’orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene.

– Ebbene? – chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica.

– Niente! – disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca.

– E che ti pare! – esclamò il giovanotto, irosamente. – La femmina sempre femmina è.

– Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? – disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata.

– Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti buoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te…

– Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. – Non me lo dire più.

– Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo!

– Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? – osò chiedere, ella.

– Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire?

– Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca.

– Possa morire uccisa la miseria! – bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. – Dà qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie.

– Non ci passi, per casa? – pregò lei con gli occhi, con la voce.

– Se ci passo, passerò assai tardi.

– Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, – disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona.

– E non mi posso fermare…

– Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare?

– E va bene, – annuì lui, con indulgenza, – va bene. Addio, Carmela.

– Addio, Raffaele.

Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell’Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi.

– La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, – mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant’anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall’anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n’era, al giuoco del Lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti.

Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l’acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall’androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente:

– Donna Rosa, volete chiamare Maddalena?

Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano:

– Maddalena, Maddalena!

– Chi è? – rispose una voce roca, dall’interno.

– Tua sorella ti vuole; scendi.

– Ora vengo – disse la voce, più piano.

– Grazie, donna Rosa, – mormorò Carmela.

– Poco a servirvi, – rispose l’altra, brevemente, allontanandosi.

Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l’androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un’alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, – la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa.

Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po’ smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno.

– Come stai? – disse con voce tremula Carmela.

– Sto bene, – fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. – E mamma come sta?

– Come una vecchiarella…

– Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta?

– Oh quella sta piena di guai…

– Miseria, eh?

– Miseria.

Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso.

– Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, – disse finalmente Carmela.

– Niente, eh?

– Niente.

– È cattiva sorte la mia, – mormorò Maddalena, a bassa voce. – Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all’Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all’Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!…

– La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, – disse piano, Carmela, – speriamo quest’altro sabato.

– Così speriamo, – rispose l’altra, umilmente.

– Addio, Maddalena.

– Addio, Carmela.

Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell’androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore.

………………………………………………..

Alle cinque e mezzo il cortile dell’Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di Lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell’Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell’Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l’usciere li riportava all’Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all’usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l’ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Con mucha lentitud, de mala gana, el gentío iba despejando el patio. Sobre los más exaltados en la pasión del juego había soplado el viento de la desolación y los había abatido, como si tuvieran los brazos y las piernas despedazadas, la boca amarga de bilis; los que se habían jugado todo el dinero, esa mañana, no sintiendo ya la necesidad de comer, de beber, de fumar, alimentándose intensamente de las visiones de jauja en la fantasía, soñando, para esa noche del sábado y para el domingo y para todos los días sucesivos, con toda una panzada de almuerzos suculentos y ricos, devorados en la imaginación, tenían suavemente las manos en los bolsillos vacíos, y en los ojos desolados se pintaba el dolor físico, infantil de quien siente las primeras contracciones del hambre y no tiene, sabe que no puede tener el pan para aquietar el estómago; otros, los más locos, caídos de la altura de sus esperanzas en un momento, sentían ese largo minuto de locura angustiosa, cuando no se quiere creer, no, no se puede creer en la desventura, y los ojos tienen esa mirada perdida que no ve ya la forma de las cosas, y los labios balbucean palabras incoherentes; y eran estos locos desesperados los que aún clavaban los ojos en el tablero con los cinco números, como si aún no pudieran convencerse de la verdad, y maquinalmente confrontaban los cinco números con la larga lista blanca de sus recibos de juego. Y los cabalistas, en fin, aún no se iban, discutían entre ellos como filósofos, como lógicos, siempre concentrados en la alta matemática del Lotto, donde viven las figuras, las cadencias, las triples, la razón algebraica del cuadrado maltés y las inmortales elucubraciones de Ruttilio Benincasa.

