Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Original

Preludio e fughe

1928-29

 

 

 

 

 

Testi: Preludio, Fughe I, III, IV, IX e XI

                  

                                    PRELUDIO

Oh, ritornate a me voci d´un tempo
care voci discordi!
Chi sa che in nuovi dolcissimi accordi
io non vi faccia risuonare ancora?

L´aurora
è lontana da me, la notte viene.
Poche ore serene
il dolore mi lascia; il mio e di quanti
esseri ho intorno.
Oh, fate a me ritorno
voci quasi obliate!

Forse è l´ultima volta che in un cuore
– nel mio – voi v´inseguite.
Come i parenti m´han dato due vite,
e di fonderle in una io fui capace,

in pace
vi componete negli estremi accordi,
voci invano discordi.
La luce e l´ombra, la gioia e il dolore
s´amano in voi.
Oh, ritornate a noi
care voci d´un tempo!

PRIMA FUGA 
  (a due voci)

La vita, la mia vita, ha la tristezza
del nero magazzino di carbone,
che vedo ancora in questa strada. Io vedo, 
per oltre alle sue porte aperte, il cielo
azzurro e il mare con le antenne. Nero
come là dentro è nel mio cuore; il cuore
dell´uomo è un antro di castigo. È bello
il cielo a mezzo la mattina, è bello
il mar che lo riflette, e bello è anch´esso
il mio cuore: uno specchio a tutti i cuori
viventi. Se nel mio guardo, se fuori
di lui, non vedo che disperazione,
tenebra, desiderio di morire,
cui lo spavento dell´ignoto a fronte
si pone, tutta la dolcezza a togliere
che quello in sé recherebbe. Le foglie
morte non fanno a me paura, e agli uomini
io penso come a foglie. Oggi i tuoi occhi,
del nero magazzino di carbone,
vedono il cielo ed il mare, al contrasto,
più luminosi: pensa che saranno
chiusi domani. Ed altri s´apriranno,
simili ai miei, simili ai tuoi. La vita,
la tua vita a te cara, è un lungo errore,
(breve, dorato, appena un´illusione!)
e tu lo sconti duramente. Come
in me in questi altri lo sconto: persone,
mansi animali affaticati; intorno
vadano in ozio o per faccende, io sono
in essi, ed essi sono in me e nel giorno
che ci rivela. Pascerti puoi tu
di fole ancora? Io soffro; il mio dolore,
lui solo, esiste. E non un poco il blu
del cielo, e il mare oggi sì unito, e in mare
le antiche vele e le ormeggiate navi,
e il nero magazzino di carbone,
che il quadro, come per caso, incornicia
stupendamente, e quelle più soavi
cose che in te, del dolore al contrasto,
senti – accese delizie – e che non dici?
Troppo temo di perderle; felici
chiamo per questo i non nati. I non nati
non sono, i morti non sono, vi è solo
la vita viva eternamente; il male
che passa e il bene che resta. Il mio bene
passò, come il mio male, ma più in fretta
passò; di lui nulla mi resta. Taci,
empie cose non dire. Anche tu taci,
voce che dalla mia sei nata, voce
d´altri tempi serena; se puoi, taci;
lasciami assomigliare la mia vita
– tetra cosa opprimente – a quella nera
volta, sotto alla quale un uomo siede,
fin che gli termini il giorno, e non vede
l´azzurro mare – oh, quanta in te provavi
nel dir dolcezza! – e il cielo che gli è sopra.

                 TERZA FUGA 
                   (a due voci)

Mi levo come in un giardino ameno 
un gioco d´acque;
che in un tempo, in un tempo più sereno,
mi piacque.

Il sole scherza tra le gocce e il vento 
ne sparge intorno;
ma fu il diletto, il diletto ora spento
d´un giorno.

Fiorisco come al verde Aprile un prato 
presso un ruscello.
Chi sa che il mondo non è che un larvato
macello,

come può rallegrarsi ai prati verdi,
al breve Aprile?
Se tu in un cieco dolore ti perdi,
e vile,

per te mi vestirò di neri panni, 
e sarò triste.
La mia tristezza non farà ai tuoi danni
conquiste.

Ascolta, Eco gentile, ascolta il vero
che viene dietro,
che viene in fondo ad ogni mio pensiero
più tetro.

Io lo so che la vita, oltre il dolore, 
è più che un bene.
Le angosce allora io ne dirò, il furore,
le pene;

che sono la tua Eco, ed il segreto
è in me delle tue paci.
Del tuo pensiero quello ti ripeto
che taci.

