[I. IV] FRANTUMI
(Limite. Rimpatrio. Tregua. Deserto. Carezza. Rifugio.
Prosa a… Deriva. Non so com´è. Domande. Fuga)
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[I. IV. I] LIMITE
— Ci sono angoscie rapide-vaste come bitume di nubi sopra le valli.
— Avanza avanza…. Avanza! ed ogni cosa è nera. — Ogni cosa è chiara, ogni cosa è nera; ogni cosa è giorno ogni cosa è notte. È notte. È giorno. È chiara… è nera… è nera nera e buia!
— Così è che chiaronero, chiaronero per gli affannosi crepuscoli preme il respiro l’ottuso cielo dell’impotenza e tutti gli sbocchi son sbarri biechi, tutti!
— È come un martello, l’assillo, il pungolo, come un martello sordo l’insopportabile pungolo della maledizione.
— Ci sono, ci sono angoscie rapide-vaste bitumi d’anime martelli pazzi che oltre, via, oltre mi cacciano l’ansimo dei valichi e gli spalanchi dell’ombra.
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— Allora per l’ombra crepuscolare (avanza, avanza!)… allora chiare nere nell’ombra (inghiotte, inghiotte!)… oltre gli sbarri dell’impossibile sono possibili le più impossibili possiblità.
— Svalico i valichi della realtà: — son lingue d’alighe le vostre ancore, son soffi-brezze i vostri muri, è scatenata ogni prigione, è sprigionata la libertà.
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— Ora mareggia l’irrealtà, ora è slegata la schiavitù, non c’è più legge, non c’è mio padre non ci sei tu, ora è disciolta ogni pietà: — rompono febbri di terribilità ed è stravinta la realtà
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— Ci sono angoscie vaste-inghiottenti, ci son bitumi d’ombre di cumoli, che la pazzia trabocca le dighe (rompe trabocca, è nera la piena!) che la pazzia ghigna e dilania, romba e gorgoglia ohimè.
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[I. IV. II] RIMPATRIO
— Quando coi neri voli, abisso silente, ritorno notturno dai Limiti
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— ha il petto ansimi rauchi lentissime onde, e sono bui, gli occhi, pozzi di smarrimento.
— Torbido nell’agonia, è il mio corpo, enorme come di là dalla fine di un profondo mondo nel mare delle caligini.
— Pendono i densi fiati per i tetri Imalaia delle moribonde incertezze, ed isole sommerse rompono tacite-vaste o le vette o le nebbie.
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— L’universo delle angoscie è disteso allora per la bieca immobilità; insensibili voli d’insetti sono le cateratte dei cataclismi.
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— Così i millenni fiottano delle tenebrose doglie, la vita è negli abissi un appena-respiro di sonno…
— Ma quando coi neri voli ritorno notturno-silente dalle lontananze dei Limiti, si levano carezze lievissime brezze, e la dolcezza disnubila.
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— Pullula a volte un pianto come una tepida acqua nel bosco; è buono il disfacimento come riconoscenza d’amico.
— Allora sono le cose, paese di dopo l’esilio; palpo colla mano i colli; il mare e le strade, smarrito li accarezzo come i visi che bacio.
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[I. IV. III] TREGUA
— I giorni della risoluta disperazione con viso di pietra, fisso la ostinata immobilità.
— La voce di chi mi parla, viene di là dal muro.
— Ma nel quietissimo porto dopo il tramonto l’acqua è lustra di madreperla; un vapore rosso ed uno nero fan giù, pei lisci riflessi, i liquidi serpenti.
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— Le cose dintorno son tutte di piuma; scivola a specchio che appena lo senti, un solo piccolissimo guscio.
— Allora è come quando ha piovuto che il mondo, subito par nuovo.
— Si fanno dentro, i pacifici scioglimenti e se mi sdraio la mansueta onda che appena fiata par nella siesta quando il cane, accovacciato, mi guarda, e, buono, a respiri mi lecca.
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[I. IV. IV] DESERTO
— Il tempo dell’adolescenza fu gonfio-ricolmo della calda amicizia, — quand’ero terra d’americhe ricca che avido ciascun vi segnava il suo pezzo.