Pero tanto entre los que se iban como entre los que permanecían allí, clavados por su pasión, tanto entre los que discutían furiosamente como entre los que bajaban la cabeza, pálidos, con el valor perdido, sin fuerzas ya para actuar o pensar, cambiaba la forma de la desolación, pero la sustancia de esta era la misma, profunda, intensa, haciendo que sangraran las fibras más íntimas, encaminada a destruir las mismas fuentes de la existencia.

El limpiabotas Michele, el tullido, sentado aún en el suelo, con su caja entre las piernas torcidas, había escuchado la extracción sin levantarse, escondido detrás de las personas que se amontonaban. Ahora, mientras el gentío se marchaba lentamente, él había inclinado la cabeza sobre el pecho, y la tez amarilla de su cara de viejo raquítico se había coloreado de verde, como si toda la bilis se le hubiera subido al cerebro.

– ¿Nada? – preguntó una voz sorda a su lado.

Él levantó maquinalmente los ojos cenicientos con los párpados rojos y vio a Gaetano, el cortador de guantes, que mostraba en su cara sin color el abatimiento de los exaltados desilusionados.

– Nada, – dijo muy brevemente el limpiabotas, volviendo a bajar los ojos.

– Ni yo tampoco. ¿Tienes veinticinco o treinta céntimos, por casualidad, compadre?

– ¿Quién me los da?, si tienes cincuenta, quedémonos con veinticinco cada uno, – murmuró desesperadamente el limpiabotas.

– Adiós, compadre, – dijo, con voz ruda, el cortador de guantes.

– Adiós, compadre, – respondió en el mismo tono el limpiabotas tullido.

Pero mientras Gaetano se alejaba, bajo el portal, pasó por su lado, seria, lenta, con los ojos bajos, doña Concetta, con la cadena de oro que oscilaba en su pecho y con las manos ensortijadas.

– ¿Ha ganado algo, Gaetano? – le preguntó ella, con una leve sonrisa.

– ¡Un rayo que me parta es lo que he ganado! – gritó él, exasperado al encontrarse junto a la usurera que le recordaba su miseria, exasperado por esa pregunta en ese momento.

– Está bien, está bien, – replicó ella, fríamente. – Nos vemos el lunes, no lo olvide.

– No lo olvido, no, te llevo en el corazón, como a la Virgen, – le gritó él después, con voz zumbona.

Ella hundió la cabeza, mientras se marchaba. No iba allí por su interés, porque ella no jugaba nunca; y ni siquiera para atormentar a algún deudor suyo, como Gaetano; venía por su hermana, doña Caterina, la tenedora del juego clandestino, que no se atrevía a presentarse allí, en público. Doña Caterina le comunicaba a su hermana los números a los que más les temía, es decir, los que más se habían jugado con ella y por los que debería pagar sumas más altas; si estos números temidos salían, entonces doña Concetta mandaba a un muchachito a casa de la hermana, la cual estaba preparada para pirárselas y así no pagarle a nadie. Doña Caterina ya tres veces había quebrado así, con el dinero de las jugadas en el bolsillo; y había huido una vez a Santa Maria de Capua, otra a Gragnano, y otra a Nocera dei Pagani, donde se quedó un par de meses; pero había tenido el valor de volver, afrontando a los jugadores engañados, sirviéndose de la audacia con algunos, a otros dándoles un poco de dinero, recomenzando el juego, mientras los timados, los burlados, los engañados volvían a ella, incapaces de denunciarla, conquistados de nuevo por la fiebre, o mantenidos en orden por doña Concetta, a la que todos le debían dinero; y la especulación continuaba, el dinero pasaba de una hermana a la otra, de la tenedora de banco que sabía quebrar a tiempo, a la usurera que se atrevía a afrontar a los más malintencionados de sus deudores.

