3.13 Nenia
Con la valigia in mano, mi lanciai, gridando, sul treno che già si scrollava per partire: potei a stento afferrarmi a un vagone di seconda classe e, aperto lo sportello con l’ajuto d’un conduttore accorso su tutte le furie, mi cacciai dentro.
Benone!
Quattro donne, lí, due ragazzi e una bimba lattante, esposta per giunta, proprio in quel momento, con le gambette all’aria, su le ginocchia d’una goffa balia enorme, che stava tranquillamente a ripulirla, con la massima libertà.
– Mamma, ecco un altro seccatore.
Cosí m’accolse (e me lo meritavo) il maggiore dei due ragazzi, che poteva aver circa sei anni, magrolino, orecchiuto, coi capelli irti e il nasetto in sú, rivolgendosi alla signora che leggeva in un angolo, con un ampio velo verdastro rialzato sul cappello, speciosa cornice al volto pallido e affilato.
La signora si turbò, ma finse di non sentire e seguitò a leggere. Scioccamente, perché il ragazzo – com’era facile supporre – tornò ad annunziarle con lo stesso tono:
– Mamma, ecco un altro seccatore.
– Zitto, impertinente! – gridò, stizzita, la signora. Poi volgendosi a me con ostentata mortificazione: – Perdoni, signore, la prego.
– Ma si figuri, – esclamai io, sorridendo.
Il ragazzo guardò la madre, sorpreso del rimprovero, e parve che le dicesse con quello sguardo: – «Ma come? Se l’hai detto tu!» – Poi guardò me e sorrise cosí interdetto e, nello stesso tempo, con una mossa cosí birichina, ch’io non seppi tenermi dal dirgli:
– Sai, carino? Se no, perdevo il treno.
Il ragazzetto diventò serio, fissò gli occhi; poi, riscotendosi con un sospiro, mi domandò:
– E come lo perdevi? Il treno non si può mica perdere. Cammina solo, con l’acqua bollita, sul biranio. Ma non è una caffettiera. Perché la caffettiera non ha ruote e non può camminare.
Parve a me che il ragazzo ragionasse a meraviglia. Ma la madre, con un fare stanco e infastidito, lo rimproverò di nuovo:
– Non dire sciocchezze, Carlino.
L’altra ragazzetta, di circa tre anni, stava in piedi sul sedile, presso il balione, e guardava attraverso il vetro del finestrino la campagna fuggente. Di tanto in tanto, con la manina toglieva via l’appannatura del proprio fiato sul vetro, e se ne stava zitta zitta a mirare il prodigio di quella fuga illusoria d’alberi e di siepi.
Mi voltai dall’altra parte a osservare le altre due compagne di viaggio, che sedevano agli angoli, l’una di fronte all’altra, tutte e due vestite di nero.
Erano straniere: tedesche, come potei accertarmi poco dopo udendole parlare.
Una, la giovane, soffriva forse del viaggio: doveva esser malata: teneva gli occhi chiusi, il capo biondo abbandonato su la spalliera, ed era pallidissima. L’altra, vecchia, dal torso erto, massiccio, bruna di carnagione, pareva stesse sotto l’incubo del suo ispido cappelletto dalle falde dritte, stirate: pareva lo tenesse come per punizione in bilico su i pochi grigi capelli chiusi e impastocchiati entro una reticella nera.
Cosí immobile, non cessava un momento di guardar la giovine, che doveva essere la sua signora.
A un certo punto, dagli occhi chiusi della giovine vidi sgorgare due grosse lagrime, e subito guardai in volto la vecchia, che strinse le labbra rugose e ne contrasse gli angoli in giú, evidentemente per frenare un impeto di commozione, mentre gli occhi, battendo piú e piú volte di seguito, frenavano le lagrime.
Quale ignoto dramma si chiudeva in quelle due donne vestite di nero, in viaggio, lontane dal loro paese? Chi piangeva o perché piangeva, cosí pallida e vinta nel suo cordoglio, quella giovane signora?
La vecchia massiccia, piena di forza, nel guardarla, pareva si struggesse dall’impotenza di venirle in ajuto. Negli occhi però non aveva quella disperata remissione al dolore, che si suole avere per un caso di morte, ma una durezza di rabbia feroce, forse contro qualcuno che le faceva soffrir cosí quella creatura adorata.
Non so quante volte sospirai fantasticando su quelle due straniere; so che di tratto in tratto, a ogni sospiro, mi riscotevo per guardarmi intorno. Il sole era tramontato da un pezzo. Perdurava fuori ancora un ultimo tetro barlume del crepuscolo: ora angosciosa per chi viaggia.
I due ragazzi si erano addormentati; la madre aveva abbassato il velo sul volto e forse dormiva anche lei, col libro su le ginocchia. Solo la bambina lattante non riusciva a prender sonno: pur senza vagire, si dimenava irrequieta, si stropicciava il volto coi pugnetti, tra gli sbuffi della balia che le ripeteva sottovoce:
– La ninna, cocca bella; la ninna, cocca…
E accennava, svogliata, quasi prolungando un sospiro d’impazienza, un motivo di nenia paesana.
– Aoòh! Aoòh!
A un tratto, nella cupa ombra della sera imminente, dalle labbra di quella rozza contadinona si svolse a mezza voce, con soavità inverosimile, con fascino d’ineffabile amarezza, la nenia mesta:
Veglio, veglio su te, fammi la ninna,
Chi t’ama piú di me, figlia, t’inganna.
Non so perché, guardando la giovine straniera, abbandonata lí in quell’angolo della vettura, mi sentii stringere la gola da un nodo angoscioso di pianto. Ella, al canto dolcissimo aveva riaperto i begli occhi celesti e li teneva invagati nell’ombra. Che pensava? Che rimpiangeva?
Lo compresi poco dopo, quando udii la vecchia vigile domandarle piano con voce oppressa dalla commozione:
– Willst Du deine Amme nah?
«Vuoi accanto la tua nutrice?» E si alzò; andò a sederle a fianco e si trasse su l’arido seno il biondo capo di lei che piangeva in silenzio, mentre l’altra nutrice, nell’ombra, ripeteva alla bimba ignara:
Chi t’ama piú di me, figlia, t’inganna.