Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Original

3.6 Sua Maestà

Accanto alla tragedia, però, si ebbe anche la farsa a Costanova, quando fu sciolto il Consiglio comunale e arrivò da Roma il Regio Commissario.

Quel giorno, Melchiorino Palí, nella sala d’aspetto della stazione, picchiandosi il petto con tutte e due le manine perdute in un vecchio pajo di guanti grigi sforacchiati nelle punte, si sfogava a dire:

– Ma la faremo noi, noi, la rivoluzione… one. Noi!

I suoi colleghi del Consiglio disciolto (icconsiglio andato a male, come diceva sotto sotto il guardasala, ch’era un vecchietto toscano, ascritto, com’era allora di regola, alla lega socialista dei ferrovieri) avevano, dopo lungo dibattito, deciso di venire alla stazione per accogliere l’ospite, quantunque avversario. Ed erano venuti in abito lungo e cappello a stajo. Palí aveva cercato di dissuaderli, dimostrando loro che non si doveva in nessun modo. Non c’era riuscito e alla fine era venuto anche lui. Coi miseri panni giornalieri, però. In segno di protesta.

Piccino, piccino, con la barbetta rossa e gli occhiali azzurri, oppresso da un cappello duro, roso, inverdito che gli sprofondava fin su la nuca, gli orecchi curvi sotto le tese, oppresso da un greve soprabito color tabacco, continuava a sfogarsi, gestendo furiosamente. Ma si rivolgeva ora di preferenza ai manifesti illustrati, appesi alle pareti della sala d’aspetto, visto che nessuno dei colleghi gli dava piú ascolto.

 

Il vecchio guardasala, intanto, se lo stava a godere, con un risetto canzonatorio su le labbra.

Da uno di quei manifesti, un bel tocco di ragazza scollacciata gli offriva ridendo una tazza di birra dalla spuma traboccante, come per farlo tacere. Ma invano.

– Rivoluzione! Rivoluzione! – incalzava Melchiorino Palí il quale, quand’era cosí eccitato, soleva ripetere due e tre volte le ultime sillabe delle parole, come se egli stesso si facesse l’eco: – One… one…

Era indignato non tanto per lo scioglimento del Consiglio (glien’importava un fico… ico… un fico secco… ecco… a lui, se non era piú consigliere) quanto per lo spettacolo stomachevole che il Governo dava all’intera nazione trescando spudoratamente col partito socialista, fino a darla vinta a quei quattro mascalzoni che a Costanova andavano per via col garofano rosso all’occhiello, protetti dall’on. Mazzarini, deputato del collegio, che a Costanova però non aveva raccolto piú di ventidue voti… oti.

Ora questa, senz’alcun dubbio, era una vendetta del Mazzarini, il quale, partendo per Roma, aveva giurato di dare una lezione memorabile al paese che gli si era dimostrato cosí acerrimamente nemico… ico. Ma che lezione? Lo scioglimento del Consiglio? Eh via! Miserie! Melchiorino Palí considerava da un punto piú alto la questione… one. Dieci, venti, trenta lire al giorno a un tramviere, a un ferroviere? Quattro, cinque mesi di preparazione, seppure! E un professor di liceo, un giudice, che han dovuto studiar vent’anni per strappare una laurea e affrontare esami e concorsi difficilissimi, non le avevano, non le avevano trenta lire al giorno! E tutte le commiserazioni, intanto, e tutte le cure per il cosí detto proletariato… ato… ato!

A questo punto, non si sa come, la ragazza scollacciata di quel manifesto, quasi fosse stufa di offrire invano la sua tazza di birra a uno che le avventava contro tanta furia di gesti irosi, si staccò dalla parete e precipitò con fracasso sul divano di cuojo, ove stava seduto l’ex-sindaco, cav. Decenzio Cappadona.

– Vai! è ito via icchiodo! – esclamò allora, accorrendo e sghignando, il vecchietto guardasala.

Il Cappadona balzò in piedi sacrando e tirò una spinta cosí furiosa a Melchiorino Palí rimasto a bocca aperta e con le dieci dita per aria, che lo mandò a schizzare addosso a uno dei colleghi.

– Io? Che c’entro io? So un corno io se il chiodo si stacca! – si rivoltò furibondo il Palí; quindi, parandosi di faccia a quel collega e prendendogli un bottone sul petto della finanziera: – Non ti pajono sacrosante ragioni? Perché, sissignore, io ci sto: trenta lire al giorno… orno… al tramviere, al ferroviere… ci sto! ma datene allora cento al giudice, al professore… ore… e se no, perdio, la faremo noi, la rivoluzione… one… perdio! Noi!

Quel collega si guardava il bottone. Aveva un tubino spelacchiato, ma lo portava con tanta dignità e s’era tutto aggiustato con tanta cura, che si sentiva struggere, ora, a quel discorso e approvava e sbuffava e strabuzzava gli occhi. Alla fine non ne poté piú: lo lasciò lí in asso e s’accostò al cavalier Cappadona per pregarlo che, avvalendosi della sua autorità, facesse tacere quell’energumeno. Era un’indecenza strillare cosí, con tutta quella trucia addosso. Comprometteva, ecco!

Ma il cavalier Decenzio Cappadona, che s’era già ricomposto e se ne stava ora astratto e assorto, fece un atto appena appena con la mano e seguitò a lisciarsi il gran pizzo regale. Lo chiamavano a Costanova Sua Maestà, perché era il ritratto spiccicato di Vittorio Emanuele II vestito da cacciatore: la stessa corporatura, gli stessi baffi, lo stesso pizzo, lo stesso naso rincagnato all’insú; Vittorio Emanuele II insomma, purus et putus, purus et putus, come soleva ripetere il notajo Colamassimo che sapeva il latino.

Anche lui, il cavalier Cappadona, era venuto coi panni giornalieri; ma che c’entra! era noto a tutti ch’egli non cambiava mai, neanche nelle piú solenni occasioni, quel suo splendido abito di velluto alla cacciatora e gli stivali e il cappellaccio a larghe tese con la penna infitta da un lato nel nastro, ch’erano tali e quali quelli che il Gran Re portava nel ritratto famoso che al cavalier Decenzio serviva da modello.

I maligni dicevano che non aveva altri titoli per esser sindaco di Costanova fuor che quella straordinaria somiglianza, e che non aveva fatto in vita sua altri studii oltre a quello attentissimo sul ritratto del primo re d’Italia.

Questa seconda malignazione poteva forse avere qualche fondamento di verità: la prima no.

Non bastava, infatti, nemmeno a quei tempi, somigliare a Vittorio Emanuele II per esser sindaco di un comune d’Italia. Tanto vero che in ogni città era raro il caso che non ci fosse per lo meno uno che non somigliasse o non si sforzasse di somigliare a Vittorio Emanuele II, o anche a Umberto I, senz’esser per questo nemmeno consigliere della minoranza.

In verità, ci voleva qualcos’altro.

E questo qualcos’altro il cavalier Decenzio Cappadona lo aveva. Milionario, poteva pigliarsi il gusto di sfogare esclusivamente tutta l’attività morale e materiale di cui era capace nella professione di quella somiglianza.

A Costanova era re; la sua casa, una reggia; teneva in campagna una numerosa scorta di campieri in divisa, ch’erano come il suo esercito; tutti gli abitanti, tranne quel pugno di buffoni capitanati dal repubblicano Leopoldo Paroni, eran per lui piú sudditi che elettori; aveva una scuderia magnifica, una muta di cani preziosa; amava le donne, amava la caccia; e dunque chi piú Vittorio Emanuele di lui?

 

Ora, durante l’ultima amministrazione, qualcuno degli assessori aveva dovuto commettere qualche piccola sciocchezza amministrativa: il cavalier Decenzio non sapeva bene: era re, lui: regnava e non governava. Il fatto è che il Consiglio era stato sciolto. A momenti sarebbe arrivato il Regio Commissario; il cavalier Decenzio s’era incomodato a venire alla stazione; lo avrebbe accolto cortesemente, nella certezza che anche costui sarebbe diventato suo suddito temporaneo devotissimo; si sarebbero fatte le nuove elezioni, e sarebbe stato rieletto sindaco, riacclamato re, senz’alcun dubbio.

L’avvisatore elettrico cominciò a squillare. Il cavalier Cappadona sbadigliò, si alzò, si batté il frustino su gli stivali, facendo al solito con le labbra: – Bembè… Bembè… – e uscí, seguito dagli altri, sotto la tettoja della stazione. Melchiorino Palí ripeteva ancora una volta che dobbiamo farla noi la rivolu… ma vide due carabinieri alla porta della sala d’aspetto, e le ultime sillabe della parola gli rimasero in gola: ne venne fuori, poco dopo, al solito, l’eco soltanto, attenuata:

– One… one…

La cornetta del casellante strepé in distanza: s’intese il fischio del treno.

– Campana! – ordinò allora il capostazione, che s’era avvicinato a ossequiare il cavalier Cappadona.

 
Ed ecco il treno, sbuffante, maestoso. Tutti si allineano, in attesa, ansiosi e con quell’eccitazione che l’arrivo del convoglio con la sua imponenza rumorosa e violenta suol destare; i ferrovieri corrono ad aprir gli sportelli gridando: Costanova! Costanova! Da una vettura di prima classe uno spilungone miope, squallido, con certi baffi biondicci alla cinese, tende una valigia al facchino e gli dice piano:

– Regio Commissario.

Gli aspettanti lo mirano delusi, toccandosi sotto sotto coi gomiti, e il cavalier Decenzio Cappadona si fa avanti con la sua impostatura regale, quando tutt’a un tratto – è uno scherzo? un’allucinazione? – dietro quello spilungone miope scende maestoso su la predella della vettura un altro Vittorio Emanuele II, piú Vittorio Emanuele II del cavalier Decenzio Cappadona.

I due uomini, cosí davanti a petto, si guatano allibiti. Nessuno degli ex-consiglieri osa farsi avanti; anche il capostazione, che s’era proposto di presentare l’ex-sindaco al Regio Commissario, rimane inchiodato al suo posto; e quell’altro Vittorio Emanuele che è il commendatore Amilcare Zegretti, proprio lui, il Regio Commissario, passa tra tutti quegli uomini quasi esterrefatti e si caccia con un acuto sgrigliolío delle scarpe, che pare esprima la fierissima stizza ond’è preso, nella sala d’aspetto, seguito dal suo allampanato segretario particolare.

– Mi…mi… mi…

Non trova piú la voce. Quegli intanto non ardisce alzare gli occhi a guardarlo in faccia.

– Mi chiami il ca… il capostazione, la prego.

Sotto la tettoja, il capostazione è rimasto a guardare a uno a uno i membri del Consiglio disciolto, tutti ancora intronati, e il cavalier Decenzio Cappadona basito addirittura e quasi levato di cervello. Il segretario particolare gli s’accosta, timido, vacillante:

– Scusi, signor Capo, una parolina.

Il capostazione accorre premuroso alla sala d’aspetto e vi trova il commendator Zegretti con tanto d’occhi sbarrati e fulminanti e una mano spalmata sotto il naso in atteggiamento pensieroso, sí, ma che par fatto apposta per nasconder baffi e appendici.

– Quei… quei signori, scusi…

– Del Consiglio disciolto, sissignore. Venuti apposta per ossequiarla, signor Commendatore.

– Grazie, e… c’è, scusi, c’è anche il… come si chiama?

– L’ex-sindaco? Cavalier Cappadona, sissignore. Sarebbe anzi appunto…

– Va bene, va bene. Me lo ringrazi tanto, ma dica che… che io son venuto anche per fare una… una piccola inchiesta, ecco. Non sarebbe dunque prudente… Ci vedremo al Municipio. Mi faccia venire qua, la prego, il mio segretario. Dov’è? dove s’è cacciato?

Il segretario, sotto la tettoja, era assediato dai membri del Consiglio disciolto. Melchiorino Palí aveva posto crudamente il dilemma:

– O si rade l’uno o si rade l’altro.

Ma che! ma no! bisognava che si radesse il nuovo arrivato, per forza; perché del Cappadona era nota a tutti la somiglianza con Vittorio Emanuele II, e perciò, se si fosse raso lui e il Regio Commissario fosse entrato in sua vece da Vittorio Emanuele in Costanova, lo scandalo non si sarebbe evitato. Scandalo inaudito, perché a Costanova l’arrivo di quel Regio Commissario rappresentava un vero e proprio avvenimento. Una fischiata generale sarebbe scoppiata; tutto il paese sarebbe crepato dalle risa; fin le case di Costanova avrebbero traballato per un sussulto di spaventosa ilarità; fino i ciottoli delle vie sarebbero saltati fuori, scoprendosi come tanti denti, in una convulsione di riso.

– Mazzarini! Mazzarini! – strillava piú forte degli altri Melchiorino Palí. – È stato lui, l’on. Mazzarini! Ecco la vendetta che ci ha giurato! la lezione memorabile! L’ha scelto lui, a Roma, il Regio Commissario per Costanova… ova… ova… Mascalzone! Offesa alla memoria, alla effigie del nostro Gran Re! Irrisione, attentato al prestigio dell’autorità!

Bisognava a ogni costo impedirlo; mandare presto presto per un barbiere fidato; e lí stesso, nella sala d’aspetto, indurre il Regio Commissario a sacrificare almeno il pappafico… sí, e un pochino pochino anche i baffi, prima d’entrare in paese. Ma chi si prendeva l’accollo di fare una simile proposta al commendator Zegretti?

Il cavalier Decenzio Cappadona s’era allontanato, fosco, e col frustino si sfogava contro la innocente ruchetta bianca e il crespignolo dai fiori gialli, che crescevano di tra le crepe dell’antica spalletta che impedisce l’ingresso alla stazione.

– Marcocci! – tonò in quel punto il commendator Zegretti, facendosi su la soglia della sala d’aspetto, furibondo.

Il povero segretario, schiacciato sotto l’incarico che gli avevano dato gli ex-consiglieri, accorse come un cane che fiuti in aria le busse.

– Una vettura!

– Aspetti… perdoni, signor Commendatore… – si provò a dire il Marcocci. – Se… se lei volesse… dicevano quei signori… prima d’entrare in paese… qui stesso… dicevano quei signori.. perché, lei ha veduto? c’è qui… quello che… l’ex-sindaco, lei ha veduto? Ora, dicevano quei signori…

– Insomma si spieghi! – gli urlò lo Zegretti.

– Ecco, sissignore… qui stesso, si potrebbe… se lei volesse… dicevano… mandare per un… come si chiama? e farsi, un pochino pochino almeno… ecco, i baffi soltanto, signor Commendatore, dicevano quei signori.

– Che? – ruggí il commendator Zegretti e gli si parò di fronte, quasi per scoppiargli addosso, gonfio com’era di collera e di sdegno. – Sa lei che io sono qua, adesso, la prima autorità del paese?

– Sissignore! sissignore! come non lo so?

– E dunque? Una vettura! Marche!

E s’avviò innanzi, col petto in fuori, aggrondato, i baffoni in aria, il naso al vento.

Naturalmente a Costanova accadde quel che i membri del Consiglio disciolto avevano purtroppo preveduto.

Piú fiera vendetta di quella l’on. Mazzarini non poteva prendersi, non solo contro il cavalier Decenzio Cappadona, suo acerrimo avversario, ma anche contro l’autorità costituita; lui socialista.

Retrogrado, conservatore, il paese di Costanova? Là, due re! Di cui l’uno il ritratto dell’altro, e l’un contro l’altro armato.

Ora, come un leone in gabbia, il commendator Zegretti nella magna sala del Municipio, ripensando all’impegno di quel deputato a Roma, perché lui e non altri fosse mandato quale Regio Commissario a Costanova; ripensando alla grande soddisfazione che egli per quell’impegno aveva provato, fremeva di rabbia, s’arrotolava i baffoni fino a storcersi il labbro di qua e di là, si stirava il gran pizzo, si affondava le unghie nelle palme delle mani, vedeva rosso!

Come fare il Regio Commissario in quel paese, a cui non poteva mostrarsi, senza promuover subito uno scoppio di risa?

Se non ci fosse stato quell’altro, egli avrebbe certo ispirato maggior reverenza col suo aspetto, che attestava devozione alla monarchia, culto anche fanatico della memoria del Gran Re. Ma ora… cosí… E se qualcuno ne avesse scritto a Roma, ai giornali? se qualche deputato ne avesse parlato alla Camera?

Cosí pensando, il commendator Zegretti sentiva di punto in punto crescer l’orgasmo; passeggiava, si fermava, passeggiava ancora un po’, si rifermava, sbuffando ogni volta e scotendo in aria le pugna.

Quella sala del Municipio era magnifica, dal palco scompartito, in rilievo, ornato di dorature. Il cavalier Decenzio Cappadona l’aveva fatta decorare e addobbare sontuosamente a sue spese. Nella parete di fondo troneggiava un gran ritratto a olio del primo re d’Italia, che il Cappadona stesso aveva fatto eseguire lí a Costanova, da un pittore di passaggio, sedendo lui per modello.

Imbecille! Buffone! Cosí nero? Quando mai Vittorio Emanuele II fu cosí nero?

Biondo scuro e con gli occhi cilestri: ecco com’era Vittorio Emanuele II; com’era lui, insomma, il commendator Zegretti, che aveva perciò quasi un diritto naturale a professarne la somiglianza. Eh, ma allora, qualunque mascalzone, purché avesse il naso un po’ in sú e un po’ di crescenza nei peli della faccia, poteva figurare da Vittorio Emanuele II; se non si doveva tener conto del colore del pelo, del colore degli occhi.

Piú d’uno a Costanova dava ragione al Regio Commissario, sosteneva cioè che veramente egli piú del Cappadona somigliava a Vittorio Emanuele II con quegli occhi da vitellone; altri invece sosteneva il contrario; e le discussioni si facevano di giorno in giorno piú calorose. Appena lo vedevano passare per via tutti uscivano fuori dalle botteghe, s’affacciavano alle finestre, si fermavano a mirarlo:

– Ma bello, vah! magnifico! guardatelo!

Nessuno poté assistere però alla scena piú buffa, che si svolse nella sala del Municipio, dove una mattina dovettero pur trovarsi di fronte tutt’e due, quei Vittorii Emanueli. E ce n’era pure un terzo, lí, dipinto a olio, grande al vero, che se li godeva dall’alto della parete, cosí ammusati.

 

Una gran folla, quella mattina, all’annunzio dell’invito che il Regio Commissario aveva fatto al Cappadona per interrogarlo su l’ultima gestione amministrativa, s’era raccolta sotto il Municipio. Figurarsi dunque l’animo del cavalier Decenzio nel recarsi, tra tanta gente assiepata, a quel convegno; e l’animo del commendator Zegretti, a cui ne saliva dalla piazza il brusío.

Oltre l’irrisione, che era patente nella curiosità di tutti quegli oziosi, qualche altra cosa irritava sordamente il cavalier Cappadona. Quantunque molto munifico al paese, era pur non di meno gelosissimo di tutti i suoi doni al Comune. Ora, da piú giorni, passando sotto il Municipio, aveva veduto spalancate al sole le ampie finestre poste sul davanti, ch’eran quelle appunto del salone. Povere tende, dunque! poveri mobili, a quella luce sfacciata! e chi sa quanta polvere! che disordine!

 

Quando, introdotto dal segretario Marcocci, vide il gran tappeto persiano, che copriva da un capo all’altro il pavimento, ridotto in uno stato miserando, come se ci fosse passato sopra un branco di porci, si sentí tutto rimescolare. Ma sentí addirittura artigliarsi le dita nel vedere che colui lo accoglieva senza il minimo riguardo. Signori miei, quell’intruso lí! Quell’intruso, che – dimostrandosi fino a tal segno villano e indegno d’abitare in un luogo addobbato con tanto decoro e tanto sfarzo – osava pure scimmiottare l’immagine d’un re.

Il commendator Zegretti stava seduto innanzi a un’elegantissima scrivania, piena zeppa di carte, che s’era fatta trasportare lí nel salone, e scriveva. Senza neppure alzar gli occhi, disse seccamente:

– S’accomodi.

Ma s’era già accomodato da sé, senz’invito, il Cappadona, sulla poltrona di faccia.

Il Regio Commissario, tenendo ancora gli occhi bassi, prese a esporre all’ex-sindaco la ragione per cui lo aveva invitato a venire.

A un certo punto il Cappadona, che lo guardava fieramente, scattò in piedi, serrando le pugna.

– Scusi, – disse, – non si potrebbero almeno accostare un tantino queste finestre?

Due, tre fischi partirono in quel momento dalla folla raccolta nella piazza sottostante.

Il commendator Zegretti alzò il capo, stirandosi un baffo con aria grave, e disse:

Ma io non ho paura, sa.

– E chi ha paura? – fece il Cappadona. – Dico per queste povere tende… per questo tappeto, capirà…

Il commendator Zegretti guardò le tende, guardò il tappeto, si buttò indietro su la spalliera del seggiolone, e, accarezzandosi ora l’interminabile pizzo:

– Mah! – sospirò. – Mi piace, sa, mi piace lavorare alla luce del sole!

– Eh, – squittí il Cappadona, – se non si rovinasse la tappezzeria… Capisco che a lei non importa nulla; ma, se permette, le faccio osservare che importa a me, perché è roba mia.

– Del Municipio, se mai…

– No! Mia, mia, mia. Fatta a mie spese! Mia la sedia, su cui lei siede; mia la scrivania, su cui lei scrive. Tutto quello che lei vede qua, mio, mio, mio, fatto col denaro mio, lo sappia! E se si vuole prendere il disturbo d’affacciarsi un pochino alla finestra, le faccio vedere là l’edificio delle scuole, che ho fatto levare io di pianta e costruire a mie spese e arredare di tutto punto: io! E ci sono anche le scuole tecniche che il signor Mazzarini, deputato del collegio, non è stato buono a ottenere dal Governo, com’era d’obbligo, e che mantengo io, a mie spese: io! Se si vuole alzare un pochino e affacciare alla finestra, le faccio vedere, piú là, un altro edificio, l’ospedale, costruito, arredato e mantenuto anche da me, a mie spese… E questa, ora, è la ricompensa, caro signore! Mi si manda qua lei, non so perché: aspetto che lei me lo dica… mi spieghi bene che cosa sia venuto a far qua, lei… Ma già lo vedo… già lo vedo…

E il cavalier Decenzio Cappadona, aprendo le braccia, si mise a guardare il tappeto rovinato.

Con fredda calma ostentata, il commendator Zegretti, marcando le ciglia a mezzaluna:

-Ma io, – disse, – io invece, sa? sono qua per vedere che cosa ha fatto lei, piuttosto.

– Gliel’ho detto, che cosa ho fatto io! E ci sono le prove lí: c’è tutto il paese che può rispondere per me! Chi è lei? che cosa vuole da me?

– Io rappresento qua il Governo! – rispose infoscandosi il commendator Zegretti, e poggiò ambo le mani su la scrivania.

Il Cappadona si scrollò tutto, tre volte:

– Ma nossignore! ma che Governo! ma non ci creda! glielo dico io che cosa rappresenta lei qua.

– Oh insomma! – gridò il Regio Commissario, levandosi in piedi anche lui. – Io non posso assolutamente tollerare che lei si dia codeste arie davanti a me!

E i due Vittorii Emanueli si guardarono finalmente negli occhi, pallidi e vibranti d’ira.

– Io, le arie? – fece con un sogghigno il Cappadona. – se le dà lei, mi pare, le arie. Non si è degnato nemmeno d’alzarsi, quando io sono entrato, come se fosse entrato il signor nessuno qua, dove pure tutto mi appartiene.

– Ma io non le so, non le voglio, né le debbo sapere io, codeste cose! – rispose, sempre piú eccitandosi, il commendator Zegretti. – Questa è la sede del Municipio.

– Benissimo! Del Municipio! Non stalla, dunque!

– Lei m’offende!

– Come le pare…

– Ah sí? E allora io la invito a uscir fuori! Là!

E il commendator Zegretti additò fieramente la porta.

Si videro, ora, l’uno addosso all’altro, i due re: i baffi tremavano, tremavano i pappafichi, e i nasi all’erta fremevano.

– A me osa dir questo? – tonò il Vittorio Emanuele paesano.

La sua voce s’intese nella piazza sottostante e un uragano di fischi e di grida scomposte si levò minaccioso.

– Proprio a lei! sissignore! Perché io non ho paura! – inveí, pallidissimo, il commendator Zegretti. – E se trovo qua, fra queste carte, qualche irregolarità…

– Mi manda in galera? – compí la frase il Cappadona, sghignazzando. – Ma si provi, si provi; vedrà che cosa succede… Lei qua non rappresenta che quattro mascalzoni messi sú da quel farabutto del Mazzarini, deputato socialista, nemico della patria e del re, ha capito? Del re, del re; glielo grido sul muso a lei mascherato a codesto modo!

Trasecolò, nel suo furore, il commendator Zegretti.

– Io, mascherato? – disse. – Come… E lei? Ci vuole un bel coraggio, perdio! Ma si levi! Ma vada via! Io, mascherato? Ma dove, ma quando lo vide mai lei, Vittorio Emanuele, che ha fatto calunniare lí, in quel ritratto? Non era mica cosí nero, sa? come lei se l’immagina, Vittorio Emanuele II!

– Ah, no? com’era? rosso? nero? repubblicano? socialista come voi? protettore di farabutti? Ma radetevi! radetevi! ci farete miglior figura! Non profanate cosí l’immagine del Re! E basta, non vi dico altro. Ce la vedremo, caro signore, alle prossime elezioni!

E il cavalier Decenzio Cappadona, col volto in fiamme, uscí tutto sbuffante di fierissimo sdegno.

In piazza fu accolto da un fragoroso scoppio d’applausi. Agli amici piú intimi, che lo attendevano ansiosi, non poté rispondere fuorché queste parole:

– Faccio nascere un macello, parola d’onore!

E la guerra cominciò, ferocissima, tra i due re.

Com’era però da prevedersi, la sconfitta fu per il commendator Zegretti, avendo il Cappadona tutto il paese dalla sua.

Appena si mostrava per via, due, tre lo chiamavano forte:

– Cavaliere! Signor sindaco!

Tirava via di lungo; e un quarto, ecco, lo raggiungeva di corsa, gli batteva amiche-volmente una mano su la spalla.

– Caro Decenzio!

Si voltava di scatto, con gli occhi che gli schizzavano fiamme; e subito:

– Ah, scusi, signor Commendatore! Credevo che fosse il cavalier Cappadona… Capirà! Perdoni…

Rientrava al Municipio? Lungo l’androne c’erano parecchie porte murate; rimanevano però, di qua e di là, gli sguanci nella grossezza del muro, come tante nicchie: bene: da ciascuna saltava fuori un monello, al passaggio del Commendatore. Un saluto militare; uno strillo: – Maestà! – e via a gambe levate.

Il commendator Zegretti licenziò allora il guardaportone ch’era un povero vecchietto allogato lí per carità e che non ne aveva nessuna colpa. Egli, infatti, lasciava in custodia alla moglie l’entrata e andava in giro tutto il giorno, domandando ad alta voce, da lontano, se per caso ci fosse qualcuno che volesse farsi la barba.

Buttato in mezzo alla strada, se n’andò a piangere dal cavalier Cappadona. Sua Maestà gli promise che, rifatte le elezioni, lo avrebbe riassunto in servizio, e intanto gli diede da vivere per sé e per la sua famiglia. Contento, il vecchietto mostrò le forbici al cavalier Cappadona:

– Non dubiti, signor Cavaliere, che se m’avviene di ripigliarlo a comodo, lo acciuffo e lo toso di prepotenza. Baffi e pappafico, signor Cavaliere!

Questa minaccia arrivò agli orecchi del commendator Zegretti, il quale d’allora in poi prese a uscire seguito da due guardie. E allora, da lontano, fischi, urli e altri rumori sguajati, che arrivavano al cielo.

Fu peggio, quando il segretario Marcocci, divenuto d’un estremo squallore e molto piú miope dal giorno dell’arrivo, una sera, cercando in uno sgabuzzino alcune carte, si bruciò per disgrazia con la candela che teneva in mano uno di quei suoi baffi biondicci alla cinese, e fu perciò costretto a radersi anche l’altro.

Tutto il paese, il giorno dopo, vedendolo cosí raso lo riaccompagnò quasi in trionfo al Municipio, come se quel pover’uomo si fosse raso per dare una soddisfazione al Comune di Costanova e il buon esempio al suo principale.

Il commendator Zegretti non si lasciò piú vedere per il paese. Il giorno per le elezioni era ormai vicino. Per prudenza, prevedendo l’esplosione del giubilo popolare per la vittoria incontrastabile del Cappadona, domandò al Prefetto del capoluogo un rinforzo di soldati.

Ma la popolazione di Costanova, ben pagata ed eccitata dal vino delle cantine di Sua Maestà, non si lasciò intimidire da quel rinforzo; e il giorno segnato insorse in una frenetica dimostrazione. Le guardie che presidiavano il Municipio caricarono violente-mente la folla; ma le spinte, gli urtoni, che scaraventavano di qua e di là i dimostranti e li lasciavano un pezzo, compressi da tutte le parti, a boccheggiar come pesci, non giovarono a nulla: riprendevano fiato quei demonii scatenati e urlavano piú forte di prima.

– Abbasso Zegrettííí! Abbasso il pappa-ficòòò! Si rada! si radààà! Viva Cappadonààà! Ràditi, Zegrettííí!

Un pandemonio.

Ma radersi, no. Ah, radersi, no! Piuttosto il commendator Zegretti, non per paura, ma per non darla vinta a colui che indegnamente si credeva il ritratto di Vittorio Emanuele II, e per non far fuggire sconfitta nella sua persona la vera immagine del gran Re, s’era lasciati crescere da parecchi giorni i peli su le guance.

La sera stessa di quel giorno memorabile, egli, profondamente accorato, se ne andò con una barbaccia da padre cappuccino, mentre l’altro s’insediava di nuovo trionfante nel Municipio di Costanova piú Vittorio Emanuele che mai.

3.7 I tre pensieri della sbiobbina

Bene, fino a nove anni: nata bene, cresciuta bene.

A nove anni, come se il destino avesse teso dall’ombra una manaccia invisibile e gliel’avesse imposta sul capo: – Fin qua! -, Clementina, tutt’a un tratto, aveva fatto il groppo. Là, a poco piú d’un metro da terra.

I medici, eh! subito, con la loro scienza, avevano compreso che non sarebbe cresciuta piú. Linfatismo, cachessía, rachitide…

Bravi! Farlo intendere alle gambe, adesso, al busto di Clementina, che non si doveva piú crescere! Busto e gambe, dacché, nascendo, ci s’erano messi, avevano voluto crescere per forza, senza sentir ragione. Non potendo per lungo, sotto l’orribile violenza di quella manaccia che schiacciava, s’erano ostinati a crescere di traverso: sbieche, le gambe; il busto, aggobbito, davanti e dietro. Pur di crescere…

Che non crescono forse cosí, del resto, anche certi alberelli, tutti a nodi e a sproni e a giunture storpie? Cosí. Con questa differenza però: che l’alberello, intanto, non ha occhi per vedersi, cuore per sentire, mente per pensare; e una povera sbiobbina, sí; che l’alberello storpio non è, che si sappia, deriso da quelli dritti, malvisto per paura del malocchio, sfuggito dagli uccellini; e una povera sbiobbina, sí, dagli uomini, e sfuggita anche dai fanciulli; e che l’alberello infine non deve fare all’amore, perché fiorisce a maggio da sé, naturalmente, cosí tutto storpio com’è, e darà in autunno i suoi frutti; mentre una povera sbiobbina…

Là, via, era una cosa riuscita male, e che non si poteva rimediare in alcun modo. Chi scrive una lettera, se non gli vien bene, la strappa e la rifà da capo. Ma una vita? Non si può mica rifar da capo, a strapparla una volta, la vita.

E poi, Dio non vuole.

Quasi quasi verrebbe voglia di non crederci, in Dio, vedendo certe cose. Ma Clementina ci credeva. E ci credeva appunto perché si vedeva cosí. Quale altra spiegazione migliore di questa, di tutto quel gran male che, innocente, senz’alcuna sua colpa, le toccava soffrire per tutta, tutta la vita, che è una sola, e che lei doveva passar tutta, tutta cosí, come fosse una burla, uno scherzo, compatibile sí e no per un minuto solo e poi basta? Poi dritta, sú, svelta, agile, alta, e via tutta quella oppressione. Ma che! Sempre cosí.

Dio, eh? Dio – era chiaro – aveva voluto cosí, per un suo fine segreto. Bisognava far finta di crederci, per carità; ché altrimenti Clementina si sarebbe disperata. Spiegandoselo cosí, invece, lei poteva anche considerare come un bene tutto il suo gran male: un bene sommo e glorioso. Di là, s’intende. In cielo. Che bella angeletta sarà poi in cielo, Clementina!

 

Ed ecco, ella sorride talvolta, camminando, alla gente che la guarda per istrada. Pare voglia dire: «Non mi deridete, via! perché, vedete? ne sorrido io per la prima. Sono fatta cosí; non mi son fatta da me; Dio l’ha voluto; e dunque non ve n’affliggete neppure, come non me n’affliggo io, perché, se l’ha voluto Dio, lo so sicuro che una ricompensa, poi, me la darà!»

Del resto, le gambe, tanto tanto non pajono, sotto la veste.

Dio solo sa quanto peni Clementina a farle andare, quelle gambe. E tuttavia sorride.

La pena è anche accresciuta dallo studio ch’ella pone a non barellare tanto, per non dar troppo nell’occhio alla gente. Passare inosservata non potrebbe. Sbiobbina è. Ma via, andando cosí, con una certa lestezza, e poi modesta, e poi sorridendo…

Qualcuno però, a quando a quando, si dimostra crudele: la osserva, magari col volto atteggiato di compassione, e le torna poco dopo davanti dall’altro lato, quasi volesse a tutti i costi rendersi conto di com’ella faccia con quelle gambe ad andare. Clementina, vedendo che col suo solito sorriso non riesce a disarmare quella curiosità spietata, arrossisce dalla stizza, abbassa il capo; talvolta, perdendo il dominio di sé, per poco non inciampa, non rotola giú per terra; e allora, arrabbiata, quasi quasi si tirerebbe su la veste e griderebbe a quel crudele:

– Eccoti qua: vedi? E ora lasciami fare la sbiobbina in pace.

In questo quartiere non è ancora conosciuta. Clementina ha cambiato casa da poche settimane. Dove stava prima, era conosciuta da tutti; e nessuno piú la molestava. Sarà cosí, tra breve, anche qua. Ci vuol pazienza! Lei è molto contenta della nuova casa, che sorge in una piazzetta quieta e pulita. Lavora da mane a sera, con gentilezza e maestria, di scatolette e sacchettini per nozze e per nascite. La sorella (ha una sorella, Clementina, che si chiama Lauretta, minore di cinque anni: ma… diritta lei, eh altro! e svelta e tanto bella, bionda, florida) lavora da modista in una bottega: va ogni mattina, alle otto; rincasa la sera, alle sette. Fra loro, le due sorelle si son fatte da mamma a vicenda; Clementina, prima, a Lauretta; ora Lauretta, invece, a Clementina, quantunque minore d’età. Ma se questa, per la disgrazia, è rimasta come una ragazzina di dieci anni!… Lauretta ha acquistato invece tanta esperienza della vita! Se non ci fosse lei…

Clementina sta ad ascoltarla a bocca aperta.

Gesú, Gesú… che cose!

E capisce, ora, che con que’ due poveri piedi sbiechi non potrà mai entrare nel mondo misterioso che Lauretta le lascia intravedere. Non ne prova invidia, però: sí un timor vago e come un intenerimento angoscioso, di pietà per sé. Lauretta, un giorno o l’altro, si lancerà in quel mondo fatto per lei; e come resterà, allora, la povera Clementina? Ma Lauretta l’ha rassicurata, le ha giurato che non l’abbandonerà mai, anche se le avverrà di prender marito.

E Clementina ora pensa a questo futuro marito di Lauretta. Chi sarà? Come si conosceranno? Per via, forse. Egli la guarderà, la seguirà; poi, qualche sera la fermerà. E che si diranno? Ah come dev’esser buffo, fare all’amore.

Con gli occhi invagati, seduta innanzi al tavolino presso la finestra, Clementina, cosí fantasticando, non sa risolversi a metter mano al lavoro apparecchiato sul piano del tavolino. Guarda fuori… Che guarda?

C’è un giovine, un bel giovine biondo, coi capelli lunghi e la barbetta alla nazarena, seduto a una finestra della casa dirimpetto, coi gomiti appoggiati sul davanzale e la testa tra le mani.

Possibile? Gli occhi di quel giovine sono fissi su lei, con una intensità strana. Pallido… Dio, com’è pallido! dev’esser malato. Clementina lo vede adesso per la prima volta, a quella finestra. Ed ecco, egli séguita a guardare… Clementina si turba; poi sospira e si rinfranca. Il primo pensiero che le viene in mente è questo:

Non guarda me!

Se Lauretta fosse in casa, lei penserebbe che quel giovine… Ma Lauretta non è mai in casa, di giorno. Forse alla finestra del quartierino accanto sarà affacciata qualche bella ragazza, con cui quel giovine fa all’amore. Ma si direbbe proprio che egli guarda qua, ch’egli guarda lei. Con quegli occhi? Via, impossibile! Oh, che! Ha fatto un cenno, quel giovine, con la mano: come un saluto! A lei? No, no! Ci sarà senza dubbio qualcuna affacciata.

E Clementina si fa alla finestra, monta su lo sgabelletto che sta lí apposta per lei, e – senza parere – guarda alla finestra accanto e poi all’altra appresso… guarda giú, alla finestra del piano di sotto, poi a quella del piano di sopra…

Non c’è nessuno!

Timidamente, volge di sfuggita uno sguardo al giovine, ed ecco… un altro cenno di saluto, a lei, proprio a lei… ah, questa volta non c’è piú dubbio!

Clementina scappa dalla finestra, scappa dalla stanza, col cuore in tumulto. Che sciocca! Ma è uno sbaglio certamente… Quel giovine là dev’esser miope. Chi sa per chi l’avrà scambiata… Forse per Lauretta? Ma sí! Forse avrà seguíto Lauretta per via; avrà saputo che lei abita qua, dirimpetto a lui… Ma, altro che miope, allora! Dev’esser cieco addirittura… Eppure, non porta occhiali. Sí, Clementina non è brutta, di faccia: somiglia veramente un po’ alla sorella; ma il corpo! Forse, chi sa! vedendola seduta, lí davanti al tavolino, col cuscino sotto, egli avrà potuto avere, cosí da lontano, l’illusione di veder Lauretta al lavoro.

Quella sera stessa ne domanda alla sorella. Ma questa casca dalle nuvole.

– Che giovine?

