Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Nonna Lidda

Il Signore, la gna’ Lidda, pareva avesse voluto metterla alla prova con tanti malanni che le aveva mandati. Era vedova e povera; e, come non bastasse, la nuora era morta e il figlio aveva la testa alla Mèrica. Di tutto questo dirupio le era rimasto Nenè soltanto; la nuora buon’anima, glie l‘aveva lasciato che manco poppava bene, tanto che la sera in cui dovette portarselo a casa fu per la gna’ Lidda un vero sbigottimento. Nessuno aveva pensato a un po’ di latte nella trista confusione; e lo mantenne tutta la nottata con una pezzolina inzuppata d’acqua, mentre il cuore le si stringeva a sentir piangere di fame quella creatura.

Poi, dopo poco tempo, il figlio volò in America.

— Te lo lascio — le disse, — come hai allevato me, alleva mio figlio.

Laggiù e senza mamma, quell’anima di Dio sarebbe morta di sicuro. E il pensiero del piccolo non dette tempo alla vecchia di piangere per il figlio che partiva. Non poté neanche accompagnarlo a Santo Stefano, e lo seguì a pena sino al Rosario — gli vide svoltar la cantonata con gli altri giovanotti, lo salutò con la mano, da lontano, sin che poté vederlo, ché lui si voltò tre volte, col sorriso sulla bocca e col viso sbiancato, e subito poi s’avviò verso casa, curva nella mantellina nera, a ritrovare il piccolo lasciato nella zana. Altro che piangere, con quella creatura che ora aveva fame, ora strillava senza un perché, e ora voleva esser mutata! La gna’ Lidda sentiva una gran tenerezza a coricarsi col piccino accanto; e certe volte, nella notte, svegliandosi per una subitanea paura di soffocarlo nel sonno, le pareva proprio di esser tornata giovane e aver accanto il figlioletto. Tempo beato, quello! E sospirava forte col cuore tanto gonfio di tristezza che pareva non capisse più nel petto.

Quel piccolino era un’ansietà continua. Dovette svezzarlo presto, non potendogli comprare ogni giorno tanto latte da nutrirlo, e lo abituò alla pappina di pancotto, di pastina fine fine. Gli dava il bagno tutt‘i giorni, come i signori, e lo mutava spesso, poi che a lavargli le robe non le costava nulla; era quello il suo mestiere.

Faceva pena veder la gna’ Lidda, a quell’età, andare a Buscardo con la cesta del bucato in testa e il bimbo in collo. Prendeva la biancheria dai signori, la riportava, sempre con Nenè in collo. E Nenè si buscava ora una zolletta di zucchero, ora un pugno di riso per la pappina, ora le vesticciole smesse dei bambini ricchi. Perché, se la gna’ Lidda era povera, il Signore è grande; e a questo mondo non c’è da disperarsi, e il povero che si contenta di poco trova cibo e aiuti senza saper dove e come, al pari dei passeri e degli storni.

 

Ogni mese, come giungeva la lettera dalla Mèrica, andava a farsela leggere da mastro Nitto, il coco del barone don Cesarino, ch’era un brav’omo; e da mastro Nitto stesso si faceva far subito subito la risposta. Il figlio dava buone notizie di sé, cominciava a guadagnar benino, in seguito avrebbe mandato qualcosa, ma ora non poteva; chiedeva nòve di Nenè e mandava a salutar gli amici. Sempre le stesse lettere e le stesse risposte. Ma la gna’ Lidda aspettava con premura grande, e se il postino tardava d’un giorno, si disperava. Mentre il coco le scriveva la risposta, essa lo stava a guardare coi suoi occhietti verdolini, lo guardava nella mano, nella penna sottile che scriveva le parole dettate. Ma scriveva proprio come lei dettava, mastro Nitto? No. Un giorno glie l‘aveva detto:

— Mica si scrive come si parla! Ma però si capisce lo stesso.

Da allora non ebbe più pace la gna’ Lidda. E quando diceva: — che non si curi di me che son povera ma campo. Nenè sta bene e cresce. Ti benedico figlio mio! — tendeva il collo bruno, rugoso, stringendo un po’ le labbra come avesse voluto infondere il suo pensiero nella carta. E ogni volta aggiungeva:

— Avete scritto proprio: ti benedico?

