Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Sotto tutela

Al casino non si parlava d‘altri fuor della signora ch’era venuta a stare nella locanda di Sciaverio, ch’era italiana e si chiamava Klepper, e chi diceva che fosse di Patti e avesse sposato un tedesco, e chi diceva che fosse una certa Mincuzza di Naso che aveva girato tutta Italia facendone di tutti i colori. Ne parlavan con boriosa noncuranza, ma la mattina, passeggiando nel ballatoio del casino che dava proprio di faccia alla locanda, alluciavan per vedere se la signora si affacciasse. Nel pomeriggio i giovanotti le andavan dietro; e molti anziani, anche di quelli che non facevano una camminata da anni e anni, si spingevano lemme lemme fino alla Cappelletta solo per veder la Klepper che faceva lunghissime passeggiate — si diceva fino al casello — con la testa alta e il viso sorridente, tutta vestita di bianco che pareva una statua.

Certuni salivano in locanda, con la scusa di parlar con Sciaverio o di salutar gli ufficiali e potevan vederla da vicino. Sempre per curiosità, — dicevan gli anziani alzando le spalle — così per uno spasso, s’intende…

 

Ma Bobò Caramagna, che passava la vita al casino, ascoltava con avidità i commenti e i sottintesi degli anziani perdendoci la testa. Lui, come se il casino non bastasse, sentiva parlarne dalle sorelle, che vedevan la Klepper attraverso le persiane e restavano incantate dei suoi vestiti pomposi e sfarfallanti, e sentiva parlarne dallo zio che a fin di desinare discuteva con la moglie se la Klepper era dipinta o no, se era imbottita o no, e che non riusciva mai a persuadere né la moglie né se stesso. Bobò non prendeva parte ai discorsi e ai commenti, un po’ perché nessuno gli avrebbe dato attenzione, un po’ perché per lui, la Klepper, era una bellezza mai vista, che uguale non avrebbe saputo sognare; e seguendola verso il Calvario, sin dove gli altri non giungevano, la trovava ogni giorno più bella, specie se la confrontava con le signorine del paese, che s’incontravan la domenica, dai visetti troppo pallidi o troppo coloriti, dai capelli lisci che pendevan sulla fronte a pena c‘era un po’ di vento. La Klepper, passando fra loro, — così alta, ben fatta, dai capelli ricciuti e col petto e i fianchi bellissimi stretti nel vestito bianco che la modellava come una statua — era una meraviglia. Più Bobò la vedeva e più s’imbietoliva e rifuggiva gli amici, rimuginando fra sé, cupo e taciturno, qualche mezzo per conoscere la signora. E intanto la seguiva disperatamente, sperando di esser veduto, guardandola cogli occhi imbambolati e strofinandosi il naso col fazzoletto spiegazzato: ma la Klepper non lo vedeva. Un mattino si decise a scriverle un biglietto che pensò anche di profumare coll’essenza di rosa delle sorelle; un biglietto in cui cacciò tutte le frasi che gli vennero in mente, lette chi sa dove, in cui — paragonando lei a una fata, a una dea, a un fiore, a una nuvola bianca che doveva pur commuoversi e sciogliersi su di lui che era la roccia arida e assetata — chiedeva pietosamente uno sguardo.

 

 

E nel pomeriggio si fermò allo chalet ad aspettar lo sguardo; ma la Klepper gli passò davanti senza vederlo. Cose da morire!

Pure seguitò a andarle dietro, quel giorno e tanti altri ancora, solo come un matto, col viso giallo, e al ritorno d’ogni passeggiata andava a buttarsi su un divano del casino, in un cantuccio mezzo al buio, per sentir parlare della Klepper.

Un pomeriggio la seguì piano piano, oltre il casello, dove la strada, sotto le colline brulle, si prolungava larga e deserta; camminava piano piano e quando lei si voltò per tornare, egli seguitò un’altra decina di passi e tornando la trovò ferma che guardava coll’occhialetto il mare lontano incassato fra i monti; dovendo passarle davanti e trovandosi in campagna si rammentò che poteva scappellarsi.

Bonjour, monsieur! — sentì rispondersi.

Bobò che avrebbe dato la vita per fermarsi, non essendovi occasione migliore, s’avanzò lentamente.

— Lei — disse la signora fissandolo con l’occhialetto — dev‘essere il nipote del barone Caramagna.