– Sta lí, dirimpetto. Non te ne sei accorta?

– Io, no. Chi è?

Clementina glielo descrive minutamente; e Lauretta allora le dichiara di non saperne nulla, di non averlo mai incontrato, mai veduto, né da vicino né da lontano.

Il giorno appresso, da capo. Egli è là, nello stesso atteggiamento, coi gomiti sul davanzale e il bel capo biondo tra le mani; e la guarda, la guarda come il giorno avanti, con quella strana intensità nello sguardo.

Clementina non può sospettare che quel giovine, il quale appare tanto, tanto triste, si voglia pigliare il gusto di beffarsi di lei. A che scopo? Ella è una povera disgraziata, che non potrebbe mai e poi mai prender sul serio la beffa crudele, abboccare all’amo, lasciarsi lusingare… E dunque? Oh, ecco: gli ripete il cenno di jeri, la saluta con la mano, china il capo piú volte, come per dire: – «A te, sí, a te» – e si nasconde il volto con le mani, dolorosamente.

Clementina non può piú rimanere lí, presso la finestra; scende dalla sedia, tutta in sussulto, e come una bestiolina insidiata va a spiare dalla finestra della camera accanto, dietro le tendine abbassate. Egli si è tratto dal davanzale; non guarda piú fuori; sta ora in un atteggiamento sospeso e accorato; ed ecco, si volta di tratto in tratto a guardare verso la finestra di lei, per vedere se ella vi sia ritornata. La aspetta!

Che deve supporre Clementina? Le viene in mente quest’altro pensiero:

Non vedrà bene come sono fatta.

E, per essere lasciata in pace, povera sbiobbina, immagina d’un tratto questo espediente: accosta il tavolino alla finestra, prende uno strofinaccio e poi, con l’ajuto d’una seggiola, monta a gran fatica sul tavolino, là, in piedi, come per pulire con quello strofinaccio i vetri della finestra. Cosí egli la vedrà bene!

Ma per poco Clementina non precipita giú in istrada, nell’accorgersi che quel giovine, vedendola lí, s’è levato in piedi e gesticola furiosamente, spaventato, e le accenna di smontare, giú di lí, giú di lí, per carità: incrocia le mani sul petto, si prende il capo tra le mani e grida, ora, grida!

Clementina scende dal tavolino quanto piú presto può, sgomenta, anzi atterrita; lo guarda, tutta tremante, con gli occhi sbarrati; egli le tende le braccia, le invia baci; e allora:

«È matto… – pensa Clementina, stringen-dosi, storcendosi le mani. – Oh Dio, è matto! è matto!».

Difatti, la sera, Lauretta glielo conferma.

Messa in curiosità dalle domande di Clementina, ella ha domandato notizie di quel giovine, e le hanno detto ch’egli è impazzito da circa un anno per la morte della fidanzata che abitava lí, dove abitano loro, Lauretta e Clementina. A quella fidanzata, prima che morisse, avevan dovuto amputare una gamba e poi l’altra, per un sarcoma che s’era rinnovato.

Ah, ecco perché! Clementina, ascoltando questo racconto della sorella, sente riempirsi gli occhi di lagrime. Per quel giovine o per sé? Sorride poi pallidamente e dice con tremula voce a Lauretta:

– Me l’ero figurato, sai? Guardava me…

3.8 Sopra e sotto

Eran venuti sú per la buja, erta scaletta di legno; sú, in silenzio, quasi di furto, piano piano. Il professor Carmelo Sabato – tozzo pingue calvo – con in braccio, come un bamboccetto in fasce, un grosso fiasco di vino. Il professor Lamella, antico alunno del Sabato, con due bottiglie di birra, una per mano.

E da piú d’un’ora, su l’alta terrazza sui tetti, irta di comignoli, di fumajoli di stufe, di tubi d’acqua, sotto lo sfavillío fitto, continuo delle stelle che pungevano il cielo senz’allargar le tenebre della notte profonda, conversavano.

E bevevano.

Vino, il professor Sabato: vino, fino a schiattarne: voleva morire. Il professor Lamella, birra: non voleva morire.

Dalle case, dalle vie della città non saliva piú, da un pezzo, nessun rumore. Solo, di tratto in tratto, qualche remoto rotolío di vettura.

La notte era afosa, e il professor Carmelo Sabato s’era dapprima snodata la cravatta e sbottonato il colletto davanti, poi anche sbottonato il panciotto e aperta la camicia sul petto velloso: alla fine, nonostante l’ammonimento di Lamella: «Professore, voi vi raffreddate», s’era tolta la giacca, e con molti sospiri, ripiegatala, se l’era messa sotto, per star piú comodo su la panchetta bassa, di legno, a sedere con le gambe distese e aperte, una qua, una là, sotto il tavolinetto rustico, imporrito dalla pioggia e dal sole.

Teneva ciondoloni il testone calvo e raso, socchiusi gli occhi bovini torbidi, venati di sangue, sotto le foltissime sopracciglia spioventi, e parlava con voce languida, velata, stiracchiata, come se si lamentasse in sogno:

– Enrichetto, Enrichetto mio, – diceva, – mi fai male… t’assicuro che mi fai male… tanto male…

Il Lamella, biondino, magro, itterico, nervosissimo, stava sdrajato su una specie d’amaca sospesa di qua a un anello nel muro del terrazzo, di là a due bacchette di ferro sui pilastrini del parapetto. Allungando un braccio, poteva prendere da terra la bottiglia: prendeva quasi sempre la vuota, e si stizziva; tanto che, alla fine, con una manata la mandò a rotolare sul pavimento in pendío, con grande angoscia, anzi terrore del vecchio professor Sabato, che si buttò subito a terra, gattoni, e le corse dietro per pararla, fermarla, gemendo, arrangolando:

– Per carità… per carità… sei matto? giú parrà un tuono.

Parlando, il Lamella si storceva tutto, non poteva star fermo un momento, si raggricchiava, si stirava, dava calci e pugni all’aria.

– Vi farò male; ne sono persuaso, caro professore; ma apposta lo faccio: voi dovete guarire! vi voglio rialzare! E vi ripeto che le vostre idee sono antiquate, antiquate, antiquate… Rifletteteci bene, e mi darete ragione!

– Enrichetto, Enrichetto mio, non sono idee, – implorava quello, con voce stiracchiata, lamentosa. – Forse prima erano idee. Ora sono il sentimento mio, quasi un bisogno, figliuolo: come questo vino: un bisogno.

– E io vi dimostro che è stupido! – incalzava l’altro. – E vi levo il vino e vi faccio cangiar di sentimento…

– Mi fai male…

– Vi faccio bene! State a sentire. Voi dite: Guardo le stelle, è vero? no, voi dite rimiro… è piú bello, sí, rimiro le stelle, e subito sento la nostra infinita, inferma piccolezza inabissarsi! Ma sentite come parlate ancora bene voi, professore? E ricordo che sempre avete parlato cosí bene voi, anche quando ci facevate lezione. Inabissarsi è detto benissimo! – Che cosa diventa la terra, voi domandate, l’uomo, tutte le nostre glorie, tutte le nostre grandezze? È vero? dite cosí?

Il professor Sabato fece di sí piú volte col testone raso. Aveva una mano abbandonata, come morta, su la panchetta, e con l’altra, sotto la camicia, s’acciuffava sul petto i peli da orso.

Il Lamella riprese con furia:

– E vi sembra serio, questo, egregio professore? Ma scusate! Se l’uomo può intendere e concepire cosí la infinita sua piccolezza, che vuol dire? Vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo! E come si può dir piccolo, dunque, l’uomo?

– Piccolo… piccolo – diceva, come da una lontananza infinita, il professor Sabato.

E il Lamella, sempre piú infuriato:

– Voi scherzate! Piccolo? Ma dentro di me dev’esserci per forza, capite? qualcosa di quest’infinito, se no io non lo intenderei, come non lo intende… che so? questa mia scarpa, putacaso, o il mio cappello. Qualcosa che, se io affiso… cosí… gli occhi alle stelle, ecco, s’apre, egregio professore, s’apre e diventa, come niente, piaga di spazio, in cui roteano mondi, dico mondi, di cui sento e comprendo la formidabile grandezza. Ma questa grandezza di chi è? È mia, caro professore! Perché è sentimento mio! E come potete dunque dire che l’uomo è piccolo, se ha in sé tanta grandezza?

Un improvviso, curioso strido – zrí – ferí il silenzio succeduto vastissimo all’ultima domanda del Lamella. Questi si voltò di scatto:

– Come? che dite?

Ma vide il professor Sabato immobile, come morto, con la fronte appoggiata allo spigolo del tavolinetto.

Era stato forse lo strido d’un pipistrello.

In quella positura, piú volte, il professore Carmelo Sabato, ascoltando le parole del Lamella, aveva gemuto:

– Tu mi rovini… tu mi rovini…

Ma a un tratto, balenandogli un’idea, levò il capo irosamente e gridò all’antico alunno:

– Ah, tu cosí ragioni? Questo, prima di tutto, l’ha detto Pascal. Ma va’ avanti! va’ avanti, perdio! Dimmi ora che significa. Significa che la grandezza dell’uomo, se mai, è solo a patto di sentire la sua infinita piccolezza! significa che l’uomo è solo grande quando al cospetto dell’infinito si sente e si vede piccolissimo; e che non è mai cosí piccolo, come quando si sente grande! Questo significa! E che conforto, che consolazione ti può venir da questo? che l’uomo è dannato qua a questa atroce disperazione: di vedere grandi le cose piccole – tutte le cose nostre, qua, della terra – e piccole le grandi là, le stelle?

Diede di piglio al fiasco, furiosamente, e ingollò due bicchieri di vino, uno sopra l’altro, come se li fosse meritati e ne avesse acquistato un incontrastabile diritto, dopo quanto aveva detto.

– E che c’entra? e che c’entra? – gridava intanto il Lamella, tirate le gambe fuori dell’amaca, e agitandole insieme con le braccia, come se volesse lanciarsi sul professore. – Conforto? consolazione? Voi cercate questo, lo so! Voi avete bisogno di vedervi, di sapervi piccolo…

– Piccolo, sí… piccolo, piccolo…

– Piccolo, tra cose piccole e meschine…

– Sí… cosí…

– Su un corpuscolo infinitesimale dello spazio, è vero?

– Sí, sí… infinitesimale…

– Ma perché? Per seguitare ad abbrutirvi, a incarognirvi!

 

Il professor Sabato non rispose: aveva in bocca di nuovo il bicchiere, che già gli ballava in mano: accennò di sí col testone, seguitando a bere.

– Vergognatevi! Vergognatevi! – inveí il Lamella. – Se la vita ha in sé, se l’uomo ha in sé quella sventura che voi dite, sta a noi di sopportarla nobilmente! Le stelle sono grandi, io sono piccolo, e dunque m’ubriaco, è vero? Questa è la vostra logica! Ma le stelle sono piccole, piccole, se voi non le concepite grandi: la grandezza dunque è in voi! E se voi siete cosí grande da concepir grandi le cose che pajono piccole, perché poi volete vedere piccole e meschine quelle che a tutti pajono grandi e gloriose? Pajono e sono, professore! Perché non è piccolo, come voi credete, l’uomo che le ha fatte, l’uomo che ha qua, qua in petto, in sé la grandezza delle stelle, quest’infinito, quest’eternità dei cieli, l’anima dell’universo immortale. Che fate? ah, voi piangete? ho capito! Siete già ubriaco, professore!

 

Il Lamella saltò dall’amaca e si chinò sul professor Sabato che, appoggiato al muro, si scoteva tutto, sussultando, quasi ruttando i singhiozzi, che a uno a uno gli rompevano dal fondo delle viscere, fetidi di vino.

– Sú, sú, smettetela, perdio! – gli gridò. – Mi fate rabbia, perché mi fate pietà! Un uomo del vostro ingegno, dei vostri studii, ridursi cosí! vergogna! Voi avete un’anima, un’anima, un’anima. Me la ricordo io, la vostra anima nobile, accesa di bene; me la ricordo io!

 

Alla fine, sorreggendolo per le ascelle, lo introdussero a traverso due stanzette buje nella camera in fondo, illuminata da due candele or ora accese sui due comodini ai lati del letto matrimoniale.

Rigido, impalato sul letto, con le braccia in croce, stava il cadavere della moglie, dal viso duro, arcigno, illividito dal riverbero delle candele sul soffitto basso, opprimente della camera.

Un’altra suora pregava inginocchiata e a mani giunte a piè del letto.

– Per carità… per carità… – gemeva, implorava il professor Carmelo Sabato, tra le lagrime, sussultando. – Enrichetto… Enrichetto mio… no, per carità… non mi dire che ho un’anima immortale… Fuori! fuori! Ecco, sí, ecco quello che io dico: fuori; sarà fuori l’anima immortale… e tu la respiri, tu sí, perché non ti sei ancora guastato… la respiri come l’aria, e te la senti dentro… certi giorni piú, certi giorni meno… Ecco quello che io dico! Fuori… fuori… per carità, lasciala fuori, l’anima immortale… Io, no… io, no… mi sono guastato apposta per non respirarla piú… m’empio di vino apposta, perché non la voglio piú, non la voglio piú dentro di me… la lascio a voi… sentitevela dentro voi… io non ne posso piú… non ne posso piú…

A questo punto, una voce dolce chiamò dal fondo della terrazza:

– Signore…

Il Lamella si volse. Là, nel vano nero dell’usciolo, biancheggiavano le ampie ali della cornetta d’una suora di carità.

Il giovane professore accorse, confabulò piano con la suora, poi tutt’e due vennero premurosamente verso l’ubriaco e lo tirarono per le braccia su in piedi.

Il professor Carmelo Sabato, scamiciato, col testone ciondolante, il viso bagnato di lagrime, sbirciò l’uno e l’altra, sorpreso, intontito da tanta premura silenziosa; non disse nulla; si lasciò condurre, cempennante.

La discesa per la buja, angusta, ripida scaletta di legno fu difficile: il Lamella, avanti, con quasi tutto il peso addosso di quel corpaccio cascante; la suora, dietro, curva a trattener con ambedue le braccia, quanto piú poteva, quel peso.

Il professor Carmelo Sabato, ancora sorretto per le ascelle, ansimante, guardò un pezzo la morta, quasi atterrito, in silenzio. Poi si volse al Lamella, come a fargli una domanda:

– Ah?

La suora, senza sdegno, con umiltà dolente e paziente gli fe’ cenno di mettersi in ginocchio, ecco, cosí come faceva lei.

– L’anima, eh? – disse alla fine il Sabato, con un sussulto. – L’anima immortale, eh?

– Signore! – supplicò l’altra suora piú anziana.

– Ah? sí… sí… subito… – si rimise, come spaurito, il professor Carmelo Sabato, calandosi faticosamente sui ginocchi.

Cadde, carponi, con la faccia a terra, e stette cosí un pezzo, picchiandosi il petto col pugno. Ma a un tratto dalla bocca, lí contro terra, gli venne fuori con suono stridulo e imbrogliato il ritornello d’una canzonettaccia francese: «Mets-la en trou, mets-la en trou…» seguíto da un ghigno: ih ih ih ih…

Le due suore si voltarono, inorridite; il Lamella si chinò subito a strapparlo da terra e trascinarlo via nella stanza accanto; lo pose a sedere su una seggiola e lo scrollò forte, forte, a lungo, intimandogli:

– Zitto! zitto!

– Sí, l’anima… – disse piano, ansimando, l’ubriaco, – anche lei… l’anima… la plaga… la plaga di spazio… dove… dove roteano mondi, mondi…

– Statevi zitto! – seguitava a gridargli in faccia, con voce soffocata, il Lamella, scrollandolo.

– Statevi zitto!

 

Il Sabato, allora, contro la sopraffazione provò di levarsi fiero in piedi; non poté; alzò un braccio; gridò:

– Due figlie… costei… due figlie mi buttò alla perdizione… due figlie!

Accorsero le due suore a scongiurarlo di calmarsi, di tacere, di perdonare; egli si rimise di nuovo, cominciò a dir di sí, di sí col capo, aspettando il pianto, che alla fine gli proruppe, dapprima con un mugolío dalla gola serrata, poi in tremendi singhiozzi. A poco a poco si calmò esortato dalle due suore; poi non pensando d’aver lasciato sú nella terrazza la giacca, cominciò a frugarsi in petto con una mano.

– Che cercate? – gli domandò il Lamella.

Guardando smarritamente le due suore e l’antico alunno, ora l’una ora l’altro, rispose:

– M’hanno scritto. Tutt’e due. Volevano veder la madre. M’hanno scritto.

 

Socchiuse gli occhi e aspirò col naso, a lungo, deliziosamente, accompagnando l’aspi-razione con un gesto espressivo della mano:

– Che profumo… che profumo… Lauretta, da Torino… l’altra, da Genova…

Tese una mano e afferrò un braccio del Lamella.

– Quella che volevi tu…

Il Lamella, mortificato davanti alle due suore, s’infoscò in volto.

– Giovannina… Vanninella, sí… Célie… ah ah ah… Célie Bouton… La volevi tu…

– Statevi zitto, professore! – muggí il Lamella, contraffatto dall’ira e dallo sdegno.

 

Il Sabato insaccò il capo fra le spalle, per paura, ma guardò da sotto in sú con malizia l’antico alunno:

– Hai ragione sí… Enrichetto, non mi far male… hai ragione… L’hai sentita all’Olympia? Mets-la en trou, mets-la en trou…

Le due suore alzarono le mani come a turarsi gli orecchi, col viso atteggiato di commiserazione, e ritornarono alla camera della defunta, chiudendone l’uscio.

Inginocchiate di nuovo a piè del letto funebre, udirono a lungo la contesa di quei due rimasti al bujo.

– Vi proibisco di ricordarlo! – gridava, soffocato, il giovine.

– Va’ a guardare le stelle… va’ a guardare le stelle… – diceva l’altro.

– Siete un buffone!

– Sí… e sai? Vanninella m’ha… m’ha anche mandato un po’ di danaro… e io non gliel’ho rimandato, sai? Sono andato alla Posta, a riscuotere il vaglia, e…

– E…?

– E ci ho comprato la birra per te, idealista.

3.9  Un goj

Il signor Daniele Catellani, mio amico, bella testa ricciuta e nasuta – capelli e naso di razza – ha un brutto vizio: ride nella gola in un certo modo cosí irritante, che a molti, tante volte, viene la tentazione di tirargli uno schiaffo. Tanto piú che, subito dopo, approva ciò che state a dirgli. Approva col capo; approva con precipitosi:

– Già, già! già, già!

Come se poc’anzi non fossero state le vostre parole a provocargli quella dispettosissima risata.

Naturalmente voi restate irritati e sconcertati. Ma badate che è poi certo che il signor Daniele Catellani farà come voi dite. Non c’è caso che s’opponga a un giudizio, a una proposta, a una considerazione degli altri.

 

Ma prima ride.

Forse perché, preso alla sprovvista, là, in un suo mondo astratto, cosí diverso da quello a cui voi d’improvviso lo richiamate, prova quella certa impressione per cui alle volte un cavallo arriccia le froge e nitrisce.

Della remissione del signor Daniele Catellani e della sua buona volontà d’accostarsi senz’urti al mondo altrui, ci sono del resto non poche prove, della cui sincerità sarebbe, io credo, indizio di soverchia diffidenza dubitare.

Cominciamo che per non offendere col suo distintivo semitico, troppo apertamente palesato dal suo primo cognome (Levi), l’ha buttato via e ha invece assunto quello di Catellani.

Ma ha fatto anche di piú.

S’è imparentato con una famiglia cattolica, nera tra le piú nere, contraendo un matrimonio cosiddetto misto, vale a dire a condizione che i figliuoli (e ne ha già cinque) fossero come la madre battezzati, e perciò perduti irremissibilmente per la sua fede.

Dicono però che quella risata cosí irritante del mio amico signor Catellani ha la data appunto di questo suo matrimonio misto.

A quanto pare, non per colpa della moglie, però, bravissima signora, molto buona con lui, ma per colpa del suocero, che è il signor Pietro Ambrini, nipote del defunto cardinale Ambrini, e uomo d’intransigentissimi principii clericali.

Come mai, voi dite, il signor Daniele Catellani andò a cacciarsi in una famiglia munita d’un futuro suocero di quella forza?

Mah!

Si vede che, concepita l’idea di contrarre un matrimonio misto, volle attuarla senza mezzi termini; e chi sa poi, forse anche con l’illusione che la scelta stessa della sposa d’una famiglia cosí notoriamente divota alla santa Chiesa cattolica, dimostrasse a tutti che egli reputava come un accidente involontario, da non doversi tenere in alcun conto, l’esser nato semita.

Lotte acerrime ebbe a sostenere per questo matrimonio. Ma è un fatto che i maggiori stenti che ci avvenga di soffrire nella vita sono sempre quelli che affrontiamo per fabbricarci con le nostre stesse mani la forca.

 

Forse però – almeno a quanto si dice – non sarebbe riuscito a impiccarsi il mio amico Catellani, senza l’ajuto non del tutto disinteressato del giovine Millino Ambrini, fratello della signora, fuggito due anni dopo in America per ragioni delicatissime, di cui è meglio non far parola.

Il fatto è che il suocero, cedendo obtorto collo alle nozze, impose alla figlia come condizione imprescindibile di non derogare d’un punto alla sua santa fede e di rispettare col massimo zelo tutti i precetti di essa, senza mai venir meno a nessuna delle pratiche religiose. Pretese inoltre che gli fosse riconosciuto come sacrosanto il diritto di sorvegliare perché precetti e pratiche fossero tutti a uno a uno osservati scrupolosamente, non solo dalla nuova signora Catellani, ma anche e piú dai figliuoli che sarebbero nati da lei.

Ancora, dopo nove anni, non ostante la remissione di cui il genero gli ha dato e seguita a dargli le piú lampanti prove, il signor Pietro Ambrini non disarma. Freddo, incadaverito e imbellettato, con gli abiti che da anni e anni gli restano sempre nuovi addosso e quel certo odore ambiguo della cipria, che le donne si dànno dopo il bagno, sotto le ascelle e altrove, ha il coraggio d’arricciare il naso, vedendolo passare, come se per le sue nari ultracattoliche il genero non si sia per anche mondato del suo pestilenzialissimo foetor judaicus.

Lo so perché spesso ne abbiamo parlato insieme.

Il signor Daniele Catellani ride in quel suo modo nella gola, non tanto perché gli sembri buffa questa vana ostinazione del fiero suocero a vedere in lui per forza un nemico della sua fede, quanto per ciò che avverte in sé da un pezzo a questa parte.

Possibile, via, che in un tempo come il nostro, in un paese come il nostro, debba sul serio esser fatto segno a una persecuzione religiosa uno come lui, sciolto fin dall’infanzia da ogni fede positiva e disposto a rispettar quella degli altri, cinese, indiana, luterana, maomettana?

Eppure, è proprio cosí. C’è poco da dire: il suocero lo perseguita. Sarà ridicola, ridicolissima, ma una vera e propria persecuzione religiosa, in casa sua, esiste. Sarà da una parte sola e contro un povero inerme, anzi venuto apposta senz’armi per arrendersi; ma una vera e propria guerra religiosa quel benedett’uomo del suocero gliela viene a rinnovare in casa ogni giorno, a tutti i costi, e con animo inflessibilmente e acerrimamente nemico.

Ora, lasciamo andare che – batti oggi e batti domani – a causa della bile che già comincia a muoverglisi dentro, l’homo judaeus prende a poco a poco a rinascere e a ricostituirsi in lui, senza ch’egli per altro voglia riconoscerlo. Lasciamo andare. Ma lo scadere ch’egli fa di giorno in giorno nella considerazione e nel rispetto della gente per tutto quell’eccesso di pratiche religiose della sua famiglia, cosí deliberatamente ostentato dal suocero, non per sentimento sincero, ma per un dispetto a lui e con l’intenzione manifesta di recare a lui una gratuita offesa, non può non essere avvertito dal mio amico signor Daniele Catellani. E c’è di piú. I figliuoli, quei poveri bambini cosí vessati dal nonno, cominciano anch’ essi ad avvertir confusamente che la cagione di quella vessazione continua che il nonno infligge loro, dev’essere in lui, nel loro papà. Non sanno quale, ma in lui dev’essere di certo. Il buon Dio, il buon Gesú – (ecco, il buon Gesú specialmente!) – ma anche i Santi, oggi questo e domani quel Santo, ch’essi vanno a pregare in chiesa col nonno ogni giorno, è chiaro ormai che hanno bisogno di tutte quelle loro preghiere, perché lui, il papà, deve aver fatto loro, di certo, chi sa che grosso male. Al buon Gesú, specialmente! E prima d’andare in chiesa, tirati per mano, si voltano, poveri piccini, ad allungargli certi sguardi cosí densi di perplessa angoscia e di doglioso rimprovero, che il mio amico signor Daniele Catellani si metterebbe a urlare chi sa quali imprecazioni, se invece… se invece non preferisse buttare indietro la testa ricciuta e nasuta e prorompere in quella sua solita risata nella gola.

 

Ma sí, via! Dovrebbe ammettere altrimenti sul serio d’aver commesso un’inutile vigliac-cheria a voltar le spalle alla fede dei suoi padri, a rinnegare nei suoi figliuoli il suo popolo eletto: ‘am olam, come dice il signor Rabbino. E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida, quando in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei, i cristiani che dovrebbero sentirsi in Cristo tutti quanti fratelli, per cinque anni si sono scannati tra loro allegramente in una guerra che, senza giudizio di quelle che verranno, non aveva avuto finora uguale nella storia.

No, no, via! Ridere, ridere. Son cose da pensare e da dir sul serio al giorno d’oggi?

Il mio amico signor Daniele Catellani sa bene come va il mondo. Gesú, sissignori. Tutti fratelli. Per poi scannarsi tra loro. È naturale. E tutto a fil di logica, con la ragione che sta da ogni parte: per modo che a mettersi di qua non si può fare a meno d’approvare ciò che s’è negato stando di là.

Approvare, approvare, approvar sempre.

Magari, sí, farci sú prima, colti alla sprovvista, una bella risata. Ma poi approvare, approvar sempre, approvar tutto.

Anche la guerra, sissignori.

Però (Dio, che risata interminabile, quella volta!) però, ecco, il signor Daniele Catellani volle fare, l’ultimo anno della grande guerra europea, uno scherzo al suo signor suocero Pietro Ambrini, uno scherzo di quelli che non si dimenticano piú.

Perché bisogna sapere che, nonostante la gran carneficina, con una magnifica faccia tosta il signor Pietro Ambrini, quell’anno, aveva pensato di festeggiare, per i cari nipotini, la ricorrenza del Santo Natale piú pomposamente che mai. E s’era fatti fabbricare tanti e tanti pastorelli di terracotta: i pastorelli che portano le loro umili offerte alla grotta di Bethlehem, al Bambinello Gesú appena nato: fiscelle di candida ricotta, panieri d’uova e cacio raviggiolo, e anche tanti branchetti di boffici pecorelle e somarelli carichi anch’essi d’altre piú ricche offerte, seguiti da vecchi massari e da campieri. E sui cammelli, ammantati, incoronati e solenni, i tre re Magi, che vengono col loro seguito da lontano lontano dietro alla stella cometa che s’è fermata su la grotta di sughero, dove su un po’ di paglia vera è il roseo Bambinello di cera tra Maria e San Giuseppe; e San Giuseppe ha in mano il bàcolo fiorito, e dietro sono il bue e l’asinello.

Aveva voluto che fosse ben grande il presepe quell’anno, il caro nonno, e tutto bello in rilievo, con poggi e dirupi, agavi e palme, e sentieri di campagna per cui si dovevano veder venire tutti quei pastorelli ch’eran perciò di varie dimensioni, coi loro branchetti di pecorelle e gli asinelli e i re Magi.

Ci aveva lavorato di nascosto per piú d’un mese, con l’ajuto di due manovali che avevan levato il palco in una stanza per sostener la plastica. E aveva voluto che fosse illuminato da lampadine azzurre in ghirlanda; e che venissero dalla Sabina, la notte di Natale, due zampognari a sonar l’acciarino e le ciaramelle.

I nipotini non ne dovevano saper nulla.

A Natale, rientrando tutti imbacuccati e infreddoliti dalla messa notturna, avrebbero trovato in casa quella gran sorpresa: il suono delle ciaramelle, l’odore dell’incenso e della mirra, e il presepe là, come un sogno, illuminato da tutte quelle lampadine azzurre in ghirlanda. E tutti i casigliani sarebbero venuti a vedere, insieme coi parenti e gli amici invitati al cenone, questa gran maraviglia ch’era costata a nonno Pietro tante cure e tanti quattrini.

Il signor Daniele lo aveva veduto per casa tutto assorto in queste misteriose faccende, e aveva riso; aveva sentito le martellate dei due manovali che piantavano il palco di là, e aveva riso.

Il demonio, che gli s’è domiciliato da tant’anni nella gola, quell’anno, per Natale, non gli aveva voluto dar piú requie: giú risate e risate senza fine. Invano, alzando le mani, gli aveva fatto cenno di calmarsi; invano lo aveva ammonito di non esagerare, di non eccedere.

– Non esagereremo, no! – gli aveva risposto dentro il demonio. – Sta’ pur sicuro che non eccederemo. Codesti pastorelli con le fiscelline di ricotta e i panierini d’uova e il cacio raviggiolo sono un caro scherzo, chi lo può negare? cosí in cammino tutti verso la grotta di Bethlehem! Ebbene, resteremo nello scherzo anche noi, non dubitare! Sarà uno scherzo anche il nostro, e non meno carino. Vedrai.

Cosí il signor Daniele s’era lasciato tentare dal suo demonio; vinto sopra tutto da questa capziosa considerazione: che cioè sarebbe restato nello scherzo anche lui.

Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitú si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioja quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta – personaggi e offerte al buon Gesú, che il suo demonio non aveva stimato convenienti al Natale d’un anno di guerra come quello – e al loro posto mise piú propriamente, che cosa? niente, altri giocattoli: soldatini di stagno, ma tanti, ma tanti, eserciti di soldatini di stagno, d’ogni nazione, francesi e tedeschi, italiani e austriaci, russi e inglesi, serbi e rumeni, bulgari e turchi, belgi e americani e ungheresi e montenegrini, tutti coi fucili spianati contro la grotta di Bethlehem, e poi, e poi tanti cannoncini di piombo, intere batterie, d’ogni foggia, d’ogni dimensione, puntati anch’essi di sú, di giú, da ogni parte, tutti contro la grotta di Bethlehem, i quali avrebbero fatto veramente un nuovo e graziosissimo spettacolo.

Poi si nascose dietro il presepe.

Lascio immaginare a voi come rise là dietro, quando, alla fine della messa notturna, vennero incontro alla meravigliosa sorpresa il nonno Pietro coi nipotini e la figlia e tutta la folla degli invitati, mentre già l’incenso fumava e i zampognari davano fiato alle loro ciaramelle.

3.10 La patente

Con quale inflessione di voce e quale atteggiamento d’occhi e di mani, curvandosi, come chi regge rassegnatamente su le spalle un peso insopportabile, il magro giudice D’Andrea soleva ripetere: «Ah, figlio caro!» a chiunque gli facesse qualche scherzosa osservazione per il suo strambo modo di vivere!

Non era ancor vecchio; poteva avere appena quarant’anni; ma cose stranissime e quasi inverosimili, mostruosi intrecci di razze, misteriosi travagli di secoli bisognava immaginare per giungere a una qualche approssimativa spiegazione di quel prodotto umano che si chiamava il giudice D’Andrea.

E pareva ch’egli, oltre che della sua povera, umile, comunissima storia familiare, avesse notizia certa di quei mostruosi intrecci di razze, donde al suo smunto sparuto viso di bianco eran potuti venire quei capelli crespi gremiti da negro; e fosse consapevole di quei misteriosi infiniti travagli di secoli, che su la vasta fronte protuberante gli avevano accumulato tutto quel groviglio di rughe e tolto quasi la vista ai piccoli occhi plumbei, e scontorto tutta la magra, misera personcina.

Cosí sbilenco, con una spalla piú alta dell’altra, andava per via di traverso, come i cani. Nessuno però, moralmente, sapeva rigar piú diritto di lui. Lo dicevano tutti.

Vedere, non aveva potuto vedere molte cose, il giudice D’Andrea; ma certo moltissime ne aveva pensate, e quando il pensare è piú triste, cioè di notte.

Il giudice D’Andrea non poteva dormire.

Passava quasi tutte le notti alla finestra a spazzolarsi una mano a quei duri gremiti suoi capelli da negro, con gli occhi alle stelle, placide e chiare le une come polle di luce, guizzanti e pungenti le altre; e metteva le piú vive in rapporti ideali di figure geometriche, di triangoli e di quadrati, e, socchiudendo le palpebre dietro le lenti, pigliava tra i peli delle ciglia la luce d’una di quelle stelle, e tra l’occhio e la stella stabiliva il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi avviava l’anima a passeggiare come un ragnetto smarrito.

Il pensare cosí di notte non conferisce molto alla salute. L’arcana solennità che acquistano i pensieri produce quasi sempre, specie a certuni che hanno in sé una certezza su la quale non possono riposare, la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo, qualche seria costipazione. Costipazione d’anima, s’intende.

E al giudice D’Andrea, quando si faceva giorno, pareva una cosa buffa e atroce nello stesso tempo, ch’egli dovesse recarsi al suo ufficio d’Istruzione ad amministrare – per quel tanto che a lui toccava – la giustizia ai piccoli poveri  uomini feroci.

Come non dormiva lui, cosí sul suo tavolino nell’ufficio d’Istruzione non lasciava mai dormire nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore il desinare e di rinunziar la sera, prima di cena, alla solita passeggiata coi colleghi per il viale attorno alle mura del paese.

Questa puntualità, considerata da lui come dovere imprescindibile, gli accresceva terribilmente il supplizio. Non solo amministrare la giustizia gli toccava; ma d’amministrarla cosí, su due piedi.

 

Per poter essere meno frettolosamente puntuale, credeva d’ajutarsi meditando la notte. Ma, neanche a farlo apposta, la notte, spazzolando la mano a quei suoi capelli da negro e guardando le stelle, gli venivano tutti i pensieri contrarii a quelli che dovevano fare al caso per lui, data la sua qualità di giudice istruttore; cosí che, la mattina dopo, anziché aiutata, vedeva insidiata e ostacolata la sua puntualità da quei pensieri della notte e cresciuto enormemente lo stento di tenersi stretto a quell’odiosa sua qualità di giudice istruttore.

Eppure, per la prima volta, da circa una settimana, dormiva un incartamento sul tavolino del giudice D’Andrea. E per quel processo che stava lí da tanti giorni in attesa, egli era in preda a una irritazione smaniosa, a una tetraggine soffocante.

Si sprofondava tanto in questa tetraggine, che gli occhi aggrottati, a un certo punto, gli si chiudevano. Con la penna in mano, dritto sul busto, il giudice D’Andrea si metteva allora a pisolare, prima raccorciandosi, poi attrappandosi come un baco infratito che non possa piú fare il bozzolo.

 

Appena, o per qualche rumore o per un crollo piú forte del capo, si ridestava e gli occhi gli andavano lí, a quell’angolo del tavolino dove giaceva l’incartamento, voltava la faccia e, serrando le labbra, tirava con le nari fischianti aria aria aria e la mandava dentro, quanto piú dentro poteva, ad allargar le viscere contratte dall’esasperazione, poi la ributtava via spalancando la bocca con un versaccio di nausea, e subito si portava una mano sul naso adunco a regger le lenti che, per il sudore, gli scivolavano.

 

Era veramente iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una spietata ingiustizia contro alla quale un pover’uomo tentava disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C’era in quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva voluto prendersela con due, lí in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto mano, e – sissignori – la giustizia doveva dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo cosí, ferocemente, l’iniquità di cui quel pover’uomo era vittima.

A passeggio, tentava di parlarne coi colleghi; ma questi, appena egli faceva il nome del Chiàrchiaro, cioè di colui che aveva intentato il processo, si alteravano in viso e si ficcavano subito una mano in tasca a stringervi una chiave, o sotto sotto allungavano l’indice e il mignolo a far le corna, o s’afferravano sul panciotto i gobbetti d’argento, i chiodi, i corni di corallo pendenti dalla catena dell’orologio. Qualcuno, piú francamente, prorompeva:

– Per la Madonna Santissima, ti vuoi star zitto?

Ma non poteva starsi zitto il magro giudice D’Andrea. Se n’era fatta proprio una fissazione, di quel processo. Gira gira, ricascava per forza a parlarne. Per avere un qualche lume dai colleghi – diceva – per discutere cosí in astratto il caso.

Perché, in verità, era un caso insolito e speciosissimo quello d’un jettatore che si querelava per diffamazione contro i primi due che gli erano caduti sotto gli occhi nell’atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio.

Diffamazione? Ma che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era diffusissima in tutto il paese la sua fama di jettatore? se innumerevoli testimonii potevano venire in tribunale a giurare che egli in tante e tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama, ribellandosi con proteste violente? Come condannare, in coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al passaggio di lui il gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri, e primi fra tutti – eccoli là – gli stessi giudici?

E il D’Andrea si struggeva; si struggeva di piú incontrando per via gli avvocati, nelle cui mani si erano messi quei due giovanotti, l’esile e patitissimo avvocato Grigli, dal profilo di vecchio uccello di rapina, e il grasso Manin Baracca, il quale, portando in trionfo su la pancia un enorme corno comperato per l’occasione e ridendo con tutta la pallida carnaccia di biondo majale eloquente, prometteva ai concittadini che presto in tribunale sarebbe stata per tutti una magnifica festa.

Orbene, proprio per non dare al paese lo spettacolo di quella «magnifica festa» alle spalle d’un povero disgraziato, il giudice D’Andrea prese alla fine la risoluzione di mandare un usciere in casa del Chiàrchiaro per invitarlo a venire all’ufficio d’Istruzione. Anche a costo di pagar lui le spese, voleva indurlo a desistere dalla querela, dimostrandogli quattro e quattr’otto che quei due giovanotti non potevano essere condannati, secondo giustizia, e che dalla loro assoluzione inevitabile sarebbe venuto a lui certamente maggior danno, una piú crudele persecuzione.

Ahimè, è proprio vero che è molto piú facile fare il male che il bene, non solo perché il male si può fare a tutti e il bene solo a quelli che ne hanno bisogno; ma anche, anzi sopra tutto, perché questo bisogno d’aver fatto il bene rende spesso cosí acerbi e irti gli animi di coloro che si vorrebbero beneficare, che il beneficio diventa difficilissimo.

Se n’accorse bene quella volta il giudice D’Andrea, appena alzò gli occhi a guardare il Chiàrchiaro, che gli era entrato nella stanza, mentr’egli era intento a scrivere. Ebbe uno scatto violentissimo e buttò all’aria le carte, balzando in piedi e gridandogli:

– Ma fatemi il piacere! Che storie son queste? Vergognatevi!

