Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Dopo le serenate

La bon’anima di Cola Burgio aveva lasciato a Melina, ch’era l‘unica sua nipote, tutte le masserizie così come si trovavano, coll’obbligo di lasciarle godere alla vedova fin che vivesse.

Però Melina e la madre, con la scusa di dar cura e compagnia alla vecchia, facevan la guardia alla casa — la madre ci restava tutta la giornata, la figlia veniva la sera e se n’andava al mattino — per paura che don Tanu e don Vincenzo, i nipoti della vecchia, facessero sparire qualche attrezzo e, chi poteva fidarsene?, magari qualche mobile.

La vecchietta si sentiva più tranquilla da quando s‘era messi in casa que’ due pezzi d’uomini gravi e posati che la sera giravan per la casa, frugando in ogni canto e inchiavacciavan la porta. Solo così poteva dormire sicura, e solo così poteva sopportare la compagnia di quelle benedette donne che non la lasciavano sola e in pace manco un minuto.

Melina dormiva a canto al suo letto, nella sua camera, e i nipoti nella stanza appresso, quasi dietro la porta. Certe volte nella notte, si sentiva un tremulo accordo di chitarre giù per ‘l vicoletto e poi si levava una voce alta e sonora:

Bella, avanti ‘sta porta nun ci stari
Ca l’òmini di pena fai muriri;
Li capidduzzi toi nun li ‘ntrizzari
Facci ‘na scocca…

Allora don Tanu spalancando di furia la finestra, s’affacciava in camicia ingiuriando i sonatori:

— Ve n’andate? Sangue di…

Le chitarre tacevano, don Tanu richiudeva la finestra; e dopo poco la serenata ricominciava tra le risate dei giovanotti:

Chisti canzuni li cantu pi ttia
Li cantu pi dispettu di li genti,
Chiddi chi n’hannu raggia e gilusia.

— Ve n’andate? Santo e santissimo…! Parola d’onore che vi butto una brocca d’acqua.

Melina tendeva un po’ l’orecchio da sotto le lenzola e ascoltava con la bocca nel guanciale per non farsi sentire a ridere.

La vecchia sonnecchiava; già, lei, ci sentiva poco da molti anni. Quando le vicine le raccontavan ridendo l‘accaduto, si faceva la croce e ringraziava la Madonna per averla ispirata a mettersi in casa que’ due galantuomini che al meno eran sangue suo.

Chi sa che pazzie doveva far quella vagheggina tutta la santa giornata poi che venivano a trovarla fin lassù con le serenate! A casa sua insegnava ricamo per una lira al mese e v’andavan molte ragazze. E le vicine dicevano che quando faceva bel tempo stava col balconcino spalancato, e che sotto il balconcino era un continuo passare e ripassare di sfaccendati col naso all’aria e il berretto sghembo.

La vecchia non poteva soffrirla, questa intrusa che si credeva d‘esser venuta a prendersi il posto della figlia morta. E si raccomandava a tutti i santi, con tutte le giaculatorie che sapeva, quando quella toccava un oggetto che fosse stato toccato o usato dalla morta.

— Gesù Maria, datemi pazienza — biascicava quando la sera vedeva venir la ragazza con la camicetta turchina e i capelli castani rigonfi a pallone, come una signorina.

Era la sua croce; e que’ capelli, poi, l’infastidivano assai, perché Melina voleva sempre lisciarseli allo specchio, e lei, lo specchio voleva tenerlo coperto con un pezzo di panno: vi s‘era guardata sua figlia e non vi si doveva più guardare alcuno. E facevan sempre quella storia: Melina a togliere il panno e la vecchia a rimetterlo con ogni cura.

— Fin che son viva — ripeteva — me lo tengo io come mi pare e piace… Ah, Cola Burgio, Cola Burgio — sospirava poi allontanandosi dallo specchio — pace all’anima tua ch’era bona assai! Ma però mi hai lasciato un bell’osso duro da rosicchiare!

La gna’ Peppa, la madre, aveva più prudenza, la figlia né punto né poco. La sera a cena, dopo ch’eran stati tutti seduti fuori col vicinato, si divertiva a far montare in collera don Tanu. Era felice e rideva sino alle lacrime, senza riguardare all’età, quando lo vedeva soffiare come un vecchio gatto. Don Vincenzo era più posato, e non le rispondeva mai con parole ma con mosse di sprezzo.

Dopo cena facevan la pace. Melina, che stava tra la madre e la vecchia, girava e andava a mettersi dietro le spalle di don Tanu:

— Mi serbate rancore? — diceva con la sua voce chiara e dolce che pareva una musica. Don Tanu scrollava la testa grigia con aria di compatimento.

— Don Ta’, facciamo la pace Non ho voluto offendervi. Come si può andare a letto così? Se viene il terremoto?… dobbiamo morire in questione?