— Sì, per servirla! — rispose Bobò con voce rauca, fermandosi di botto come una marionetta.

— Ho sentito parlarne da Sciaverio. Bello questo panorama — aggiunse la signora — e bellissimo il paese. Peccato che siate tanti orsi. Le signore escon poco.

— Già. Escon poco.

— Non c’è modo di fare una conoscenza. Ci si annoia mortalmente. Ci fosse almeno una biblioteca, dei giornali!

— Se vuole dei libri… — disse Bobò con un tono di voce come se avesse fatto una scoperta. E si cacciò rapidamente le mani in tasca, ma pensando che non era una mossa da persona per bene, le cavò subito mentre la signora gli diceva:

— Sì, sì, caro monsieur Caramagna. Portatemi dei romanzi se potete. Ma io casco sempre a dar del voi, parlando alle persone. Scusi. È una abitudine presa a Parigi.

— Oh!, le pare! È stata a Parigi?

— Sì, anche a Parigi, per molti anni. Il mio povero marito era pittore, stabilito a Parigi. Dunque v’aspetto domani — aggiunse dandogli la mano — au revoir.

Bobò, congedato, s’allontanò pieno di turbamento e di felicità. A cena mangiò poco; l’indomani — dopo aver aspettato con impazienza che lo zio si fosse deciso a andare a letto per il sonnellino del dopopranzo — andò a scartabellare nello studio trascinandosi in camera una decina di romanzi di Werner e di Ohnet e poi, sceltine tre o quattro fra quelli illustrati e che gli parvero i più impressionanti, s’avviò alla locanda.

Vi tornò l’indomani per portar le prime màmmole alla Klepper e rincasando trovò lo zio incollerito:

— Eccolo l’eroe del giorno, il babbuino che fa il galante coi miei libri, e che si fa mettere su un corno da tutto il paese. Ti par d‘esser solo, libero di romperti il collo?

E giù una terribile paternale che Bobò prese senza fiatare come se non fosse per lui, aspettando il momento buono per svignarsela, e chiedendosi come si dicesse «vestita elegantemente» in francese.

Seguitava ad andare ogni pomeriggio alla locanda, e al ritorno d’ogni visita correva in casa a sfogliar la grammatica francese per non cascar negli scerpelloni e per paura di esserci già cascato parlando con quella signora ch’era tanto istruita. E le portava libri e fiori, fiori e libri, credendo di far cosa gradita e cercando continuamente il modo di dirle quel che pativa e sentiva per lei; ma quando gli pareva di aver trovato, allora la signora, come a farlo apposta, saltava con una domanda, con una osservazione che gli scombussolava le frasi preparate.

Nella locanda passava lunghe ore che gli parevan minuti, angustiato dalla propria timidità e dalla bellezza della Klepper; spessissimo questa sonava per ore ed ore e lui, in piedi accanto al pianoforte, stava a voltar le pagine sul leggio a un cenno degli occhi, tutto turbato, con lo sguardo avido fisso su di lei, sul suo collo nudo, sulle mani bianche, sul petto che s’alzava e s’abbassava al respirare leggero mentre la musica, che non intendeva, lo stordiva affatto.  Dopo aver sonato, la Klepper lo congedava dicendo ch’era l’ora di cena, ed egli usciva, eccitato, scontento e commosso senza veder niente davanti a sé; una di queste sere inciampò lo zio giù nelle scale.

— Madonna mia! — balbettò svegliandosi, mentre lo zio gli afferrava un orecchio stringendolo forte tra il pollice e l’indice poderosi:

— Canaglietta! Esci!

— Non qui zio — trovò il coraggio di dire Bobò, piegando la testa per il verso dell’orecchio afferrato. — Fa’ di me quel che vuoi, ma a casa. Per carità!

 

La voce era supplichevole, e lo zio rimise le mani in tasca, ma rincasò anche lui.

E a casa ci fu l’inferno, il diluvio; le sorelle si chiusero in camera per non sentir le male parole che lo zio gridava appioppando ceffoni al nipote, malgrado che la moglie lo supplicasse di finirla, di non mortificarlo a quel modo.

E questa volta, se rimetteva piede nella locanda l’avrebbe chiuso in collegio, a costo di spender tutto il patrimonio per quell’animale — urlava il barone — per quel burattino che faceva parlare tutto il paese! Che inferno, che inferno! …

Bobò andò a letto senza cena, tremante di febbre e stordito da quel vociare; pure, a letto rimase con tanto d’occhi spalancati che al buio lucevan come quelli d’un gatto.