Il Chiàrchiaro s’era combinata una faccia da jettatore, ch’era una meraviglia a vedere. S’era lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s’era insellato sul naso un pajo di grossi occhiali cerchiati d’osso, che gli davano l’aspetto d’un barbagianni; aveva poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti.

 

Allo scatto del giudice non si scompose. Dilatò le nari, digrignò i denti gialli e disse sottovoce:

– Lei dunque non ci crede?

– Ma fatemi il piacere! – ripeté il giudice D’Andrea. – Non facciamo scherzi, caro Chiàrchiaro! O siete impazzito? Via, via, sedete, sedete qua.

E gli s’accostò e fece per posargli una mano su la spalla. Subito il Chiàrchiaro sfagliò come un mulo, fremendo:

– Signor giudice, non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, com’è vero Dio, diventa cieco!

Il D’Andrea stette a guardarlo freddamente, poi disse:

– Quando sarete comodo… Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c’è una sedia, sedete.

Il Chiàrchiaro sedette e, facendo rotolar con le mani su le cosce la canna d’India a mo’ d’un matterello, si mise a tentennare il capo.

– Per il mio bene? Ah, lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo di non credere alla jettatura?

Il D’Andrea sedette anche lui e disse:

– Volete che vi dica che ci credo? E vi dirò che ci credo! Va bene cosí?

– Nossignore, – negò recisamente il Chiàrchiaro, col tono di chi non ammette scherzi. – Lei deve crederci sul serio, e deve anche dimostrarlo istruendo il processo!

– Questo sarà un po’ difficile, – sorrise mestamente il D’Andrea. – Ma vediamo di intenderci, caro Chiàrchiaro. Voglio dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che possa condurvi a buon porto.

 

– Via? porto? Che porto e che via? – domandò, aggrondato, il Chiàrchiaro.

– Né questa d’adesso, – rispose il D’Andrea, – né quella là del processo. Già l’una e l’altra, scusate, son tra loro cosí.

E il giudice D’Andrea infrontò gl’indici delle mani per significare che le due vie gli parevano opposte.

Il Chiàrchiaro si chinò e tra i due indici cosí infrontati del giudice ne inserí uno suo, tozzo, peloso e non molto pulito.

– Non è vero niente, signor giudice! – disse, agitando quel dito.

– Come no? – esclamò il D’Andrea. – Là accusate come diffamatori due giovani perché vi credono jettatore, e ora qua voi stesso vi presentate innanzi a me in veste di jettatore e pretendete anzi ch’io creda alla vostra jettatura.

– Sissignore.

– E non vi pare che ci sia contraddizione?

Il Chiàrchiaro scosse piú volte il capo con la bocca aperta a un muto ghigno di sdegnosa commiserazione.

– Mi pare piuttosto, signor giudice, – poi disse, – che lei non capisca niente.

Il D’Andrea lo guardò un pezzo, imbalordito.

– Dite pure, dite pure, caro Chiàrchiaro. Forse è una verità sacrosanta questa che vi è scappata dalla bocca. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente.

– Sissignore. Eccomi qua, – disse il Chiàrchiaro, accostando la seggiola. – Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anche che lei è un mio mortale nemico. Lei, lei, sissignore. Lei che crede di fare il mio bene. Il mio piú acerrimo nemico! Sa o non sa che i due imputati hanno chiesto il patrocinio dell’avvocato Manin Baracca?

– Sí. Questo lo so.

– Ebbene, all’avvocato Manin Baracca io, Rosario Chiàrchiaro, io stesso sono andato a fornire le prove del fatto: cioè, che non solo mi ero accorto da piú d’un anno che tutti, vedendomi passare, facevano le corna, ma le prove anche, prove documentate e testimonianze irrepetibili dei fatti spaventosi su cui è edificata incrollabilmente, incrolla-bilmente, capisce, signor giudice? la mia fama di jettatore!

– Voi? Dal Baracca?

– Sissignore, io.

 

Il giudice lo guardò, piú imbalordito che mai:

– Capisco anche meno di prima. Ma come? Per render piú sicura l’assoluzione di quei giovanotti? E perché allora vi siete querelato?

Il Chiàrchiaro ebbe un prorompimento di stizza per la durezza di mente del giudice D’Andrea; si levò in piedi, gridando con le braccia per aria:

– Ma perché io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza, non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza spaventosa, che è ormai l’unico mio capitale!

E ansimando, protese il braccio, batté forte sul pavimento la canna d’India e rimase un pezzo impostato in quell’atteggiamento grottescamente imperioso.

Il giudice D’Andrea si curvò, si prese la testa tra le mani, commosso, e ripeté:

– Povero caro Chiàrchiaro mio, povero caro Chiàrchiaro mio, bel capitale! E che te ne fai? che te ne fai?

– Che me ne faccio? – rimbeccò pronto il Chiàrchiaro. – Lei, padrone mio, per esercitare codesta professione di giudice, anche cosí male come la esercita, mi dica un po’, non ha dovuto prender la laurea?

– La laurea, sí.

– Ebbene, voglio anch’io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col bollo. Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale.

– E poi?

– E poi? Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov’ero scritturale, con la scusa che, essendoci io, nessuno piú veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà piú sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione del jettatore! Mi sono parato cosí, con questi occhiali, con quest’abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo! Lei mi domanda come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un mio nemico!

– Io?

– Sissignore. Perché mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’aver ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!

Il giudice D’Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l’angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a lungo.

Questi lo lasciò fare.

– Mi vuol bene davvero? – gli domandò. – E allora istruisca subito il processo, e in modo da farmi avere al piú presto quello che desidero.

– La patente?

Il Chiàrchiaro protese di nuovo il braccio, batté la canna d’India sul pavimento e, portandosi l’altra mano al petto, ripeté con tragica solennità:

– La patente.

3.11  Notte

Passata la stazione di Sulmona, Silvestro Noli rimase solo nella lercia vettura di seconda classe.

Volse un’ultima occhiata alla fiammella fumolenta, che vacillava e quasi veniva a mancare agli sbalzi della corsa, per l’olio caduto e guazzante nel vetro concavo dello schermo, e chiuse gli occhi con la speranza che il sonno, per la stanchezza del lungo viaggio (viaggiava da un giorno e una notte), lo togliesse all’angoscia nella quale si sentiva affogare sempre piú, man mano che il treno lo avvicinava al luogo del suo esilio.

Mai piú! mai piú! mai piú! Da quanto tempo il fragor cadenzato delle ruote gli ripeteva nella notte queste due parole?

Mai piú, sí, mai piú, la vita gaja della sua giovinezza, mai piú, là tra i compagni spensierati, sotto i portici popolosi della sua Torino; mai piú il conforto, quel caldo alito familiare della sua vecchia casa paterna; mai piú le cure amorose della madre, mai piú il tenero sorriso nello sguardo protettore del padre.

Forse non li avrebbe riveduti mai piú, quei suoi cari vecchi! La mamma, la mamma specialmente! Ah, come l’aveva ritrovata, dopo sette anni di lontananza! Curva, rimpiccolita, in cosí pochi anni, e come di cera e senza piú denti. Gli occhi soli ancora vivi. Poveri cari santi occhi belli!

 

Guardando la madre, guardando il padre, ascoltando i loro discorsi, aggirandosi per le stanze e cercando attorno, aveva sentito bene, che non per lui soltanto aveva avuto fine la vita della casa paterna. Con la sua ultima partenza, sette anni addietro, la vita era finita lí anche per gli altri.

Se l’era dunque portata via lui con sé? E che ne aveva fatto? Dov’era piú in lui la vita? Gli altri avevano potuto credere che se la fosse portata via con sé; ma lui sapeva di averla lasciata lí, invece, la sua, partendo; e ora, a non ritrovarcela piú, nel sentirsi dire che non poteva piú trovarci nulla, perché s’era portato via tutto lui, aveva provato, nel vuoto, un gelo di morte.

Con questo gelo nel cuore ritornava ora in Abruzzo, spirata la licenza di quindici giorni concessagli dal direttore delle scuole normali maschili di Città Sant’Angelo, ove da cinque anni insegnava disegno.

 

Prima che in Abruzzo era stato professore un anno in Calabria; un altro anno, in Basilicata. A Città Sant’Angelo, vinto e accecato dal bisogno cocente e smanioso d’un affetto che gli riempisse il vuoto in cui si vedeva sperduto, aveva commesso la follia di prender moglie; e s’era inchiodato lí, per sempre.

La moglie, nata e cresciuta in quell’alto umido paesello, privo anche d’acqua, coi pregiudizii angustiosi, le gretterie meschine e la scontrosità e la rilassatezza della pigra sciocca vita provinciale, anziché dargli compagnia, gli aveva accresciuto attorno la solitudine, facendogli sentire ogni momento quanto fosse lontano dall’intimità d’una famiglia che avrebbe dovuto esser sua, e nella quale invece né un suo pensiero, né un suo sentimento riuscivano mai a penetrare.

Gli era nato un bambino, e – cosa atroce! – anche quel suo bambino aveva sentito, fin dal primo giorno, estraneo a sé, come se fosse appartenuto tutto alla madre, e niente a lui.

Forse il figliuolo sarebbe diventato suo, se egli avesse potuto strapparlo da quella casa, da quel paese; e anche la moglie forse sarebbe diventata sua compagna veramente, ed egli avrebbe sentito la gioja d’avere una casa sua, una famiglia sua, se avesse potuto chiedere e ottenere un trasferimento altrove. Ma gli era negato anche di sperare in un tempo lontano questa salvezza, perché sua moglie, che non s’era voluta muovere dal paese neanche per un breve viaggio di nozze, neanche per andare a conoscere la madre e il padre di lui e gli altri parenti a Torino, minacciava che, anziché dai suoi, si sarebbe divisa da lui a un caso di trasferimento.

Dunque, lí; funghire lí, stare lí ad aspettare, in quell’orrenda solitudine, che lo spirito a poco a poco gli si vestisse d’una scorza di stupidità. Amava tanto il teatro, la musica, tutte le arti, e quasi non sapeva parlar d’altro: sarebbe rimasto sempre con la sete di esse, anche di esse, sí, come d’un bicchier d’acqua pura! Ah, non la poteva bere, lui, quell’acqua greve, cruda, renosiccia delle cisterne. Dicevano che non faceva male; ma egli si sentiva da un pezzo anche malato di stomaco. Immaginario? Già! Per giunta, la derisione.

Le palpebre chiuse non riuscirono piú a contenere le lagrime, di cui s’erano riempite. Mordendosi il labbro, come per impedire che gli rompesse dalla gola anche qualche singhiozzo, Silvestro Noli trasse di tasca un fazzoletto.

Non pensò che aveva il viso tutto affumicato dal lungo viaggio; e, guardando il fazzoletto, restò offeso e indispettito dalla sudicia impronta del suo pianto. Vide in quella sudicia impronta la sua vita, e prese tra i denti il fazzoletto quasi per stracciarlo.

Alla fine il treno si fermò alla stazione di Castellammare Adriatico.

Per altri venti minuti di cammino, gli toccava aspettare piú di cinque ore in quella stazione. Era la sorte dei viaggiatori che arrivavano con quel treno notturno da Roma e dovevano proseguire per le linee d’Ancona o di Foggia.

Meno male che, nella stazione, c’era il caffè aperto tutta la notte, ampio, bene illuminato, con le tavole apparecchiate, nella cui luce e nel cui movimento si poteva in qualche modo ingannar l’ozio e la tristezza della lunga attesa. Ma erano dipinti sui visi gonfii, pallidi, sudici e sbattuti dei viaggiatori una tetra ambascia, un fastidio opprimente, un’agra nausea della vita che, lontana dai consueti affetti, fuor della traccia delle abitudini, si scopriva a tutti vacua, stolta, incresciosa.

Forse tanti e tanti s’eran sentiti stringere il cuore al fischio lamentoso del treno in corsa nella notte. Ognun d’essi stava lí forse a pensare che le brighe umane non han requie neanche nella notte; e, siccome sopra tutto nella notte appajon vane, prive come sono delle illusioni della luce, e anche per quel senso di precarietà angosciosa che tien sospeso l’animo di chi viaggia e che ci fa vedere sperduti su la terra, ognun d’essi, forse, stava lí a pensare che la follía accende i fuochi nelle macchine nere, e che nella notte, sotto le stelle, i treni correndo per i piani buj, passando strepitosi sui ponti, cacciandosi nei lunghi trafori, gridano di tratto in tratto il disperato lamento di dover trascinare cosí nella notte la follía umana lungo le vie di ferro, tracciate per dare uno sfogo alle sue fiere smanie infaticabili.

Silvestro Noli, bevuta a lenti sorsi una tazza di latte, si alzò per uscire dalla stazione per l’altra porta del caffè in fondo alla sala. Voleva andare alla spiaggia, a respirar la brezza notturna del mare, attraversando il largo viale della città dormente.

Se non che, passando innanzi a un tavolino, si sentí chiamare da una signora di piccolissima statura, esile, pallida, magra, in fitte gramaglie vedovili.

– Professor Noli…

Si fermò perplesso, stupito:

– Signora… oh, lei, signora Nina? come mai?

Era la moglie d’un collega, del professor Ronchi, conosciuto sei anni fa, a Matera, nelle scuole tecniche. Morto, sí, sí, morto – lo sapeva – morto pochi mesi addietro, a Lanciano, ancor giovane. Ne aveva letto con doloroso stupore l’annunzio nel bollettino. Povero Ronchi, appena arrivato al liceo, dopo tanti concorsi disgraziati, morto all’improvviso, di sincope, per troppo amore, dicevano, di quella sua minuscola mogliettina, ch’egli come un orso gigantesco, violento, testardo, si trascinava sempre dietro, da per tutto.

Ecco, la vedovina, portandosi alla bocca il fazzoletto listato di lutto, guardandolo con gli occhi neri, bellissimi, affondati nelle livide occhiaje enfiate, gli diceva con un lieve tentennío del capo l’atrocità della sua tragedia recente.

Vedendo da quei begli occhi neri sgorgare due grosse lacrime, il Noli invitò la signora ad alzarsi e ad uscire con lui dal caffè, per parlare liberamente, lungo il viale deserto fino al mare in fondo.

Ella fremeva in tutta la misera personcina nervosa e pareva andasse a sbalzi e gesticolava a scatti, con le spalle, con le braccia, con le lunghissime mani, quasi scusse di carne. Si mise a parlare affollatamente, e subito le s’infiammarono, di qua e di là, le tempie e gli zigomi. Raddoppiava, per un vezzo di pronunzia, la effe in principio di parola, e pareva sbuffasse, e di continuo si passava il fazzoletto su la punta del naso e sul labbro superiore che, stranamente, nella furia del parlare, le s’imperlavano di sudore; e la salivazione le si attivava con tanta abbondanza, che la voce, a tratti, quasi vi affogava.

– Ah, Noli, vedete? qua, caro Noli, m’ha lasciata qua, sola, con tre ffigliuoli, in un paese dove non conosco nessuno, dov’ero arrivata da due mesi appena… Sola, sola… Ah, che uomo terribile, Noli! S’è distrutto e ha distrutto anche me, la mia salute, la mia vita… tutto… Addosso, Noli, lo sapete? m’è morto addosso… addosso…

Si scosse in un brivido lungo, che finí quasi in un nitrito.

Riprese:

– Mi levò dal mio paese, dove ora non ho piú nessuno, tranne una sorella maritata per conto suo… Che andrei piú a ffare lí? Non voglio dare spettacolo della mia miseria a quanti mi invidiarono un giorno… Ma qui, sola con tre bambini, sconosciuta da tutti… che ffarò? Sono disperata… mi sento perduta… Sono stata a Roma a sollecitare qualche assegno… Non ho diritto a niente: undici anni soli d’insegnamento, undici mesate: poche migliaja di lire… Non me le avevano ancora liquidate! Ho strillato tanto al Ministero, che mi hanno preso per pazza… Cara signora, dice, docce ffredde, docce ffredde!… Ma sí! fforse impazzisco davvero… Ho qui, perpetuo, qui, un dolore, come un rodío, un tiramento, qui, al cervelletto, Noli… E sono come arrabbiata… sí, sí… sono rimasta come arrabbiata… come arsa dentro… con un ffuoco, con un ffuoco in tutto il corpo… Ah, come siete ffresco, voi Noli, come siete ffresco, voi!

E, in cosí dire, in mezzo all’umido viale deserto, sotto le pallide lampade elettriche, le quali, troppo distanti l’una dall’altra, diffondevano appena nella notte un rado chiarore opalino, gli si appese al braccio, gli cacciò sul petto la testa, chiusa nella cuffia di crespo vedovile, frugando, come per affondargliela dentro, e ruppe in smaniosi singhiozzi.

Il Noli, sbalordito, costernato, commosso, arretrò istintivamente per staccarsela d’addosso. Comprese che quella povera donna, nello stato di disperazione in cui si trovava, si sarebbe aggrappata forsennatamente al primo uomo di sua conoscenza, che le fosse venuto innanzi.

– Coraggio, coraggio, signora, – le disse. – Fresco? Eh sí, fresco. Ho già moglie, io, signora mia.

– Ah, – fece la donnetta, staccandosi subito. – Moglie? Avete preso moglie?

– Già da quattr’anni, signora. Ho anche un bambino.

– Qua?

– Qua vicino. A Città Sant’Angelo.

La vedovina gli lasciò anche il braccio.

– Ma non siete piemontese voi?

– Sí, di Torino proprio.

– E la vostra signora?

– Ah, no, la mia signora è di qua.

I due si fermarono sotto una delle lampade elettriche e si guardarono e si compresero.

Ella era dell’estremo lembo d’Italia, di Bagnara Calabra.

Si videro tutti e due, nella notte, sperduti in quel lungo, ampio viale deserto e malinconico, che andava al mare, tra i villini e le case dormenti di quella città cosí lontana dai loro primi e veri affetti e pur cosí vicina ai luoghi ove la sorte crudele aveva fermato la loro dimora. E sentirono l’uno per l’altra una profonda pietà, che, anziché ad unirsi, li persuadeva amaramente a tenersi discosti l’uno dall’altra, chiuso ciascuno nella propria miseria inconsolabile.

Andarono, muti, fino alla spiaggia sabbiosa, e si appressarono al mare.

La notte era placidissima; la frescura della brezza marina, deliziosa.

Il mare, sterminato, non si vedeva, ma si sentiva vivo e palpitante nella nera, infinita, tranquilla voragine della notte.

Solo, da un lato, in fondo, s’intravedeva tra le brume sedenti su l’orizzonte alcunché di sanguigno e di torbo, tremolante su le acque. Era forse l’ultimo quarto della luna, che declinava, avviluppata nella caligine.

Su la spiaggia le ondate si allungavano e si spandevano senza spuma, come lingue silenziose, lasciando qua e là su la rena liscia, lucida, tutta imbevuta d’acqua, qualche conchiglia, che subito, al ritrarsi dell’ondata, s’affondava.

In alto, tutto quel silenzio fascinoso era trafitto da uno sfavillío acuto, incessante di innumerevoli stelle, cosí vive, che pareva volessero dire qualcosa alla terra, nel mistero profondo della notte.

I due seguitarono ad andar muti un lungo tratto su la rena umida, cedevole. L’orma dei loro passi durava un attimo: l’una vaniva, appena l’altra s’imprimeva. Si udiva solo il fruscío dei loro abiti.

Una lancia biancheggiante nell’ombra, tirata a secco e capovolta su la sabbia, li attrasse. Vi si posero a sedere, lei da un lato, lui dall’altro, e rimasero ancora un pezzo in silenzio a mirar le ondate che si allargavano placide, vitree su la bigia rena molliccia. Poi la donna alzò i begli occhi neri al cielo, e scoprí a lui, al lume delle stelle, il pallore della fronte torturata, della gola serrata certo dall’angoscia.

– Noli, non cantate piú?

– Io… cantare?

– Ma sí, voi cantavate, un tempo, nelle belle notti… Non vi ricordate, a Matera? Cantavate… L’ho ancora negli orecchi, il suono della vostra vocetta intonata… Cantavate in ffalsetto… con tanta dolcezza… con tanta grazia appassionata… Non ricordate piú?…

Egli si sentí sommuovere tutto il fondo dell’essere alla rievocazione improvvisa di quel ricordo ed ebbe nei capelli, per la schiena, i brividi d’un intenerimento ineffabile.

Sí, sí… era vero: egli cantava, allora… fino laggiú, a Matera, ancora aveva nell’anima i dolci canti appassionati della sua giovinezza e, nelle belle sere, passeggiando con qualche amico, sotto le stelle, quei canti gli rifiorivano su le labbra.

Era dunque vero ch’egli se l’era portata via con sé, la vita, dalla casa paterna di Torino; ancora laggiú la aveva con sé, certo, se cantava… accanto a questa povera piccola amica, a cui forse aveva fatto un po’ di corte, in quei giorni lontani, oh cosí, per simpatia, senza malizia… per bisogno di sentirsi accanto il tepore d’un po’ d’affetto, la tenerezza blanda d’una donna amica.

– Vi ricordate, Noli?

Egli, con gli occhi nel vuoto della notte, bisbigliò:

– Sí… sí, signora, ricordo…

– Piangete?

– Ricordo…

Tacquero di nuovo. Guardando entrambi nella notte, sentivano ora che la loro infelicità quasi vaporava, non era piú di essi soltanto, ma di tutto il mondo, di tutti gli esseri e di tutte le cose, di quel mare tenebroso e insonne, di quelle stelle sfavillanti nel cielo, di tutta la vita che non può sapere perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire.

La fresca, placida tenebra, trapunta da tante stelle, sul mare, avvolgeva il loro cordoglio, che si effondeva nella notte e palpitava con quelle stelle e s’abbatteva lento, lieve, monotono con quelle ondate su la spiaggia silenziosa. Le stelle, anch’esse, lanciando quei loro guizzi di luce negli abissi dello spazio, chiedevano perché; lo chiedeva il mare con quelle stracche ondate, e anche le piccole conchiglie lasciate qua e là su la rena.

Ma a poco a poco la tenebra cominciò a diradarsi, cominciò ad aprirsi sul mare un primo frigido pallore d’alba. Allora, quanto c’era di vaporoso, d’arcano, quasi di vellutato nel cordoglio di quei due rimasti appoggiati ai fianchi della lancia capovolta su la sabbia, si restrinse, si precisò con nuda durezza, come i lineamenti dei loro volti nella incerta squallida prima luce del giorno.

Egli si sentí tutto ripreso dalla miseria abituale della sua casa vicina, ove tra poco sarebbe arrivato: la rivide, come se già vi fosse, con tutti i suoi colori, in tutti i suoi particolari, con entro la moglie e il suo piccino, che gli avrebbero fatto festa all’arrivo. E anch’ella, la vedovina, non vide piú cosí nera e cosí disperata la sua sorte: aveva con sé parecchie migliaja di lire, cioè la vita assicurata per qualche tempo: avrebbe trovato modo di provvedere all’avvenire suo e dei tre piccini. Si racconciò con le mani i capelli su la fronte e disse, sorridendo, al Noli:

– Chi sa che ffaccia avrò, caro amico, non è vero?

E si mossero entrambi per ritornare alla stazione.

Nel piú profondo recesso della loro anima il ricordo di quella notte s’era chiuso; forse, chi sa! per riaffacciarsi poi, qualche volta, nella lontana memoria, con tutto quel mare placido, nero, con tutte quelle stelle sfavillanti, come uno sprazzo d’arcana poesia e d’arcana amarezza.

3.12 O di uno o di nessuno

I

Chi era stato? Uno de’ due, certamente. O forse un terzo, ignoto. Ma no: in coscienza, né l’uno, né l’altro de’ due amici avevano alcun motivo di sospettarlo. Melina era buona, modesta; e poi, cosí disgustata dall’antica sua vita; a Roma non conosceva nessuno; viveva appartata e, se non proprio contenta, si dimostrava gratissima della condizione che le avevano fatta, richiamandola due anni addietro, da Padova, dove, studenti allora d’università, l’avevano conosciuta.

Vinto insieme un concorso al Ministero della guerra, collegata la loro vita in tutto, Tito Morena e Carlino Sanni avevano stimato prudente e giudizioso, due anni addietro, cioè ai primi aumenti dello stipendio, provvedere anche insieme al bisogno indispensabile d’una donna, che li curasse e salvasse dal rischio a cui erano esposti, seguitando ciascuno per suo conto a cercare una qualche sicura stabilità d’amore, di contrarre un tristo legame, non men gravoso d’un matrimonio, per adesso e forse per sempre conteso loro dalle ristrettezze finanziarie e difficoltà della vita.

E avevano pensato a Melina, tenera e dolce amica degli studenti padovani, che erano soliti andar a trovare in via del Santo, nelle sere d’inverno e di primavera lassú. Melina sarebbe stata la piú adatta per loro: avrebbe recato con sé da Padova tutti i lieti ricordi della prima, spensierata gioventú. Le avevano scritto; aveva accettato; e allora (giudiziosamente, come sempre) avevano disposto che ella non coabitasse con loro. Le avevano preso in affitto due stanzette modeste in un quartiere lontano, fuori di porta, e lí andavano a trovarla, ora l’uno ora l’altro, cosí come s’erano accordati, senza invidia e senza gelosia.

Tutto era andato bene per due anni, con soddisfazione d’entrambi.

D’indole mitissima, di poche parole e ritegnosa, Melina si era mostrata amica a tutt’e due, senz’ombra di preferenza né per l’uno né per l’altro. Erano due bravi giovani, bene educati e cordiali. Certo, uno – Tito Morena – era piú bello; ma Carlino Sanni (che non era poi brutto neanche lui, quantunque avesse la testa d’una forma curiosa) molto piú vivace e grazioso dell’altro.

L’annunzio inatteso, di quel caso impreveduto, gettò i due amici in preda a una profonda costernazione.

Un figlio!

Uno di loro due era stato, certamente; chi de’ due, né l’uno né l’altro, né la stessa Melina potevano sapere. Era una sciagura per tutti e tre; e nessuno de’ due amici s’arrischiò a domandare dapprima alla donna: – Tu chi credi? – per timore che l’altro potesse sospettare ch’egli intendesse con ciò di sottrarsi alla responsabilità, rovesciandola soltanto addosso a uno; né Melina tentò minimamente d’indurre l’uno o l’altro a credere che il padre fosse lui.

Ella era nelle mani di tutti e due, e a tutti e due, non all’uno né all’altro, voleva affidarsi. Uno era stato; ma chi de’ due ella non solo non poteva dire, ma non voleva nemmeno supporre.

Legati ancora alla propria famiglia lontana, con tutti i ricordi dell’intimità domestica, Carlino Sanni e Tito Morena sapevano che quest’intimità non poteva piú essere per loro, staccati come già ne erano per sempre. Ma, in fondo, erano rimasti come due uccellini che, sotto le penne già cresciute e per necessità abituate al volo, avessero serbato e volessero custodir nascosto il tepore del nido che li aveva accolti implumi. Ne provavano intanto quasi vergogna, come per una debolezza che, a confessarla, avrebbe potuto renderli ridicoli.

E forse l’avvertimento di questa vergogna cagionava loro un segreto rimorso. E il rimorso, a loro insaputa, si manifestava in una certa acredine di parole, di sorrisi, di modi, che essi credevano invece effetto di quella vita arida, priva di cure intime, in cui piú nessun affetto vero avrebbe potuto metter radici, che eran costretti a vivere e a cui dovevano ormai abituarsi, come tanti altri. E negli occhi chiari, quasi infantili, di Tito Morena lo sguardo avrebbe voluto avere una durezza di gelo. Spesso lo aveva; ma pure talvolta quello sguardo gli si velava per la commozione improvvisa di qualche lontano ricordo; e allora quella velatura di gelo era come l’appannarsi dei vetri d’una finestra, per il caldo di dentro e il freddo di fuori. Carlino Sanni, dal canto suo, si raschiava con le unghie le gote rase e rompeva con lo stridore dei peli rinascenti certi angosciosi silenzii interiori e si richiamava all’ispida realtà del suo vigor maschile che, via, gl’imponeva ormai d’esser uomo, vale a dire, un po’ crudele.

S’accorsero, all’annunzio inatteso della donna, che, senza saperlo e senza volerlo, ciascuno, dimenticandosi dell’altro e anche della voluta durezza e della voluta crudeltà, aveva messo in quella relazione con Melina tutto il proprio cuore, per quel segreto, cocente bisogno d’intimità familiare. E avvertirono un sordo astio, un’agra amarezza di rancore, non propriamente contro la donna, ma contro il corpo di lei che, nell’incoscienza dell’abban-dono, aveva evidentemente dovuto prendersi piú dell’uno che dell’altro. Non gelosia, perché il tradimento non era voluto. Il tradimento era della natura; ed era un tradimento quasi beffardo. Ciecamente, di soppiatto, la natura s’era divertita a guastar quel nido, che essi volevano credere costruito piú dalla loro saggezza, che dal loro cuore.

Che fare, intanto?

La maternità in quella ragazza assumeva per la loro coscienza un senso e un valore, che li turbava tanto piú profondamente in quanto sapevano che ella non si sarebbe affatto ribellata, se essi non avessero voluto rispettargliela; ma li avrebbe in cuor suo giudicati ingiusti e cattivi.

Era in lei tanta dolcezza dolente e rassegnata! Con gli occhi, il cui sguardo talvolta esprimeva il sorriso mesto delle labbra non mosse, diceva chiaramente che lei, non ostante quell’ambiguo suo stato, da due anni, mercé loro, si sentiva rinata. E appunto da questo suo rinascere alla modestia degli antichi sentimenti, dovuto a loro, al modo con cui essi, quasi a loro insaputa, l’avevano trattata, proveniva la sua maternità, il rifiorire di essa che, nella trista arsura del vizio non amato, s’era per tanti anni isterilita.

Ora, non sarebbero venuti meno, d’improvviso, crudelmente, alla loro opera stessa, ricacciando Melina nell’avvilimento di prima, impedendole di raccogliere il frutto di tutto il bene che le avevano fatto?

Questo i due amici avvertivano in confuso nel turbamento della coscienza. E forse, se ciascuno dei due avesse potuto esser sicuro che il figlio era suo, non avrebbe esitato ad assumersene il peso e la responsabilità, persuadendo l’altro a ritrarsi. Ma chi poteva dare all’uno o all’altro questa certezza?

Nel dubbio inovviabile i due amici decisero che, senza dirne nulla per adesso a Melina, quando sarebbe stata l’ora l’avrebbero mandata a liberarsi in qualche ospizio di maternità, da cui quindi sarebbe ritornata a loro, sola.

 

II

Melina non chiese nulla: intuí la loro decisione; ma intuí pure con quale animo entrambi la avevano presa. Lasciò passare qualche tempo; quando le parve il momento opportuno, a Carlino Sanni che quella sera si trovava con lei, mostrò con gli occhi bassi e un timido sorriso sulle labbra una pezza di tela comperata il giorno avanti co’ suoi risparmi.

– Ti piace?

Il giovine finse, dapprima, di non comprendere. Esaminò, appressandosi al lume, la tela, con gli occhi, col tatto:

– Buona, – disse. – E… quanto l’ hai pagata?

Melina alzò gli occhi, ove la malizietta sorrideva implorante:

– Oh, poco, – rispose. – Indovina?

– Quanto?

– No… dico, perché l’ho comperata…

Carlino si strinse nelle spalle, fingendo ancora di non comprendere.

– Oh bella! perché ti bisognava. Ma l’hai comperata da te, e non dovevi. Potevi dirci che ti bisognava.

Melina allora alzò la tela e vi nascose la faccia. Stette un pezzo cosí; poi, con gli occhi pieni di lagrime, scotendo amaramente il capo, disse:

– Dunque, no? proprio no, è vero? non debbo… non debbo preparar nulla?

 

E vedendo, a questa domanda supplichevole, restare il giovine tra confuso e seccato e commosso, subito gli prese una mano, lo attirò a sé e s’affrettò a soggiungere con foga:

– Senti, Carlino, senti, per carità! io non voglio nulla, non chiedo nulla di piú. Come ho comperato questa tela, cosí con altri piccoli risparmi potrei provvedere io a tutto. No, senti, stammi prima a sentire, senz’alzar le spalle, senza farmi cotesti occhiacci. Guarda, ti giuro, ti giuro che non n’avrete mai nessun fastidio, nessun peso, mai! Lasciami dire. M’avanza tanto tempo, qua. Ho imparato a lavorare per voi; seguiterò sempre a lavorare; oh, potete star sicuri che non vi mancheranno mai le mie cure! Ma ecco, vedi, badando a voi, come faccio, alla vostra biancheria, ai vostri abiti, m’avanza ancora tanto tempo, tanto che lo sai ho imparato a leggere e a scrivere, da me! Ebbene, ora lascerò questo, e cercherò altro lavoro, da fare qui in casa; e sarò felice, credimi! credimi! Non vi chiederò mai nulla, Carlino, mai nulla! Concedetemi questa grazia, per carità! Sí? sí?

Carlino schivava di guardarla, voltando la testa di qua e di là, e alzava una spalla e apriva e chiudeva le mani e sbuffava. Prima di tutto, via, ci voleva poco a intendere che lui, cosí su due piedi, e senza consultare l’altro, non poteva darle nessuna risposta. E poi, sí, era presto detto nessun peso, nessun fastidio. Il peso, il fastidio sarebbero stati il meno! La responsabilità, la responsabilità d’una vita, perdio, che a uno dei due apparteneva di certo, ma a quale dei due non si poteva sapere. Ecco, era questo! era questo!

– Ma a me, Carlino? – rispose pronta, con ardore, Melina. – A me appartiene di certo! E la responsabilità… perché dovete assumervela voi? Me l’assumo io, ti dico, intera.

– E come? – gridò il giovine.

– Come? Ma cosí, me l’assumo! Stammi a sentire, per carità! Guarda, tra dieci anni, Carlino, chi sa quante cose potranno accadere a voi due! Tra dieci anni… E quand’anche voleste seguitare a vivere cosí, tutti e due insieme, tra dieci anni, che sarò piú io? non sarò piú certo buona per voi; vi sarete certo stancati di me. Ebbene: fino a dieci anni sarà ancora ragazzo il mio figliolo, e non vi darà né spesa né fastidio, perché provvederò io a tutto col mio lavoro. Ma capisci che ora che ho imparato a lavorare, non posso piú buttarlo via? Lo terrò con me; mi darà qui conforto e compagnia; e poi, quando voi non mi vorrete piú, avrò lui almeno, avrò lui, capisci? Lo so, non devi né puoi dirmi di sí, per ora, da solo. Perché l’ho detto prima a te, e non a Tito? Non lo so! Il cuore mi ha suggerito cosí. È anche lui tanto buono, Tito! Parlagliene tu, come credi, quando credi. Io sono qua, in mano vostra. Non dirò piú nulla. Farò come voi vorrete.

 

Carlino Sanni parlò a Tito Morena il giorno dopo.

Si mostrò seccatissimo di Melina e veramente credeva di avercela con lei; ma appena vide Tito accordarsi con lui nel disapprovare la proposta di Melina, si accorse che aveva la stizza in corpo non per lei, ma perché prevedeva l’opposizione di Tito. Prevedeva l’opposizione; eppure forse, in fondo, sperava che Tito invece si assumesse contro a lui la parte di contentare Melina; cioè quella stessa parte che molto volentieri si sarebbe assunta lui, ove non avesse temuto di far peggio. Si stizzí del subitaneo accordo, e Tito rimase stordito di quella stizza inattesa; lo guardò un poco; gli domandò:

– Ma scusa, non dici quello che dico io?

E Carlino:

– Ma sí! ma sí! ma sí!

A ragionare, infatti, non potevano non esser d’accordo. E anche il sentimento avevano entrambi comune. Se non che, questo sentimento comune, anziché accordarli, non solo li divideva, ma li rendeva l’uno all’altro nemici.

Tito, ch’era il piú calmo in quel momento, comprese bene che, a lasciar prorompere il sentimento, sarebbe di certo e subito avvenuta tra loro una rottura insanabile; avrebbe voluto perciò lasciar lí il discorso ove la sua ragione e quella dell’amico, freddamente e cosí fuor fuori, potevano restar d’accordo.

Ma Carlino, turbato dalla stizza, non seppe trattenersi. Tanto disse, che alla fine fece perdere la calma anche a Tito. E, tutt’a un tratto, i due, finora l’uno accanto all’altro amici cordialissimi, si scoprirono negli occhi, l’uno di fronte all’altro, cordialissimi nemici.

– Vorrei sapere, intanto, perché prima l’ha detto a te e non a me!

– Perché jersera c’ero io; e l’ha detto a me.

– Poteva bene aspettar domani, e dirlo a me! Se l’ha detto jersera, che c’eri tu, è segno che t’ha creduto piú tenero di cuore e piú disposto a venir meno a ciò che tutti e due insieme, di pieno accordo, avevamo stabilito.

– Ma nient’affatto! Perché io le ho detto di no, di no, precisamente come dici tu! Ma capirai che ella ha insistito, ha pianto, ha scongiurato, ha fatto tante promesse e tanti giuramenti; e, di fronte a queste lagrime e a queste promesse, io non so, non potevo sapere, come saresti rimasto tu, e se anche tu per tuo conto avresti voluto risponderle di no!

– Ma non s’era stabilito no? Dunque, no!

Carlino Sanni si scrollò rabbiosamente.

– Va bene! E ora andrai a dirglielo tu.

– Bello! Mi piace! – squittí Tito. – Cosí la parte del cuor duro, del tiranno, la faccio io, e tu rimani per lei quello che si era piegato, commosso e intenerito.

– E se fosse cosí? – saltò sú Carlino, guardandolo da presso negli occhi. – Sei sicuro tu, che non ti saresti «piegato, commosso e intenerito» al posto mio? E avresti avuto il coraggio, cosí commosso e intenerito, di dirle di no, anche per conto di un altro, che forse al tuo posto si sarebbe, come te, commosso e intenerito? Rispondi a questo! Rispondi!

Cosí sfidato, con gli occhi negli occhi, Tito non volle darsi per vinto, e mentí, imperterrito.

– Io, commosso? Chi te lo dice?

– E dunque è vero, – esclamò allora Carlino trionfante, – che il cuor duro sei tu, e puoi bene andarglielo a dire!

– Oh sai che ti dico io, invece? – fremé Tito al colmo del dispetto. – Che n’ho abbastanza io, di codesta storia, e voglio farla finita.

Carlino gli s’appressò di nuovo, minaccioso:

– Cioè… cioè… cioè… piano piano, caro mio, aspetta: farla finita, adesso, in che modo?