Además, esta fuga no era considerada como un delito o como un hurto por doña Caterina y por su clientela; ¿quizás, más a lo grande, no hace lo mismo incluso el gobierno cuando, tras asignar un premio de seis millones para cada extracción y para cada una de las ocho ruedas, y al exceder, por una extraña casualidad, las ganancias a esos seis millones, va y quiebra también, y disminuye la entidad de las ganancias? Oh, pero ese día no había necesidad para doña Caterina ni de quebrar ni de huir; los números extraídos eran tan malos, que quizás no había ganado ninguno de sus jugadores; y doña Concetta subía muy despacio, por la calle Santa Chiara, sin apresurarse, sabiendo que ese era un sábado desolador para toda la Nápoles que juega, y preparándose para sus batallas de usurera del lunes. Pasaban por su lado todas esas criaturas infelices, con las esperanzas rotas; y ella hundía la cabeza, sabiamente, sobre esas aberraciones humanas, apretando los bordes de su mantón de crespón negro entre las manos ensortijadas. Una mujer bajaba, rápidamente, con una niña y un niño detrás, y una criatura de pecho en los brazos, la rozó, la adelantó, entró en el patio de la Impresa, donde aún permanecía alguien.

Era una mujer pobremente vestida, con un traje de percal tan andrajoso y mísero, que daba piedad y pena; con una tira deshilachada de mantón de lana, al cuello; su cara era tan delgada y consumida, sus dientes tan negros, sus cabellos tan ralos, que sus hijos, sus tres hijos, no deslucidos, no sucios, sino bonitos, parecían que no le pertenecían. El bebé, solo un poco grácil, apoyaba la cabeza en su hombro, para dormir; pero la pobrecilla estaba tan agitada, que no le prestaba atención. Y al ver a su hermana Carmela sentada aún en el alto peñasco, con las manos abandonadas en su seno, con la cabeza inclinada sobre el pecho, tan sola, como inmovilizada por un dolor sin palabras, se le acercó:

– ¡Oh, Carmela!

– Buenos días, Annarella, – dijo Carmela, sobresaltándose, esbozando una palidísima sonrisa.

– ¿También tú estás aquí? – preguntó, en un tono de sorpresa dolorosa.

– Ya…, – respondió Carmela, con una señal de resignación.

– ¿Has visto a Gaetano, mi marido? – preguntó Annarella con ansiedad, dejando que resbalara del hombro al brazo la cabecita de su bebé, para que pudiera dormir con mayor comodidad.

Carmela levantó sus grandes ojos hasta los ojos de su pobre hermana, pero la vio tan deshecha, tan fea de miseria y de privaciones, tan vieja ya, tan condenada ya a la enfermedad y a la muerte, tan desesperada en su pregunta, que no se atrevió a decirle la verdad. Sí, había visto a Gaetano, el cortador de guantes, su cuñado, lo había visto primero enardecido y ansioso, luego pálido y abatido; pero su hermana, el grácil bebé dormido y los otros dos niños, que miraban curiosamente a su alrededor, le daban demasiada piedad. Mintió.

– No, no lo he visto para nada, – dijo, bajando los ojos.

– Tenía que estar aquí, – murmuró Annarella con su voz ronca y lenta.

– Te aseguro que no estaba en modo alguno.

– No lo habrás visto, – repitió Annarella, obstinada en su dolorosa incredulidad. – ¿Cómo podía dejar de venir? Viene cada sábado, hermana. Puede ser que en su casa, con estas criaturas suyas no esté; puede ser que no esté en la fábrica de guantes, donde puede ganarse el pan; pero no puede ser que no esté aquí un sábado escuchando los números que salen; aquí está su pasión y su muerte, hermana.

– ¿Juega demasiado, no? – dijo Carmela, que se había puesto palidísima y tenía lágrimas en los ojos.

– Todo lo que puede e incluso lo que no puede. Podríamos vivir muy bien, sin pedirle nada a nadie; en cambio, por esta bonafficiata, estamos llenos de deudas y de mortificaciones, y comemos de vez en cuando, así, cuando yo llevo un pedazo de pan a casa. Ah, estas criaturas, estas criaturas, ¡estas pobres criaturas!

Y la voz estaba tan maternalmente desgarrada, que Carmela dejaba que sus lágrimas corrieran por sus mejillas, vencida por un infinito abatimiento de piedad. Ahora estaban casi solas, en el patio.