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— Adolescenza primavera-fervenza d’ogni possibilità! Sei come un bosco; popolosa città. Tutte le strade son buone, tutte le mete! e ciascun che t’incontra fa ressa, vi batte vi cerca la sua.
— Il pregio d’ogni idea era allora d’esser bandiera: ci fasciava a schiera, si marciava in frotta; l’entusiasmo era pane che si spezza alla cena.
— Non v’era né mio né tuo; le case come gli affetti, senza le porte: abbraccio, la nostra sorte, e volersi bene, respiro. Vi furono amici come gelosissimi amanti (vi furono odii e rotture). Devozioni fino alla cecità.
— Ma buono sentir nel buio sbattere cuori, buono l’amore, fraterna la calca! Pullula il mondo, non c’è sabbie di disperazione. — Il tempo dell’adolescenza fu gonfio (ohimè) della calda amicizia…
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[I. IV. V] CAREZZA
— I ripugnevoli tempi che lo sgretolo-frana degli abbandoni, m’ha giù inerte varato per l’immobile belletta del nero disgusto,
— spente onde, giungono a volte le lente sere della malinconia, che vado zitto per l’ombre e, tutto é scordato.
— Quasi in dolcezza, dentro si levano i radi gemiti come il notturno canto del chiù.
— M’allacci allora senza parola, t’appoggi allora così lievemente, che appena ti sento, appena…. Vuoi dir che ci sei?
— Ma torno piano dalla lontananza, ma tocco piano il dolce viso, guardo i fedeli occhi che guardano me.
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[I. IV. VI] RIFUGIO
— Son così punta di lama gli occhi che incontro! I sorrisi-saluto li veggo a volte sogghigni.
— Come i galeotti rasati striscio sgomento pei muri e a tutti gli spigoli urto.
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— Smarrito arrivo allora al tuo sereno cancello come a un verde porto, nell’al di là;
— ma entro smarrito allora pel tuo verde cancello come nel queto porto, della serenità.
— La fresca frescura di casa ci sta, sei come l’acqua chiara che diguazza alla spiaggia laggiù.
— Così così mi ruscelli di chiarità, che il ghigno maligno del mondo io non lo sento più!
— Parli così minuto di cose bambine, tutte nuove e piccine, che l’altre vecchie e buie, lontane mi paion di un mondo che fu.
— La storia-gorgheggio del tuo lucherino, verde e giallino, che appeso al muro, i passeri chiama di là dal giardino, così innamorato così desolato della sua prigionia,
— val bene, oh val bene la triste storia che non ricordo più!
— Il tuo quadrifoglio nel suo vasettino, così delicato così coronato di fulvo e verdino, che chiude a sera l´ali di farfalla sul gambo lungo e spoglio,
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— val bene il nero con loglio che ormai non strappo più.
— Ormai il dolore fu; per me non conta più; sopra i giardini, dentro l’azzurro, è come un vago fumo che fa pennacchio giù, — o è poco più dell’ombra (nera un po’), di quelle nubi sole di lassù.
— Ora anch’io sorrido in chiarità, e che ho un tesoro verde che sei tu, un porto chiaro-queto al di là, una serena riva tutta per me, riso-rifugio chiarito di te, zitto lo sconderò a quei laggiù.
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[I. IV. VII] PROSA A….
— Le tue domande sono i perchè dei bimbi: l’acqua di fonte colla sua borraccina ti fa venir sete, e subito vi tuffi la mano. Allora l’acqua di mare così tanta com’è, mi chiedi perchè non ti vien voglia di bere.
— Ma nell’acqua di mare quelle biscie chiare quando è in bonaccia e il fondo, di su dagli scogli, lo vedi com’è, quelle anche ti piacciono che non quetano mai.
— Però le cose che piacciono a te son quelle che ecco ci sono, e non ci sono più: la spuma che ride via…. e c’è di nuovo il blu!
— Le bolle di sapone quando le fa la bimbetta del giardino di sopra, così lustre-leggere, così zitte-farfalle! le segui a respiro sospeso e quando subito scoppiano batti le mani.