– Oh, – fece Tito con un sorriso stirato, guardandolo dall’alto in basso, – non ti credere che voglia venir meno a quanto debbo! Seguiterò a dare la parte mia, finché lei sarà in quello stato; poi faccia quello che vuole; se vuol tenersi il figlio, se lo tenga: se vuol buttarlo via, lo butti. Per me, non vorrò piú saperne.

– E io? – domandò Carlino.

– Ma farai anche tu ciò che ti pare!

– Non è mica vero!

– Perché no?

– Lo capisci bene perché no! Se non ci vai piú tu, non potrò piú andarci neanche io!

– E perché?

– Perché da solo, sai bene che non posso accollarmi tutto il peso del mantenimento; non posso e non debbo, del resto, perché non so di certo se il figlio sia mio, e tu non puoi lasciarmi su le spalle il peso d’un figlio che può esser tuo.

– Ma se ti dico che seguiterò a dar la parte mia.

– Grazie tante! Non posso accettare! Già, in mezzo resterei sempre io, di piú.

– Perché vuoi restarci!

– Ma scusa, ma scusa, ma scusa, e perché non vuoi tu restare ai patti? Che cosa chiede lei alla fine, che tu non possa accordarle? Se non ci fa nessun carico del figliuolo! Se lo terrà per sé. Ma senti… ma ascolta…

E Carlino prese a inseguir per la stanza Tito che si allontanava scrollandosi, per trattenerlo a ragionare. E non intendeva che, assumendo ora quel tono persuasivo, quella pacata difesa della donna, faceva peggio.

Tito stesso, alla fine, glielo gridò:

– Sarà un sospetto ingiusto, ma che vuoi farci? m’è entrato; non posso piú scacciarlo! Non posso seguitare, cosí insieme, una relazione, che era solo possibile a patto che nessun contrasto sorgesse tra noi.

– Ma andiamo tutti e due insieme, allora, – propose Carlino, – tutti e due insieme a dirle di no. Io già gliel’ho detto per conto mio; ora andiamo a ripeterglielo insieme; e se vuoi, parlerò io piú forte; le dimostrerò io che non è possibile accordarle quello che chiede!

– E poi? – fece Tito. – Credi che ella sarebbe piú, quale è stata finora? Se desidera tanto di tenersi il figlio! La faremmo infelice, credi, Carlino, inutilmente. Perché… lo sento, lo sento bene, per me è finita! Sarà un dispetto sciocco: non mi passa; sento che non mi passa. E allora? non posso, non voglio piú tornarci, ecco!

– E dovremmo abbandonarla cosí? – domandò Carlino accigliato.

– Ma nient’affatto, abbandonarla! – esclamò Tito. – T’ho detto e ripetuto che seguiterò a dar la parte mia, finché ella si troverà in questo stato e non troverà modo di provvedere a sé altrimenti. Tu poi, per conto tuo, fa’ quello che credi. Te lo dico proprio senz’astio, bada! e con la massima franchezza.

Carlino rimase muto, ingrugnato, a raschiarsi con le unghie le gote rase. E, per quel giorno, il discorso finí lí.

III

Non fu piú ripreso. Ma seguitò nell’animo di entrambi, e a mano a mano tanto piú violento, quanto piú cresceva la violenza che l’uno e l’altro si facevano, per tacere.

Nessuno de’ due andò piú a trovar Melina. E Carlino, non andando, voleva dimostrare a Tito che la violenza la commetteva lui; che gl’impediva lui d’andare; e Tito, dal canto suo, che Carlino voleva lui, invece, usargli violenza con quel suo astenersi d’andare. Ma sí! per forzarlo, cosí, a recedere dal suo proposito, e averla vinta, pur essendo venuto meno, di sorpresa, a quanto già tra loro d’accordo si era stabilito.

Doveva passar sopra a tutto? Far quello che volevano loro, tutt’e due insieme, contro di lui? Non bastava che seguitasse a pagare, lasciando all’altro la libertà d’andare a trovar la donna?

Nossignori. Di questa libertà Carlino non voleva profittare, non solo, ma neppur dargli merito. La negava! Senza comprendere che, se egli avesse ceduto, se fosse tornato da Melina per farci andare anche lui, tutta la vittoria sarebbe stata di loro due, poich’egli alla fine avrebbe fatto quello che essi volevano. E non era una violenza, questa? No, perdio! Seguitava a pagare, e basta!

Per quanto, però, con questi argomenti cercasse di raffermarsi nella risoluzione di non cedere e volesse concludere che la ragione stava dalla sua, Tito si sentiva di giorno in giorno crescer l’orgasmo per la passiva ostinazione di Carlino; sentiva che il fosco silenzio del compagno assumeva per la sua coscienza un peso, che egli da solo non voleva sopportare.

Se quella ragazza, da loro invitata a venir da Padova a Roma, resa madre da uno di loro due, ora, in quello stato, si dibatteva in una incertezza angosciosa, di chi la colpa? Che pretendeva ella infine, senza fastidio, senza peso, né responsabilità da parte loro? Che non si commettesse la violenza di buttar via il figlio, che o dell’uno o dell’altro era di certo.

Ebbene, lo volevano lasciar solo a sentire il rimorso di questa violenza.

Se Carlino avesse seguitato ad andare da Melina, egli avrebbe potuto, almeno in parte, togliersi questo rimorso col pensiero che, pur seguitando a pagare, non si prendeva piú nessun piacere dalla donna.

Ma nossignori! Carlino non andava piú neppur lui, Carlino non si prendeva piú neppur lui nessun piacere dalla donna, e cosí non solo gl’impediva di togliersi il rimorso con quel pensiero, ma anzi glielo aggravava.

Privandosi egli solo del piacere e pur non di meno seguitando a dar la parte sua, avrebbe potuto anche pensare, che faceva un sacrifizio sciocco e fors’anche superfluo, giacché non era mica provato, che egli dovesse avere il rimorso di voler buttare il proprio figliuolo, potendo questo benissimo essere, invece, dell’altro. Eh già; ma a ragionare cosí, ad ammettere cioè che il figlio fosse dell’altro, poteva egli allora pretendere che quest’altro si assumesse intero il rimorso di buttar via il proprio figliuolo, per far piacere a lui? Se egli, Tito, avesse avuto la certezza d’essere il padre e Carlino avesse preteso che il figliuolo fosse buttato via, non si sarebbe egli ribellato?

Questa certezza non c’era!

Ma ecco, nel dubbio stesso, Carlino voleva che quella violenza non si commettesse.

Dovevano essere insieme, d’accordo, tutti e tre, a volere e a commettere la violenza. Il rimorso, condiviso, sarebbe stato minore. Ebbene, gli avevano fatto questo tradimento. E tanto piú ne era arrabbiato, quanto piú vedeva che la vendetta, che istintivamente si sentiva spinto a trarne, lo rendeva, contro il suo stesso sentimento, crudele; quanto piú vedeva che anche a non trarne alcuna vendetta, esso, il tradimento, restava, restava pur sempre l’accordo di quei due nel venir meno per i primi a quanto si era stabilito; cosicché sempre sarebbe rimasta, attaccata a lui soltanto, la parte odiosa. E dunque, no, perdio, no! Perché cedere adesso? Sarebbe stato anche inutile!

Venne, intanto, il momento, che entrambi si videro costretti a riparlar di Melina: cadeva il mese, e bisognava farle avere il denaro per provvedere a sé e pagar la pigione delle due stanzette.

Tito avrebbe voluto schivare il discorso. Tratta dal portafogli la sua quota, l’aveva posata sul tavolino senza dir nulla.

Carlino, guardati un pezzo quei denari, alla fine uscí a dire:

– Io non glieli porto.

Tito si voltò a guardarlo e disse seccamente:

– E io neppure.

Il silenzio, in cui l’uno e l’altro, dopo questo scambio di parole, con estremo sforzo si tennero per un lungo tratto, vibrò di tutto il loro interno ribollimento e rese a ciascuno spasimosa l’attesa che l’altro parlasse.

La voce uscí prima, sorda, opaca, dalle labbra di Carlino:

– Allora le si scrive. Le si mandano per posta.

– Scrivi, – disse Tito.

– Scriveremo insieme.

– Insieme, va bene; poiché ti piace di far la parte della vittima, e ch’io faccia quella del tiranno.

– Io fo, – rispose Carlino, alzandosi, – precisamente quello che fai tu, né piú né meno.

– E va bene, – ripeté Tito. – E dunque puoi scriverle, che da parte mia sono disposto a rispettare il suo sentimento e a fare tutto ciò che vuole; disposto a pagare, finché lei stessa non dirà basta.

– Ma allora? – scappò sú dal cuore a Carlino.

Tito, a questa esclamazione, non seppe piú frenarsi e uscí dalla stanza, scrollandosi furiosamente con le braccia per aria e gridando:

– Ma che allora! che allora! che allora!

Rimasto solo, Carlino pensò un pezzo al senso da cavare da quella prima condiscendenza di Tito, a cui poi, cosí bruscamente, era seguito lo scatto, che nel modo piú aperto raffermava la sua irremovibile decisione. Pareva che con Melina, ora, non ce l’avesse piú, se era disposto a rispettare il sentimento di lei e a fare ciò che ella voleva. Dunque ce l’aveva con lui? Era chiaro! E perché, se adesso erano d’accordo? Per non aver riconosciuto prima di non aver ragione d’opporsi? Eh già! Ora gli pareva troppo tardi, e non si voleva piú dare per vinto. Ah, che sbaglio aveva commesso Melina, non rivolgendosi prima a Tito! E un altro sbaglio, piú grosso, aveva poi commesso lui, riferendo a Tito la proposta di lei. No, no: egli non doveva riferirgliela; doveva dire a Melina che ne parlasse a Tito direttamente, e che anzi non gli facesse intravvedere di averne prima parlato a lui. Ecco come avrebbe dovuto fare! Ma poteva mai immaginarsi che Tito se la pigliasse cosí a male?

Carlino era sicuro, adesso, che se Melina si fosse prima rivolta all’altro, lui non ci avrebbe trovato nulla da ridire.

Basta. Bisognava scrivere la lettera, adesso. Che dire a quella povera figliuola, in quello stato? Meglio non dirle nulla di quanto era avvenuto tra loro due; trovare una scusa plausibile di quel non andare nessuno de’ due a trovarla. Ma che scusa? L’unica, poteva esser questa: che volevano lasciarla tranquilla nello stato in cui era. Tranquilla? Eh, troppa grazia, per una povera donna come lei, avvezza a cosí poca considerazione da parte degli uomini. E poi, tranquilla, va bene; ma perché non andavano nemmeno a vederla? a domandarle come stesse? se avesse bisogno di qualche cosa? Tanta considerazione per un verso e tanta noncuranza per un altro, bella tranquillità le avrebbero data!

Ma, via, infine, nella lettera poteva darle la piú ferma assicurazione che non le sarebbe venuto meno l’assegno e tutto quell’ajuto che avrebbe potuto aver da loro. Bisognava che si contentasse di questo, per ora.

E Carlino scrisse la lettera in questo senso, con molta circospezione, perché Tito, leggendola (e voleva che la leggesse), non pigliasse altra ombra.

Pochi giorni dopo, com’era da aspettarsi, arrivò a entrambi la risposta di Melina. Poche righe, quasi indecifrabili che, impedendo la commozione per il modo ridicolo con cui l’ambascia e la disperazione erano espresse, produssero uno strano effetto di rabbia negli animi dei due giovani.

La poverina scongiurava che tutti e due insieme andassero a trovarla, ripetendo ch’era pronta a fare quel che essi volevano.

– Vedi? Per causa tua!

Tutti e due si trovarono sulle labbra le stesse parole; Carlino per l’ostinazione di Tito a non cedere; Tito per quella di Carlino a non andare. Ma né l’uno né l’altro poterono proferirle. Si guardarono. Ciascuno lesse negli occhi dell’altro la sfida a parlare. Ma lessero anche chiaramente l’odio, che adesso li univa, in luogo dell’antica amicizia; e subito compresero che non potevano e non dovevano piú parlare su quell’argomento.

Quell’odio comandava loro non solo di non far prorompere la rabbia, ond’erano divorati, ma anzi d’indurir ciascuno il proprio proposito in una livida freddezza.

Dovevano rimanere insieme, per forza.

– Le si scrive di nuovo, che stia tranquilla, – fischiò tra i denti Carlino.

Tito si voltò appena a guardarlo, con le ciglia alzate:

– Ma sí, puoi dirglielo: tranquillissima!

 

IV

Ora, ogni sera, uscendo dal Ministero, non andavano piú insieme, come prima, a passeggio, o in qualche caffè. Si salutavano freddamente, e uno prendeva di qua, l’altro di là. Si riunivano a cena; ma spesso, non arrivando alla trattoria alla stess’ora e non trovando posto da sedere accanto, l’uno cenava a un tavolino e l’altro a un altro. Ma meglio cosí. Tito s’accorse, che aveva provato sempre vergogna, senza dirselo, del troppo appetito che Carlino dimostrava, mangiando. Anche dopo cena, ciascuno s’avviava per suo conto a passar fuori le due o tre ore prima d’andare a letto.

S’incupivano sempre piú, covando in quella solitudine il rancore. Ma l’uno non voleva dare a vedere all’altro la macerazione che aveva da quella catena non trascinata piú di conserva per una stessa via, ma tirata, strappata di qua e di là dispettosamente, in quella finzione di libertà, che volevano darsi.

Sapevano che la catena, pur tirata e strappata cosí, non poteva e non doveva spezzarsi; ma lo facevano apposta, per farsi piú male, quanto piú male potevano. Forse, in questa macerazione, cercavano di stordir la pena cocente e il rimorso per la donna, che seguitava invano a chiedere conforto e pietà.

Già da un pezzo ella si era arresa a ciò che credeva la loro volontà. Ma no: erano essi, ora, a volere assolutamente che ella si tenesse il figliuolo! E perché allora avrebbero sofferto tanto, e tanto la avrebbero fatta soffrire? Tornare indietro come prima, non era piú possibile, ormai. E dunque, no, no: ella doveva tenersi il figliuolo. Nessuna discussione piú su questo punto.

 

Uniti com’erano dallo stesso sentimento, che non poteva piú in alcun modo svolgersi in un’azione comune d’amore, non potevano ammettere che esso, ora, venisse a mancare; volevano che durasse per svolgersi invece, cosí, necessariamente, in un’azione di reciproco odio.

E tanto quest’odio li accecava, che nessuno dei due per il momento pensava, che cosa avrebbero fatto domani di fronte a quel figliuolo, che non avrebbero potuto entrambi amare insieme.

Esso doveva vivere: non potendo né per l’uno né per l’altro esclusivamente, sarebbe vissuto per la madre, ai loro costi, cosí, senza che nessuno de’ due neppur lo vedesse.

E difatti, nessuno de’ due, quantunque entrambi se ne sentissero struggere dalla voglia, cedette all’invito di Melina, di correre a vedere il bambino appena nato.

Inesperti della vita, non si figuravano neppur lontanamente tra quali atroci difficoltà si fosse dibattuta quella poveretta, cosí sola, abbandonata, nel mettere al mondo quel bambino. Ne ebbero la rivelazione terribile, alcuni giorni dopo, quando una vecchia, vicina di casa della poveretta, venne a chiamarli, perché accorressero subito al letto di lei, che moriva.

Accorsero e restarono allibiti davanti a quel letto, da cui uno scheletro vestito di pelle, con la bocca enorme, arida, che scopriva già orribilmente tutti i denti, con enormi occhi, i cui globi parevan già appesiti e induriti dalla morte, voleva loro far festa.

Quella, Melina?

No, no… là, – diceva la poveretta, indicando la culla: che l’avrebbero ritrovata là, la Melina che conoscevano, cercando là, in quella culla, e tutt’intorno, nelle cose preparate per il suo bimbo, e nelle quali si era distrutta, o piuttosto, trasfusa.

Qua sul letto, ormai, ella non c’era piú: non c’eran piú che i resti di lei, miseri, irriconoscibili; appena un filo d’anima trattenuto a forza, per riveder loro un’ultima volta. Tutta l’anima sua, tutta la sua vita, tutto il suo amore, erano in quella culla, e là, là, nei cassetti del canterano, ov’era il corredino del bimbo, pieno di merletti, di nastri e di ricami, tutto preparato da lei, con le sue mani.

– Anche… anche cifrato, sí, di rosso… Tutto… capo per capo…

Capo per capo volle che la vecchia vicina lo mostrasse loro: le cuffiette, ecco… ecco le cuffiette, sí… quella coi fiocchi rossi… no, quell’altra, quell’altra… e i bavaglini, e le camicine, e la vestina lunga, ricamata, del battesimo, col trasparente di seta rossa… rossa, sí, perché era maschio, maschio il suo Nillí… e…

S’abbandonò a un tratto; crollò sul letto, riversa. Nell’accensione di quella festa, forse insperata, si consumò subito quell’ultimo filo d’anima trattenuto a forza per loro.

Atterriti da quel traboccare improvviso sul letto, i due accorsero, per sollevarla.

Morta.

Si guardarono. L’uno cacciò nell’anima dell’altro, fino in fondo, con quello sguardo, la lama d’un odio inestinguibile.

Fu un attimo.

Il rimorso, per ora, li sbigottiva. Avrebbero avuto tempo di dilaniarsi, tutta la vita. Per ora, qua, bisognava provvedere ancora d’accordo: provvedere alla vittima, provvedere al bambino.

Non potevano piangere, l’uno di fronte all’altro. Sentivano che, se per poco, nell’orgasmo, avessero ceduto al sentimento, l’uno al suono del pianto dell’altro sarebbe diventato feroce, l’uno si sarebbe avventato alla gola dell’altro per soffocarlo, quel pianto. Non dovevano piangere! Tremavano tutti e due; non potevano piú guardarsi. Sentivano che rimaner cosí, a guardare con gli occhi bassi la morta, non potevano; ma come muoversi? Come parlar tra loro? Come assegnarsi le parti? Chi de’ due doveva pensare alla morta, pei funerali? Chi de’ due, al bambino, per una balia?

Il bambino!

Era là, nella culla. Di chi era? Morta la madre, esso restava a tutti e due. Ma come? Sentivano che nessuno dei due poteva piú accostarsi a quella culla. Se l’uno avesse fatto un passo verso di essa, l’altro sarebbe corso a strapparlo indietro.

Come fare? Che fare?

Lo avevano intravisto appena, là, tra i veli, roseo, placido nel sonno.

La vecchia vicina disse:

– Quanto penò! E mai un lamento dalle sue labbra! Ah, povera creatura! Non gliela doveva negare Dio questa consolazione del figlio, dopo tutto quello che penò per lui. Povera, povera creatura! E ora? Per me, se vogliono… eccomi qua…

Si tolse lei l’incarico d’attendere al cadavere, insieme con altre vicine. Quanto al bimbo… – all’ospizio, no, è vero? – ebbene, conosceva lei una balia, una contadina d’Alatri, venuta a sgravarsi all’ospedale di San Giovanni: era uscita da parecchi giorni; il figlietto le era morto, e quella sera stessa sarebbe ripartita per Alatri: buona, ottima giovine; maritata, sí; il marito le era partito da pochi mesi per l’America; sana, forte; il figlietto le era morto per disgrazia, nel parto, non già per malattia. Del resto, potevano farla visitare da un medico; ma non ce n’era bisogno. Già il bimbo, per altro, da due giorni s’era attaccato a lei, poiché la povera mamma non avrebbe potuto allevarlo, ridotta in quello stato.

I due lasciarono parlar sempre la vecchia, approvando col capo ogni proposta, dopo essersi guardati un attimo con la coda dell’occhio, aggrondati. Migliore occasione di quella non poteva darsi. E meglio, sí, meglio che il bimbo andasse lontano, affidato alla balia. Sarebbero andati a vederlo, ad Alatri, un mese l’uno e un mese l’altro, giacché insieme non potevano.

– No! no! – gridarono a un tempo alla vecchia, impedendo che lo mostrasse loro.

S’accordarono con lei circa alle disposizioni da prendere per il trasporto del cadavere e il seppellimento. La vecchia fece un conto approssimativo; essi lasciarono il denaro, e uscirono insieme, senza parlare.

Tre giorni dopo, allorché il bimbo fu partito con la balia per Alatri con tutto il corredo preparato dalla povera Melina, si divisero per sempre.

V

Fu, nei primi tempi, una distrazione quella gita d’un giorno, un mese sí e un mese no, ad Alatri. Partivano la sera del sabato; ritornavano la mattina del lunedí.

Andavano come per obbligo a visitare il bambino. Questo, quasi non esistendo ancora per sé, non esisteva neppure propriamente per loro, se non cosí, come un obbligo; ma non gravoso: prendevano, infine, una boccata d’aria; facevano, benché soli, una scampagnata: dall’alto dell’acropoli, su le maestose mura ciclopiche, si scopriva una vista meravigliosa. E quella visita mensile, in fondo, non aveva altro scopo che d’accertarsi se la balia curasse bene il bambino.

Provavano istintivamente una certa diffidenza ombrosa, se non proprio una decisa ripugnanza per lui. Ciascuno dei due pensava, che quel batuffolo di carne lí poteva anche non esser suo, ma di quell’altro; e, a tal pensiero, per l’odio acerrimo che l’uno portava all’altro, avvertivano subito un ribrezzo invincibile non solo a toccarlo, ma anche a guardarlo.

A poco a poco, però, cioè non appena Nillí cominciò a formare i primi sorrisi, a muoversi, a balbettare, l’uno e l’altro, istintivamente, furono tratti a riconoscer ciascuno se stesso in quei primi segni, e a escludere ogni dubbio, che il figlio non fosse suo.

Allora, subito, quel primo sentimento di repugnanza si cangiò in ciascuno in un sentimento di feroce gelosia per l’altro. Al pensiero che l’altro andava lí, con lo stesso suo diritto, a togliersi in braccio il bambino e a baciarlo, a carezzarlo per una intera giornata, e a crederlo suo, ciascuno de’ due sentiva artigliarsi le dita, si dibatteva sotto la morsa d’un’indicibile tortura. Se per un caso si fossero incontrati insieme là, nella casa della balia, l’uno avrebbe ucciso l’altro, sicuramente, o avrebbe ucciso il bimbo, per la soddisfazione atroce di sottrarlo alla carezza dell’altro, intollerabile.

Come durare a lungo in questa condizione? Per ora, Nillí era piccino piccino, e poteva star lí con la balia, che assicurava di volerlo tenere con sé, come un figliuolo, almeno fino al ritorno del marito dall’America. Ma non ci poteva star sempre! Crescendo, bisognava pur dargli una certa educazione.

Sí, era inutile, per adesso, amareggiarsi di piú il sangue, pensando all’avvenire. Bastava la tortura presente.

 

L’uno e l’altro s’erano confidati con la balia, la quale, impressionata dal fatto che quei due zii non venivano mai insieme a visitare il nipotino, ne aveva chiesto ingenuamente la ragione. Ciascuno dei due aveva assicurato la balia, che il figlio era suo, traendone la certezza da questo e da quel tratto del bimbo, il quale, certo, non somigliava spiccatamente né all’uno né all’altro, perché aveva preso molto dalla madre; ma, ecco, per esempio, la testa… non era forse un po’ come quella di Carlino? poco, sí… appena appena… un’idea…, ma era pure un segno, questo! Gli occhi azzurri del bimbo, invece, erano un segno rivelatore per Tito Morena che li aveva azzurri anche lui; sí, ma anche la madre, per dire la verità, li aveva azzurri, ma non cosí chiari e tendenti al verde, ecco.

– Già, pare… – rispondeva all’uno e all’altro la balia, dapprima costernata e afflitta da quell’accanita contesa, sul bimbo, ma poi raffidata appieno, per il consiglio che le avevano dato i parenti e i vicini, che fosse meglio, cioè, per lei e anche per il bimbo, tenerli cosí a bada tutti e due, senz’affermare mai e senza negare recisamente. Era difatti una gara, tra i due, d’amorevolezze, di pensieri squisiti, di regali, per guadagnarsi quanto piú potevano il cuore del bimbo, a cui ella intanto dava istruzioni non di malizia, ma d’accortezza: se veniva zio Carlo, non parlare di zio Tito, e viceversa; se uno gli domandava qualcosa dell’altro, risponder poco, un sí, un no, e basta; se poi volevano sapere a chi egli volesse piú bene, rispondere a ciascuno: – Piú a te! – solo per contentarli, ecco, perché poi egli doveva voler bene a tutti e due allo stesso modo.

 

E veramente a Nillí non costava alcuno sforzo rispondere, secondo i consigli della balia, all’uno e all’altro dei due zii: – Piú a te! – perché, stando con l’uno o con l’altro, gli sembrava ogni volta che non si potesse star meglio, tanto amore e tante cure gli prodigavano entrambi, pronti a soddisfare ogni suo capriccio, pendendo ciascuno da ogni suo minimo cenno.

D’improvviso, ma quando già Carlino Sanni e Tito Morena erano piú che mai sprofondati nella costernazione circa ai provvedimenti da prendere per l’educazione di Nillí che aveva ormai compiuti i cinque anni, arrivò alla balia una lettera del marito, che la chiamava in America. Carlino Sanni e Tito Morena, senza che l’uno sapesse dell’altro, nel ricevere quest’annunzio, andarono da un giovane avvocato, loro comune amico, conosciuto tempo addietro nella trattoria, dove prima si recavano a desinare insieme.

L’avvocato ascoltò prima l’uno e poi l’altro, senza dire all’uno che l’altro era venuto poc’anzi a dirgli le stessissime cose e a fargli la stessissima proposta, che cioè il ragazzo, suo o non suo, fosse lasciato interamente a suo carico (nessuno dei due diceva al suo affetto), pur d’uscire da quella insopportabile situazione.

Ma non c’era, né ci poteva essere modo a uscirne, finché nessuno dei due voleva abbandonar del tutto all’altro il ragazzo. Né il giudizio di Salomone era applicabile. Salomone si era trovato in condizioni molto piú facili, perché si trattava allora di due madri, e una delle due poteva esser certa che il figlio era suo. Qua l’uno e l’altro, non potendo aver questa certezza ed essendo animati da un odio reciproco cosí feroce, avrebbero lasciato spaccare a metà il ragazzo per prendersene mezzo per uno. Non si poteva, eh? Dunque, un rimedio. L’unico, per il momento, era di mettere in collegio il ragazzo, e accordarsi d’andarlo a visitare una domenica l’uno e una domenica l’altro, e che le feste le passasse un po’ con l’uno e un po’ con l’altro. Questo, per il momento. Se poi volevano veramente risolvere la situazione, il giovane avvocato non ci vedeva altro mezzo, che questo: che il figlio, non potendo essere di uno soltanto, non fosse piú di nessuno dei due. Come? Cercando qualcuno che volesse adottarlo. Se i due volevano, egli poteva assumersi quest’incarico.

Nessuno dei due volle. Recalcitrarono, si scrollarono furiosamente alla proposta; l’uno tornò a gridar contro l’altro le ingiurie piú crude, per la sopraffazione che intendeva usare: il figlio era suo! era suo! non poteva esser che suo! per questo segno e per quest’altro! E Carlino Sanni credeva anche d’aver maggior diritto, perché lui, lui, Tito, aveva fatto morire quella povera donna, di cui egli aveva avuto sempre pietà! Ma allo stesso modo Tito Morena credeva anche d’aver maggior diritto, perché non aveva sofferto meno, lui, della durezza che era stato costretto a usare verso Melina, per colpa di Carlino!

Inutile, dunque, tentare di metterli d’accordo. Nillí fu chiuso in collegio. Ricominciò, con la vicinanza, piú aspra e piú fiera la tortura di prima. E durò un anno. S’offerse da sé, infine, un caso, che rese possibile e accettabile ai due la proposta del giovane avvocato.

Nillí, nel collegio, durante quell’anno, aveva stretto amicizia con un piccolo compagno, unico figliuolo d’un colonnello, a cui tanto Carlino Sanni, quanto Tito Morena, avevano dovuto per forza accostarsi, giacché i due piccini (i piú piccoli del collegio) entravano nel salone delle visite domenicali tenendosi per mano senza volersi staccare l’uno dall’altro. Il colonnello e la moglie eran molto grati a Nillí dell’affetto e della protezione che esso aveva per il piccolo amico, il quale, pur essendo della sua età, appariva minore, per la bionda gracilità feminea e la timidezza. Nillí, cresciuto in campagna, era bruno, robusto, sanguigno e vivacissimo. L’amore di quel piccolino per Nillí aveva qualcosa di morboso; e inteneriva assai la moglie del colonnello. Sulla fine dell’anno scolastico, esso morí all’improvviso, una notte, lí nel collegio, come un uccellino, dopo aver chiesto e bevuto un sorso d’acqua.

Il colonnello, per contentar la moglie inconsolabile, saputo dal direttore del collegio che Nillí era orfano, e che quei due signori che venivano la domenica a visitarlo, erano zii, fece per mezzo del direttore stesso la proposta d’adottare il ragazzo, a cui il piccino defunto era legato di tanto amore.

Carlino Sanni e Tito Morena chiesero tempo per riflettere: considerarono che la loro condizione e quella di Nillí sarebbe divenuta con gli anni sempre piú difficile e triste; considerarono che quel colonnello e sua moglie erano due ottime persone; che la moglie era molto ricca e che perciò per Nillí quell’adozione sarebbe stata una fortuna; domandarono a Nillí, se aveva piacere di prendere il posto del suo amicuccio nel cuore e nella casa di quei due poveri genitori; e Nillí, che per i discorsi e i consigli della balia doveva aver capito, cosí in aria, qualcosa, disse di sí, ma a patto che i due zii venissero a visitarlo spesso, ma insieme, sempre insieme, in casa dei genitori adottivi.

E cosí Carlino Sanni e Tito Morena, ora che il figlio non poteva piú essere né dell’uno né dell’altro, ritornarono a poco a poco di nuovo amici come prima.

3.13 Nenia

Con la valigia in mano, mi lanciai, gridando, sul treno che già si scrollava per partire: potei a stento afferrarmi a un vagone di seconda classe e, aperto lo sportello con l’ajuto d’un conduttore accorso su tutte le furie, mi cacciai dentro.

Benone!

Quattro donne, lí, due ragazzi e una bimba lattante, esposta per giunta, proprio in quel momento, con le gambette all’aria, su le ginocchia d’una goffa balia enorme, che stava tranquillamente a ripulirla, con la massima libertà.

– Mamma, ecco un altro seccatore.

Cosí m’accolse (e me lo meritavo) il maggiore dei due ragazzi, che poteva aver circa sei anni, magrolino, orecchiuto, coi capelli irti e il nasetto in sú, rivolgendosi alla signora che leggeva in un angolo, con un ampio velo verdastro rialzato sul cappello, speciosa cornice al volto pallido e affilato.

La signora si turbò, ma finse di non sentire e seguitò a leggere. Scioccamente, perché il ragazzo – com’era facile supporre – tornò ad annunziarle con lo stesso tono:

– Mamma, ecco un altro seccatore.

– Zitto, impertinente! – gridò, stizzita, la signora. Poi volgendosi a me con ostentata mortificazione: – Perdoni, signore, la prego.

– Ma si figuri, – esclamai io, sorridendo.

Il ragazzo guardò la madre, sorpreso del rimprovero, e parve che le dicesse con quello sguardo: – «Ma come? Se l’hai detto tu!» – Poi guardò me e sorrise cosí interdetto e, nello stesso tempo, con una mossa cosí birichina, ch’io non seppi tenermi dal dirgli:

– Sai, carino? Se no, perdevo il treno.

Il ragazzetto diventò serio, fissò gli occhi; poi, riscotendosi con un sospiro, mi domandò:

– E come lo perdevi? Il treno non si può mica perdere. Cammina solo, con l’acqua bollita, sul biranio. Ma non è una caffettiera. Perché la caffettiera non ha ruote e non può camminare.

Parve a me che il ragazzo ragionasse a meraviglia. Ma la madre, con un fare stanco e infastidito, lo rimproverò di nuovo:

– Non dire sciocchezze, Carlino.

L’altra ragazzetta, di circa tre anni, stava in piedi sul sedile, presso il balione, e guardava attraverso il vetro del finestrino la campagna fuggente. Di tanto in tanto, con la manina toglieva via l’appannatura del proprio fiato sul vetro, e se ne stava zitta zitta a mirare il prodigio di quella fuga illusoria d’alberi e di siepi.

Mi voltai dall’altra parte a osservare le altre due compagne di viaggio, che sedevano agli angoli, l’una di fronte all’altra, tutte e due vestite di nero.

Erano straniere: tedesche, come potei accertarmi poco dopo udendole parlare.

Una, la giovane, soffriva forse del viaggio: doveva esser malata: teneva gli occhi chiusi, il capo biondo abbandonato su la spalliera, ed era pallidissima. L’altra, vecchia, dal torso erto, massiccio, bruna di carnagione, pareva stesse sotto l’incubo del suo ispido cappelletto dalle falde dritte, stirate: pareva lo tenesse come per punizione in bilico su i pochi grigi capelli chiusi e impastocchiati entro una reticella nera.

Cosí immobile, non cessava un momento di guardar la giovine, che doveva essere la sua signora.

 

A un certo punto, dagli occhi chiusi della giovine vidi sgorgare due grosse lagrime, e subito guardai in volto la vecchia, che strinse le labbra rugose e ne contrasse gli angoli in giú, evidentemente per frenare un impeto di commozione, mentre gli occhi, battendo piú e piú volte di seguito, frenavano le lagrime.

Quale ignoto dramma si chiudeva in quelle due donne vestite di nero, in viaggio, lontane dal loro paese? Chi piangeva o perché piangeva, cosí pallida e vinta nel suo cordoglio, quella giovane signora?

La vecchia massiccia, piena di forza, nel guardarla, pareva si struggesse dall’impotenza di venirle in ajuto. Negli occhi però non aveva quella disperata remissione al dolore, che si suole avere per un caso di morte, ma una durezza di rabbia feroce, forse contro qualcuno che le faceva soffrir cosí quella creatura adorata.

Non so quante volte sospirai fantasticando su quelle due straniere; so che di tratto in tratto, a ogni sospiro, mi riscotevo per guardarmi intorno. Il sole era tramontato da un pezzo. Perdurava fuori ancora un ultimo tetro barlume del crepuscolo: ora angosciosa per chi viaggia.

I due ragazzi si erano addormentati; la madre aveva abbassato il velo sul volto e forse dormiva anche lei, col libro su le ginocchia. Solo la bambina lattante non riusciva a prender sonno: pur senza vagire, si dimenava irrequieta, si stropicciava il volto coi pugnetti, tra gli sbuffi della balia che le ripeteva sottovoce:

– La ninna, cocca bella; la ninna, cocca…

E accennava, svogliata, quasi prolungando un sospiro d’impazienza, un motivo di nenia paesana.

– Aoòh! Aoòh!

A un tratto, nella cupa ombra della sera imminente, dalle labbra di quella rozza contadinona si svolse a mezza voce, con soavità inverosimile, con fascino d’ineffabile amarezza, la nenia mesta:

Veglio, veglio su te, fammi la ninna,
Chi t’ama piú di me, figlia, t’inganna.

Non so perché, guardando la giovine straniera, abbandonata lí in quell’angolo della vettura, mi sentii stringere la gola da un nodo angoscioso di pianto. Ella, al canto dolcissimo aveva riaperto i begli occhi celesti e li teneva invagati nell’ombra. Che pensava? Che rimpiangeva?

Lo compresi poco dopo, quando udii la vecchia vigile domandarle piano con voce oppressa dalla commozione:

Willst Du deine Amme nah?

«Vuoi accanto la tua nutrice?» E si alzò; andò a sederle a fianco e si trasse su l’arido seno il biondo capo di lei che piangeva in silenzio, mentre l’altra nutrice, nell’ombra, ripeteva alla bimba ignara:

Chi t’ama piú di me, figlia, t’inganna.

3.14 Nenè e Niní

Nenè aveva un anno e qualche mese, quando il babbo le morí. Niní non era ancor nato, ma già c’era: si aspettava.

Ecco: se Niní non ci fosse stato, forse la mammina, quantunque bella e giovane, non avrebbe pensato di passare a seconde nozze: si sarebbe dedicata tutta alla piccola Nenè. Aveva da campare sul suo, modestamente, nella casetta lasciatale dal marito e col frutto della sua dote.

Il pensiero d’un maschio da educare, cosí inesperta come lei stessa si riconosceva e senza guida o consiglio di parenti né prossimi né lontani, la persuase ad accettar la domanda d’un buon giovine, che prometteva d’esser padre affettuoso per i due poveri orfanelli.

Nenè aveva circa tre anni e Niní uno e mezzo, quando la mammina passò a seconde nozze.

Forse per il troppo pensiero di Niní, non badò che si potesse dare il caso d’aver altri figliuoli da questo secondo marito. Ma non trascorse neppure un anno, che si trovò nel rischio mortale d’un parto doppio. I medici domandarono chi dovesse salvare, se la madre o le creaturine. La madre, s’intende! E le due nuove creaturine furono sacrificate. Il sacrifizio però non valse a nulla perché, dopo circa un mese di strazii atroci, la povera mammina se ne morí anche lei, disperata.

Cosí Nenè e Niní restarono orfani anche di madre, con uno che non sapevano neppure come si chiamasse, né che cosa stesse a rappresentar lí in casa loro.

Quanto al nome, se Nenè e Niní lo volevano proprio sapere, la risposta era facile: Erminio Del Donzello, si chiamava; ed era professore: professore di francese nelle scuole tecniche. Ma quanto a sapere che cosa stesse piú a far lí, ah non lo sapeva nemmeno lui, il professor Erminio Del Donzello.

Morta la moglie, morte prima di nascere le sue creature gemelle: la casa non era sua, la dote non era sua, quei due figliuoli non erano suoi. Che stava piú a far lí? Se lo domandava lui stesso. Ma se ne poteva forse andare?

Lo chiedeva con gli occhi rossi e quasi smarriti nel pianto a tutto il vicinato che, dal momento della disgrazia, gli era entrato in casa, da padrone, costituendosi da sé tutore e protettore de’ due orfanelli. Di che lui, forse, si sarebbe dichiarato gratissimo, se veramente il modo non lo avesse offeso.

Sí, sapeva che molti, purtroppo, giudicano dall’apparenza soltanto, e che i giudizii che si davano di lui forse erano iniqui addirittura, perché, effettivamente, la figura non lo ajutava troppo. La eccessiva magrezza lo rendeva ispido, e aveva il collo troppo lungo e per di piú fornito d’un formidabile pomo d’Adamo, la sola cosa grossa in mezzo a tanta magrezza; e ruvidi i baffi, ruvidi i capelli pettinati a ventaglio dietro gli orecchi; e gli occhi armati di occhiali a staffa, poiché il naso non gli si prestava a reggere un piú svelto pajo di lenti. Ma, perdio, da quel suo collo cosí lungo egli credeva di saper tuttavia cavar fuori una seducentissima voce e accompagnare le sue frasi dolci e gentili con molta grazia di sguardi, di sorrisi e di gesti, con le mani costantemente calzate da guanti di filo di Scozia, che non si levava neanche a scuola, impartendo le sue lezioni di francese ai ragazzini delle tecniche, che naturalmente ne ridevano.