– ¿Y tú para qué vienes a escuchar esta bonafficiata? – preguntó de pronto Annarella, dominada por la cólera contra todos los que jugaban.

– Eh, ¿qué quieres, hermana? – dijo la otra con su armoniosa voz rota; – ¿qué quieres? Sabes que quisiera veros a todos contentos, a nuestra madre, a ti, a Gaetano, a tus niños y a Raffaele, a mi novio, y… a otra persona; sabes que vuestra cruz es mi cruz, y que no tengo una hora de paz cuando pienso en lo que sufrís. Así, todo lo que me queda de lo que gano, lo juego. Un día u otro, el Señor tiene que bendecirme, ganaré el terno… entonces, entonces, os lo doy todo, todo os lo doy.

– ¡Oh, pobre hermana mía!, ¡pobre hermana! – dijo Annarella, dominada por una melancólica ternura.

– Tiene que llegar ese día, tiene que llegar… – susurró la apasionada, como si se hablara a sí misma, como si ya viera ese día de bienestar.

– Que pase un ángel y diga amén – murmuró Annarella, besando la frente del bebé.- Pero ¿dónde está Gaetano? – continuó, vencida por su preocupación.

– Dime la verdad, Annarella, – le preguntó Carmela, bajando del peñasco y disponiéndose a marcharse, ¿hoy no tienes nada que darles a los niños?

– Nada, – dijo con su voz débil.

– Toma esta media lira, toma, – dijo la otra mientras se la sacaba del bolsillo y se la daba.

– Que Dios te lo pague, hermana.

Y se miraron, con tanta piedad mutua que, solo por vergüenza ante quienes pasaban por el callejón de la Impresa, no rompieron en sollozos.

– Adiós, Annarella.

– Adiós, Carmela.

La muchacha apasionada besó levemente la frente del niño que dormía. Annarella, con su paso blando de mujer que ha tenido demasiados hijos y que ha trabajado demasiado, se fue por el claustro de Santa Chiara, con los otros dos hijos detrás, el niño y la niña. Carmela, apretándose el mísero y descolorido mantón negro, arrastrando los zapatos gastados, bajó hacia la placita de los Banchi Nuovi. Fue solo allí cuando un jovencito limpiamente vestido, con los pantalones apretados en las rodillas y anchos como campanas en el cuello del pie, con la chaquetida ajustada y el sombrerito sobre la oreja, la paró, mirándola con sus fríos ojos de un azul claro, y apretando bajo sus pequeños bigotes rubios los labios luminosos, como los de una muchacha. Parándose, antes de hablarle, Carmela miró al jovencito, con una pasión y una ternura tan intensas, que parecía querer envolverlo en una atmósfera de amor. Él no pareció darse cuenta.

– ¿Y bien? – preguntó él, con una voz zumbona, irónica.

– ¡Nada! – dijo ella, abriendo los brazos con un gesto de desolación; y para no llorar, mantenía la cabeza baja, se miraba la punta de los botines que habían perdido el barniz y mostraban, por las costuras rotas, el forro ya sucio.

– ¿Y qué creías? – exclamó el joven, con ira. – La mujer siempre es mujer.

– ¿Qué culpa tengo yo si los números no han salido? – dijo humilde y dolorosamente la joven apasionada.

– Tendrías que buscar los buenos; hablar con el padre Iluminado, que los sabe y solo se los dice a las mujeres; hablar con don Pasqualino, al que asisten los espíritus buenos, y enterarte de ellos, de los números. Hija, quítate de la cabeza que yo vaya a casarme con una trapajosa como tú…

– Lo sé, lo sé… – murmuró ella humildemente. – No me lo digas más.

– Parece que lo olvidas. Sin dinero no se cantan misas. Adiós.

– ¿No vienes esta tarde cerca de casa? – se atrevió a preguntar.

– Tengo que hacer; tengo que ir con un amigo. A propósito, ¿me prestas un par de liras?