 

 

 

               QUARTA FUGA
                    (a due voci)

Sotto l´azzurro soffitto è una stanza
meravigliosa a noi viventi il mondo.
A guardarla nei cuori la speranza
e la fede rinasce. Da un profondo

carcere ascolto. Tutto in lei risplende,
nuovo e antico: ogni vita al suo cammino
prosegue lieta, e ad altro più non tende
che ad esser quale ti appare. Il destino

fu cieco e sordo; io dentro una segreta 
mi chiusi, dove l´un l´altro tortura
nell´odio e nel disprezzo. E chi ti vieta
d´uscirne, e qui goder con noi la chiara

luce del giorno? Oh tu, che troppo sai
farti del mondo una bella visione,
hai mai sofferto di te stesso? Oh assai,
oh al di là di ogni immaginazione! 

                NONA FUGA 
                  (a due voci)

Cielo che splende dopo l’ uragano
più terso;
bimbo che trova la materna mano,
ch’ errava sperso;

tale io mi faccio, se da me il dolore 
vien tolto;
e la felicità torna al tuo cuore,
e sul tuo volto.

Ma come un’ ombra in me rimane, un mesto
pensiero.
Anch’ esso, credi, anch’ esso come il resto
è passeggiero.

No, che in me potrà solo con la morte 
passare;
sì che dovresti la tua umana sorte
ancor più amare.

Noi gli effimeri siamo, e siamo quelli 
cui tocca
maggior grazia? Un mio bacio ti suggelli
ora la bocca.

Dov’ eri, che più baci non mi davi,
fuggita?
Non sono quella che un tempo tu amavi,
la calda vita?

che più fugge chi n’ è più disperato
amante;
che nel petto il suo artiglio t’ ha piantato
più straziante;

che in me la voluttà, l’ amore ardente
profonde;
e se ti lagni, oh come dolcemente
l’ Eco risponde!

             UNDICESIMA FUGA 
                       (a due voci)

La vita, 
come per me più inclina al suo tramonto,
più pronto
trova alla gioia il mio danzante piede.
Da quali abissi il cielo mi rivede?
O forse un nuovo mi sorrise antico
affetto?

Diletto 
fu ad altri il giorno, a noi la mesta sera.
Torna l’ anima mia, per lei, qual’ era
un tempo.

D’ un tempo
alle lacrime torno ed al sorriso. 
Ucciso
forse ho il triste pensiero a me funesto
sì lungamente? Non è, ahimè!, che questo
che la vita mi fa sì dolcemente
amare?

Cantare
io devo dunque un inno alla vittoria;
altri al tuo capo il serto della gloria
imporre.

Se torre
mi vuoi di colpo alla conquisa gioa, 
che muoia 
in te il mio canto incominciato appena,
parla di gloria a me, della sua pena.
Il prezzo che per noi grida il mercato
ben sai;

né mai 
più saggia d’ ora m’ apparivi e scaltra.
Nasconderti in te stessa, è questa un’ altra
tua grazia.

Io sazia 
mai non sarò di udire le mie lodi, 
se m’ odi
tu, se sei tu che mi rispondi. Invano
ci mesceremmo alla folla; ogni umano
spregio sarebbe contro noi rivolto,
sorella.

È bella
la nostra solitudine. Ma pure
sento in essa echeggiar le altrui sventure
più grandi.

Espandi 
la materna pietà tu in ogni accento,
che spento
non ricade nel nulla. Io qui t’ ascolto;
che t’ importa del resto? Una di volto
e d’ animo noi siamo, una nell’ altra
beate;

rinate
una nell’ altra. E il nostro amor profondo
è pure un dono che facemmo al mondo
noi sole.

Chi vuole
cosi non so, ma una forza fatale 
il male
sempre al bene rivolge. Or fu abbastanza
detto di questo; all’ intima esultanza
ritorni il canto, che la notte è forse
vicina.

Turchina
è ancor la volta del cielo, ma gli ori
delle nubi già volgono ai fulgori
supremi.

Tu tremi 
a quell’ immagine nostra. Per quanto
fu il pianto
che in passato versammo, che versare
dovremo ancora, or più ci sieno care
le gioie fuggitive e il nostro eterno
affetto.

Diletto 
fu ad altri il giorno, a noi la mesta sera.
Ci fu l’ autunno e non la primavera
propizio.

Propizio 
più della lunga e troppo accesa estate.
Ingrate
saremo dunque alla vita? ed il viso
dove col pianto combatte il sorriso,
non vuoi che ad essa per l’ ultima volta
volgiamo?

Serbiamo 
di questo istante il ricordo, sorella.
Può farci il male meno atroce, e bella
la morte.

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