Ma che! Nessuna pietà, nessuna considerazione per lui, in tutto quel vicinato, per la sua doppia sciagura. Pareva anzi che la morte della moglie e delle sue creaturine gemelle fosse giudicata da tutti come una giusta e ben meritata punizione.

Tutta la pietà era per i due orfanelli, di cui in astratto si considerava la sorte. Ecco qua: il patrigno, adesso, senza alcun dubbio, avrebbe ripreso moglie: una megera, certo, una tiranna; ne avrebbe avuto chi sa quanti figliuoli, a cui Nenè e Niní sarebbero stati costretti a far da servi, fintanto che, a furia di maltrattamenti, di sevizie, prima l’una e poi l’altro, sarebbero stati soppressi.

Fremiti di sdegno, brividi d’orrore assalivano a siffatti pensieri uomini e donne del vicinato; e impetuosamente i due piccini, in questa o in quella casa, erano abbracciati e inondati di lagrime.

Perché il professor Erminio Del Donzello, ora, ogni mattina, prima di recarsi a scuola, per ingraziarsi quel vicinato ostile e dimostrar la cura e la sollecitudine che si dava de’ due orfanelli, dopo averli ben lavati e calzati e vestiti, se li prendeva per mano, uno di qua, l’altra di là, e li andava a lasciare ora in questa ora in quella famiglia tra le tante che si erano profferte.

Era – s’intende – in ciascuna di queste famiglie piú delle altre caritatevoli e in pensiero per la sorte dei piccini, almeno una ragazza da marito; e tutte, senza eccezione, queste ragazze da marito sarebbero state mammine svisceratamente amorose di quei due orfanelli; perfida tiranna, spietata megera sarebbe stata solo quell’una, che il professor Erminio Del Donzello avrebbe scelto tra esse.

Perché era una necessità ineluttabile, che il professor Erminio Del Donzello riprendesse moglie. Se l’aspettava di giorno in giorno tutto il vicinato, e per dir la verità ci pensava sul serio anche lui.

Poteva forse durare a lungo cosí? Quelle famiglie si prestavano con tanto zelo di carità ad accogliere i piccini, per adescarlo; non c’era dubbio. Se egli avesse fatto a lungo le viste di non comprenderlo, tra un po’ di tempo gli avrebbero chiuso la porta in faccia; non c’era dubbio neanche su questo. E allora? Poteva forse da solo attendere a quei due piccini? Con la scuola tutte le mattine, le lezioni particolari nelle ore del pomeriggio, la correzione dei còmpiti tutte le sere… Una serva in casa? Egli era giovine, e caldo, quantunque di fuori non paresse. Una serva vecchia? Ma lui aveva preso moglie perché la vita di scapolo, quell’andare accattando l’amore, non gli era parso piú compatibile con la sua età e con la sua dignità di professore. E ora, con quei due piccini…

No, via; era, era veramente una necessità ineluttabile.

L’imbarazzo della scelta, intanto, gli cresceva di giorno in giorno, di giorno in giorno lo esasperava sempre piú.

E dire che in principio aveva creduto che dovesse riuscirgli molto difficile trovare una seconda moglie, in quelle sue condizioni! Gliene bisognava una? Ne aveva trovate subito dieci, dodici, quindici, una piú pronta e impaziente dell’altra!

Sí, perché in fondo, via, era vedovo, ma appena: si poteva dire che quasi non aveva avuto tempo d’essere ammogliato. E quanto ai figliuoli, sí, c’erano, ma non erano suoi. La casa, intanto, fino alla maggiore età di questi, ch’erano ancor tanto piccini, era per lui, e cosí anche il frutto della dote, il quale insieme col suo stipendio di professore faceva un’entratuccia piú che discreta.

Questo conto se l’erano fatto bene tutte le mamme e le signorine del vicinato. Ma il professor Erminio Del Donzello era certo che si sarebbe attirate addosso tutte le furie dell’inferno, se avesse fatto la scelta in quel vicinato.

Aveva sopra tutto, e con ragione, paura delle suocere. Perché ognuna di quelle mamme disilluse sarebbe certo diventata subito una suocera per lui; tutte quante si sarebbero costituite mamme postume della sua povera moglie defunta, e nonne di quei due orfanelli. E che mamma, che nonna, che suocera sarebbe stata, ad esempio, quella signora Ninfa della casa dirimpetto, che piú delle altre gli aveva fatto e seguitava a fargli le piú pressanti esibizioni d’ogni servizio, insieme con la figliuola Romilda e il figlio Toto!

Venivano tutti e tre, quasi ogni mattina, a strappargli di casa i piccini, perché non li conducesse altrove. Via, uno almeno! ne desse loro uno almeno, o Nenè o Niní; meglio Nenè, oh cara! ma anche Niní, oh caro! E baci e chicche e carezze senza fine.

Il professor Erminio Del Donzello non sapeva come schermirsi; sorrideva, angustiato; si volgeva di qua e di là; si poneva innanzi al petto le mani inguantate; storceva il collo come una cicogna:

– Vede, cara signora… carissima signorina… non vorrei che… non vorrei che…

– Ma lasci dire, lasci dire, professore! Lei può star sicuro che come stanno da noi, non stanno da nessuno! La mia Romilda ne è pazza, sa? proprio pazza, tanto dell’una quanto dell’altro. E guardi il mio Toto! Eccolo là… A cavalluccio, eh Niní? Gioja cara, quanto sei bello! To’, caro! to’, amore!

Il professor Erminio Del Donzello, costretto a cedere, se n’andava come tra le spine, voltandosi a sorridere di qua e di là, quasi a chiedere scusa alle altre vicine.

Ma nelle ore che lui, sempre coi guanti di filo di Scozia, insegnava il francese ai ragazzi delle scuole tecniche, che scuola facevano quelle vicine là, e segnatamente la signora Ninfa con la figliuola Romilda e il figlio Toto, a Nenè e Niní? che prevenzioni, che sospetti insinuavano nelle loro animucce? e che paure?

Già Nenè, che s’era fatta una bella bamboccetta vispa e tosta, con le fossette alle guance, la boccuccia appuntita, gli occhietti sfavillanti, acuti e furbi, tutta scatti tra risatine nervose, coi capelli neri, irrequieti, sempre davanti agli occhi, per quanto di tratto in tratto se li mandasse via con rapide, rabbiose scrollatine, s’impostava fieramente incontro alle minacce immaginarie, ai maltrattamenti, ai soprusi della futura matrigna, che le vicine le facevano balenare; e mostrando il piccolo pugno chiuso, gridava:

– E io l’ammazzo!

Subito, all’atto, quelle le si precipitavano addosso, se la strappavano, per soffocarla di baci e di carezze.

– Oh cara! Amore! Angelo! Sí, cara, cosí! Perché tutto è tuo, sai? La casa è tua, la dote della tua mammina è tua, tua e del tuo fratellino, capisci? E devi difenderlo, tu, il tuo fratellino! E se tu non basti, ci siamo qua noi, a farli stare a dovere, tanto lei che lui, non dubitare, ci siamo qua noi per te e per Niní!

Niní era un badalone grosso grosso, pacioso, con le gambette un po’ a roncolo e la lingua ancora imbrogliata. Quando Nenè, la sorellina, levava il pugno e gridava: «E io l’ammazzo!» si voltava piano piano a guardarla e domandava con voce cupa e con placida serietà:

– L’ammassi davero?

E, a questa domanda, altri prorompimenti di frenetiche amorevolezze in tutte quelle buone vicine.

Dei frutti di questa scuola il professor Erminio Del Donzello si accorse bene, allorché, dopo un anno di titubamenti e angosciose perplessità, scelta alla fine una casta zitella attempata, di nome Caterina, nipote d’un curato, la sposò e la portò in casa.

Quella poverina pareva seguitasse a recitar le orazioni anche quando, con gli occhi bassi, parlava della spesa o del bucato. Pur non di meno, il professor Erminio Del Donzello, ogni mattina, prima d’andare a scuola, le diceva:

– Caterina mia, mi raccomando. So, so la tua mansuetudine cara. Ma procura, per carità, di non dare il minimo incentivo a tutte queste vipere attorno, di schizzar veleno. Fa’ che questi angioletti non gridino e non piangano per nessuna ragione. Mi raccomando.

Va bene; ma Nenè, ecco, aveva i capelli arruffati: non si doveva pettinare? Niní, mangione, aveva il musetto sporco, e sporchi anche i ginocchi: non si doveva lavare?

– Nenè, vieni, amorino, che ti pèttino.

E Nenè, pestando un piede:

– Non mi voglio pettinare!

– Niní, via, vieni tu almeno, caro caro: fa’ vedere alla sorellina come ti fai lavare.

E Niní, placido e cupo, imitando goffamente il gesto della sorella:

– Non mi vollo lavare!

E se Caterina lo costringeva appena, o s’accostava loro col pettine o col catino, strilli che arrivavano al cielo!

Subito allora le vicine:

– Ecco che comincia! Ah, povere creature! Dio di misericordia, senti, senti! Ma che fa? Ih, strappa i capelli alla grande! Senti che schiaffi al piccino! Ah che strazio, Dio, Dio, abbiate pietà di questi due poveri innocenti!

Se poi Caterina, per non farli strillare, lasciava Nenè spettinata e sporco Niní:

– Ma guardate qua questi due amorini come sono ridotti: una cagnetta scarduffata e un porcellino!

Nenè, certe mattine, scappava di casa in camicia, a piedi nudi; si metteva a sedere su lo scalino innanzi all’uscio di strada, accavalciando una gambetta su l’altra e squassando la testina per mandarsi via dagli occhi le ciocche ribelli, rideva e annunziava a tutti:

– Sono castigata!

Poco dopo, piano piano, scendeva con le gambette a roncolo Niní, in camicina e scalzo anche lui, reggendo per il manico l’orinaletto di latta; lo posava accanto alla sorellina, vi si metteva a sedere, e ripeteva serio serio, aggrondato e con la lingua grossa:

– So’ cattigato!

Figurarsi attorno le grida di commisera-zione e di sdegno delle vicine indignate!

Eccoli qua, ignudi! ignudi! Che barbarie, con questo freddo! Far morire cosí d’una bronchite, d’una polmonite due povere creaturine! Come poteva Dio permetter questo? Ah sí, di nascosto, è vero? essi, di nascosto, erano scappati dal letto? E perché erano scappati? Segno che i due piccini chi sa com’erano trattati! Ah, già, niente… Gente di chiesa, figuriamoci! Diamo il supplizio senza far strillare! Oh Dio, ecco le lagrime adesso, ecco le lagrime del coccodrillo!

Una santa, anche una santa avrebbe perduto la pazienza. Quella povera donna sentiva voltarsi il cuore in petto, non solamente per la crudele ingiustizia, ma anche per lo strazio di veder quella ragazzetta, Nenè, cosí bellina, crescere come una diavola, messa sú da quelle perfide pettegole, sguajata, senza rispetto per nessuno.

– La casa è mia! La dote è mia!

Signore Iddio, la dote! Una piccina alta un palmo, che strillava e levava i pugni e pestava i piedi per la dote!

Il professor Erminio Del Donzello pareva in pochi mesi invecchiato di dieci anni.

Guardava la povera moglie che gli piangeva davanti disperata, e non sapeva dirle niente, come non sapeva dir niente a quei due diavoletti scatenati.

Era inebetito? No. Non parlava, perché si sentiva male. E si sentiva male, perché… perché proprio portavano con sé questo destino, quei due piccini là!

Il padre era morto; e la mamma, per provvedere a loro, si era rimaritata ed era morta. Ora… ora toccava a lui.

N’era profondamente convinto il professor Erminio Del Donzello.

Toccava a lui!

Domani, la sua vedova, quella povera Caterina, per dare a Nenè e a Niní una guida, un sostegno, sarebbe passata, a sua volta, a seconde nozze, e sarebbe morta lei allora; e a quel secondo marito toccherebbe di riammogliarsi; e cosí, via via, un’infinita sequela di sostituti genitori sarebbe passata in poco tempo per quella casa.

La prova evidente era nel fatto, ch’egli si sentiva già molto, molto male.

Era destino, e non c’era dunque né da fare né da dir nulla.

La moglie, vedendo che non riusciva in nessun modo a scuoterlo da quella fissazione che lo inebetiva, si recò per consiglio dallo zio curato. Questi, senz’altro, le impose d’obbedire al proprio dovere e alla propria coscienza, senza badare alle proteste infami di tutti quei malvagi. Se con la bontà quei due piccini non si riducevano a ragione, usasse pure la forza!

Il consiglio fu savio; ma, ahimè, non ebbe altro effetto, che affrettar la fine del povero professore.

La prima volta che Caterina lo mise in pratica, Erminio Del Donzello, ritornando da scuola, si vide venire con le mani in faccia quel Toto della signora Ninfa seguito da tutte le vicine urlanti con le braccia levate.

La moglie s’era dovuta asserragliare in casa. E c’erano guardie e carabinieri innanzi alla porta.

Tutto il vicinato aveva apposto le firme a una protesta da presentare alla Questura per le sevizie che si facevano a quei due angioletti.

L’onta, la trepidazione per lo scandalo enorme furono tali e tanta la rabbia per quella ostinata, feroce iniquità, che Erminio Del Donzello si ridusse in pochi giorni in fin di vita, per un travaso di bile improvviso e tremendo.

Prima di chiuder gli occhi per sempre, si chiamò la moglie accanto al letto e con un fil di voce le disse:

– Caterina mia, vuoi un mio consiglio? Sposa, sposa quel Toto, cara, della signora Ninfa. Non temere; verrai presto a raggiungermi. E lascia allora che provveda lui, insieme con l’altra, a quei due piccini. Stai pur certa, cara, che morrà presto anche lui.

Nenè e Niní, intanto, in casa d’una vicina avevano trovato una gattina mansa e un pappagalletto imbalsamato, e ci giocavano, ignari e felici.

– Mao, ti strozzo! – diceva Nenè.

E Niní, voltandosi, con la lingua imbrogliata: Lo strossi davero?

Lo strossi davero?

3.15  «Requiem aeternam dona eis, Domine!»

Erano dodici. Dieci uomini e due donne, in commissione. Col prete che li conduceva, tredici.

Nell’anticamera ingombra d’altra gente in attesa, non avevano trovato posto da sedere tutti quanti. Sette erano rimasti in piedi, addossati alla parete, dietro i sei seduti, tra i quali il prete in mezzo alle due donne.

Queste piangevano, con la mantellina di panno nero tirata fin sugli occhi. E gli occhi dei dieci uomini, anche quelli del prete, s’invetravano di lagrime, appena il pianto delle donne, sommesso, accennava di farsi piú affannoso per l’úrgere improvviso di pensieri, che facilmente essi indovinavano.

– Buone… buone… – le esortava allora il prete, sotto sotto, anche lui con la voce gonfia di commozione.

 

Quelle levavano il capo, appena, e scoprivano gli occhi bruciati dal pianto, volgendo intorno un rapido sguardo pieno d’ansietà torbida e schiva.

Esalavano tutti, compreso il prete, un lezzo caprino, misto a un sentor grasso di concime, cosí forte, che gli altri aspettanti o storcevano la faccia, disgustati, o arricciavano il naso; qualcuno anche gonfiava le gote e sbuffava.

Ma essi non se ne davano per intesi. Quello era il loro odore, e non l’avvertivano; l’odore della loro vita, tra le bestie da pascolo e da lavoro, nelle lontane campagne arse dal sole e senza un filo d’acqua. Per non morir di sete, dovevano ogni mattina andare con le mule per miglia e miglia a una gora limacciosa in fondo alla vallata. Figurarsi dunque, se potevano sprecarne per la pulizia. Erano poi sudati per il gran correre; e l’esasperazione, a cui erano in preda, faceva sbomicare dai loro corpi una certa acrèdine d’aglio, ch’era come il segno della loro ferinità.

 

Se pur s’accorgevano di quei versacci, li attribuivano alla nimicizia che, in quel momento, credevano d’avere da parte di tutti i signori, congiurati al loro danno.

Venivano dalle alture rocciose del fèudo di Màrgari; ed erano in giro dal giorno avanti; il prete, fiero, tra le due donne, in testa; gli altri dieci, dietro, a branco.

Il lastricato delle strade aveva schizzato faville tutto il giorno al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, massicci e scivolosi.

Nelle dure facce contadinesche, irte d’una barba non rifatta da parecchi giorni, negli occhi lupigni, fissi in un’intensa doglia tetra, avevano un’espressione truce, di rabbia a stento contenuta. Parevano cacciati dall’urgenza d’una necessità crudele, da cui temessero di non trovar piú scampo che nella pazzia.

Erano stati dal sindaco e da tutti gli assessori e consiglieri comunali; ora, per la seconda volta, tornavano alla Prefettura.

 

Il signor prefetto, il giorno avanti, non aveva voluto riceverli; ma essi, a coro, tra pianti e urli e gesti furiosi d’implorazione e di minaccia avevano già esposto il loro reclamo contro il proprietario del fèudo al consigliere delegato, il quale invano s’era scalmanato a dimostrare che né il sindaco, né lui, né il signor prefetto, né sua eccellenza il ministro e neppure sua maestà il re avevano il potere di contentarli in quello che chiedevano; alla fine, per disperato, aveva dovuto promettere che avrebbero avuto udienza dal signor prefetto, quella mattina, alle undici, presente anche il proprietario del fèudo, barone di Màrgari.

Le undici eran già passate da un pezzo, stava per sonare mezzogiorno, e il barone non si vedeva ancora.

Intanto l’uscio della sala, ove il prefetto dava udienza, rimaneva chiuso anche agli altri aspettanti.

– C’è gente, – rispondevano gli uscieri.

Alla fine l’uscio s’aprí e venne fuori dalla sala, dopo uno scambio di cerimonie, proprio lui, il barone di Màrgari, col faccione in fiamme e un fazzoletto in mano; tozzo, panciuto, le scarpe sgrigliolanti, insieme col consigliere delegato.

I sei seduti balzarono in piedi, le due donne levarono acute le strida, e il prete fiero si fece avanti, gridando con enfasi, sbalordito:

– Ma questo… questo è un tradimento!

– Padre Sarso! – chiamò forte un usciere dall’uscio della sala rimasto aperto.

Il consigliere delegato si rivolse al prete:

– Ecco, siete chiamato per la risposta. Entrate, voi solo. Calma, signori miei, calma!

Il prete, agitato, sconvolto, rimase perplesso se accorrere o no alla chiamata, mentre i suoi uomini, non meno agitati e sconvolti di lui, domandavano, piangendo di rabbia per una ingiustizia, che sembrava loro patente:

– E noi? e noi? Ma come? Che risposta?

Poi, tutti insieme, in gran confusione, presero a vociare:

– Noi vogliamo il camposanto! – Siamo carne battezzata! – In groppa a una mula, signor Prefetto, i nostri morti! – Come bestie macellate! – Il riposo dei morti, signor Prefetto! – Vogliamo le nostre fosse! – Un palmo di terra, dove gettare le nostre ossa!

E le donne, tra un diluvio di lagrime:

– Per nostro padre che muore! Per nostro padre che vuol sapere, prima di chiudere gli occhi per sempre, che dormirà nella fossa che s’è fatta scavare! sotto l’erbuccia della nostra terra!

E il prete, piú forte di tutti, con le braccia levate, innanzi all’uscio del prefetto:

– È l’implorazione suprema dei fedeli: Requiem aeternam dona eis, Domine!

Accorsero, a quel pandemonio, da ogni parte uscieri, guardie, impiegati che, a un comando gridato dal prefetto dalla soglia, sgombrarono violentemente l’anticamera, cacciando via tutti per la scala, anche quelli che non c’entravano.

Su la strada maestra, al precipitarsi di tutti quegli uomini urlanti dal palazzo della Prefettura, si raccolse subito una gran folla; e allora padre Sarso, al colmo dell’indignazione e dell’esaltazione, pressato dalle domande che gli piovevano da tutte le parti, si mise ad agitar le braccia come un naufrago e a far cenni col capo, con le mani di voler rispondere a tutti, or ora… ecco, sí… piano, un po’ di largo… cacciato dall’autorità… ecco, sí… al popolo, al popolo…

E prese ad arringare:

– Parlo in nome di Dio, o cristiani, che sta sopra ogni legge che altri possa vantare, ed è padrone di tutti e di tutta la terra! Noi non siamo qua per vivere soltanto, o cristiani! Siamo qua per vivere e per morire! Se una legge umana, iniqua, nega al povero in vita il diritto d’un palmo di terra, su cui, posando il piede, possa dire:»Questo è mio!», non può negargli, in morte, il diritto della fossa! O cristiani, questa gente è qua, in nome di altri quattrocento infelici, per reclamare il diritto della sepoltura! Vogliono le loro fosse! Per sé e per i loro morti!

 

– Il camposanto! il camposanto! – urlarono di nuovo tutti insieme, con le braccia per aria e gli occhi pieni di lagrime, i dodici margaritani.

E il prete, prendendo nuovo ardire dallo sbalordimento della folla, cercando di sollevarsi quanto piú poteva su la punta dei piedi per dominarla tutta:

– Ecco, ecco, guardate, o cristiani a queste due donne qua… dove siete? mostratevi! ecco: a queste due donne qua sta per morire il padre, che è il padre di tutti noi, il nostro capo, il fondatore della nostra borgata! Or son piú di sessant’anni, quest’uomo, ora moribondo, salí alle terre di Màrgari e sul dorso roccioso della montagna levò con le sue mani la prima casa di canne e creta. Ora le case lassú sono piú di centocinquanta; piú di quattrocento gli abitanti. Il paese piú vicino, o cristiani, è a circa sette miglia di distanza. Ognuno di questi uomini, a cui muore il padre o la madre, la moglie o il figlio, il fratello o la sorella, deve patir lo strazio di vedere il cadavere del parente issato, o cristiani, sul dorso d’una mula, per essere trasportato, sguazzante nella bara, per miglia e miglia di ripido cammino tra le rocce! E piú volte s’è dato il caso che la mula è scivolata e la bara s’è spaccata e il morto è balzato tra i sassi e il fango del letto dei torrenti! Questo è accaduto, o cristiani, perché il signor barone di Màrgari ci nega barbaramente il permesso di seppellire in un cantuccio sotto la nostra borgatella i nostri morti, da poterli avere sotto gli occhi e custodire! Abbiamo finora sopportato lo strazio, senza gridare, contentandoci di pregare, di scongiurare a mani giunte questo barbaro signore! Ma ora che muore il padre di tutti noi, o cristiani, il vecchio nostro, con la brama di sapersi seppellito là, dove in tante case ora arde il fuoco da lui acceso per la prima volta, noi siamo venuti qua a reclamare, non un diritto propriamente legale, ma d’u… che? che c’è?… dico d’umanità, d’u…

 

Non poté seguitare. Un folto manipolo di guardie e di carabinieri irruppe nella folla e, dopo molto scompiglio, tra urla e fischi e applausi, riuscí a disperderla. Padre Sarso fu preso per le braccia da un delegato e tradotto insieme con gli altri dodici margaritani al commissariato di polizia.

Intanto, il barone di Màrgari, che finora se ne era stato discosto, tra un crocchio di conoscenti, stronfiando come se si sentisse a mano a mano soffocare e schiacciare sotto il peso dello scandalo pubblico per l’oltracotante predica di quel prete, e piú volte aveva cercato di divincolarsi dalle braccia che lo trattenevano per lanciarsi addosso all’arringatore; ora che la folla si disperdeva, si mosse, attorniato da gente sempre in maggior numero, e, terreo, ansimante, come se fosse or ora uscito da una rissa mortale, si mise a raccontare che lui e, prima, di lui, suo padre don Raimondo Màrgari, rappresentati da quella gente là e da quel prete ciarlatano come barbari spietati che negavano loro il diritto della sepoltura, erano invece da sessant’anni vittime d’una usurpazione inaudita, da parte del padre di quelle due donne là, uomo terribile, soperchiatore e abisso d’ogni malizia. Disse che da anni e anni egli non era piú padrone di andare nelle sue terre, dove coloro avevano edificato le loro case e quel prete la sua chiesa, senza pagare né censo, né fitto, senza neanche chiedergli il permesso d’invadere cosí la sua proprietà. Egli poteva mandare i suoi campieri a cacciarli via tutti, come tanti cani, e a diroccar le loro case; non lo aveva fatto; non lo faceva; li lasciava vivere e moltiplicare, peggio dei conigli: ognuna di quelle donne metteva al mondo una ventina di figliuoli; tanto che, in meno di sessant’anni, era cresciuta lassú una popolazione. Ma non bastava, ecco, non erano contenti: quel prete avvocato, che viveva alle loro spalle, che aveva imposto a tutti una tassa per il mantenimento della sua chiesa, li metteva sú, ed eccoli qua: non solo volevano stare nelle sue terre da vivi, ci volevano stare anche da morti. Ebbene, no! questo, no! questo, mai! Li sopportava da vivi; ma la soperchieria di averli anche morti nelle terre, mai! Anche perché l’usurpazione loro non si radicasse sottoterra coi loro morti! Il prefetto gli aveva dato ragione; gli aveva anzi promesso di mandare lassú guardie e carabinieri per impedire ogni violenza: perché il vecchio, da un mese moribondo per idropisia, era uomo da farsi seppellire vivo nella fossa che già s’era fatta scavare nel posto ove sognava che dovesse sorgere il cimitero, appena le due figliuole e quel prete gli annunzierebbero il rifiuto.

 

Quando, difatti, nel pomeriggio, padre Sarso e la sua ciurma furono rimessi in libertà e si avviarono al fondaco, ove il giorno avanti avevano lasciato le mule, vi trovarono in buon numero guardie e carabinieri a cavallo, incaricati di scortarli fino alle alture di Màrgari, alla borgata.

– Ancora? – fremette padre Sarso, vedendoli. – Ancora? Perché? Siamo forse gente di mal affare, da essere scortati cosí dalla forza? Ma già… meglio, sí… anzi, se ci volete ammanettare! Sú, sú, andiamo! a cavallo! a cavallo!

Pareva che avesse affrontato e sofferto il martirio. Gonfio di quanto aveva fatto, non gli pareva l’ora d’arrivare alla borgata con quella scorta, che avrebbe attestato a tutti lassú, con quanto fervore, con quale violenza egli si fosse adoperato a ottenere al vecchio la sepoltura.

S’era già fatto tardi, e si sapevano aspettati con impazienza fin dalla sera avanti. Chi sa se il vecchio era ancora in vita! Tutti si auguravano in cuore che fosse morto.

– O padruccio… o padruccio… – piagnucola-vano le due donne.

Ma sí, meglio morto, nell’incertezza, con la speranza almeno, che essi fossero riusciti a strappare al barone la concessione del camposanto!

Sú, via, via… Calava l’ombra della sera, e quanto piú lungo si faceva il ritardo del loro ritorno, tanto piú forse si radicava e cresceva nel cuore di tutti lassú quella speranza. E tanto piú grave sarebbe stata allora la disillusione.

Gesú, Gesú! Che strepito di cavalcature! Pareva una marcia di guerra. Chi sa come sarebbero restati a Màrgari, vedendoli ritornare accompagnati cosí, da tanta forza!

Il vecchio se ne sarebbe subito accorto.

Moriva all’aperto, in mezzo ai suoi, seduto innanzi alla porta della sua casa terrena, non potendo piú stare a letto, soffocato com’era dalla tumefazione enorme dell’idropisia. Stava anche di notte lí seduto, boccheggiante, con gli occhi alle stelle, assistito da tutta la borgata, che da un mese non si stancava di vegliarlo.

Se fosse almeno possibile impedirgli la vista di tutte quelle guardie…

Padre Sarso si rivolse al maresciallo, che gli cavalcava a fianco:

– Non potrebbero restare un po’ indietro? – gli domandò. – Tenersi un poco discosti? Se si potesse far credere pietosamente a quel povero vecchio, che abbiamo ottenuto la concessione!

Il maresciallo tardò un pezzo a rispondere. Diffidava di quel prete: temeva di compromettersi acconsentendo. Alla fine disse:

– Vedremo, padre; vedremo sul posto.

Ma quando, dopo molte ore d’affannoso cammino, cominciò la salita della montagna, s’intravidero da lontano, non ostante il bujo già fitto, tali cose straordinarie, che nessuno pensò piú di poter fare al vecchio quell’inganno pietoso.

Era su l’alta costa rocciosa come un formicolío di lumi. Fasci di paglia ardevano qua e là, da cui salivano alle stelle spire dense di fumo infiammato, come nella novena di Natale. E cantavano lassú, cantavano, sí, proprio come nella novena di Natale, al lume di quelle fiammate.

Che era avvenuto? Sú, di carriera! di carriera!

Tutta la borgata lassú si era raccolta quasi a celebrare un selvaggio rito funebre.

Il vecchio, non sapendo piú reggere all’impazienza dell’attesa, sperando requie alle smanie della soffocazione, s’era fatto trasportare su una seggiola al posto dove sarebbe sorto il camposanto, innanzi alla sua fossa.

Lavato, pettinato e parato da morto, aveva accanto alla seggiola, su cui stava posato come un’enorme balla ansimante, la sua cassa d’abete, già pronta da parecchi giorni. Eran preparati sul coperchio di quella cassa una papalina di seta nera, un pajo di pantofole di panno e un fazzoletto, anch’esso di seta nera, ripiegato a fascia che, appena morto, passato sotto il mento e legato sul capo, doveva servire a tenergli chiusa la bocca. Insomma tutto l’occorrente per l’ultima vestizione.

Attorno, coi lumi, era tutta la gente della borgata che cantava al vecchio le litanie.

– Sancta Dei Genitrix,

– Ora pro nobis!

– Sancta Virgo Virginum,

– Ora pro nobis!

E al formicolio di tutti quei lumi rispondeva dalla cupola immensa del cielo il fitto sfavillío delle stelle.

Sul capo del vecchio tremolavano alla brezzolina notturna i radi capelli, ancora umidi e tesi per l’insolita pettinatura. Movendo appena le mani enfiate, una sul dorso dell’altra, gemeva tra il grasso rantolo, come per confortarsi e averne refrigerio:

– L’erbuccia!… l’erbuccia…

Quella che sarebbe schiumata dalla sua terra, tra poco, là, su la sua fossa. E verso di essa allungava i piedi deformati dal gonfiore, ridotti come due vesciche entro le grosse calze di cotone turchino.

Appena attorno a lui la sua gente levò le grida, vedendo accorrere tra strepito di sciabole sú per l’erta una cosí grossa frotta di cavalcature, provò a rizzarsi in piedi; udí il pianto e le risposte affannose dei sopravvenuti; e, comprendendo, tentò di gettarsi a capofitto giú nella fossa. Fu trattenuto; tutti gli si strinsero attorno, come a proteggerlo dalla forza; ma il maresciallo riuscí a rompere la calca e ordinò che subito quel moribondo fosse trasportato a casa e che tutti sgombrassero di là.

Su la seggiola, come un santone su la bara, il vecchio fu sollevato, e i margaritani, reggendo alti i lumi, gridando e piangendo, s’avviarono verso le loro casupole, che biancheggiavano in alto, sparse su la roccia.

La scorta rimase al bujo, sotto le stelle a guardia della fossa vuota e della cassa d’abete, lasciata lí, con quella papalina e quel fazzoletto e quelle pantofole posate sul coperchio.

Novelle per un anno V

Testi del quinto volume, La mosca

        1. La mosca
        2. L’eresia catara
        3. Le sorprese della scienza
        4. Le medaglie
        5. La madonnina
        6. La berretta di Padova
        7. Lo scaldino
        8. Lontano
        9. La fede
        10. Con altri occhi
        11. Tra due ombre
        12. Niente
        13. Mondo di carta
        14. Il sonno del vecchio
        15. La distruzione dell’uomo

 

5.1  La mosca

Trafelati, ansanti, per far piú presto, quando furono sotto il borgo, – sú, di qua, coraggio! – s’arrampicarono per la scabra ripa cretosa, ajutandosi anche con le mani – forza! forza! – poiché gli scarponi imbullettati – Dio sacrato! – scivolavano.

Appena s’affacciarono paonazzi sulla ripa, le donne, affollate e vocianti intorno alla fontanella all’uscita del paese, si voltarono tutte a guardare. O non erano i fratelli Tortorici, quei due là? Sí, Neli e Saro Tortorici. Oh poveretti! E perché correvano cosí?

Neli, il minore dei fratelli, non potendone piú, si fermò un momento per tirar fiato e rispondere a quelle donne; ma Saro se lo trascinò via, per un braccio.

– Giurlannu Zarú, nostro cugino! – disse allora Neli, voltandosi, e alzò una mano in atto di benedire.

Le donne proruppero in esclamazioni di compianto e di orrore; una domandò, forte:

– Chi è stato?

– Nessuno: Dio! – gridò Neli da lontano.

Voltarono, corsero alla piazzetta, ov’era la casa del medico condotto.

Il signor dottore, Sidoro Lopiccolo, scamiciato, spettorato, con una barbaccia di almeno dieci giorni su le guance flosce, e gli occhi gonfi e cisposi, s’aggirava per le stanze, strascicando le ciabatte e reggendo su le braccia una povera malatuccia ingiallita, pelle e ossa, di circa nove anni.

 

La moglie, in un fondo di letto, da undici mesi; sei figliuoli per casa, oltre a quella che teneva in braccio, ch’era la maggiore, laceri, sudici, inselvaggiti; tutta la casa, sossopra, una rovina: cocci di piatti, bucce, l’immondizia a mucchi sui pavimenti; seggiole rotte, poltrone sfondate, letti non piú rifatti chi sa da quanto tempo, con le coperte a brandelli, perché i ragazzi si spassavano a far la guerra sui letti, a cuscinate; bellini! Solo intatto, in una stanza ch’era stata salottino, un ritratto fotografico ingrandito, appeso alla parete; il ritratto di lui, del signor dottore Sidoro Lopiccolo, quand’era ancora giovincello, laureato di fresco: lindo, attillato e sorridente. Davanti a questo ritratto egli si recava ora, ciabattando; gli mostrava i denti in un ghigno aggraziato, s’inchinava e gli presentava la figliuola malata, allungando le braccia.

– Sisiné, eccoti qua!

Perché cosí, Sisiné, lo chiamava per vezzeggiarlo sua madre, allora; sua madre che si riprometteva grandi cose da lui ch’era il beniamino, la colonna, lo stendardo della casa.

– Sisiné!

Accolse quei due contadini come un cane idrofobo.

– Che volete?

Parlò Saro Tortorici, ancora affannato, con la berretta in mano:

– Signor dottore, c’è un poverello, nostro cugino, che sta morendo…

– Beato lui! Sonate a festa le campane! – gridò il dottore.

– Ah nossignore! Sta morendo, tutt’a un tratto, non si sa di che. Nelle terre di Montelusa, in una stalla.

Il dottore si tirò un passo indietro e proruppe, inferocito:

– A Montelusa?

C’erano, dal paese, sette miglia buone di strada. E che strada!

– Presto presto, per carità! – pregò il Tortorici. – È tutto nero, come un pezzo di fegato! gonfio, che fa paura. Per carità!

– Ma come, a piedi? – urlò il dottore. – Dieci miglia a piedi? Voi siete pazzi! La mula! Voglio la mula. L’avete portata?

– Corro subito a prenderla, – s’affrettò a rispondere il Tortorici. – Me la faccio prestare.

– E io allora, – disse Neli, il minore, – nel frattempo, scappo a farmi la barba.

Il dottore si voltò a guardarlo, come se lo volesse mangiar con gli occhi.

– È domenica, signorino, – si scusò Neli, sorridendo, smarrito. – Sono fidanzato.

– Ah, fidanzato sei? – sghignò allora il medico, fuori di sé. – E pigliati questa, allora!

Gli mise, cosí dicendo, sulle braccia la figlia malata; poi prese a uno a uno gli altri piccini che gli s’erano affollati attorno e glieli spinse di furia fra le gambe: – E quest’altro! e quest’altro! e quest’altro! e quest’altro! Bestia! bestia! Bestia!

Gli voltò le spalle, fece per andarsene, ma tornò indietro, si riprese la malatuccia e gridò ai due:

– Andate via! La mula! Vengo subito.

Neli Tortorici tornò a sorridere, scendendo la scala, dietro al fratello. Aveva vent’anni, lui; la fidanzata, Luzza, sedici: una rosa! Sette figliuoli? Ma pochi! Dodici, ne voleva. E a mantenerli, si sarebbe ajutato con quel pajo di braccia sole, ma buone, che Dio gli aveva dato. Allegramente, sempre. Lavorare e cantare, tutto a regola d’arte. Non per nulla lo chiamavano Liolà, il poeta. E sentendosi amato da tutti per la sua bontà servizievole e il buon umore costante, sorrideva finanche all’aria che respirava. Il sole non era ancora riuscito a cuocergli la pelle, a inaridirgli il bel biondo dorato dei capelli riccioluti che tante donne gli avrebbero invidiato; tante donne che arrossi-vano, turbate, se egli le guardava in un certo modo, con quegli occhi chiari, vivi vivi.

Piú che del caso del cugino Zarú quel giorno, egli era afflitto in fondo del broncio che gli avrebbe tenuto la sua Luzza, che da sei giorni sospirava quella domenica per stare un po’ con lui. Ma poteva, in coscienza, esimersi da quella carità di cristiano? Povero Giurlannu! Era fidanzato anche lui. Che guajo, cosí all’improvviso! Abbacchiava le mandorle, laggiú, nella tenuta del Lopes, a Montelusa. La mattina avanti, sabato, il tempo s’era messo all’acqua; ma non pareva ci fosse pericolo di pioggia imminente. Verso mezzogiorno, però, il Lopes dice: – In un’ora Dio lavora; non vorrei, figliuoli, che le mandorle mi rimanessero per terra, sotto la pioggia. – E aveva comandato alle donne che stavano a raccogliere, di andar sú, nel magazzino, a smallare. – Voi, – dice, rivolto agli uomini che abbacchiavano (e c’erano anche loro, Neli e Saro Tortorici) – voi, se volete, andate anche sú, con le donne a smallare. – Giurlannu Zarú: – Pronto, – dice, – ma la giornata mi corre col mio salario, di venticinque soldi? – No, mezza giornata, – dice il Lopes, – te la conto col tuo salario; il resto, a mezza lira, come le donne. – Soperchieria! Perché, mancava forse per gli uomini di lavorare e di guadagnarsi la giornata intera? Non pioveva; né piovve difatti per tutta la giornata, né la notte. – Mezza lira, come le donne? – dice Giurlannu Zarú. – Io porto calzoni. Mi paghi la mezza giornata in ragione di venticinque soldi, e vado via.