Sul tardi, forse le undici, quando le sorelle dormivano e il barone era tornato al casino, salì su piano piano la zia, pallida come avesse pianto, a chiedergli, carezzandolo fra i capelli, se voleva prendere un boccone.

— No — rispose Bobò duro duro.

— Anima mia, non far così. Lo zio ha ragione, non c’è che dire. Smettila, figlio mio. Smettila con quella lì che è una mala cristiana. Non vedi che i libri non li ha più resi? Tu sei un ragazzo e fai di queste cose? Da un mese a questa parte c’è l‘inferno per causa tua. Fallo per le tue sorelle!

La queta luce della candela e la voce, dolce e triste, della zia furono a poco a poco per Bobò come una carezza della Mamma che non aveva più; e cominciò improvvisamente a singhiozzare, con la testa sotto la coperta chiamando:

— Mamma, mamma mia!

La zia lo accarezzò dolcemente fra i capelli arruffati, e restò in camera, fin che lo vide addormentarsi, rincalzandogli il letto come a un suo bambino.

Pure l’indomani — come se la strada lo tirasse — Bobò nel pomeriggio s’avviò verso il Calvario; vicino alla Cappelletta scorse la Klepper che gli sorrise, dritta sotto l’ombrellino bianco, con un sorriso che fece svanire tutte le pene e tutte le minacce. Si scappellò profondamente, Bobò, cercando una parola da dire, una parola succosa. Ma non trovò nulla, proprio nulla, e rosso fino alle orecchie, non vedendo che tutto quel bianco abbagliante nel sole alto, con gli occhi avidi, estatici, mormorò:

Comme vuscette belle, matame…

E dopo averlo detto, temendo di aver sbagliato, non osò guardare in viso matame, e si precipitò a spolverar la banchina col fazzoletto. Ma la Klepper sempre sorridendo gli disse con la sua voce tranquilla:

— C’è troppo sole, qui, mon enfant. Più in la troveremo un po’ d’ombra.

— È vero —. E Bobò alla sinistra della dama s’avviò moderando il proprio passo, mentre le gambe tremanti volevan correre e correre, mentre tutto il suo corpo era in sussulto.

 

Sedettero all’ombra e mentre Bobò pensava e pensava cosa potesse dirle di bello, come potesse dirle quel che non aveva mai potuto in tutto quel mese, taceva oppresso dal suo stesso silenzio e dal rimpianto del tempo che passava. La Klepper, sorridendo, gli chiese all‘improvviso:

— Siete triste, piccolo Bobò? So che avete molti dispiaceri in casa.

Chi aveva mai parlato? Sciaverio forse?

— No. Perché? — disse fieramente.

— Ah, no? Credevo.

Bobò capì che quella era l’occasione buona, parlando delle proprie pene, di manifestarle i suoi sentimenti, e si morse le labbra per non aver capito subito; ma si riprese.

— Sì — disse risolutamente — è lo zio. Non vuole che io vi veda, signora. Mentre io, signora… — e con la voce tremante ripeté — mentre io…

— Toh, — fece improvvisamente con voce gaia la signora Klepper puntando l’ombrellino verso la collinetta — vostro zio!

— Eh?… mio zio? Proprio lui! Allora è meglio che non ci veda insieme signora. Penserà male di noi, di lei. Scusi. Arivederla!

E s’alzò porgendo la mano a matame che guardava sempre la collina coll’occhialetto senza badargli, e poi s’allontanò tutto rosso con gli occhi pieni di lacrime e le gambe tremanti, con un mondo di pensieri che lo torturavano; dandosi dello stupido, dell’imbecille, rimpiangendo la signora che aveva avuto per male la sua fuga; e pur dandosi dell’imbecille correva sempre per quella maledetta paura di essere veduto dallo zio.

Ma lo zio, che montava il suo bel sauro, girò dietro la collinetta e si fermò davanti alla Klepper con molto scalpitìo; smontò e sorridendo strinse la mano inguantata che quella gli tese, scambiando qualche parola.

E il piccolo Bobò, intanto, buttato su una panchina dello chalet, aspettava di vedere ripassare matame, col cuore nero d’infelicità.

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