Povero figliolo! Con tutto il cuore la tua mamma che è lontana ti benedice!

E restava a guardare fin che il coco chiudeva la sopraccarta gialla coll’indirizzo stampato — glie la mandava ogni volta il figlio — e impostandola le restava sempre il dubbio che il coco non avesse scritto quel che lei aveva dettato.

Nenè cresceva piano piano, un po’ palliduccio «come tutti i figlioli senza mamma», diceva la stessa gna’ Lidda con angustia. E a poco a poco cominciò a trotterellare, per un pezzo di strada, dietro la nonna che lo spiava e a pena lo vedeva stanco si chinava, allungava un braccio e se lo metteva in collo. E Nenè, per non pesare — di già capiva tanto — le avvinghiava le braccine al collo. Poi crescendo ancora giunse sino a Buscardo tutto solo. Allora la gna’ Lidda cominciò a respirare. Meno cure, meno fastidi. Si levavan presto presto, chiudevan l’uscio, e con una pagnotta nel cesto e due lattughe si mantenevan sino a sera. A sera la gna’ Lidda faceva prendere al piccolo, ch’era delicato, un uovo o una pappina di pasta per non farlo andare a letto con lo stomaco freddo. Lei mangiava la ministra solo la domenica, benché certe volte, nella notte, si sentisse male per la debolezza.

 

In una lettera il figlio le fece sapere che s‘era maritato con una di Patti che in America faceva la stiratrice. Si dispiacque assai, la gna’ Lidda; ora mai con la famiglia nòva non avrebbe più pensato alla vecchia. Ma pazienza, almeno il piccolo, che cresciuto sarebbe stato un appoggio, restava a lei. E sospirando dettò al coco:

— …e benedico anche la tua nuova moglie. Ma non ti dimenticare della mamma, che è povera.

Quel che era fatto era fatto, ed era inutile affliggerlo coi rimbrotti. Rincasando, chiamò Nenè con maggior tenerezza del solito. Soltanto lui le era rimasto; la nuora morta… il figlio in America, senza speranza di rivederlo…

Chi sa che almeno non mandasse qualcosa questa volta che quasi glie l‘aveva domandato!? E aspettò con più premura del solito che finisse il mese, era il mese dei morti, per avere la risposta. Natale era vicino. In cinque Natali non aveva mai mandato nulla. Ma questa volta, chi sa. Aveva sposato, diceva di guadagnar tanto… E lavando ripeteva a Nenè, che accoccolato su un masso giocava coi sassolini della ripa:

– A Natale faremo festa grande. Papà ti manderà una bella cosa.

Non s’ingannò. L’ultimo giorno di novembre venne la lettera, e nella lettera c‘erano tre grossi biglietti, di quelli che la vecchia gna’ Lidda non aveva mai toccati in vita sua. Doveva dirlo a mastro Nitto, adesso, per farsi invidiare e farsi fare il malocchio? Rimpianse come non mai di non saper leggere; ma dovette dirglielo per forza. Ascoltò la lettera col cuore sospeso. Era più lunga e più affettuosa del solito. Ma a mano a mano che il coco leggeva con la sua voce uguale, le labbra della gna’ Lidda s’assottigliavano e si scolorivano. Un momento s’appoggiò al muro, parendole che la casa le ballasse intorno. E come il coco ebbe terminato, lo pregò con voce malferma:

— Rileggete, mastro Nitto, ci sarà sbaglio.

No, che non c‘era sbaglio. Aveva letto bene. E lo stesso mastro Nitto, che non si commoveva mai, ripiegò lentamente il foglio, lo rimise nella sopraccarta e guardò con pietà la vecchia lisciandosi la breve barba ricciuta.

— E ora? — disse finalmente nonna Lidda con una voce che non pareva la sua.

Mastro Nitto alzò lentamente le spalle e scotendo la testa disse:

— È suo figlio. Non c’è che fare…

Ma così, tutt’in una volta? E senza lasciar neanche un mese di tempo? Forse compare Tano era in viaggio, forse era già in paese. E insieme a compare Tano lui non poteva venir a veder la mamma? Richiedeva il piccolo così, come niente fosse. Scordandosi che se l‘era cresciuto lei, povera vecchia, con la sua fatica, che glie l‘aveva lasciato quant’un gattino! Non lo sapeva lui che schianto le dava, oh, figliolo disamorato! oh figliolo sciagurato!