Non se n’andò: rimase ad aspettare fino a sera i cugini che s’erano contentati di smallare, a mezza lira, con le donne. A un certo punto, però, stanco di stare in ozio a guardare, s’era recato in una stalla lí vicino per buttarsi a dormire, raccomandando alla ciurma di svegliarlo quando sarebbe venuta l’ora d’andar via.

S’abbacchiava da un giorno e mezzo, e le mandorle raccolte erano poche. Le donne proposero di smallarle tutte quella sera stessa, lavorando fino a tardi e rimanendo a dormire lí il resto della notte, per risalire al paese la mattina dopo, levandosi al bujo. Cosí fecero. Il Lopes portò fave cotte e due fiaschi di vino. A mezzanotte, finito di smallare, si buttarono tutti, uomini e donne, a dormire al sereno su l’aja, dove la paglia rimasta era bagnata dall’umido, come se veramente fosse piovuto.

– Liolà, canta!

E lui, Neli, s’era messo a cantare all’improv-viso. La luna entrava e usciva di tra un fitto intrico di nuvolette bianche e nere; e la luna era la faccia tonda della sua Luzza che sorrideva e s’oscurava alle vicende ora tristi e ora liete dell’amore. Giurlannu Zarú era rimasto nella stalla. Prima dell’alba, Saro si era recato a svegliarlo e lo aveva trovato lí, gonfio e nero, con un febbrone da cavallo.

Questo raccontò Neli Tortorici, là dal barbiere, il quale, a un certo punto distraendosi, lo incicciò col rasojo. Una feritina, presso il mento, che non pareva nemmeno, via! Neli non ebbe neanche il tempo di risentirsene, perché alla porta del barbiere s’era affacciata Luzza con la madre e Mita Lumía, la povera fidanzata di Giurlannu Zarú, che gridava e piangeva, disperata.

Ci volle del bello e del buono per fare intendere a quella poveretta che non poteva andare fino a Montelusa, a vedere il fidanzato: lo avrebbe veduto prima di sera, appena lo avrebbero portato sú, alla meglio. Sopravvenne Saro, sbraitando che il medico era già a cavallo e non voleva piú aspettare. Neli si tirò Luzza in disparte e la pregò che avesse pazienza: sarebbe ritornato prima di sera e le avrebbe raccontato tante belle cose.

Belle cose, difatti, sono anche queste, per due fidanzati che se le dicono stringendosi le mani e guardandosi negli occhi.

Stradaccia scellerata! Certi precipizi, che al dottor Lopiccolo facevano vedere la morte con gli occhi, non ostante che Saro di qua, Neli di là reggessero la mula per la capezza.

Dall’alto si scorgeva tutta la vasta campagna, a pianure e convalli; coltivata a biade, a oliveti, a mandorleti; gialla ora di stoppie e qua e là chiazzata di nero dai fuochi della debbiatura; in fondo, si scorgeva il mare, d’un aspro azzurro. Gelsi, carrubi, cipressi, olivi serbavano il loro vario verde, perenne; le corone dei mandorli s’erano già diradate.

 

Tutt’intorno, nell’ampio giro dell’orizzonte, c’era come un velo di vento. Ma la calura era estenuante; il sole spaccava le pietre. Arrivava or sí or no, di là dalle siepi polverose di fichidindia, qualche strillo di calandra o la risata d’una gazza, che faceva drizzar le orecchie alla mula del dottore.

– Mula mala! mula mala! – si lamentava questi allora.

Per non perdere di vista quelle orecchie, non avvertiva neppure al sole che aveva davanti agli occhi, e lasciava l’ombrellaccio aperto foderato di verde, appoggiato su l’omero.

– Vossignoria non abbia paura, ci siamo qua noi, – lo esortavano i fratelli Tortorici.

Paura, veramente il dottore non avrebbe dovuto averne. Ma diceva per i figliuoli. Se la doveva guardare per quei sette disgraziati, la pelle.

Per distrarlo, i Tortorici si misero a parlargli della mal’annata: scarso il frumento, scarso l’orzo, scarse le fave; per i mandorli, si sapeva: non raffermano sempre: carichi un anno e l’altro no; e delle ulive non parlavano: la nebbia le aveva imbozzacchite sul crescere; né c’era da rifarsi con la vendemmia, ché tutti i vigneti della contrada erano presi dal male.

– Bella consolazione! – andava dicendo ogni tanto il dottore, dimenando la testa.

 

In capo a due ore di cammino, tutti i discorsi furono esauriti. Lo stradone correva diritto per un lungo tratto, e su lo strato alto di polvere bianchiccia si misero a conversare adesso i quattro zoccoli della mula e gli scarponi imbullettati dei due contadini. Liolà, a un certo punto, si diede a canticchiare, svogliato, a mezza voce; smise presto. Non s’incontrava anima viva, poiché tutti i contadini, di domenica, erano sú al paese, chi per la messa, chi per le spese, chi per sollievo. Forse laggiú, a Montelusa, non era rimasto nessuno accanto a Giurlannu Zarú, che moriva solo, seppure era vivo ancora.

Solo, difatti, lo trovarono, nella stallaccia intanfata, steso sul murello, come Saro e Neli Tortorici lo avevano lasciato: livido, enorme, irriconoscibile.

Rantolava.

Dalla finestra ferrata, presso la mangiatoja, entrava il sole a percuotergli la faccia che non pareva piú umana: il naso, nel gonfiore, sparito; le labbra, nere e orribilmente tumefatte. E il rantolo usciva da quelle labbra, esasperato, come un ringhio. Tra i capelli ricci da moro una festuca di paglia splendeva nel sole.

I tre si fermarono un tratto a guardarlo, sgomenti e come trattenuti dall’orrore di quella vista. La mula scalpitò, sbruffando, su l’acciottolato della stalla. Allora Saro Tortorici si accostò al moribondo e lo chiamò amorosamente:

– Giurlà, Giurlà, c’è il dottore.

Neli andò a legar la mula alla mangiatoja, presso alla quale, sul muro, era come l’ombra di un’altra bestia, l’orma dell’asino che abitava in quella stalla e vi s’era stampato a forza di stropicciarsi.

Giurlannu Zarú, a un nuovo richiamo, smise di rantolare; si provò ad aprir gli occhi insanguati, anneriti, pieni di paura; aprí la bocca orrenda e gemette, com’arso dentro:

– Muojo!

– No, no, – s’affrettò a dirgli Saro, angosciato. – C’è qua il medico. L’abbiamo condotto noi; lo vedi?

– Portatemi al paese! – pregò il Zarú, e con affanno, senza potere accostar le labbra: – Oh mamma mia!

– Sí, ecco, c’è qua la mula! – rispose subito Saro.

– Ma anche in braccio, Giurlà, ti ci porto io! – disse Neli, accorrendo e chinandosi su lui. – Non t’avvilire!

Giurlannu Zarú si voltò alla voce di Neli, lo guatò con quegli occhi insanguati come se in prima non lo riconoscesse, poi mosse un braccio e lo prese per la cintola.

– Tu, bello? Tu?

– Io, sí, coraggio! Piangi? Non piangere, Giurlà, non piangere. È nulla!

 

E gli posò una mano sul petto che sussultava dai singhiozzi che non potevano rompergli dalla gola. Soffocato, a un certo punto il Zarú scosse il capo rabbiosamente, poi alzò la mano, prese Neli per la nuca e l’attirò a sé:

– Insieme, noi, dovevamo sposare…

– E insieme sposeremo, non dubitare! – disse Neli, levandogli la mano che gli s’era avvinghiata alla nuca.

Intanto il medico osservava il moribondo. Era chiaro: un caso di carbonchio.

– Dite un po’, non vi ricordate di qualche insetto che v’abbia pinzato?

– No, – fece col capo il Zarú.

– Insetto? – domandò Saro.

Il medico spiegò, come poteva a quei due ignoranti, il male. Qualche bestia doveva esser morta in quei dintorni, di carbonchio. Su la carogna, buttata in fondo a qualche burrone, chi sa quanti insetti s’erano posati; qualcuno poi, volando, aveva potuto inoculare il male al Zarú, in quella stalla.

Mentre il medico parlava cosí, il Zarú aveva voltato la faccia verso il muro.

Nessuno lo sapeva, e la morte intanto era lí, ancora; cosí piccola, che si sarebbe appena potuta scorgere, se qualcuno ci avesse fatto caso.

C’era una mosca, lí sul muro, che pareva immobile; ma, a guardarla bene, ora cacciava fuori la piccola proboscide e pompava, ora si nettava celermente le due esili zampine anteriori, stropicciandole fra loro, come soddisfatta. Il Zarú la scorse e la fissò con gli occhi.

Una mosca.

 

Poteva essere stata quella o un’altra. Chi sa? Perché, ora, sentendo parlare il medico, gli pareva di ricordarsi. Sí, il giorno avanti, quando s’era buttato lí a dormire, aspettando che i cugini finissero di smallare le mandorle del Lopes, una mosca gli aveva dato fastidio. Poteva esser questa?

La vide a un tratto spiccare il volo e si voltò a seguirla con gli occhi.

Ecco era andata a posarsi sulla guancia di Neli. Dalla guancia, lieve lieve, essa ora scorreva in due tratti, sul mento, fino alla scalfittura del rasojo, e s’attaccava lí, vorace.

Giurlannu Zarú stette a mirarla un pezzo, intento, assorto. Poi, tra l’affanno catarroso, domandò con una voce da caverna:

– Una mosca, può essere?

– Una mosca? E perché no? – rispose il medico.

Giurlannu Zarú non disse altro: si rimise a mirare quella mosca che Neli, quasi imbalordito dalle parole del medico, non cacciava via. Egli, il Zarú, non badava piú al discorso del medico, ma godeva che questi, parlando, assorbisse cosí l’attenzione del cugino da farlo stare immobile come una statua, da non fargli avvertire il fastidio di quella mosca lí sulla guancia. Oh fosse la stessa! Allora sí, davvero, avrebbero sposato insieme! Una cupa invidia, una sorda gelosia feroce lo avevano preso di quel giovane cugino cosí bello e florido, per cui piena di promesse rimaneva la vita che a lui, ecco, veniva improvvisamente a mancare.

A un tratto Neli, come se finalmente si sentisse pinzato, alzò una mano, cacciò via la mosca e con le dita cominciò a premersi il mento, sul taglietto. Si voltò a Zarú che lo guardava e restò un po’ sconcertato vedendo che questi aveva aperto le labbra orrende, a un sorriso mostruoso. Si guardarono un po’ cosí. Poi il Zarú disse, quasi senza volerlo:

– La mosca.

Neli non comprese e chinò l’orecchio:

– Che dici?

– La mosca, – ripeté quello.

– Che mosca? Dove? – chiese Neli, costernato, guardando il medico.

– Lí, dove ti gratti. Lo so sicuro! – disse il Zarú.

Neli mostrò al dottore la feritina sul mento:

– Che ci ho? Mi prude.

 

Il medico lo guardò, accigliato; poi, come se volesse osservarlo meglio, lo condusse fuori della stalla. Saro li seguí.

Che avvenne poi? Giurlannu Zarú attese, attese a lungo, con un’ ansia che gl’irritava dentro tutte le viscere. Udiva parlare, là fuori, confusamente. A un tratto, Saro rientrò di furia nella stalla, prese la mula e, senza neanche voltarsi a guardarlo, uscí, gemendo:

– Ah, Neluccio mio! ah, Neluccio mio!

Dunque, era vero? Ed ecco, lo abbandonavano lí, come un cane. Provò a rizzarsi su un gomito, chiamò due volte:

– Saro! Saro!

Silenzio. Nessuno. Non si resse piú sul gomito, ricadde a giacere e si mise per un pezzo come a grufare, per non sentire il silenzio della campagna, che lo atterriva. A un tratto gli nacque il dubbio che avesse sognato, che avesse fatto quel sogno cattivo, nella febbre; ma, nel rivoltarsi verso il muro, rivide la mosca, lí di nuovo.

Eccola.

Ora cacciava fuori la piccola proboscide e pompava, ora si nettava celermente le due esili zampine anteriori, stropicciandole fra loro, come soddisfatta.

5.2  L’eresia catara

Bernardino Lamis, professore ordinario di storia delle religioni, socchiu-dendo gli occhi addogliati e, come soleva nelle piú gravi occasioni, prendendosi il capo inteschiato tra le gracili mani tremolanti che pareva avessero in punta, invece delle unghie, cinque rosee conchigliette lucenti, annunziò ai due soli alunni che seguivano con pertinace fedeltà il suo corso:

– Diremo, o signori, nella ventura lezione, dell’eresia catara.

Uno de’ due studenti, il Ciotta – bruno ciociaretto di Guarcino, tozzo e solido – digrignò i denti con fiera gioja e si diede una violenta fregatina alle mani. L’altro, il pallido Vannícoli, dai biondi capelli irti come fili di stoppia e dall’aria spirante, appuntí invece le labbra, rese piú dolente che mai lo sguardo dei chiari occhi languidi e stette col naso come in punto a annusar qualche odore sgradevole, per significare che era compreso della pena che al venerato maestro doveva certo costare la trattazione di quel tema, dopo quanto glien’aveva detto privatamente. (Perché il Vannícoli credeva che il professor Lamis quand’egli e il Ciotta, finita la lezione, lo accompagnavano per un lungo tratto di via verso casa, si rivolgesse unicamente a lui, solo capace d’intenderlo.)

E difatti il Vannícoli sapeva che da circa sei mesi era uscita in Germania (Halle a. S.) una mastodontica monografia di Hans von Grobler su l’Eresia Catara, messa dalla critica ai sette cieli, e che su lo stesso argomento, tre anni prima, Bernardino Lamis aveva scritto due poderosi volumi, di cui il von Grobler mostrava di non aver tenuto conto, se non solo una volta, e di passata, citando que’ due volumi, in una breve nota; per dirne male.

Bernardino Lamis n’era rimasto ferito proprio nel cuore; e piú s’era addolorato e indignato della critica italiana che, elogiando anch’essa a occhi chiusi il libro tedesco, non aveva minimamente ricordato i due volumi anteriori di lui, né speso una parola per rilevare l’indegno trattamento usato dallo scrittore tedesco a uno scrittor paesano. Piú di due mesi aveva aspettato che qualcuno, almeno tra i suoi antichi scolari, si fosse mosso a difenderlo; poi, tuttoché – secondo il suo modo di vedere – non gli fosse parso ben fatto, s’era difeso da sé, notando in una lunga e minuziosa rassegna, condita di fine ironia, tutti gli errori piú o meno grossolani in cui il von Grobler era caduto, tutte le parti che costui s’era appropriate della sua opera senza farne menzione, e aveva infine raffermato con nuovi e inoppugnabili argomenti le proprie opinioni contro quelle discordanti dello storico tedesco.

Questa sua difesa, però, per la troppa lunghezza e per lo scarso interesse che avrebbe potuto destare nella maggioranza dei lettori, era stata rifiutata da due riviste; una terza se la teneva da piú d’un mese, e chi sa quanto tempo ancora se la sarebbe tenuta, a giudicare dalla risposta punto garbata che il Lamis, a una sua sollecitazione, aveva ricevuto dal direttore.

Sicché dunque davvero Bernardino Lamis aveva ragione, uscito dall’Università, di sfogarsi quel giorno amaramente coi due suoi fedeli giovani che lo accompagnavano al solito verso casa. E parlava loro della spudorata ciarlata-neria che dal campo della politica era passata a sgambettare in quello della letteratura, prima, e ora, purtroppo, anche nei sacri e inviolabili dominii della scienza; parlava della servilità vigliacca radicata profondamente nell’indole del popolo italiano, per cui è gemma preziosa qualunque cosa venga d’oltralpe o d’oltremare e pietra falsa e vile tutto ciò che si produce da noi; accennava infine agli argomenti piú forti contro il suo avversario, da svolgere nella ventura lezione. E il Ciotta, pregustando il piacere che gli sarebbe venuto dall’estro ironico e bilioso del professore, tornava a fregarsi le mani, mentre il Vannícoli, afflitto, sospirava.

A un certo punto il professor Lamis tacque e prese un’aria astratta: segno, questo, per i due scolari, che il professore voleva esser lasciato solo.

 

Ogni volta, dopo la lezione, si faceva una giratina per sollievo giú per la piazza del Pantheon, poi sú per quella della Minerva, attraversava Via dei Cestari e sboccava sul Corso Vittorio Emanuele. Giunto in prossimità di Piazza San Pantaleo, prendeva quell’aria astratta, perché solito – prima di imboccare la Via del Governo Vecchio, ove abitava – d’entrare (furtivamente, secondo la sua intenzione) in una pasticceria, donde poco dopo usciva con un cartoccio in mano. I due scolari sapevano che il professor Lamis non aveva da fare neppur le spese a un grillo, e non si potevano perciò capacitare della compera di quel cartoccio misterioso, tre volte la settimana.

Spinto dalla curiosità, il Ciotta era finanche entrato un giorno nella pasticceria a domandare che cosa il professore vi comperasse.

– Amaretti, schiumette e bocche di dama.

E per chi serviranno?

Il Vannícoli diceva per i nipotini. Ma il Ciotta avrebbe messo le mani sul fuoco che servivano proprio per lui, per il professore stesso; perché una volta lo aveva sorpreso per via nel mentre che si cacciava una mano in tasca per trarne fuori una di quelle schiumette e doveva già averne un’altra in bocca, di sicuro, la quale gli aveva impedito di rispondere a voce al saluto che lui gli aveva rivolto.

– Ebbene, e se mai, che c’è di male? Debolezze! – gli aveva detto, seccato, il Vannícoli, mentre da lontano seguiva con lo sguardo languido il vecchio professore, il quale se ne andava pian piano, molle molle, strusciando le scarpe.

Non solamente questo peccatuccio di gola, ma tante e tant’altre cose potevano essere perdonate a quell’uomo che, per la scienza, s’era ridotto con quelle spalle aggobbate che pareva gli volessero scivolare e fossero tenute sú, penosamente, dal collo lungo, proteso come sotto un giogo. Tra il cappello e la nuca la calvizie del professor Lamis si scopriva come una mezza luna cuojacea; gli tremolava su la nuca una rada zazzeretta argentea, che gli accavallava di qua e di là gli orecchi e seguitava barba davanti – su le gote e sotto il mento – a collana.

Né il Ciotta né il Vannícoli avrebbero mai supposto che in quel cartoccio Bernardino Lamis si portava a casa tutto il suo pasto giornaliero.

Due anni addietro, gli era piombata addosso da Napoli la famiglia d’un suo fratello, morto colà improvvisamente: la cognata, furia d’inferno, con sette figliuoli, il maggiore dei quali aveva appena undici anni. Notare che il professor Lamis non aveva voluto prender moglie per non esser distratto in alcun modo dagli studii. Quando, senz’alcun preavviso, s’era veduto innanzi quell’esercito strillante, accampato sul pianerottolo della scala, davanti la porta, a cavallo d’innumerevoli fagotti e fagottini, era rimasto allibito. Non potendo per la scala, aveva pensato per un momento di scappare buttandosi dalla finestra. Le quattro stanzette della sua modesta dimora erano state invase; la scoperta d’un giardinetto, unica e dolce cura dello zio, aveva suscitato un tripudio frenetico nei sette orfani sconsolati, come li chiamava la grassa cognata napoletana. Un mese dopo, non c’era piú un filo d’erba in quel giardinetto. Il professor Lamis era diventato l’ombra di se stesso: s’aggirava per lo studio come uno che non stia piú in cervello, tenendosi pur nondimeno la testa tra le mani quasi per non farsela portar via anche materialmente da quegli strilli, da quei pianti, da quel pandemonio imperversante dalla mattina alla sera. Ed era durato un anno, per lui, questo supplizio, e chi sa quant’altro tempo ancora sarebbe durato, se un giorno non si fosse accorto che la cognata, non contenta dello stipendio che a ogni ventisette del mese egli le consegnava intero, ajutava dal giardinetto il maggiore dei figliuoli a inerpicarsi fino alla finestra dello studio, chiuso prudentemente a chiave, per fargli rubare i libri:

– Belli grossi, neh, Gennarie’, belli grossi e nuovi!

Mezza la sua biblioteca era andata a finire per pochi soldi sui muricciuoli.

Indignato, su le furie, quel giorno stesso, Bernardino Lamis con sei ceste di libri superstiti e tre rustiche scansie, un gran crocefisso di cartone, una cassa di biancheria, tre seggiole, un ampio seggiolone di cuojo, la scrivania alta e un lavamano, se n’era andato ad abitare – solo – in quelle due stanzette di via Governo Vecchio, dopo aver imposto alla cognata di non farsi vedere mai piú da lui.

Le mandava ora per mezzo d’un bidello dell’Università, puntualmente ogni mese, lo stipendio, di cui tratteneva soltanto lo stretto necessario per sé.

Non aveva voluto prendere neanche una serva a mezzo servizio, temendo che si mettesse d’accordo con la cognata. Del resto, non ne aveva bisogno. Non s’era portato nemmeno il letto, dormiva con uno scialletto su le spalle, avvoltolato in una coperta di lana, entro il seggiolone. Non cucinava. Seguace a modo suo della teoria del Fletcher, si nutriva con poco, masticando molto. Votava quel famoso cartoccio nelle due ampie tasche dei calzoni, metà qua, metà là, e mentre studiava o scriveva, in piedi com’era solito, mangiucchiava o un amaretto o una schiumetta o una bocca di dama. Se aveva sete, acqua. Dopo un anno di quell’inferno, si sentiva ora in paradiso.

Ma era venuto il von Grobler con quel suo libraccio su l’Eresia Catara a guastargli le feste.

Quel giorno, appena rincasato, Bernardino Lamis si rimise al lavoro, febbrilmente.

Aveva innanzi a sé due giorni per finir di stendere quella lezione che gli stava tanto a cuore. Voleva che fosse formidabile. Ogni parola doveva essere una frecciata per quel tedescaccio von Grobler.

Le sue lezioni egli soleva scriverle dalla prima parola fino all’ultima, in fogli di carta protocollo, di minutissimo carattere. Poi, all’Università, le leggeva con voce lenta e grave, reclinando indietro il capo, increspando la fronte e stendendo le pàlpebre per potere vedere attraverso le lenti insellate su la punta del naso, dalle cui narici uscivano due cespuglietti di ispidi peli grigi liberamente cresciuti. I due fidi scolari avevano tutto il tempo di scrivere quasi sotto dettatura. Il Lamis non montava mai in cattedra: sedeva umilmente davanti al tavolino sotto. I banchi, nell’aula, erano disposti in quattro ordini, ad anfiteatro. L’aula era buja, e il Ciotta e il Vannícoli all’ultimo ordine, uno di qua, l’altro di là, ai due estremi, per aver luce dai due occhi ferrati che si aprivano in alto. Il professore non li vedeva mai durante la lezione: udiva soltanto il raspío delle loro penne frettolose.

Là, in quell’aula, poiché nessuno s’era levato in sua difesa, lui si sarebbe vendicato della villania di quel tedescaccio, dettando una lezione memorabile.

Avrebbe prima esposto con succinta chiarezza l’origine, la ragione, l’essenza, l’importanza storica e le conseguenze dell’eresia catara, riassumendole dai suoi due volumi; si sarebbe poi lanciato nella parte polemica, avvalendosi dello studio critico che aveva già fatto sul libro del von Grobler. Padrone com’era della materia, e col lavoro già pronto, sotto mano, a una sola fatica sarebbe andato incontro: a quella di tenere a freno la penna. Con l’estro della bile, avrebbe scritto in due giorni, su quell’argomento, due altri volumi piú poderosi dei primi.

Doveva invece restringersi a una piana lettura di poco piú di un’ora: riempire cioè di quella sua minuta scrittura non piú di cinque o sei facciate di carta protocollo. Due le aveva già scritte. Le tre o quattro altre facciate dovevano servire per la parte polemica.

Prima d’accingervisi, volle rileggere la bozza del suo studio critico sul libro del von Grobler. La trasse fuori dal cassetto della scrivania, vi soffiò su per cacciar via la polvere, con le lenti già su la punta del naso, e andò a stendersi lungo lungo sul seggiolone.

A mano a mano, leggendo, se ne compiacque tanto, che per miracolo non si trovò ritto in piedi su quel seggiolone; e tutte, una dopo l’altra, in men d’un’ora, s’era mangiato inavvertitamente le schiumette che dovevano servirgli per due giorni. Mortificato, trasse fuori la tasca vuota, per scuoterne la sfarinatura.

Si mise senz’altro a scrivere, con l’intenzione di riassumere per sommi capi quello studio critico. A poco a poco però, scrivendo, si lasciò vincere dalla tentazione d’incorporarlo tutto quanto di filo nella lezione, parendogli che nulla vi fosse di superfluo, né un punto né una virgola. Come rinunziare, infatti, a certe espressioni d’una arguzia cosí spontanea e di tanta efficacia? a certi argomenti cosí calzanti e decisivi? E altri e altri ancora gliene venivano, scrivendo, piú lucidi, piú convincenti, a cui non era del pari possibile rinunziare.

Quando fu alla mattina del terzo giorno, che doveva dettar la lezione, Bernardino Lamis si trovò davanti, sulla scrivania ben quindici facciate fitte fitte, invece di sei.

Si smarrí.

Scrupolosissimo nel suo officio, soleva ogni anno, in principio, dettare il sommario di tutta la materia d’insegnamento che avrebbe svolto durante il corso, e a questo sommario si atteneva rigorosissimamente. Già aveva fatto, per quella malaugurata pubblicazione del libro del von Grobler, una prima concessione all’amor proprio offeso, entrando quell’anno a parlare quasi senza opportunità dell’eresia catara. Piú d’una lezione, dunque, non avrebbe potuto spenderci. Non voleva a nessun costo che si dicesse che per bizza o per sfogo il professor Lamis parlava fuor di proposito o piú del necessario su un argomento che non rientrava se non di lontano nella materia dell’annata.

Bisognava dunque, assolutamente, nelle poche ore che gli restavano, ridurre a otto, a nove facciate al massimo, le quindici che aveva scritte.

Questa riduzione gli costò un cosí intenso sforzo intellettuale, che non avvertí nemmeno alla grandine, ai lampi, ai tuoni d’un violentissimo uragano che s’era improvvisa-mente rovesciato su Roma. Quando fu su la soglia del portoncino di casa, col suo lungo rotoletto di carta sotto il braccio, pioveva a diluvio. Come fare? Mancavano appena dieci minuti all’ora fissata per la lezione. Rifece le scale, per munirsi d’ombrello, e si avviò sotto quell’acqua, riparando alla meglio il rotoletto di carta, la sua «formidabile» lezione.

Giunse all’Università in uno stato compassionevole: zuppo da capo a piedi. Lasciò l’ombrello nella bacheca del portinajo; si scosse un po’ la pioggia di dosso, pestando i piedi; s’asciugò la faccia e salí al loggiato.

L’aula – buja anche nei giorni sereni – pareva con quel tempo infernale una catacomba; ci si vedeva a mala pena. Non di meno, entrando, il professor Lamis, che non soleva mai alzare il capo, ebbe la consolazione d’intravedere in essa, cosí di sfuggita, un insolito affollamento, e ne lodò in cuor suo i due fidi scolari che evidentemente avevano sparso tra i compagni la voce del particolare impegno con cui il loro vecchio professore avrebbe svolto quella lezione che tanta e tanta fatica gli era costata e dove tanto tesoro di cognizioni era con sommo sforzo racchiuso e tanta arguzia imprigionata.

 

In preda a una viva emozione, posò il cappello e montò, quel giorno, insolitamente, in cattedra. Le gracili mani gli tremolavano talmente, che stentò non poco a inforcarsi le lenti sulla punta del naso. Nell’aula il silenzio era perfetto. E il professor Lamis, svolto il rotolo di carta, prese a leggere con voce alta e vibrante, di cui egli stesso restò meravigliato. A quali note sarebbe salito, allorché, finita la parte espositiva per cui non era acconcio quel tono di voce, si sarebbe lanciato nella polemica? Ma in quel momento il professor Lamis non era piú padrone di sé. Quasi morso dalle vipere del suo stile, sentiva di tratto in tratto le reni fènderglisi per lunghi brividi e alzava di punto in punto la voce e gestiva, gestiva. Il professor Bernardino Lamis, cosí rigido sempre, cosí contegnoso, quel giorno, gestiva! Troppa bile aveva accumulato in sei mesi, troppa indignazione gli avevano cagionato la servilità, il silenzio della critica italiana; e questo ora, ecco, era per lui il momento della rivincita! Tutti quei bravi giovani, che stavano ad ascoltarlo religiosamente, avrebbero parlato di questa sua lezione, avrebbero detto che egli era salito in cattedra quel giorno perché con maggior solennità partisse dall’Ateneo di Roma la sua sdegnosa risposta non al von Grobler soltanto, ma a tutta quanta la Germania.

Leggeva cosí da circa tre quarti d’ora, sempre piú acceso e vibrante, allorché lo studente Ciotta, che nel venire all’Università era stato sorpreso da un piú forte rovescio d’acqua e s’era riparato in un portone, s’affacciò quasi impaurito all’uscio dell’aula. Essendo in ritardo, aveva sperato che il professor Lamis con quel tempo da lupi non sarebbe venuto a far lezione. Giú, poi, nella bacheca del portinajo, aveva trovato un bigliettino del Vannícoli che lo pregava di scusarlo presso l’amato professore perché «essendogli la sera avanti smucciato un piede nell’uscir di casa, aveva ruzzolato la scala, s’era slogato un braccio e non poteva perciò, con suo sommo dolore, assistere alla lezione».

A chi parlava, dunque, con tanto fervore il professor Bernardino Lamis?

Zitto zitto, in punta di piedi, il Ciotta varcò la soglia dell’aula e volse in giro lo sguardo. Con gli occhi un po’ abbagliati dalla luce di fuori, per quanto scarsa, intravide anche nell’aula numerosi studenti, e ne rimase stupito. Possibile? Si sforzò a guardar meglio.

Una ventina di soprabiti impermeabili, stesi qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta, formavano quel giorno tutto l’uditorio del professor Bernardino Lamis.

Il Ciotta li guardò, sbigottito, sentí gelarsi il sangue, vedendo il professore leggere cosí infervorato a quei soprabiti la sua lezione, e si ritrasse quasi con paura.

Intanto, terminata l’ora, dall’aula vicina usciva rumorosamente una frotta di studenti di legge, ch’erano forse i proprietarii di quei soprabiti.

 

Subito il Ciotta, che non poteva ancora riprender fiato dall’emozione, stese le braccia e si piantò davanti all’uscio per impedire il passo.

– Per carità, non entrate! C’è dentro il professor Lamis.

– E che fa? – domandarono quelli, meravigliati dell’aria stravolta del Ciotta.

Questi si pose un dito sulla bocca, poi disse piano, con gli occhi sbarrati:

– Parla solo!

Scoppiò una clamorosa irrefrenabile risata.

Il Ciotta chiuse lesto lesto l’uscio dell’aula, scongiurando di nuovo:

– Zitti, per carità, zitti! Non gli date questa mortificazione, povero vecchio! Sta parlando dell’eresia catara!

Ma gli studenti, promettendo di far silenzio, vollero che l’uscio fosse riaperto, pian piano, per godersi dalla soglia lo spettacolo di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti neri nell’ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis.

– … ma il manicheismo, o signori, il manicheismo, in fondo, che cosa è? Ditelo voi! Ora, se i primi Albigesi, a detta del nostro illustre storico tedesco, signor Hans von Grobler…

5.3  Le sorprese della scienza

Avevo ben capito che l’amico Tucci, nell’invitarmi con quelle sue calorose e pressanti lettere a passare l’estate a Milocca, in fondo non desiderava tanto di procurare un piacere a me, quanto a se stesso il gusto di farmi restare a bocca aperta mostrandomi ciò che aveva saputo fare, con molto coraggio, in tanti anni d’infaticabile operosità.

Aveva preso a suo rischio e ventura certi terreni paludosi che ammorbavano quel paese, e ne aveva fatto i campi piú ubertosi di tutto il circondario: un paradiso!

Non mi faceva grazia nelle sue lettere di nessuno dei tanti palpiti che quella bonifica gli era costata e di nessuno dei tanti mezzi escogitati, dei tanti guaj che gli erano diluviati, di nessuna delle tante lotte sostenute, lui solo contro Milocca tutta: lotte rusticane e lotte civili.

Per invogliarmi forse maggiormente, nell’ultima lettera mi diceva tra l’altro che aveva preso in moglie una saggia massaja, massaja in tutto: otto figliuoli in otto anni di matrimonio (due a un parto), e un nono per via; che aveva anche la suocera in casa, bravissima donna che gli voleva un mondo di bene, e anche il suocero in casa, perla d’uomo, dotto latinista e mio sviscerato ammiratore. Sicuro. Perché la mia fama di scrittore era volata fino a Milocca, dacché in un giornale s’era letto non so che articolo che parlava di me e d’un mio libro, dove c’era un uomo che moriva due volte. Leggendo quell’articolo di giornale, l’amico Tucci s’era ricordato d’un tratto che noi eravamo stati compagni di scuola tant’anni, al Liceo e all’Università, e aveva parlato entusias-ticamente del mio straordinario ingegno a suo suocero, il quale subito s’era fatto venire il libro di cui quel giornale parlava.

Ebbene, confesso che proprio quest’ultima notizia fu quella che mi vinse. Non càpita facilmente agli scrittori italiani la fortuna di veder la faccia dabbene d’uno dei tre o quattro acquirenti di qualche loro libro benavventurato. Presi il treno e partii per Milocca.

Otto ore buone di ferrovia e cinque di vettura.

Ma piano, con questa vettura! Cent’anni fa, non dico, sarà anche stata non molto vecchia; forse qualche molla, cent’anni fa, doveva averla ancora, anche se tre o quattro razzi delle ruote davanti e cinque o sei di quelle di dietro erano di già attorti di spago cosí come si vedevano adesso. Cuscini, non ne parliamo! Là, su la tavola nuda; e bisognava sedere in punta in punta, per cansare il rischio che la carne rimanesse presa in qualche fessura, giacché il legno, correndo, sganasciava tutto. Ma piano, con questo correre! Doveva dirlo la bestia. E quella bestia lí non diceva nulla: s’ajutava perfino col muso a camminare. Sí, centomila volte sí, scambio dei piedi, voleva metterci le froge per terra, come ce le metteva, povera decrepita rozza, tanto gli zoccoli sferrati le facevano male. E quel boja di vetturino intanto aveva il coraggio di dire che bisognava saperla guidare, lasciarla andare col suo verso, perché ombrava, ombrava e, a frustarla, ritta gli si levava come una lepre, certe volte, quella bestiaccia lí.

E che strada! Non posso dire d’averla proprio veduta bene tutta quanta, perché in certi precipizii vidi piuttosto la morte con gli occhi. Ma c’erano poi le pettate che me la lasciavano ammirare per tutta un’eternità, tra i cigolii del legno e il soffiar di quella rozza sfiancata, che accorava. Da quanti mai secoli non era stata piú riattata quella strada?

– Il pan delle vetture è il brecciale, – mi spiegò il vetturino. – Se lo mangiano con le ruote. Quando manchi il brecciale, si mangiano la strada.

 

E se l’erano mangiata bene oh, quella strada! Certi solchi che, a infilarli, non dico, ci s’andava meglio che in un binario, da non muoversene piú però, badiamo! ma, a cascarci dentro per uno spaglio della bestia, si ribaltava com’è vero Dio ed era grazia cavarne sano l’osso del collo.

– Ma perché le lasciano cosí senza pane le vetture a Milocca? – domandai.

– Perché? Perché c’è il progetto, – mi rispose il vetturino.

– Il…?

– Progetto, sissignore. Anzi, tanti progetti, ci sono. C’è chi vuol portare la via ferrata fino a Milocca, e chi dice il tram e chi l’automobile. Insomma si studia, ecco, per poi riparare come faccia meglio al caso.

– E intanto?

– Intanto io mi privo di comperare un altro legno e un’altra bestia, perché, capirà, se mettono il treno o il tram o l’automobile, posso fischiare.

Arrivai a Milocca a sera chiusa.

 

Non vidi nulla, perché secondo il calendario doveva esserci la luna, quella sera; la luna non c’era; i lampioni a petrolio non erano stati accesi; e dunque non ci si vedeva neanche a tirar moccoli.

Villa Tucci era a circa mezz’ora dal paese. Ma, o che la rozza veramente non ne potesse piú o che avesse fiutato la rimessa lí vicina, come diceva sacrando il vetturino, il fatto è che non volle piú andare avanti nemmeno d’un passo.

E non seppi darle torto, io.

Dopo cinque ore di compagnia, m’ero quasi quasi medesimato con quella bestia: non avrei voluto piú andare avanti neanch’io.

Pensavo:

– Chi sa, dopo tant’anni, come ritroverò Merigo Tucci! Già me lo ricordo cosí in nebbia. Chi sa come si sarà abbrutito a furia di batter la testa contro le dure, stupide realtà quotidiane d’una meschina vita provinciale! Da compagno di scuola, egli mi ammirava; ma ora vuol essere ammirato lui da me, perché – buttati via i libri – s’è arricchito; mentr’io, là! potrò farmi giulebbare dal suocero dotto latinista, il quale, figuriamoci! mi farà scontare a sudore di sangue le tre lirette spese per il mio libro. E otto marmocchi poi, e la suocera, Dio immortale, e la nuora buona massaja. E questo paese che Tucci mi ha decantato ricchissimo e che intanto si fa trovare al bujo, dopo quella stradaccia lí e questo legnetto qua per accogliere gli ospiti. Dove son venuto a cacciarmi?

 

Mentre mi pascevo comodamente di queste dolci riflessioni, la rozza, piantata lí su i quattro stinchi, si pasceva a sua volta d’una tempesta di frustate, imperturbabilmente. Alla fine il vetturino, stanco morto di quella sua gran fatica, disperato e furibondo, mi propose di andare a piedi.

– È qui vicino. La valigia gliela porto io.

– E andiamo, sú! Sgranchiremo le gambe, – dissi io, smontando. – Ma la via è buona, almeno? Con questo bujo…

– Lei non tema. Andrò io avanti; lei mi terrà dietro, piano piano, con giudizio.

Fortuna ch’era bujo! Quel ch’occhio non vede, cuore non crede. Quando però il giorno dopo vidi quell’altra strada lí, restai basito, non tanto perché c’ero passato, quanto per il pensiero che se Dio misericordioso aveva permesso che non ci lasciassi la pelle, chi sa a quali terribili prove vuol dire che m’ha predestinato.

