[I. IX] CIRCOLO
Quanto al giorno, troppa questa luce! smarrito ci svolazzo come la civetta. Per qua, per là, fan lapazza mascherata, gli uomini le cose: ci urto come a spigoli! E che son mai, qui in mezzo io? Son uno che si tiene dal piangere. Tutto d’ammacchi e angoscia, cerco così i cantucci e le vie deserte.
Il mio giorno lo passo a sospirare la notte.
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— Ma, solo, la notte! e chi la può vegliare? quando si sbenda ogni piaga. Perchè non si veda c’è il buio, questo mio viso di morto; e il sonno c’è per non più sentire.
Ma, sciolto, si torce ogni viscere; ogni vergogna si stana, quand’io più non comando. Allora il mondo fa orrore: una carcassa che brulica. Allora il mondo profondo è una piaga profonda, e fa orrore e pietà.
Così la luce nasconde: è una benda; ma il sonno è un oppio appena, per questa cancrena! — La mia notte, in ansia la passo a sospirare l’aurora.
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— Di che desideri, pura, trema l’aurora, sempre di nuovo sorgendo? Dal profondo sepolcro Lazzaro ecco, ad ogni mattina! Fresco subito il cuore, come le cose è di perla; vergini, son come di un bimbo le membra. — Chiara la preghiera, allora, si versa come la fontana; ad uno ad uno gli oggetti (son d’aria?) corro a mirarli; presto ad una ad una le piante con palma amorosa le palpo: son vive! Le lucide foglie le bacio. Oh! qui ancora, tu, sogno? qui ancora, realtà?
Tempo di germoglio, o aurora di speranza, la tua promessa non è compimento? il tuo limpido fiore, più dolce di un frutto. — Oh, mai maturasse il tuo frutto; sempre sospesa, la serena aspettanza, per sempre durasse!
Ma il giorno ch’è nella aurora, sempre è l’atteso; sempre ohimè! sull’aurora son certo di un giorno.
— Cosi pel vivo mattino è agile andare; essere il nuovo padrone del nuovo giardino!
Svelto, con occhio cordiale, ispeziono la vita; per dire: «va bene!». Su, giù per le vie, le mani che stringo sono sigilli; i discorsi che ascolto sono persuasioni. Allora le risa, gli idilli, la gente che va, le faccende; i carri, i mercati, l’umido cielo fra i tetti e le corbe colme dei frutti, sono aperte parole; gli occhi, i cuori, i segreti, tutti son chiari poiché la brezza respira; gli intrichi del mondo li corro come i viluppi dei vicoli.
O mattino felice, alveare! Leggere le opere son come giochi; come un riso d’argento, sfuggono all’uomo!
Senza pensieri, mattino quando sereni si va e non si chiede la meta, oh mattino fanciullo come presto ti rughi!
Così, cipiglioso, ti dai l’aria da grande: appena il confuso compagno, lo saluti col cenno! e la gioia è lontana come il tempo di scuola. Finché opaco, tutto di cruccio, ciò che tu fai è comando; dici: «questo è davvero!» urtando mi dici: «ognun la sua via!»
— Allora la strada che imbocco, lento, è la mia; queta, tra i muri degli orti, un ciuffo di canne, bisbigliando ci spia: i cespi di rose, bianchi, qua e là, si sfogliano giù; — e va al camposanto. Quando, pian piano, ci arrivo, non entro, mi sdraio, fa buono, al sole aspettando, zitti, di starsene lì. — Netto è il silenzio così, che un trillo lo punge; e l’aria è pulita. I dorsi dei colli, gli ulivi, tranquilli fanno da siepe: — il mondo che fa? fa ressa al di là. Se, vago, lo guardo, con gli occhi di oggi ci veggo il giorno di ieri.