– Solo tengo una, solo una… – exclamó ella, toda roja, mortificada, sacando tímidamente la lira del bolsillo.

– ¡Ojalá muera asesinada la miseria! – maldijo él, masticando una colilla de puro napolitano. – Dame. Intentaré disponer mis cosas del mejor modo.

– ¿No pasas por casa? – rogó ella con los ojos, con la voz.

– Si paso, pasaré muy tarde.

– No importa, no importa, te espero en el balconcito, – dijo ella, hundiendo la cabeza, obstinada en esa humillación de su alma y de su persona.

– Y no puedo detenerme…

– Pues bien, silba; haz un silbido, te escucho y me duermo más tranquila, Raffaelle. ¿Qué te cuesta silbar cuando pases?

– Está bien, – asintió él con indulgencia, – está bien. Adiós, Carmela.

– Adiós, Raffaele.

Se detuvo viéndolo marcharse rápidamente, por el lado de la calle Madonna dell´Aiuto; los zapatitos relucientes crujían, el jovencito caminaba con ese paso orgulloso que es típico de los jóvenes guapos del pueblo.

– Que la Virgen lo bendiga en cada uno de sus pasos, – murmuró la joven, para ella misma, con ternura, marchándose. Pero, mientras caminaba, se sentía débil y desalentada; todas las amarguras de ese pérfido día, las amarguras que sufría por amor a los otros, la amargura de su madre que trabajaba como criada a los sesenta años, de su hermana que no tenía pan para sus hijos, de su cuñado que se dejaba arrastrar a la ruina, de su novio al que quisiera ver feliz y rico como a un señor y al que siempre le faltaba la lira en el bolsillo, todas estas amarguras y las otras, aún más profundas, y la más grande y más profunda aún, la más desoladora de las amarguras, la de su propia impotencia, todas se le derramaban desde el alma hasta la sangre, le subían a los labios, a los ojos, al cerebro. Oh, no bastaba que trabajara en ese nauseabundo oficio, en la fábrica de tabaco, siete días a la semana; no bastaba no tener un vestido decente, ni un par de zapatos sin romper, tanto que en la fábrica no la veían bien; no bastaba que ella ayunase, cuatro veces a la semana, para darle una lira a su madre, dos a Raffaelle, media a su hermana Annarella y todo el resto, cuando había, al juego del Lotto; era inútil, inútil, nunca haría nada por los que amaba; no valía la pena ni la fatiga, ni la miseria, ni el hambre; nada servía para nada. Y mientras bajaba los escalones de San Giovanni Maggiore, en Mezzocannone, aproximándose a su más dolorosa etapa, se habría matado, tan miserable, impotente e inútil se sentía. Sin embargo, caminaba; y fue en una placita lejana de los Mercanti, una placita que parecía un patinillo de servicio, donde se detuvo, apoyándose en la pared, como si ya no pudiera avanzar.

La placita estaba embarrada de aguas sucias, de mondaduras de frutas; había un sombrerucho de mujer, desfondado, tirado en un rincón. De las ventanas de un primer piso, tres tenían las celosías verdes entrecerradas, dejando pasar solo un resquicio de luz; pequeñas ventanas mezquinas y celosías desteñidas sobre las que el polvo, el agua y el sol habían dejado su huella; un portal pequeño, con un escalón desconchado y húmedo, y el zaguán oscuro y negro como un callejón. Carmela miraba hacia dentro, con los ojos muy abiertos por un sentimiento de curiosidad y miedo. Una mujer más bien vieja, una criada, salió, levantándose la falda para no mancharse en el reguero. Carmela, ciertamente, la conocía, porque se dirigió a ella francamente:

– Doña Rosa, ¿puede llamar a Maddalena?

Esta la observó, para reconocerla; luego, sin entrar en la casa, la llamó desde la placita, mirando las ventanas del primer piso:

– ¡Maddalena, Maddalena!

– ¿Quién es? – respondió una voz ronca, desde el interior.

– Te llama tu hermana, ven.

– Ahora voy – dijo la voz, más bajo.