Fu cosí forte l’impressione che mi fece quella strada e poi l’aspetto di quel paese – squallido, nudo, in desolato abbandono, come dopo un saccheggio o un orrendo cataclisma; senza vie, senz’acqua, senza luce – che la villa dell’amico mio e l’accoglienza ch’egli mi fece con tutti i suoi e l’ammirazione del suocero e via dicendo mi parvero rose, a confronto.

– Ma come! – dissi al Tucci. – Questo è il paese ricco e felice, tra i piú ricchi e felici del mondo?

E Tucci, socchiudendo gli occhi:

– Questo. E te ne accorgerai.

Mi venne di prenderlo a schiaffi. Perché non s’era mica incretinito quel pezzo d’omaccione là; pareva anzi che l’ingegno naturale, con l’alacrità e l’esperienza della vita, nelle dure lotte contro la terra e gli uomini, gli si fosse ingagliardito e acceso; e gli sfolgorava dagli occhi ridenti, da cui io, sciupato e immalinconito dalle vane brighe della città, roso dalle artificiose assidue cure intellettuali, mi sentivo commiserato e deriso a un tempo.

Ma se, ad onta delle mie previsioni, dovevo riconoscer lui, Merigo Tucci, degno veramente d’ammirazione, quel paesettaccio no e poi no, perdio! Ricco? felice?

– Mi canzoni? – gli gridai. – Non avete neanche acqua per bere e per lavarvi la faccia, case da abitare, strade per camminare, luce la sera per vedere dove andate a rompervi il collo, e siete ricchi e felici? Va’ là, ho capito, sai. La solita retorica! La ricchezza e la felicità nella beata ignoranza, è vero? Vuoi dirmi questo?

– No, al contrario, – mi rispose Merigo Tucci, con un sorriso, opponendo studiata-mente alla mia stizza altrettanta calma. – Nella scienza, caro mio! La felicità nostra è fondata nella scienza piú occhialuta che abbia mai soccorso la povera, industre umanità. Oh sí, staremmo freschi veramente, se fossero ignoranti i nostri amministratori! Tu m’insegni. Che salvaguardia può esser piú l’ignoranza in tempi come i nostri? Promettimi che non mi domanderai piú nulla fino a questa sera. Ti farò assistere a una seduta del nostro Consiglio comunale. Appunto questa sera si discuterà una questione di capitalissima importanza: l’illuminazione del paese. Tu avrai dalle cose stesse che vedrai e sentirai la dimostrazione piú chiara e piú convincente di quanto ti ho detto. Intanto, la ricchezza nostra è nelle meravigliose cascate di Chiarenza che ti farò vedere, e nelle terre che sono, grazie a Dio, cosí fertili, che ci dàn tre raccolti all’anno. Ora vedrai; vieni con me.

Passò tutto; mi sobbarcai a tutto; mi sorbii come decottini a digiuno tutti gli spassi e le distrazioni della giornata, col pensiero fisso alla dimostrazione che dovevo avere quella sera al Municipio della ricchezza e della felicità di Milocca.

Tucci, ad esempio, mi fece visitare palmo per palmo i suoi campi? Gli sorrisi. Mi fece una nuova e piú diffusa spiegazione della sua grande impresa lí su i luoghi? Gli sorrisi. E davvero l’impeto delle correnti aveva sgrottato tutte le terre e a lui era toccato asciugare e rialzar le campagne, corredandole della belletta, del grassume prezioso? Sí? davvero? Oh che piacere! Gli sorrisi. Ma far la roba è niente: a governarla ti voglio! E dunque gli ulivi si governano ogni tre anni con tre o quattro corbelli di sugo sostanzioso, pecorino? Sí? davvero? Oh che piacere! E gli sorrisi anche quando in cantina, con un’aria da Carlomagno, mi mostrò quattro lunghe andane di botti, e anche lí mi spiegò come valga piú saper governare il tino che la botte e com’egli facesse piú colorito il vino e come gli accrescesse forza e corpo mescolandovi certe qualità d’uve scelte, spicciolate, ammostate da sé, senza mai erbe, mai foglie di sambuco o di tiglio, mai tannino o gesso o catrame.

 

E sorrisi anche quando, piú morto che vivo, rientrai in villa e mi vidi venire incontro la tribú dei marmocchi in processione, i quali, mostrandomi rotti i giocattoli che avevo loro donati la sera avanti, mi domandavano con un lungo, strascicato lamento, uno dopo l’altro, tra lagrime senza fine:

– Peeerché queeesto m’hai portaaato?

– Peeerché queeesto m’hai portaaato?

Carini! carini! Carini!

 

E sorrisi anche al suocero, mio ammiratore, il quale – sissignori – era cieco, cieco da circa dieci anni e del mio libro non conosceva che qualche paginetta che il genero gli aveva potuto leggere di sera, dopo cena. Voleva egli ora che glielo leggessi io, il mio libro? Ma subito! E fu una vera fortuna per lui, che non potesse vedere il mio sorriso, e tutti quelli che gli porsi poi, ogni qualvolta il brav’uomo, ch’era straordinariamente erudito, m’interrompeva nella lettura (oh, quasi a ogni rigo!) per domandarmi con buona grazia se non credessi per avventura che avrei fatto meglio a usare un’altra parola invece di quella che avevo usata, o un’altra frase, o un altro costrutto, perché Daniello Bartoli, sicuro, Daniello Bartoli…

Finalmente arrivò la sera! Ero vivo ancora, non avrei saputo dir come, ma vivo, e potevo avere la famosa dimostrazione che Tucci mi aveva promesso.

Andammo insieme al Municipio, per la seduta del Consiglio comunale.

Era, come la maestra e donna di tutte le case del paese, la piú squallida e la piú scura: una catapecchia grave in uno spiazzo sterposo, con in mezzo un fosco cisternone abbandonato. Vi si saliva per una scalaccia buja, intanfata d’umido, stenebrata a malapena da due tisici lumini filanti, di quelli con le spere di latta, appiccati al muro quasi per far vedere come ornati di stucco, no, per dir la verità, non ce ne fossero, ma gromme di muffa, sí, e tante!

 

Saliva con noi una moltitudine di gente, attirata dalla discussione di gran momento che doveva svolgersi quella sera; saliva con un contegno, anzi con un cipiglio che doveva per forza meravigliare uno come me, abituato a non vedere mai prendere sul serio le sedute d’un Consiglio comunale.

La meraviglia mi era poi accresciuta, dall’aria, dall’aspetto di quella gente, che non mi pareva affatto cosí sciocca da doversi con tanta facilità contentare d’esser trattata com’era, cioè a modo di cani, dal Municipio.

Tucci fermò per la scala un tozzo omacciotto aggrondato, barbuto, rossigno, che, evidentemente, non voleva esser distratto dai pensieri che lo gonfiavano.

– Zagardi, ti presento l’amico mio…

E disse il mio nome. Quegli si voltò di mala grazia e rispose appena, con un grugnito, alla presentazione. Poi mi domandò a bruciapelo:

– Scusi, com’è illuminata la sua città?

– A luce elettrica, – risposi.

E lui, cupo:

– La compiango. Sentirà stasera. Scusi, ho fretta.

E via, a balzi, per il resto della scala.

– Sentirai, – mi ripeté Tucci, stringendomi il braccio. – È formidabile! Eloquenza mordace, irruente. Sentirai!

– E intanto ha il coraggio di compiangermi?

– Avrà le sue ragioni. Sú, sú, affrettiamoci, o non troveremo piú posto.

 

La mastra sala, la Sala del Consiglio, rischiarata da altri lumini a cui quelli della scala avevano ben poco da invidiare, pareva un’aula di pretura delle piú sudice e polverose. I banchi dei consiglieri e le poltrone di cuojo erano della piú venerabile antichità; ma, a considerarli bene nelle loro relazioni con quelli che tra poco avrebbero preso posto in essi e che ora passeggiavano per la sala, assorti, taciturni, ispidi come tanti cocomerelli selvatici pronti a schizzare a un minimo urto il loro sugo purgativo, pareva che non per gli anni si fossero logorati cosí, ma per la cura cupamente austera del pubblico bene, per i pensieri roditori che in loro, naturalmente, erano divenuti tarli.

Tucci mi mostrò e mi nominò a dito i consiglieri piú autorevoli: l’Ansatti, tra i giovani, rivale dello Zagardi, tozzo e barbuto anche lui, ma bruno; il Colacci, vecchio gigantesco, calvo, sbarbato, dalla pinguedine floscia; il Maganza, bell’uomo, militarmente impostato, che guardava tutti con rigidezza sdegnosa. Ma ecco, ecco il sindaco in ritardo. Quello? Sí, Anselmo Placci. Tondo, biondo, rubicondo: quel sindaco stonava.

– Non stona, vedrai, – mi disse Tucci. – È il sindaco che ci vuole.

Nessuno lo salutava; solo il Colacci gigantesco gli s’accostò per battergli forte la mano su la spalla. Egli sorrise, corse a prender posto sul suo seggio, asciugandosi il sudore, e sonò il campanello, mentre il capo-usciere gli porgeva la nota dei consiglieri presenti. Non mancava nessuno.

Il segretario, senza aspettar l’ordine, aveva preso a leggere il verbale della seduta precedente, che doveva essere redatto con la piú scrupolosa diligenza, perché i consiglieri che lo ascoltavano accigliati approvavano di tratto in tratto col capo, e infine non trovarono nulla da ridire.

Prestai ascolto anch’io a quel verbale, volgendomi ogni tanto, smarrito e sgomento, a guardare l’amico Tucci. A proposito delle strade di Milocca, si parlava come niente di Londra, di Parigi, di Berlino, di New York, di Chicago, in quel verbale, e saltavan fuori nomi d’illustri scienziati d’ogni nazione e calcoli complicatissimi e astrusissime disquisizioni, per cui i capelli del magro, pallido segretario mi pareva si ritraessero verso la nuca, man mano ch’egli leggeva, e che la fronte gli crescesse mostruosamente. Intanto due o tre uscieri, zitti zitti, in punta di piedi, recavano a questo e a quel banco pile enormi di libri e grossi incartamenti.

– Nessuno ha da fare osservazioni al verbale? – domandò alla fine il sindaco, stropicciandosi le mani paffutelle e guardando in giro. – Allora s’intende approvato. L’ordine del giorno reca: – Discussione del Progetto presentato dalla Giunta per un impianto idro-termo-elettrico nel Comune di Milocca. – Signori Consiglieri! Voi conoscete già questo progetto e avete avuto tutto il tempo d’esaminarlo e di studiarlo in ogni sua parte. Prima di aprire la discussione, consentite che io, anche a nome dei colleghi della Giunta, dichiari che noi abbiamo fatto di tutto per risolvere nel minor tempo e nel modo che ci è sembrato piú conveniente, sia per il decoro e per il vantaggio del paese, sia rispetto alle condizioni economiche del nostro Comune, il gravissimo problema dell’illuminazione. Aspettiamo dunque fiduciosi e sereni il vostro giudizio, che sarà equo certamente; e vi promettiamo fin d’ora, che accoglieremo ben volentieri tutti quei consigli, tutte quelle modificazioni che a voi piacerà di proporre, ispirandovi come noi al bene e alla prosperità del nostro paese.

Nessun segno d’approvazione.

 

E si levò prima a parlare il consigliere Maganza, quello dall’impostatura militaresca. Premise che sarebbe stato brevissimo, al solito suo. Tanto piú che per distruggere e atterrare quel fantastico edificio di cartapesta (sic), ch’era il progetto della Giunta, poche parole sarebbero bastate. Poche parole e qualche cifra.

E punto per punto il consigliere Maganza si mise a criticare il progetto, con straordinaria lucidità d’idee e parola acuta, incisiva: il complesso dei lavori e delle spese; la sanzione che si doveva dare per l’acquisto della concessione dell’acqua di Chiarenza; i rischi gravissimi a cui sarebbe andato incontro il Municipio: il rischio della costruzione e il rischio dell’esercizio; l’insufficienza della somma preventivata, che saltava agli occhi di tutti coloro che avevano fatto impianti meccanici e sapevano come fosse impossibile contener le spese nei limiti dei preventivi, specialmente quando questi preventivi erano fatti sopra progetti di massima e con l’evidente proposito di fare apparir piccola la spesa; il carattere impegnativo che aveva l’offerta dell’accollatario, fermi restando i dati su i quali l’offerta medesima era fondata; dati che per forza il Consiglio avrebbe dovuto alterare con varianti e aggiunte ai lavori idraulici, con varianti e aggiunte agl’impianti meccanici; e ciò oltre a tutti i casi imprevisti e imprevedibili, di forza maggiore, e a tutte le accidentalità, incagli, intoppi, che certamente non sarebbero mancati. Come poi fare appunti particolareggiati senza avere a disposizione i disegni d’esecuzione e i dati necessarii? Eppure due enormi lacune apparivano già evidentissime nel progetto: nessuna somma per le spese generali, mentre ognuno comprendeva che non si potevano eseguire lavori cosí grandiosi, cosí estesi, cosí varii e delicati, senza gravi spese di direzione e di sorveglianza e spese legali e amministrative; e l’altra lacuna ben piú vasta e profonda: la riserva termica che in principio la Giunta sosteneva non necessaria e che poi finalmente ammetteva.

 

E qui il consigliere Maganza, con l’ajuto dei libri che gli avevano recati gli uscieri, si sprofondò in una intricatissima, minuziosa confutazione scientifica, parlando della forza dei torrenti e delle cascate e di prese e di canali e di condotte forzate e di macchinarii e di condotte elettriche e delle relazioni da stabilire tra riserva termica e forza idraulica, oltre la riserva degli accumulatori; citando la Società Edison di Milano e l’Alta Italia di Torino e ciò che per simili impianti s’era fatto a Vienna, a Pietroburgo, a Berlino.

Eran passate circa due ore e il brevissimo discorso non accennava ancora di finire. Il pubblico stipato pendeva dalle labbra dell’oratore, per nulla oppresso da tanta copia d’irta, spaventevole erudizione. Io quasi non tiravo piú fiato; eppure lo stupore mi teneva lí, con gli occhi sbarrati e a bocca aperta. Ma, alla fine, il Maganza, mentre il pubblico s’agitava, non già per sollievo, anzi per viva ammirazione, concluse cosí:

– La dura esperienza in altre città, o signori, ha purtroppo dimostrato che gl’impianti idro-termo-elettrici sono della massima difficoltà e serbano dolorosissime sorprese. Nessuno può far miracoli, e tanto meno, su la base d’un cosí fatto progetto, potrà farne il Municipio di Milocca!

Scoppiarono frenetici applausi e il consigliere Ansatti si precipitò dal suo banco ad abbracciare e baciare il Maganza; poi, rivolto al pubblico e ritornando man mano al suo posto, prese a gridare tutto infocato, con violenti gesti:

– Si osa proporre, o signori, oggi, oggi, come se noi ci trovassimo dieci o venti anni addietro, al tempo di Galileo Ferraris, si osa proporre un impianto idro-termo-elettrico a Milocca! Ah come mi metterei a ridere, se potesse parermi uno scherzo! Ma coi denari dei contribuenti, o signori della Giunta, non è lecito scherzare, ed io non rido, io m’infiammo anzi di sdegno! Un impianto idro-termo-elettrico a Milocca, quando già spunta su l’orizzonte scientifico la gloria consacrata di Pictet? Non vi farò il torto di credere, o signori, che voi ignoriate chi sia l’illustre professor Pictet, colui che con un processo di produzione economica dell’ossigeno industriale prepara una memoranda rivoluzione nel mondo della scienza, della tecnica e dell’industria, una rivoluzione che sconvolgerà tutto il macchinismo della vita moderna, sostituendo questo nuovo elemento di luce e di calore a tutti quelli, di potenza molto minore, che finora sono in uso!

 

E con questo tono e con crescente fuoco, il consigliere Ansatti spiegò al pubblico attonito e affascinato la scoperta del Pictet, e come col sistema da lui inventato le fiamme delle reticelle Auer sarebbero arrivate alle altissime temperature di tre mila gradi, aumentando di ben venti volte la loro luminosità; e come la luce cosí ottenuta sarebbe stata, a differenza di tutte le altre, molto simile a quella solare; e che se poi, al posto del gas, si fosse messa un’altra miscela derivante da un trattamento del carbon fossile col vapore acqueo e l’ossigeno industriale, il potere calorifico sarebbe aumentato di altre sei volte!

Mentr’egli spiegava questi prodigi, il consigliere Zagardi, suo rivale, quello che mi aveva compianto per la scala, sogghignava sotto sotto. L’Ansatti se ne accorse e gli gridò:

– C’è poco da sogghignare, collega Zagardi! Dico e sostengo di altre sei volte! Ci ho qui i libri; te lo dimostrerò!

E glielo dimostrò, difatti; e alla fine, balzando da quella terribile dimostrazione piú vivo e piú infocato di prima, concluse, rivolto alla Giunta:

– Ora in quali condizioni, o ciechi amministratori, in quali condizioni d’inferiorità si troverebbero il Municipio e il paese di Milocca, coi loro miserabili 1000 cavalli di forza elettrica, quando questo enorme rivolgimento sarà nell’industria e nella vita un fatto compiuto?

– Scusami, – diss’io piano all’amico Tucci, mentre gli applausi scrosciavano nella sala con tale impeto che il tetto pareva ne dovesse subissare, – levami un dubbio: non è intanto al bujo il paese di Milocca?

Ma Tucci non volle rispondermi:

– Zitto! Zitto! Ecco che parla Zagardi! Sta’ a sentire!

Il tozzo omacciotto barbuto s’era infatti levato, col sogghigno ancora su le labbra, torcendosi sul mento, con gesto dispettoso, il rosso pelo ricciuto.

– Ho sogghignato, – disse, – e sogghigno, collega Ansatti, nel vederti cosí tutto fiammante d’ossigeno industriale, paladino caloroso del professor Pictet! Ho sogghignato e sogghigno, collega Ansatti, non tanto di sdegno quanto di dolore, nel vedere come tu, cosí accorto, tu, giovane e vigile bracco della scienza, ti sia fermato alla nuova scoperta di quel professor francese e, abbagliato dalla luce venti volte cresciuta delle reticelle Auer, non abbia veduto un piú recente sistema d’illuminazione che il Municipio di Parigi va sperimentando per farne poi l’applicazione generale nella ville lumière. Io dico il Lusol, collega Ansatti, e non iscioglierò inni in gloria della nuova scoperta, perché non con gl’inni si fanno le rivoluzioni nel campo della scienza, della tecnica e dell’industria, ma con calcoli riposati e rigorosi.

E qui lo Zagardi, non smettendo mai di tormentarsi sul mento la barbetta rossigna, piano piano, col suo fare mordace e dispettoso, parlò della semplicità meravigliosa delle lampade a lusol, nelle quali il calore di combustione dello stoppino e la capillarità bastavano a determinare senz’alcun mecca-nismo l’ascesa del liquido illuminante, la sua vaporizzazione e la sua mescolanza alla forte proporzione d’aria che rendeva la fiamma piú viva e sfavillante di quella ottenuta con qualunque altro sistema. E per un miserabi-lissimo centesimo si sarebbe ormai avuta la stessa luce che si aveva a quattro o cinque centesimi col vile petrolio, a otto o dieci con l’ambiziosa elettricità, a quindici o venti col pacifico olio. E il Lusol non richiedeva né costruzioni di officine, né impianti, né canalizzazioni. Non aveva egli dunque ragione di sogghignare?

O fosse per la tempesta suscitata nella poca aria della sala dalle deliranti acclamazioni e dai battimani del pubblico, o fosse per mancanza d’alimento, essendosi la seduta già protratta oltre ogni previsione, il fatto è che, alla fine del discorso dello Zagardi, i lumi si abbassarono di tanto, che si era quasi al bujo quando sorse per ultimo a parlare il Colacci, il vecchio gigantesco dalla pinguedine floscia. Ma ecco: prima un usciere e poi un altro e poi un terzo entrarono come fantasmi nell’aula, reggendo ciascuno una candela stearica. L’aspettazione nel pubblico era intensa; indimenticabile la scena che offriva quella tetra sala affollata, nella semioscurità, con quelle tre candele accese presso il vecchio gigantesco che con ampii gesti e voce tonante magnificava la Scienza, feconda madre di luce inestinguibile, produttrice inesauribile di sempre nuove energie e di piú splendida vita. Dopo le scoperte mirabili di cui avevano parlato l’Ansatti e lo Zagardi, era piú possibile sostenere l’impianto idro-termo-elettrico proposto dalla Giunta? Che figura avrebbe fatto il paese di Milocca illuminato soltanto a luce elettrica? Questo era il tempo delle grandi scoperte, e ogni Amministrazione che avesse veramente a cuore il decoro del paese e il bene dei cittadini, doveva stare in guardia dalle sorprese continue della Scienza. Il consigliere Colacci, pertanto, sicuro d’interpretare i voti del buon popolo milocchese e di tutti i colleghi consiglieri, proponeva la sospensiva sul progetto della Giunta, in vista dei nuovi studii e delle nuove scoperte che avrebbero finalmente dato la luce al paese di Milocca.

– Hai capito? – mi domandò Tucci, uscendo poco dopo nelle tenebre dello spiazzo sterposo innanzi al Municipio. – E cosí per l’acqua, e cosí per le strade, e cosí per tutto. Da una ventina d’anni il Colacci si alza a ogni fine di seduta per inneggiare alla Scienza, per inneggiare alla luce, mentre i lumi si spengono, e propone la sospensiva su ogni progetto, in vista di nuovi studii e di nuove scoperte. Cosí noi siamo salvi, amico mio! Tu puoi star sicuro che la Scienza, a Milocca, non entrerà mai. Hai una scatola di fiammiferi? Cavala fuori e fatti lume da te.

5.4  Le medaglie

Sciaramè, quella mattina, s’aggirava per la sua cameretta come una mosca senza capo.

Piú d’una volta Rorò, la figliastra, s’era fatta all’uscio, a domandargli:

– Che cerca?

E lui, dissimulando subito il turbamento, frenando la smania, le aveva risposto, dapprima, con una faccetta morbida, ingenua:

– Il bastone, cerco.

E Rorò:

– Ma lí, non vede? All’angolo del canterano.

Ed era entrata a prenderglielo. Poco dopo, a una nuova domanda di Rorò, aveva ancora trovato modo di dirle che gli bisognava un… sí, un fazzoletto pulito. E lo aveva avuto; ma ecco, non si risolveva ancora ad andarsene.

La verità era questa: che Sciaramè, quella mattina, cercava il coraggio di dire una certa cosa alla figliastra; e non lo trovava. Non lo trovava, perché aveva di lei la stessa suggezione che aveva già avuto della moglie, morta da circa sette anni. Di crepacuore, sosteneva Rorò, per la imbecillità di lui.

Perché Carlandrea Sciaramè, agiato un tempo, aveva perduto a un certo punto il dominio dei venti e delle piogge, e dopo una serie di mal’annate, aveva dovuto vendere il poderetto e poi la casa e, a sessantotto anni, adattarsi a fare il sensale d’agrumi. Prima li vendeva lui, gli agrumi, ch’erano il maggior prodotto del podere (li vendeva per modo di dire: se li lasciava rubare, portar via per una manciata di soldi dai sensali ladri); ora avrebbe dovuto farla lui la parte del ladro, e figurarsi come ci riusciva!

Già, non gliela lasciavano nemmeno mettere in prova. Una volta tanto, qualche affaruccio, per pagargli la sensería, come carità. E per guadagnarsela, quella sensería, doveva correre, povero vecchio, un’intera giornata, infermiccio com’era, gracile, malato di cuore, con quei piedi gonfi, imbarcati in certe scarpacce di panno sforacchiate. Quand’era al vespro, rincasava, disfatto e cadente, con due lirette in mano, sí e no.

La gente però credeva che di tutte le pene che gli toccava patire si rifacesse poi nelle grandi giornate del calendario patriottico, nelle ricorrenze delle feste nazionali, allorché con la camicia rossa scolorita, il fazzoletto al collo, il cappello a cono sprofondato fin su la nuca, recava in trionfo le sue medaglie garibaldine del Sessanta.

Sette medaglie!

Eppure, arrancando in fila coi commilitoni nel corteo, dietro la bandiera del sodalizio dei Reduci, Sciaramè sembrava un povero cane sperduto. Spesso levava un braccio, il sinistro, e con la mano tremicchiante o si stirava sotto il mento la floscia giogaja o tentava di pinzarsi i peluzzi ispidi sul labbro rientrato; e insomma pareva facesse di tutto per nascondere cosí, sotto quel braccio levato, le medaglie, dando a ogni modo a vedere che non gli piaceva farne pompa.

Molti, vedendolo passare, gli gridavano:

– Viva la patria, Sciaramè!

 

E lui sorrideva, abbassando gli occhietti calvi, quasi mortificato, e rispondeva piano, come a se stesso:

– Viva… viva…

La Società dei Reduci Garibaldini aveva sede nella stanza a pianterreno dell’unica casupola rimasta a Sciaramè di tutte le sue proprietà. Egli abitava sú, con la figliastra, in due camerette, a cui si accedeva per una scaletta da quella stanza terrena. Su la porta era una tabella, ove a grosse lettere rosse era scritto:

REDUCI GARIBALDINI

Dalla finestra di Rorò s’allungava graziosamente su quella tabella una rappa vagabonda di gelsomini.

Nella stanza, un tavolone coperto da un tappeto verde, per la presidenza e il consiglio; un altro, piú piccolo, per i giornali e le riviste; una scansia rustica a tre palchetti, polverosa, piena di libri in gran parte intonsi; alle pareti, un gran ritratto oleografico di Garibaldi; uno, di minor dimensione, di Mazzini, uno, ancor piú piccolo, di Carlo Cattaneo; e poi una stampa commemorativa della Morte dell’Eroe dei Due Mondi, fra nastri, lumi e bandiere.

Rorò, ogni giorno, rassettate le due camerette di sopra, indossata una ormai famosa camicetta rossa fiammante, scendeva in quella stanza a terreno e sedeva presso la porta a conversare con le vicine, lavorando all’uncinetto. Era una bella ragazza, bruna e florida, e la chiamavano la Garibaldina.

Ora Sciaramè, quel giorno, doveva dire appunto alla figliastra di non scendere piú in quella stanza, sede della Società, e di rimanersene invece a lavorare sú, nella sua cameretta, perché Amilcare Bellone, presidente dei Reduci, s’era lamentato con lui, non propriamente di quest’abitudine di Rorò, ch’era infine la padrona di casa, ma perché, con la scusa di venire a leggere i giornali, vi entrava quasi ogni mattina un giovinastro, un tal Rosolino La Rosa, il quale, per essere andato in Grecia insieme con tre altri giovanotti del paese, il Betti, il Gàsperi e il Marcolini, a combattere nientemeno contro la Turchia, si credeva garibaldino anche lui.

Il La Rosa, ricco e fannullone, era orgoglioso di questa sua impresa giovanile; se n’era fatta quasi una fissazione, e non sapeva piú parlar d’altro. Uno de’ suoi tre compagni, il Gàsperi, era stato ferito leggermente a Domokòs; ed egli se ne vantava quasi la ferita fosse invece toccata a lui. Era anche un bel giovane, Rosolino La Rosa: alto, smilzo, con una lunga barba quadra, biondo-rossastra, e un pajo di baffoni in sú, che, a stirarli bene, avrebbe potuto annodarseli come niente dietro la nuca.

Ci voleva poco a capire che non veniva nella sede dei Reduci per leggere i giornali e le riviste, ma per farsi vedere lí come uno di casa tra i garibaldini, e anche per fare un po’ all’amore con Rorò dalla camicetta rossa.

Sciaramè lo aveva capito anche lui; ma sapeva pure che Rorò era molto accorta e che il giovanotto era ricco e sventato. Poteva egli, in coscienza, troncare la probabilità d’un matrimonio vantaggioso per la figliastra? Egli era vecchio e povero; tra breve, dunque, come sarebbe rimasta quella ragazza, se non riusciva a procurarsi un marito? Poi, non era veramente suo padre e non aveva perciò tanta autorità su lei da proibirle di fare una cosa, in cui non solo riteneva che non ci fosse nulla di male, ma da cui anzi prevedeva che potesse derivarle un gran bene.

 

D’altro canto, però, Amilcare Bellone non aveva torto, neanche lui. Questi erano affari di famiglia, in cui la Società dei Reduci non aveva che vedere. Già nella via si sparlava di quell’intrighetto del La Rosa e di Rorò, a cui pareva tenesse mano la Società; e il Bellone, ch’era di questa e del suo buon nome giustamente geloso, non poteva permetterlo. Che fare intanto? Come muoverne il discorso a Rorò? Era da piú di un’ora tra le spine il povero Sciaramè, quando Rorò stessa venne a offrirgliene il modo. Già acconciata con la sua camicetta rossa fiammante, entrò nella camera del patrigno, spazientita:

– Insomma, esce o non esce questa mattina? Non mi ha fatto neanche rassettare la camera! Me ne scendo giú.

– Aspetta, Rorò, senti, – cominciò allora Sciaramè, facendosi coraggio. – Volevo dirti proprio questo.

– Che?

– Che tu, ecco, sí… dico, non potresti, dico, non ti piacerebbe lavorare quassú, in camera tua, piuttosto che giú?

– E perché?

– Ma, ecco, perché giú, sai? i… i socii…

Rorò aggrottò subito le ciglia.

– Novità? Scusi, si sono messi forse a pagarle la pigione, i signori Reduci?

Sciaramè fece un sorrisino scemo, come se Rorò avesse detto una bella spiritosaggine.

– Già, – disse. – È vero, non… non pagano la pigione.

– E che vogliono dunque? – incalzò, fiera, Rorò. – Che pretendono? Dettar legge, per giunta, in casa nostra?

– No: che c’entra! – si provò a replicare Sciaramè. – Sai che fui io, che volli io offrir loro…

– La sera, – concesse, per tagliar corto Rorò. – La sera, padronissimi! giacché lei ebbe la felicissima idea d’ospitarli qua. E so io quel che mi ci vuole ogni notte a prender sonno, con tutte le loro chiacchiere e le canzonacce che cantano, ubriachi! Ma basta. Ora pretenderebbero che io…?

– Non per te, – cercò d’interromperla Sciaramè, – non per te, propriamente, figliuola mia…

– Ho capito! – disse, infoscandosi, Rorò. – Avevo capito anche prima che lei si mettesse a parlare. Ma risponda ai signori Reduci cosí: che si facciano gli affari loro, ché ai miei ci bado io; se questo loro non accomoda, se ne vadano, che mi faranno un grandissimo piacere. Io ricevo in casa mia chi mi pare e piace. Devo renderne conto soltanto a lei. Dica un po’: forse lei non si fida piú di me?

– Io sí, io sí, figliuola mia!

– E dunque, basta cosí! Non ho altro da dirle.

E Rorò, piú rossa in volto della sua camicetta, voltò le spalle e se ne scese giú, con un diavolo per capello.

Sciaramè diede un’ingollatina, poi rimase in mezzo alla camera a stirarsi il labbro e a battere le pàlpebre, stizzito, non sapeva bene se contro se stesso o contro Rorò o contro i Reduci. Ma qualche cosa bisognava infine che facesse. Intanto, questa: uscir fuori. Un po’ d’aria! All’aria aperta, chi sa! qualche idea gli sarebbe venuta.

E scese la scaletta, con una mano appoggiata al muro e l’altra al bastoncino che mandava innanzi; poi giú un piede gonfio e poi l’altro, soffiando per le nari, a ogni scalino, la pena e lo stento; attraversò la stanza terrena e uscí senza dir nulla a Rorò, che già parlava con una vicina e non si voltò neppure a guardarlo.

Ah che sollievo sarebbe stato per lui se questa benedetta figliuola si fosse maritata, magari con qualche altro giovine, se non proprio col La Rosa! Col La Rosa, veramente – a pensarci bene – gli sembrava difficile: punto primo, perché Rorò era povera; poi, perché la chiamavano la Garibaldina, e i signori La Rosa, invece, per il figliuolo sventato cercavano una ragazza assennata, senza fumi patriottici. Non che Rorò ne avesse: non ne aveva mai avuti; ma s’era fatta pur troppo questa fama, e forse ora se n’avvaleva, come d’una ragna a cui nessuno poteva dire che lei avesse posto mano, per farvi cascare quel farfallino del La Rosa.

Magari!” sospirava tra sé e sé Sciaramè, pensando che, veramente, pareva già avviluppato bene il farfallino.

Via, come andare a guastar quella ragna proprio adesso, per far piacere ai signori Reduci che non pagavano neppure la pigione? E in che consisteva, alla fin fine, tutto il male per Amilcare Bellone? Nel fatto che il La Rosa aveva portato in Grecia la camicia rossa. Dispetto e gelosia! La camicia rossa addosso a quel giovanotto pareva a quel benedett’uomo un vero e proprio sacrilegio, e lo faceva infuriare come un toro. Se a leggere i giornali, là dai Reduci, fosse venuto qualche altro giovanotto, certo non se ne sarebbe curato.

Cosí pensando, Sciaramè pervenne alla piazza principale del paese e andò a sedere, com’era solito, davanti a uno dei tavolini del Caffè, disposti sul marciapiede.

Lí seduto, ogni giorno, aspettava che qualcuno lo chiamasse per qualche commissio-ne: aspettando, mangiato dalle mosche e dalla noja, s’addormentava. Non prendeva mai nulla, in quel Caffè, neanche un bicchier d’acqua con lo schizzo di fumetto; ma il padrone lo sopportava perché spesso gli avventori si spassavano con lui forzandolo a parlare e di Calatafimi e dell’entrata di Garibaldi a Palermo e di Milazzo e del Volturno. Sciaramè ne parlava con accorata tristezza, tentennando il capo e socchiudendo gli occhietti calvi. Ricordava gli episodii pietosi, i morti, i feriti, senz’alcuna esaltazione e senza mai vantarsi. Sicché, alla fine, quelli che lo avevano spinto a parlare per goderselo, restavano afflitti, invece, a considerare come l’antico fervore di quel vecchietto fosse caduto e si fosse spento nella miseria dei tristi anni sopravvissuti.

Vedendolo, quella mattina, piú oppresso del solito, uno degli avventori gli gridò:

– E sú, coraggio, Sciaramè! Tra pochi giorni sarà la festa dello Statuto. Faremo prendere un po’ d’aria alla vecchia camicia rossa!

Sciaramè fece scattare in aria una mano, in un gesto che voleva dire che aveva altro per il capo. Stava per posare il mento su le mani appoggiate al pomo del bastoncino, quando si sentí chiamare rabbiosamente da Amilcare Bellone sopravvenuto come una bufera. Sobbalzò e si levò in piedi, sotto lo sguardo iroso del Presidente della Società dei Reduci.

– Gliel’ho detto, sai? a Rorò. Gliel’ho detto questa mattina – premise, per ammansarlo, accostandoglisi.

Ma il Bellone lo afferrò per un braccio, lo tirò a sé e, mettendogli un pugno sotto il naso, gli gridò:

– Ma se è là!

– Chi?

– Il La Rosa!

– Là?

– Sí, e adesso te lo accomodo io. Te lo caccio via io, a pedate!

– Per carità! – scongiurò Sciaramè. – Non facciamo scandali! Lascia andar me. Ti prometto che non ci metterà piú piede. Credevo che bastasse averlo detto a Rorò… Ci andrò io, lascia fare!

Il Bellone sghignò; poi, senza lasciargli il braccio, gli domandò:

– Vuoi sapere che cosa sei?

Sciaramè sorrise amaramente, stringendosi nelle spalle.

– Mammalucco? – disse.

– E te ne accorgi adesso? Lo so da tanto tempo, io, bello mio.

E s’avviò, curvo, scotendo il capo, appoggiato al bastoncino.

Quando Rorò, che se ne stava seduta presso la porta, scorse il patrigno da lontano, fece segno a Rosolino La Rosa di scostarsi e di sedere al tavolino dei giornali. Il La Rosa con una gambata fu a posto; aprí sottosopra una rivista, e s’immerse nella lettura.

E Rorò:

– Cosí presto? – domandò al patrigno, col piú bel musino duro della terra. – Che le è accaduto?

Sciaramè guardò prima il La Rosa che se ne stava coi gomiti sul piano del tavolino e la testa tra le mani, poi disse alla figliastra:

– Ti avevo pregata di startene sú.

– E io le ho risposto che a casa mia… – cominciò Rorò; ma Sciaramè la interruppe, minaccioso, alzando il bastoncino e indicandole la scaletta in fondo:

– Sú, e basta! Debbo dire una parolina qua al signor La Rosa.

– A me? – fece questi, come se cascasse dalle nuvole, voltandosi e mostrando la bella barba quadra e i baffoni in sú.

Si levò in piedi, quant’era lungo, e s’accostò a Sciaramè che restò, di fronte a lui, piccino piccino.

– State, state seduto, prego, caro don Rosolino. Vi volevo dire, ecco… Va’ sú tu, Rorò!

Rosolino La Rosa si spezzò in due per inchinarsi a Rorò, che già s’avviava per la scaletta, borbottando, rabbiosa. Sciaramè aspettò che la figliastra fosse sú; si volse con un fare umile e sorridente al La Rosa e cominciò:

– Voi siete, lo so, un buon giovine, caro don Rosolino mio.

Rosolino La Rosa tornò a spezzarsi in due:

– Grazie di cuore!

– No, è la verità – riprese Sciaramè. – E io, per conto mio, mi sento onorato…

– Grazie di cuore!

– Ma no, è la verità, vi dico. Onoratissimo, caro don Rosolino, che veniate qua per… per leggere i giornali. Però, ecco, io qua sono padrone e non sono padrone. Voi vedete: questa è la sede della Società dei Reduci; e io, che sono padrone e non sono padrone, ho verso i miei compagni, verso i socii, una… una certa responsabilità, ecco.

– Ma io… – si provò a interrompere Rosolino La Rosa.

– Lo so, voi siete un buon giovine – soggiunse subito Sciaramè, protendendo le mani, – venite qua per leggere i giornali; non disturbate nessuno.Questi giornali, però, ecco… questi giornali, caro don Rosolino mio, non sono miei. Fossero miei… ma tutti, figuratevi! Non essendo socio…

– Alto là! – esclamò a questo punto il La Rosa, protendendo lui, adesso, le mani, e accigliandosi. – Vi aspettavo qua: che mi diceste questo. Non sono socio? Benissimo. Rispondete ora a me: in Grecia, io, ci sono stato, sí o no?

– Ma sicuro che ci siete stato! Chi può metterlo in dubbio?

– Benissimo! E la camicia rossa, l’ho portata, sí o no?

– Ma sicuro! – ripeté Sciaramè.

– Dunque, sono andato, ho combattuto, sono ritornato. Ho prove io, badate, Sciaramè, prove, prove, documenti che parlano chiaro. E allora, sentiamo un po’: secondo voi, che cosa sono io?