— Le gioie improvvise che non sai perchè, quelle subito t’alzi e scintilli; ma è più di tuo gusto quel riso sereno di quando hai pianto, che io t’accarezzo.
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— Le lacrime senza ragione quando non c’è nessuno, che poi io vengo e gli occhi gli hai di rugiada ed il fazzoletto lo scondi, sono le più buone lo so, ed il cuore è subito come quando ha spiovuto.
— Ci sono i giorni delle lente malinconie, guancia alla palma sul tuo sedile, ma così dolci ma così lievi che la rondine ti guizza vicina col suo grido che punge e via se le porta.
— Le cadenze lontane delle canzoni, che si sentono non si sentono, subito ti fermi in ascolto. Credi che non sappia che ti fa lacrimare sola da te nel tuo letto, quando vengono la notte sotto le finestre zitti, e la serenata si leva?… — come un bisbiglio sì leva, come un bisbiglio ne va.
— Le cose che piacciono a te son quelle che ecco ci sono e poi non son più; i pianti che inventi al piano sono domande brevi, sussurri di notte, lamenti di brezza, e le dici ripeti da te tutta una sera, perchè risposta non c’è. I tasti bianchi e neri li tocchi appena appena; allora, se entro, tengo il respiro, cammino da non svegliare.
— Quella musica così primavera, canto d’angioli così da svenire, all’alba di pasqua rugiada la musica che dice nel Faust: «or la natura si desta all’amor!» m’hai detto una volta che è la più bella, che proprio tutti i giardini mettono i fiori.
— Ma le musiche che cerchi da te, quando dall’orto t’ascolto (vengon da sé, non si sa come!) muoiono di dolcezza subito, c’è dietro lo sconfino dell’ansia. Son come lucciole, le accendi e le spegni, le appendi a un filo lucente nell’infinito. — Son quelle perle di nubi sottili, soffi dell’iride, perline di velo nel tramonto sereno qua e là, che ecco ti volti e non ci sono più.
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— Sei così soffio, così iride-soffio, e cristallo sottile che mi dai la vertigine della fragilità. — Ma la ragione che t’amo è che dilati a volte gli occhi di disperata passione e la morte ci passa vicina. Dici con voce di groppo allora: — Abbandonami! Fammi del male perchè io sia perduta. Battere il capo nel muro! Ho voglia di disperazione.
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[I. IV. VIII] DERIVA
— Mi piaccion gl’indolenti meriggi ch’una lentissima nenia ti scande la siesta, e, scavi deserti sono le piazze in barbagli.
— La impalpabile nebula assonna colli e marine, d’una bianchiccia malinconia: par che tutto si culli in una placida culla d’insensibilità.
— Armo allora piano la pendula vela e senza fiato di fiato, immobile scivolo nell’immobilità.
— Sciacquan sospiri di liquidità, fiottano l’ore dell’eternità, soffice lenta ogni cosa si sfa, e in lisci silenzi d’impassibilità si va non si va.
— Sono le spiaggie di là dai pensieri, son gli orizzonti di là d’ogni meta (molli le scotte, lasci il timone, la vita abbandoni…) dove si sia nessuno sa più, dove si vada nessuno sa più, cosa si voglia nessuno sa più, che il mondo sia nessuno vuol più. Alla deriva, senza memoria, senza respiro, sospesi in nulla si va non si va, per l’indolente insensibilità.
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[I. IV. IX] NON SO COM’È
— Quando la sera mi corico, è così placida l’ombra e così buono il sonno! Ma ora com’è, ora com’è? Nel buio un gemito, gonfia con freddi brividi.
Non so com’è: nel nulla nero un gemito!
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— Si fanno andando a volte i pacifici discorsi; e dico fra me sereno: «Siamo due amici». Ma ora com’è, ora com’è? Ridi improvviso un riso strano e chi tu sia non so.
Non so com’è; ma chi tu sei non so!
— Ci sono luoghi su per i colli, così belli e queti! Mi quetano l’ansimo, mi danno respiro. Ma ora com’è, ora com’è? Si sfanno inquieti, non li ritrovo; – palude mobile son sprofondati.