– Gracias, doña Rosa, – murmuró Carmela.

– No es nada, – respondió la otra, brevemente, alejándose.

Maddalena se dejó esperar dos o tres minutos; luego se oyó en el zaguán un rumor cadencioso de tacones de madera, y ella apareció. Traía una falda de muselina blanca, con un volante alto, bordado, también blanco; un jubón de lana de color crema, muy ajustado, con nudos de cinta, de terciopelo negro, en las mangas, en la cintura, en los lados; y un mantoncito de felpa de color rosa en el cuello; la falda dejaba ver los zapatitos de piel brillante, con los tacones muy altos, y las medias de seda roja.

Su cara se parecía tanto a la de de Annarella como a la de Carmela; pero los cabellos castaños, recogidos arriba, bien peinados, sujetos con horquillas amarillas xxx, las mejillas un poco apagadas, cubiertas de afeite rosa, hacían que se olvidara todo su parecido con Annarella y la hacían más seductora que Carmela. Las dos hermanas no se besaron, no se tocaron la mano, pero intercambiaron una mirada tan intensa, que valió por toda palabra y toda señal.

– ¿Cómo estás? – dijo Carmela con voz temblorosa.

– Bien, – dijo Maddalena, hundiendo la cabeza, como si no fuera la salud lo que importara. – ¿Y mamá cómo está?

– Como una viejecita…

– ¡Pobre mamá, pobrecita!… ¿Cómo está Annarella?

– ¡Oh, esa está llena de problemas!

– Miseria, ¿no?

– Miseria.

Suspiraron las dos, profundamente. Cuando se miraban, había un rubor y una palidez que trasmutaba sus caras.

– También hoy te traigo malas noticias, Maddalena,- dijo finalmente Carmela.

– Nada, ¿no?

– Nada.

– Es mala suerte la mía, – murmuró Maddalena en voz baja. – He hecho tantas promesas a la Virgen, no a la Inmaculada, que ni siquiera soy digna de nombrarla, sino a la de los Dolores, que comprende y compadece mi desgracia… pero nada, ¡no ha podido hacer nada!

– La Virgen de los Dolores nos hará esta gracia, – dijo bajo Carmela, – esperemos el sábado próximo.

– Esperemos, – respondió la otra, humildemente.

– Adiós, Maddalena.

– Adiós, Carmela.

Maddalena volvió la espalda y con su paso, acompasado por los tacones de madera, desapareció en el zaguán; solo entonces Carmela estuvo como a punto de lanzarse tras ella para volver a llamarla; pero aquella ya estaba en casa. La muchacha se fue, corriendo, apretándose convulsamente el mantón, mordiéndose los labios para no sollozar. Oh, todas las amarguras, todas, incluso ese sábado sin pan, no eran nada frente a la que dejaba detrás, pero que iba con ella, eterna envenenadora, vergüenza eterna de su corazón.

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A las cinco y media, el patio de la Impresa estaba completamente vacío y silencioso; no entraba nadie, ni siquiera para mirar ese solitario tablero con los cinco números extraídos; los cinco números estaban ya colgados en todos los estancos de Lotto de Nápoles, y delante de cada uno de ellos, a lo largo de toda la ciudad, había un grupo de gente parada. Nadie entraba en el patio de la Impresa; el gentío volvería solo a los siete días. Entonces, se oyeron unas pisadas. Era un ujier del Lotto que llevaba de la mano a los dos niños del Hospicio de los Pobres: el que había extraído los números y el que debía extraerlos el próximo sábado. El ujier los acompañaba al Hospicio donde consignaría las veinte liras de pago semanal que hace el Real Lotto al niño que extrae los números. Los dos muchachos corrían tras el ujier, trinando alegremente. La costurera de blanco, que trabajaba en su máquina, levantó la cabeza y les sonrió. Luego volvió a plegar con el pie el pedal y a guiar el pedazo de tela, derecho, bajo la aguja; siguió tranquila, incansablemente, figura humilde y pura del trabajo.

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