E taceva la vecchia, e nella mente le turbinavano tanti pensieri sconvolti, guardando mastro Nitto con i piccoli occhi asciutti: solo, alzandosi e riprendendo la lettera, mormorò:

— Sia fatta la volontà di Dio. Potessi almeno piangere!

Ma non poteva. La gola asciutta pareva legata con una fune.

 

Compare Tano era in paese. Passava il Natale coi parenti e voleva subito ripartire. La vecchia fece Natale col pianto nel core; pure si fece forza e volle rallegrare almeno quello del piccolo. A desinare gli dette il brodo di gallina e i dolci. Lei non poté toccar cibo, ma si sentì sazia solo a veder mangiare Nenè con tanta gioia. Gli comprò uno zufoletto e un carrettino di legno. Gli lavò tutto il corredino, rimendò qui dove c‘era uno strappo, attaccò un bottone lì dove mancava, e poi, scelti i pezzi migliori, glie ne fece un fagottino; c‘era le camicine di flanella, le scarpette nuove, il vestitino della festa, il primo vestitino da omo che l‘era costato tre bucati…

Nel fagottino mise anche l‘abito della Madonna delle Grazie — dicevan che laggiù fossero senza religione — e all’ultimo vi aggiunse anche lo zufoletto di Natale perché il piccolo si ricordasse poi della nonna lontana. Povero piccolo, chi sa se l‘avrebbero curato come lei l‘aveva curato! Poi aspettò che compare Tano venisse a prenderlo. Venne, la sera di Santo Stefano; una serata grigia come il piombo: s’affacciò sull’uscio, imbacuccato nel ferraiolo nero, col cappello a cencio sugli occhi:

— È pronto, comare Lidda?

Nonna Lidda gli porse senza parlare il fagottino; aveva paura a aprir bocca perché le parole sarebbero uscite senza regola. Poi prese il bimbo in collo.

— Copritelo bene.

Allora cercò lo scialle nuovo a colore, che non aveva portato mai. Vi avvolse il piccolo così che appariva soltanto la faccetta rossa e gli occhietti neri e vispi, come un passeretto.

Lo baciò sulle piccole gote, con un bacio forte forte che sapeva di pianto. Ma non piangeva. Lo mise in braccio al compare che lo prese con delicatezza perché capiva la pena della nonna. Solo quando vide che l’uomo voltava, col fagottino sotto, e il bimbo nel ferraiolo, gridò:

— Compare Tano, ve lo raccomando!…

E restò a guardare, con le mani ossute nei capelli grigi scompigliati dalla tramontana.

 

Andò di qua e di là due giorni, senza pianto, per la stanza vuota; senza saper che fare, pregando Iddio, che le aveva levato ogni cosa, che le levasse anche la povera vita inutile. Poi al terzo giorno, prese il cesto e s’avviò a Buscardo. E guardava a terra, e le pareva di dover sentire nella sua mano la manina di Nenè. Era ancora in viaggio, certamente, e c‘era tanto freddo. Ma gli aveva dato lo scialle, meno male

Una donna la guardò, e disse a Nino il carrettiere che passava:

— La gna’ Lidda pare intontita quest’oggi. Va come un corpo senz’anima.

Sofflava il vento che sferzava le carni. A Buscardo era tutto grigio e l‘acqua era gelata. A lavare non c‘era nessuno, perché ognuno aveva avuto paura del freddo. Ma la gna’ Lidda non sentiva niente. Con un sasso ruppe l‘acqua ghiacciata e cominciò a lavare. Le mani le si intirizzivano e non lo sentiva. Restava curva sulla pietra liscia, senza lavare il panno che aveva bagnato.

Pensava: ora che non aveva più bisogno di lavorare, ora al piccolo che viaggiava ancora sul vapore, nello scialle nuovo. Chi sa se compare Tano gli badava… Essa non glielo aveva raccomandato…

Verso sera Nino tornava nel suo carretto, con la testa avvolta nello scialle, frustando il mulo per non gelarsi. Passando per Buscardo fu caso se guardò verso la ripa dove c‘era una cosa che pareva un cristiano messo a giacere. Stupìto e curioso andò a vedere da vicino e si fece la croce, raffigurando la gna’ Lidda bocconi stecchita sulla pietra liscia.

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