Non so com’è: paurosamente sono mutati!
— Né triste né lieto par di conoscermi: – vivo i miei giorni. Sopporto l’andare e duro il durare; qualcuno l’amo. Ma ora com’è, ora com’è? Rompo catene, butto ogni cosa son chissachì, – non amo più.
Non so com’è; lascio ogni cosa, non amo più!
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[I. IV. X] DOMANDE
— A volte si va io e te con sì deciso passo per via! Zitti, il tuo viso è intento: non si vede la gente, e diritti si va.
Fiera la risoluzione cadenza d’accanto uno dué, uno dué! Siam pieni e d’accordo: siam pronti.
— Ma pronti a far che?
— Alla porta di casa la risata del campanello lacera talvolta così improvvisa lo strateso spasimo dell’ansia! Per me, per me! Ma non è mai per me.
Sul tic-tac della febbre l’ora che scocca par sempre in sgomento la mia. — Ma ora di che?
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— Mi piglia uscendo talora ai crepuscoli per le vie stranote, il bizzarro ansimo dell’avventura. — Subito butto il mio nome e sono slegato; a mille miglia spatriato, e chi si ricorda o di me o di te?
Aspetto allora l’inaspettato, cerco ricerco e vado, voglio veder che c’è. — Ci sono strade, c’è giù un porto, ci sono le navi ci sono i moli; e in cima ai moli un orizzonte. Ma all’orizzonte, chissà poi che c’è?
— I paesi che sogno la notte non ci son stati mai. Ci torno ogni notte e non ci son stati mai. Son paesi di mai, tutti di ombre e di lai! E me li sogno quasi ogni notte chissà perché!
Ecco: c’entro di notte e vi attendo un che!… C’è una strada zitta, e in fondo… non so che: io lo rincorro sempre, però non so dov’è. — Così è! Così è! Ogni cosa si sta lì così com’è, par che inerte aspetti quel che è. — Io solo, io solo, l’angoscia mi dilania, non so di che!
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[I. IV. XI] FUGA
— Le paurose bonacce dell’immobilità, che magico il mondo pare un vano rispecchio di lago: è, non è? e il respiro è sospeso,
—improvvisa le spazza la frescata levante e l’ansimo degli spazii mugolando dissacca.
— Fugge la bianchissima spuma, innumerevole riso; verso i ponenti allora trionfa in regali beccheggi la più nuova nave.
— Mani in conchiglia, presto, alla bocca: Nave mia nave ohè! nave mia nave ohilà! – Lustran per l’acque i fianchi neri: proprio ne sento il risciacquo, proprio le sartie le conto… con balzo allora pel bordo l’abbranco! Torreggian gonfi i pennoni e fiuto catrame. – Così mi distendo in coperta e lascio che vada.
— Addio addio voi bocca aperta laggiù! Addio il padre e la madre, gli amici l’amante! prigioni decrepite, vecchissimo mondo. Panciallaria mi stendo in coperta e tra castelli di vele le nuvole pazze fuggono.
— Ohi toh! e credevano d’avermi inceppato! Con cambiali d’affetto, collegi di consuetudine, mi trattavano per credito e debito. Ma l’effetto è un pallon di papavero, e il vento via lo soffia! Sì forte crepitano, sì tese gemono le rande e i fiocchi, che i vostri fievoli gridi laggiù, fazzoletti agitati nessuno li ascolta più. E addio, addio!
— Che strepito il mare, che balli dai bordi! La pianura turchina, s’innalza e s’inchina; vi solchiamo una scia di spumosa allegria, e scarmigliati si va.
— Tutto il mondo è scarmigliato, l’universo è liberato, ogni schiavo scatenato; il gabbiano grida ohé! e la ciurma canta ohilà!
— Allor giunge l’al di là, veggo rive con città, corre il mondo per di qua: vien la Spagna vien l’Australia, passa l’India con il Gange, l’Imalaja veggo già (chi ci pensa a voi laggiù!) tutto selve tutto brezze, è il paese-libertà.