E rideva mostrando i denti bianchi bianchi, e con la bocca le ridevano gli occhi ch’erano a volte chiari a volte scuri. Don Tanu finiva con stringerle la mano, sempre crollando la testa, e la pace era fatta; salvo a ricominciare dopo un po’ per una sciocchezza qualsiasi. Se pure don Tanu diceva: la serata è bella! Melina rispondeva: è brutta!

 

Gli è che non poteva soffrirlo. E pure dovevano stare insieme, perché ognuno guardava i suoi interessi. Se Melina aveva le sue masserizie, gli uomini avevan la casa e tutta la biancheria, che non era poca, e cent’onze in oro. Quelle donne sarebbero state capaci di fare sparire ogni cosa poco alla volta; già la vecchia né ci sentiva né ci vedeva quasi più, sia per l‘età avanzata, sia per quel continuo pensare alla figlia morta. Si rimpiccioliva sempre, e piegava sempre più la testa sul petto. Melina e la madre pensavano:

— Un altro po’, e possiamo ritirare in casa nostra le masserizie.

Pensavano i nipoti:

— Un altro po’, e restiamo noi i padroni.

 

La vecchia un mattino non si levò. Non poteva. Don Tanu andò pel medico, e Melina restò con la madre ad assister la malata. Altro che scuola di ricamo!

La porta restava chiusa, e anche le finestre. Melina usciva nel vicolo solo per comprare il latte, e indugiava a respirare un po’ d‘aria, con la scusa di dar nuove alle vicine Né si udivan più serenate.

Tutti erano preoccupati. Forse la vecchia non si sarebbe più levata. Come fare quando sarebbe morta? Ritirar subito le masserizie?… e il riguardo al lutto? Farle restare un po’ di giorni… e chi poteva rimanere a guardarle in quella casa di uomini?

Che farsene della casa nuda? E che farsene di tutta quella roba senza casa? Don Tanu e Melina non questionavano più, e preparavano il brodo l‘una sospirando, l‘altro crollando la testa.

Una bella sera, di giugno, la gna’ Peppa disse a don Vincenzo:

— Ci vole un lenzolo buono, e la coperta di seta.

Don Vincenzo apri la cassapanca, con una grossa chiave, e prese coperta e lenzolo, che sapevan di spigo. Addobbarono il letto della vecchia, e poi apersero uscio e finestre. Portavano il viatico, e il vicoletto era tutto pieno del canto degli uomini e dei ragazzi che seguivano il prete in cotta bianca. Le vicine s’inginocchiavano al passaggio, e qualcuna pianse; ché la morte stringe sempre il cuore a chi resta, e la vecchia poi era stata una buona vicina e ora moriva, cosi pazientemente e tranquillamente come era vissuta, in una bella sera d‘estate, mentre l’aria era fresca e odorosa di fieno.

Se la dovevan portar via la mattina. Don Vincenzo vegliava nella camera, a capo scoperto, seduto, immobile nel chiarore dei ceri accesi. Le donne e don Tanu erano nella stanza appresso, muti, immersi ciascuno nei propri pensieri.

Che fare della casa senza masserizie? E delle masserizie senza casa?

Melina avrebbe dovuto pensar sul serio a lavorare; in questo mondo non si vive di serenate, e se anche uno di quelli che gliene facevano si fosse offerto per marito era gente che non valeva due soldi. A questo né Melina né la madre ci avevan pensato prima, e neanche i due sabihondos avean considerato che con le masserizie sarebbero andate via le due donne, che tenevan la casa pulita come uno specchio, sapevan tutti i loro versi, e a maggio facevano per don Tanu la frittella di fave e pisellini come poche sapevan farla.

— Se tu le dici di restare, Melina resta… — borbottò don Vincenzo al fratello, che pensava confusamente alla sua età, ai riccioli della ragazza, ai giovanotti delle serenate… E cosi, come se si fossero parlati da prima, s’accordarono con la gna’ Peppa, a voce bassa, tra frequenti sospiri, mentre la ragazza in camera faceva un fagottino delle sue robicciole.

Durante l’anno del lutto, alla casa badò solo la gna’Peppa. Don Tanu vedeva la fidanzata di sera, prendendo tutti assieme un boccone nella stanzetta da lavoro, ché le allieve di Melina andavan via sull’imbrunire. In giugno sposarono. Neanche c‘era stato bisogno di preparare il corredo, perché la vecchia oltre alla biancheria sua aveva lasciato intatto il corredo della figlia morta.

Nel vicoletto non si udirono più serenate. Le sere d’estate sedevan tutti a circolo coi vicini, discorrevano sotto il lampione, e sempre era Melina che faceva sentire più alta fra tutte la sua voce dolce che pareva una musica. Poi rientravano. Don Vincenzo inchiavacciava la porta, e Melina sbadigliando rifaceva il letto, combinato col lettino ch’era stato suo, e con quello della vecchia morta.

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