– Ma un bravo giovinotto siete, un buon figliuolo, non ve l’ho detto?

– Grazie tante! – squittí Rosolino La Rosa. – Non voglio saper questo. Secondo voi, sono o non sono garibaldino?

– Siete garibaldino? Ma sí, perché no? – rispose, imbalordito, Sciaramè, non sapendo dove il La Rosa volesse andar a parare.

– E reduce? – incalzò questi allora. – Sono anche reduce, perché non sono morto e sono ritornato. Va bene? Ora i signori veterani non permettono che io venga qua a leggere i giornali perché non sono socio, è vero? L’avete detto voi stesso. Ebbene: vado or ora a trovare i miei tre compagni reduci di Domokòs, e tutt’e quattro d’accordo, questa sera stessa, presenteremo una domanda d’ammissione alla Società.

– Come? come? – fece Sciaramè, sgranando gli occhi. – Voi socio qua?

– E perché no? – domandò Rosolino La Rosa, aggrottando piú fieramente le ciglia. -Non ne saremmo forse degni, secondo voi?

– Ma sí, non dico… per me, figuratevi! tanto onore e tanto piacere! – esclamò Sciaramè. – Ma gli altri, dico, i… miei compagni…

– Voglio vederli! – concluse minacciosa-mente il La Rosa. – Io so che ho diritto di far parte di questa Società piú di qualche altro; e, all’occorrenza, Sciaramè, potrei dimostrarlo. Avete capito?

Cosí dicendo, Rosolino La Rosa prese con due dita il bavero della giacca di Sciaramè e gli diede una scrollatina; poi, guardandolo negli occhi, aggiunse:

– A questa sera, Sciaramè, siamo intesi?

 

Il povero Sciaramè rimase in mezzo alla stanza, sbalordito, a grattarsi la nuca.

Erano rimasti a far parte della Società dei Reduci poco piú d’una dozzina di veterani, nessuno dei quali era nativo del paese. Amilcare Bellone, il presidente, era lombardo, di Brescia; il Nardi e il Navetta romagnoli, e tutti insomma di varie regioni d’Italia, venuti in Sicilia chi per il commercio degli agrumi e chi per quello dello zolfo.

La Società era sorta, tanti e tanti anni fa, d’improvviso una sera per iniziativa del Bellone. Si doveva festeggiare a Palermo il centenario dei Vespri Siciliani. Alla notizia che Garibaldi sarebbe venuto in Sicilia per quella festa memorabile, s’erano raccolti nel Caffè i pochi garibaldini residenti in paese, con l’intento di recarsi insieme a Palermo a rivedere per l’ultima volta il loro Duce glorioso. La proposta del Bellone, di fondare lí per lí un sodalizio di Reduci che potesse figurare con una bandiera propria nel gran corteo ch’era nel programma di quelle feste, era stata accolta con fervore. Alcuni avventori del Caffè avevano allora indicato al Bellone Carlandrea Sciaramè, che se ne stava al solito appisolato in un cantuccio discosto, e gli avevano detto ch’era anche lui un veterano garibaldino, il vecchio patriota del paese; e il Bellone, acceso dal ricordo dei giovanili entusiasmi e un po’ anche dal vino, gli s’era senz’altro accostato: – Ehi, commilitone! Picciotto! Picciotto! – Lo aveva scosso dal sonno e chiamato, tra gli evviva, a far parte del nascente sodalizio. Costretto a bere, a quell’ora insolita, tropp’oltre la sua sete, Carlandrea Sciaramè s’era lasciata scappare a sua volta la proposta che, per il momento, la nuova Società avrebbe potuto aver sede nella stanza a terreno nel suo casalino. I Reduci avevano subito accettato; poi, dimenticandosi che Sciaramè aveva profferto quella stanza precariamente, erano rimasti lí per sempre, senza pagar la pigione.

 

Sciaramè però, dando gratis la stanza, aveva il vantaggio di non pagare le tre lirette al mese che pagavano gli altri per l’abbonamento ai giornali, per l’illuminazione, ecc. ecc. Del resto, per lui, il disturbo era, se mai, la sera soltanto, quando i socii si riunivano a bere qualche fiasco di vino, a giocare qualche partitina a briscola, a leggere i giornali e a chiacchierar di politica.

Nessuno supponeva che il povero Sciaramè, tra la figliastra e il Bellone, fosse come tra l’incudine e il martello. Il presidente bresciano non ammetteva repliche: impetuoso e urlone, s’avventava contro chiunque ardisse contraddirlo.

– I ragazzini! oh! i ragazzini! – cominciò a strillare quella sera, dopo aver letta la domanda del La Rosa e compagnia, ballando dalla bile e agitando la carta sotto il naso dei socii e sghignazzando, con tutto il faccione affocato. – I ragazzini, signori, i ragazzini! Eccoli qua! Le nuove camicie rosse, a tre lire il metro, di ultima fabbrica, signori miei, incignate in Grecia, linde, pulite e senza una macchia! Sedete, sedete; siamo qua tutti; apro la seduta: senza formalità, senz’ordine del giorno, le liquideremo subito subito, con una botta di penna! Sedete, sedete.

Ma i socii, tranne Sciaramè, gli s’erano stretti attorno per vedere quella carta, come se non volessero crederci e lo affollavano di domande, segnatamente il grasso e sdentato romagnolo, Navetta, ch’era un po’ sordo e aveva una gamba di legno, una specie di stanga, su cui il calzone sventolava e che, andando, dava certi cupi tonfi che incutevano ribrezzo.

Il Bellone si liberò della ressa con una bracciata, andò a prender posto al tavolino della presidenza, sonò il campanello e si mise a leggere la domanda dei giovani con mille smorfie e giocolamenti degli occhi, del naso e delle labbra, che suscitavano a mano a mano piú sguajate le risa degli ascoltatori.

Il solo Sciaramè se ne stava serio serio ad ascoltare, col mento appoggiato al pomo del bastoncino e gli occhi fissi al lume a petrolio.

Terminata la lettura, il presidente assunse un’aria grave e dignitosa. Sciaramè lo frastornò, alzandosi.

– A posto! A sedere! – gli gridò Bellone.

– Il lume fila – osservò timidamente Sciaramè.

– E tu lascialo filare! Signori, io ritengo oziosa, io ritengo umiliante per noi qualsiasi discussione su un argomento cosí ridicolo. (Benissimo!) Tutti d’accordo, con una botta di penna, respingeremo questa incredibile, questa inqualificabile… questa non so come dire! (Scoppio d’applausi).

Ma il Nardi, l’altro romagnolo, volle parlare e disse che stimava necessario e imprescindibile dichiarare una volta per sempre che per garibaldini dovevano considerarsi quelli soltanto che avevano seguito Garibaldi (Bene! Bravo! Benissimo!), il vero, il solo, Giuseppe Garibaldi (Applausi fragorosi, ovazioni), Giuseppe Garibaldi, e basta.

– E basta, sí, e basta!

– E aggiungiamo! – sorse allora a dire, pum, il Navetta, – aggiungiamo, o signori, che la… la, come si chiama? la sciagurata guerra della Grecia contro la… la, come si chiama? la Turchia, non può, non deve assolutamente esser presa sul serio, per la… sicuro, la, come si chiama? la pessima figura fatta da quella nazione che… che…

– Senza che! – gridò, seccato, il Bellone, sorgendo in piedi. – Basta dire soltanto: «da quella nazione degenere!».

– Bravissimo! Del genere! del genere! Non ci vuol altro! – approvarono tutti.

A questo punto Sciaramè sollevò il mento dal bastoncino e alzò una mano.

– Permettete? – chiese con aria umile.

I socii si voltarono a guardarlo, accigliati, e il Bellone lo squadrò, fosco.

– Tu? Che hai da dire, tu?

Il povero Sciaramè si smarrí, inghiottí, protese un’altra volta la mano.

– Ecco… Vorrei farvi osservare che… alla fin fine… questi… questi quattro giovanotti…

– Buffoncelli! – scattò il Bellone. – Si chiamano buffoncelli e basta. Ne prenderesti forse le difese?

– No! – rispose subito Sciaramè. – No, ma, ecco, vorrei farvi osservare, come dicevo, che… alla fin fine, hanno… hanno combattuto, ecco, questi quattro giovanotti, sono stati al fuoco, sí… si sono dimostrati bravi, coraggiosi…, uno anzi fu ferito… che volete di piú? Dovevano per forza lasciarci la pelle, Dio liberi? Se Lui, Garibaldi, non ci fu, perché non poteva esserci – sfido! era morto… – c’è stato il figlio però, che ha diritto, mi sembra, di portarla, la camicia rossa, e di farla portare perciò a tutti coloro che lo seguirono in Grecia, ecco. E dunque…

 

Fino a questo punto Sciaramè poté parlare meravigliato lui stesso che lo lasciassero dire, ma pur timoroso e a mano a mano vieppiú costernato del silenzio con cui erano accolte sue parole. Non sentiva in quel silenzio il consenso, sentiva anzi che con esso i compagni quasi lo sfidavano a proseguire per veder dove arrivasse la sua dabbenaggine o la sua sfrontatezza, oppure per assaltarlo a qualche parola non ben misurata; e perciò cercava di rendere a mano a mano piú umile l’espressione del volto e della voce. Ma ormai non sapeva piú che altro aggiungere; gli pareva d’aver detto abbastanza, d’aver difeso del suo meglio quei giovanotti. E intanto quelli seguitavano a tacere, lo sfidavano a parlare ancora. Che dire? Aggiunse:

– E dunque mi pare…

– Che ti pare? – proruppe allora, furibondo, il Bellone, andandogli davanti, a petto.

– Un corno! un corno! – gridarono gli altri, alzandosi anch’ essi.

E se lo misero in mezzo e presero a parlare concitatamente tutti insieme e chi lo tirava di qua e chi di là per dimostrargli che sosteneva una causa indegna e che se ne doveva vergognare. Vergognare, perché difendeva quattro mascalzoni scioperati! – O che le epopee, le vere epopee come la garibaldina, potevano avere aggiunte, appendici? Di ridicolo, di ridicolo s’era coperta la Grecia!

Il povero Sciaramè non poteva rispondere a tutti, sopraffatto, investito. Colse a volo quel che diceva il Nardi e gli gridò:

– L’impresa non fu nazionale? Ma Garibaldi, scusate, Garibaldi combatté forse soltanto per l’indipendenza nostra? Combatté anche in America, anche in Francia combatté, Cavaliere dell’Umanità! Che c’entra!

– Ti vuoi star zitto, Sciaramè? – tuonò a questo punto il Bellone, dando un gran pugno su la tavola presidenziale. – Non bestemmiare! Non far confronti oltraggiosi! Oseresti paragonare l’epopea garibaldina con la pagliacciata della Grecia? Vergógnati! Vergógnati, perché so bene io la ragione della tua difesa di questi quattro buffoni. Ma noi, sappi, prendendo stasera questa decisione, faremo un gran bene anche a te; ti libereremo da un moscone che insidia all’onore della tua casa; e tu devi votare con noi, intendi? La domanda deve essere respinta all’unanimità, perdio! Vota con noi! vota con noi!

– Permettete almeno che io mi astenga… – scongiurò Sciaramè, a mani giunte.

– No! Con noi! con noi! – gridarono, inflessibili, i socii, irritatissimi.

E tanto fecero e tanto dissero, che costrinsero il povero Sciaramè a votar di no, con loro.

Due giorni dopo, sul giornaletto locale, comparve questa protesta del Gàsperi, il ferito di Domokòs.

GARIBALDINI VECCHI E NUOVI

Riceviamo e pubblichiamo:

Egregio Signor Direttore,

a nome mio e de’ miei compagni, La Rosa, Betti e Marcolini, Le comunico la deliberazione votata ad unanimità dal Sodalizio dei Reduci Garibaldini, in seguito alla nostra domanda d’ammissione.

Siamo stati respinti, signor Direttore!

La nostra camicia rossa, per i signori veterani del Sodalizio, non è autentica. Proprio cosí! E sa perché? perché, non essendo ancor nati o essendo ancora in fasce, quando Giuseppe Garibaldi – il vero, il solo – come dice la deliberazione – si mosse a combattere per la liberazione della Patria, noi poveretti non potemmo naturalmente con le nostre balie e con le nostre mamme seguir Lui, allora, e abbiamo avuto il torto di seguire invece il Figlio (che pare, a giudizio dei sullodati veterani, non sia Garibaldi anche lui) nell’Ellade sacra. Ci si fa una colpa, infatti, del triste e umiliante esito della guerra greco-turca, come se noi a Domokòs non avessimo combattuto e vinto, lasciando sul campo di battaglia l’eroico Fratti e altri generosi.

Ora capirà, egregio signor Direttore, che noi non possiamo difendere, come vorremmo, il Duce nostro, la nobile idealità che ci spinse ad accorrere all’appello, i nostri compagni d’arme caduti e i superstiti, dall’indegna offesa contenuta nell’inqualificabile deliberazione dei nostri Reduci: non possiamo, perché ci troviamo di fronte a vecchi evidentemente rimbecilliti. La parola può parere in prima un po’ dura, ma non parrà piú tale quando si consideri che questi signori hanno respinto noi dal sodalizio senza pensare che intanto ne fa parte qualcuno, il quale non solo non è mai stato garibaldino, non solo non ha mai preso parte ad alcun fatto d’armi, ma osa per giunta d’indossare una camicia rossa e di fregiarsi il petto di ben sette medaglie che non gli appartengono, perché furono di suo fratello morto eroicamente a Digione.

Detto questo, mi sembra superfluo aggiungere altri commenti alla deliberazione. Mi dichiaro pronto a dimostrare coi documenti alla mano quanto asserisco. Se vi sarò costretto, smaschererò anche pubblicamente questo falso garibaldino, che ha pure avuto il coraggio di votare con gli altri contro la nostra ammissione.

Intanto, pregandola, signor Direttore, di pubblicare integralmente nel suo periodico questa mia protesta, ho l’onore di dirmi

Suo dev.mo

ALESSANDRO GÀSPERI

Era noto anche a noi da un pezzo che della Società dei Reduci Garibaldini faceva parte un messer tale che non è punto reduce come non fu mai garibaldino. Non ne avevamo mai fatto parola, per carità di patria, né ce ne saremmo mai occupati, se ora l’atto inconsulto della suddetta Società non avesse giustamente provocato la protesta del signor Gàsperi e degli altri giovani valorosi che combatterono in Grecia. Riteniamo che la Società dei Reduci, per dare almeno una qualche soddisfazione a questi giovani e provvedere al suo decoro, dovrebbe adesso affrettarsi ad espellere quel socio per ogni riguardo immeritevole di farne parte.

(N. d. R.)

 

Amilcare Bellone, col giornaletto in mano – mentre tutto il paese commentava meravigliato la protesta del Gàsperi – si precipitò, furente, nella sede della Società e, imbattutosi in Carlandrea Sciaramè, che s’avviava triste e ignaro al Caffè della piazza, lo prese per il petto e lo buttò a sedere su una seggiola, schiaffandogli con l’altra mano in faccia il giornale.

– Hai letto? Leggi qua!

– No… Che… che è stato? – balbettò Sciaramè, soprappreso con tanta violenza.

– Leggi! leggi – gli gridò di nuovo il Bellone, serrando le pugna, per frenare la rabbia; e si mise a far le volte del leone per la stanza.

Il povero Sciaramè cercò con le mani mal ferme le lenti; se le pose sulla punta del naso; ma non sapeva che cosa dovesse leggere in quel giornale. Il Bellone gli s’appressò; glielo strappò di mano e, apertolo, gl’indicò nella seconda pagina la protesta.

– Qua! qua! Leggi qua!

– Ah, – fece, dolente, Sciaramè, dopo aver letto il titolo e la firma. – Non ve l’avevo detto io?

– Va’ avanti! Va’ avanti! – gli urlò il Bellone; e riprese a passeggiare.

Sciaramè si mise a leggere, zitto zitto. A un certo punto, aggrottò le ciglia; poi le spianò, sbarrando gli occhi e spalancando la bocca. Il giornale fu per cadergli di mano. Lo riprese, lo accostò di piú agli occhi, come se la vista gli si fosse a un tratto annebbiata. Il Bellone s’era fermato a guardarlo con occhi fulminanti, le braccia conserte, e attendeva, fremente, una protesta, una smentita, una spiegazione.

– Che ne dici? Alza il capo! Guardami!

Sciaramè, con faccia cadaverica, restringendo le palpebre attorno agli occhi smorti, scosse lentamente la testa, in segno negativo, senza poter parlare; posò sul tavolino il giornale e si recò una mano sul cuore.

– Aspetta… – poi disse, piú col gesto che con la voce.

Si provò a inghiottire; ma la lingua gli s’era d’un tratto insugherita. Non tirava piú fiato.

– Io… – prese quindi a balbettare, ansimando, – io ci… ci fui io… a… a Calatafimi… a… a Palermo… poi a Milazzo… e in… in Calabria a… a Melito… poi sú, sú fino a… a Napoli… e poi al Volturno…

– Ma come ci fosti? Le prove! Le prove! I documenti! Come ci fosti?

– Aspetta… Io… con… con Stefanuccio… Avevo il somarello…

– Che dici? Che farnetichi? Le medaglie di chi sono? Tue o di tuo fratello? Parla! Questo voglio sapere!

 

– Sono… Lasciami dire… A Marsala… stavamo lí, al Sessanta, io e Stefanuccio, il mio fratellino… Gli avevo fatto da padre… a Stefanuccio… Aveva appena quindici anni, capisci? Mi scappò di casa, quando… quando sbarcarono i Mille… per seguir Lui, Garibaldi, coi volontarii… Torno a casa; non lo trovo… Allora presi a nolo un somarello… Lo raggiunsi prima a Calatafimi, per riportarmelo a casa… A quindici anni, ragazzino, che poteva fare, cuore mio?… Ma lui mi minacciò che si sarebbe fatto saltar la… la testa, dice, con quel vecchio fucile piú alto di lui che gli avevano dato… se io lo costringevo a tornare indietro… la testa… E allora, persuaso dagli altri volontarii, lasciai in libertà il somarello… che poi mi toccò ripagare… e… e m’accompagnai con loro.

– Volontario anche tu? E combattesti?

– Non… non avevo… non avevo fucile…

– E avevi invece paura?

– No, no… Piuttosto morire che lasciarlo!

– Seguisti dunque tuo fratello?

– Sí, sempre!

E Sciaramè ebbe come un brivido lungo la schiena, e si strinse piú forte il petto con la mano, curvandosi vie piú.

– Ma le medaglie? La camicia rossa? – riprese il Bellone, scrollandolo furiosamente, – di chi sono? Tue o di tuo fratello? Rispondi!

Sciaramè aprí le braccia, senza ardire di levare il capo; poi disse:

– Siccome Stefanuccio non… non se le poté godere…

– Te le sei portate a spasso tu! – compí la frase il Bellone. – Oh miserabile impostore! E hai osato di gabbare cosí la nostra buona fede? Meriteresti ch’io ti sputassi in faccia; meriteresti ch’io… Ma mi fai pietà! Tu uscirai ora stesso dal sodalizio! Fuori! Fuori!

– Mi cacciate di casa mia?

– Ce n’andremo via noi, ora stesso! Fa’ schiodare subito la tabella dalla porta! Ma come, ma come non mi passò mai per la mente il sospetto che, per essere cosí stupido, bisognava che costui Garibaldi non lo avesse mai veduto nemmeno da lontano!

– Io? – esclamò Sciaramè con un balzo. – Non lo vidi? io? Ah, se lo vidi! E gli baciai anche le mani! A Piazza Pretorio, gliele baciai, a Palermo, dove s’era accampato! Le mani!

– Zitto, svergognato! Non voglio piú sentirti! Non voglio piú vederti! Fai schiodare la tabella e guaj a te se osi piú gabellarti da garibaldino!

E il Bellone s’avviò di furia verso la porta. Prima d’uscire, si voltò a gridargli di nuovo:

– Svergognato!

 

Rimasto solo, Sciaramè provò a levarsi in piedi; ma le gambe non lo reggevano piú; il cuore malato gli tempestava in petto. Aggrappandosi con le mani al tavolino, alla sedia, alla parete, si trascinò sú.

Rorò, nel vederselo comparire davanti in quello stato, gettò un grido; ma egli le fece segno di tacere; poi le indicò il cassettone nella camera e le domandò quasi strozzato:

– Tu… le carte di là… al La Rosa?

– Le carte? Che carte? – disse Rorò, accorrendo a sostenerlo, tutta sconvolta.

– Le mie… i documenti di… di mio fratello… – balbettò Sciaramè appressandosi al cassettone. – Apri… Fammi vedere…

Rorò aprí il cassetto. Sciaramè cacciò una mano con le dita artigliate sul fascetto dei documenti logori, ingialliti, legati con lo spago; e, rivolto alla figliastra con gli occhi spenti, le domandò:

– Li… li hai mostrati tu… al La Rosa?

Rorò non poté in prima rispondere; poi, sconcertata e sgomenta, disse:

– Mi aveva chiesto di vederli… Che male ho fatto?

Sciaramè le si abbandonò fra le braccia, assalito da un impeto di singhiozzi. Rorò lo trascinò fino alla seggiola accanto al letto e lo fece sedere, chiamandolo, spaventata:

– Papà! papà! Perché? Che male ho fatto? Perché piange? che le è avvenuto?

– Va’… va’… lasciami! – disse, rantolando, Sciaramè. – E io che li ho difesi… io solo… Ingrati!… Io ci fui! Lo accompagnai… Quindici anni aveva… E il somarello… alle prime schioppettate… Le gambe, le gambe… Per due, patii… E a Milazzo… dietro quel tralcio di vite… un toffo di terra, qua sul labbro…

Rorò lo guardava, angosciata e sbalordita, sentendolo sparlare cosí.

– Papà… papà… che dice?

Ma Sciaramè, con gli occhi senza sguardo, sbarrati, una mano sul cuore, il volto scontraffatto, non la sentiva piú.

Vedeva, lontano, nel tempo.

 

Lo aveva seguito davvero, quel suo fratellino minore, a cui aveva fatto da padre; lo aveva raggiunto davvero, con l’asinello, prima di Calatafimi, e scongiurato a mani giunte di tornarsene indietro, a casa, in groppa all’asinello, per carità, se non voleva farlo morire dal terrore di saperlo esposto alla morte, ancora cosí ragazzo! Via! Via! Ma il fratellino non aveva voluto saperne, e allora anche lui, a poco a poco, fra gli altri volontarii, s’era acceso d’entusiasmo ed era andato. Poi, però, alle prime schioppettate… No, no, non aveva desiderato di riavere il somarello abbandonato, perché, quantunque la paura fosse stata piú forte di lui, non sarebbe mai scappato, sapendo che il suo fratellino, là, era intanto nella mischia e che forse in quel punto, ecco, gliel’uccidevano. Avrebbe voluto anzi correre, buttarsi nella mischia anche lui e anche lui farsi uccidere, se avesse trovato morto Stefanuccio. Ma le gambe, le gambe! Che può fare un povero uomo quando non sia piú padrone delle proprie gambe? Per due, davvero, aveva patito, patito in modo da non potersi dire, durante la battaglia e dopo. Ah, dopo, fors’anche piú! quando, sul campo di battaglia, aveva cercato tra i morti e i feriti il fratellino suo. Ma che gioja, poi nel rivederlo, sano e salvo! E cosí lo aveva seguito anche a Palermo, fino a Gibilrossa, dove lo aveva aspettato, piú morto che vivo, parecchi giorni: un’eternità! A Palermo, Stefanuccio, per il coraggio dimostrato, era stato ascritto alla legione dei Carabinieri genovesi, che doveva poi essere decimata nella battaglia campale di Milazzo. Era stato un vero miracolo, se in quella giornata non era morto anche lui, Sciaramè. Acquattato in una vigna, sentiva di tratto in tratto, qua e là, certi tonfi strani tra i pampini; ma non gli passava neanche per la mente che potessero esser palle, quando, proprio lí, sul tralcio dietro al quale stava nascosto… Ah, quel sibilo terribile, prima del tonfo! Carponi, con le reni aperte dai brividi, aveva tentato di allontanarsi; ma invano; ed era rimasto lí, tra il grandinare delle palle, atterrito, basito, vedendo la morte con gli occhi, a ogni tonfo.

 

Li conosceva dunque davvero tutti gli orrori della guerra; tutto ciò che narrava, lo aveva veduto, sentito, provato; c’era stato insomma davvero, alla guerra, quantunque non vi avesse preso parte attiva. Ritornato in Sicilia, dopo la donazione di Garibaldi a Re Vittorio del regno delle Due Sicilie, egli era stato accolto come un eroe insieme col fratellino Stefano. Medaglie, lui, però, non ne aveva avute: le aveva avute Stefanuccio; ma erano come di tutt’e due. Del resto, lui non s’era mai vantato di nulla: spinto a parlare, aveva sempre detto quel tanto che aveva veduto. E non avrebbe mai pensato di entrare a far parte della Società, se quella maledetta sera lí non ve lo avessero quasi costretto, cacciato in mezzo per forza. Dell’onore che gli avevano fatto e di cui egli alla fin fine non si sentiva proprio immeritevole, giacché per la patria aveva pure patito e non poco, s’era sdebitato ospitando gratis per tanti anni la Società. Aveva indossato, sí, la camicia rossa del fratello e si era fregiato il petto di medaglie non propriamente sue; ma, fatto il primo passo, come tirarsi piú indietro? Non aveva potuto farne a meno, e s’era segretamente scusato pensando che avrebbe cosí rappre-sentato il suo povero fratellino in quelle feste nazionali, il suo povero Stefanuccio morto a Digione, lui che se le era ben guadagnate, quelle medaglie, e non se le era poi potute godere, nelle belle feste della patria.

Ecco qua tutto il suo torto. Erano venuti i nuovi garibaldini, avevano litigato coi vecchi, e lui c’era andato di mezzo, lui che li aveva difesi, solo contro tutti. Ah, ingrati! Lo avevano ucciso.

Rorò, vedendogli la faccia come di terra e gli occhi infossati e stravolti, si mise a chiamare ajuto dalla finestra.

Accorsero, costernati, ansanti, alcuni del vicinato.

– Che è? che è?

Restarono, alla vista di Sciaramè, là sulla seggiola, rantolante.

Due, piú animosi, lo presero per le ascelle e per i piedi e fecero per adagiarlo sul lettuccio. Ma non lo avevano ancora messo a giacere, che…

– Oh! Che?

– Guardate!

– Morto?

Rorò rimase allibita, con gli occhi sbarrati, a mirarlo. Guardò i vicini accorsi; balbettò:

– Morto? Oh Dio! Dio! Morto?

E si buttò sul cadavere, poi, in ginocchio, a piè del letto, con la faccia nascosta, le mani protese:

– Perdono, papà mio! Perdono!

I vicini non sapevano che pensare. Perdono? Perché? Che era accaduto? Ma Rorò parlava di certe carte, di certi documenti… che ne sapeva lei? Fu strappata dal letto e trascinata nell’altra camera. Alcuni corsero a chiamare il Bellone, altri rimasero a vegliare il morto.

Quando il presidente della Società dei Reduci, col Navetta, il Nardi e gli altri socii, sopravvenne, fosco e combattuto, Carlandrea Sciaramè sul suo lettuccio era parato con la camicia rossa e le sette medaglie sul petto.

I vicini, vestendo il povero vecchio, avevano creduto bene di fargli indossare per l’ultima volta l’abito delle sue feste. Non gli apparteneva? Ma ai morti non si sogliono passare, sulle lapidi, tante bugie, peggiori di questa? Là, le medaglie! Tutt’e sette sul cuore!

Pum, pum, pum, il Navetta, con la sua gamba di legno, gli s’accostò, aggrondato; lo mirò un pezzo; poi si voltò ai compagni e disse, cupo:

– Gli si levano?

Il Bellone, che s’era ritratto con gli altri in fondo alla camera, presso la finestra, a confabulare, lo chiamò a sé con la mano, si strinse nelle spalle e confermò il pensiero di quei vicini, brontolando:

– Lascia. Ora è morto.

Gli fecero un bellissimo funerale.

5.5  La Madonnina

Una scatola di giocattoli, di quelle con gli alberetti incoronati di trucioli e col dischetto di legno incollato sotto al tronco perché si reggano in piedi, e le casette a dadi e la chiesina col campanile e ogni cosa: ecco, immaginate una di queste scatole, data in mano al Bambino Gesú, e che il Bambino Gesú si fosse divertito a costruire al padre beneficiale Fioríca quella sua parrocchietta cosí; la chiesina modesta, dedicata a San Pietro, di fronte; e di qua, la canonica con tre finestrette riparate da tendine di mussola inamidate che, intravedendosi di là dai vetri, lasciavano indovinare il candore e la quiete delle stanze piene di silenzio e di sole; il giardinetto accanto, col pergolato e i nespoli del Giappone e il melagrano e gli aranci e i limoni; poi, tutt’intorno, le casette umili dei suoi parrocchiani, divise da vicoli e vicoletti, con tanti colombi che svolazzavano da gronda a gronda; e tanti conigli che, rasenti ai muri, spiavano raccolti e tremanti, e gallinelle ingorde e rissose e porchetti sempre un po’ angustiati, si sa, e quasi irritati dalla soverchia grassezza.

 

In un mondo cosí fatto, poteva mai figurarsi il padre beneficiale Fioríca che il diavolo vi potesse entrare da qualche parte?

E il diavolo invece vi entrava a suo piacere, ogni qual volta gliene veniva il desiderio, di soppiatto e facilissimamente, sicuro d’essere scambiato per un buon uomo o una buona donna, o anche spesso per un innocuo oggetto qualsiasi. Anzi si può dire che il padre beneficiale Fioríca stava tutto il santo giorno in compagnia del diavolo, e non se n’accorgeva. Non se ne poteva accorgere anche perché, bisogna aggiungere, neppure il diavolo con lui sapeva esser cattivo: si spassava soltanto a farlo cadere in piccole tentazioni che, al piú al piú, scoperte, non gli cagionavano altro danno che un po’ di beffe da parte dei suoi fedeli parrocchiani e dei colleghi e superiori.

Una volta, per dirne una, questo maledettissimo diavolo indusse una vecchia dama della parrocchia, andata a Roma per le feste giubilari, a portare di là al padre beneficiale Fioríca una bella tabacchiera d’osso con l’immagine del Santo Padre dipinta a smalto sul coperchio. Ebbene, si crederebbe? Vi s’allogò dentro, non ostante la custodia di quell’immagine e per piú d’un mese, ai vespri, mentre il padre beneficiale Fioríca faceva alla buona un sermoncino ai divoti prima della benedizione, di là dentro la tabacchiera si mise a tentarlo:

– Sú, un pizzichetto, sú! Facciamola vedere la bella tabacchiera… Per soddisfazione della dama che te l’ha regalata e che sta a guardarti… Un pizzichetto!

E dàlli, e dàlli, con tanta insistenza, che alla fine il padre beneficiale Fioríca, il quale non aveva mai preso tabacco e aveva cominciato a prenderlo molto timidamente dal giorno che aveva avuto quel regalo, ecco che doveva cedere a cavar di tasca la tabacchiera e il grosso fazzoletto di cotone a fiorami. Conseguenza: il sermoncino interrotto da un’infilata di almeno quaranta sternuti e arrabbiate e strepitose soffiate di naso, che facevano ridere tutta la chiesina.

Ma la peggio di tutte fu quando questo diavolo maledetto s’insinuò nel cuore d’una certa Marastella, ch’era una poverina svanita di cervello, bambina di trent’anni, bellissima e cara a tutto il vicinato che rideva dell’inverosimile credulità di lei tutta sempre sospesa a una perpetua ansiosa maraviglia. S’insinuò, dunque, nel cuore di questa Marastella e la fece innamorare coram populo del padre beneficiale Fioríca che aveva già circa sessant’anni e i capelli bianchi come la neve.

La poverina, vedendolo in chiesa, o sull’altare durante l’ufficio divino, o sul pulpito durante la predica, non rifiniva piú d’esclamare, piangendo a goccioloni grossi cosí dalla tenerezza e picchiandosi il petto con tutte e due le mani:

– Ah Maria, com’è bello! Bocca di miele! Occhi di sole! Cuore mio, come parla e come guarda!

Sarebbe stato uno scandalo, se tutti, conoscendo la santa illibatezza del padre beneficiale e l’innocenza della povera scema, non ne avessero riso.

Ma un giorno Marastella, vedendo uscire il padre beneficiale dalla chiesa, s’inginocchiò in mezzo alla piazzetta e, presagli una mano, cominciò a baciargliela perdutamente e poi a passarsela sui capelli, su tutta la faccia, fin sotto la gola, gemendo:

– Ah padre mio, mi levi questo fuoco, per carità! per carità, mi levi questo fuoco!

Il povero padre Fioríca, smarrito, sbalor-dito, chino sulla poverina, senza nemmeno tentare di ritirar la mano, le chiedeva:

– Che fuoco, Marastella, che fuoco, figliuola mia?

E forse non avrebbe ancora capito, se da tutte le casette attorno non fossero accorse le vicine a strappar da terra la scema con parole e atti cosí chiari, che il padre Fioríca, sbiancato, trasecolato, tremante, se n’era fuggito, facendosi la croce a due mani.

Questa volta sí, il diavolo s’era troppo scoperto. Riconobbero tutti l’opera sua in quella pazzia di Marastella. E allora egli ne pensò un’altra, che doveva costare al padre beneficiale Fioríca il piú gran dolore della sua vita.

La perdita di Guiduccio. State a sentire.

Guiduccio era un ragazzo di nove anni, unico figliuolo maschio della piú cospicua famiglia della parrocchia: la famiglia Greli.

Il padre beneficiale Fioríca aveva in cuore da anni la spina di questa famiglia che si teneva lontana dalla santa chiesa, non già perché fosse veramente nemica della fede, ma perché lei, la chiesa, a giudizio del signor Greli (ch’era stato garibaldino, carabiniere genovese nella campagna del 1860 e ferito a un braccio nella battaglia di Milazzo) lei, la chiesa, s’ostinava a rimanere nemica della patria; ragion per cui un patriota come il signor Greli credeva di non potervi metter piede.

Ora, di politica il padre beneficiale Fioríca non s’era impicciato mai e non riusciva perciò a capacitarsi come l’amor di patria potesse esser cagione che la mamma e le sorelle maggiori di Guiduccio e Guiduccio stesso non venissero in chiesa almeno la domenica e le feste principali per la santa messa. Non diceva confessarsi; non diceva comunicarsi. La santa messa almeno, la domenica, Dio benedetto! E, tentato al solito dal diavolaccio che gli andava sempre avanti e dietro come l’ombra del suo stesso corpo, cercava d’entrar nelle grazie del signor Greli.

– Eccolo là che passa! Non fingere di non vederlo. Salutalo, salutalo tu per primo: un bell’inchino, con dignitosa umiltà!

Il padre Fioríca ubbidiva subito al suggerimento del diavolo; s’inchinava sorridente; ma il signor Greli, accigliato, rispondeva appena appena, con brusca durezza, a quell’inchino e a quel sorriso. E il diavolo, si sa, ne gongolava.

Ora, un pomeriggio d’estate, vigilia d’una festa solenne, il diavolo, sapendo che il signor Greli s’era ritirato a casa molto stanco del lavoro della mattinata e s’era messo a letto per ristorar le forze con qualche oretta di sonno, che fece? salí non visto con alcuni monellacci al campanile della chiesina di San Pietro e lí dàlli a sonare, dàlli a sonare tutte le campane, con una furia cosí dispettosa, che il signor Greli, il quale era d’indole focosa e facilmente si lasciava prendere dall’ira, a un certo punto, non potendone piú, saltò giú dal letto e, cosí come si trovava, in maniche di camicia e mutande, corse sú in terrazza armato di fucile e – sissignori – commise il sacrilegio di sparare contro le sante campane della chiesa.

Colpí, delle tre, quella di destra, la piú squillante: occhio di antico carabiniere genovese! Ma povera campanella! Sembrò una cagnolina che, colta a tradimento da un sasso, mentre faceva rumorosamente le feste al padrone, cangiasse d’un tratto l’abbaío festoso in acuti guaíti. Tutti i parrocchiani, raccolti per la festa davanti alla chiesa, si levarono in tumulto, furibondi, contro il sacrilego. E fu vera grazia di Dio, se al padre beneficiale Fioríca, accorso tutto sconvolto e coi paramenti sacri ancora in dosso, riuscí d’impedire con la sua autorità che la violenza dei suoi fedeli indignati prorompesse e s’abbattesse sulla casa del Greli. Li arrestò a tempo, li placò, rendendosi mallevadore che il signor Greli avrebbe donato una campana nuova alla chiesa e che un’altra e piú solenne festa si sarebbe fatta per il battesimo di essa.

Allora, per la prima volta, Guiduccio Greli entrò nella chiesina di San Pietro.

Veramente il padre beneficiale Fioríca avrebbe desiderato che madrina della campana fosse la signora Greli, o almeno una delle figliuole, la maggiore che aveva circa diciott’anni. Rimase però grato, poi, in cuor suo, al signor Greli di non aver voluto condiscendere a quel suo desiderio, vedendo il miracolo che il battesimo della campana operò nell’anima di quel fanciullo.

Fu forse per l’esaltazione della festa, o forse per la simpatia che gli testimoniarono tutti i fedeli della parrocchia; o piuttosto la voce ch’egli per primo trasse da quella campana benedetta, salito sú in cima al campanile, nel luminoso azzurro del cielo. Il fatto è che da quel giorno in poi la voce di quella campana lo chiamò ogni mattina alla chiesa, per la prima messa. Di nascosto, udendo quella voce, balzava dal letto e correva in cerca della vecchia serva di casa perché lo conducesse con sé.

– E se papà non volesse? – gli diceva la serva.

Ma Guiduccio insisteva, scosso da un brivido a ogni rintocco della campana che seguitava a chiamar sommessa nella notte. E per l’angusta viuzza, ancora invasa dalle tenebre notturne, abbrividendo, si stringeva alla vecchia serva e, arrivato alla piazzetta della chiesa, alzava gli occhi al campanile, e allo sgomento misterioso che gliene veniva, non meno misterioso rispondeva il conforto che, appena entrato nella chiesa, gli veniva dai ceri placidi accesi sull’altare, nella frescura dell’ombra solenne insaporata d’incenso.

 

La prima volta che il padre beneficiale Fioríca, voltandosi dall’altare verso i fedeli, se lo vide davanti inginocchiato dinanzi alla balaustrata, con gli occhioni, tra i riccioli castani, ancora imbambolati, spalancati e lucenti quasi di follia divina, si sentí fendere le reni da un lungo brivido di tenerezza e dovette far violenza a se stesso per resistere alla tentazione di scendere dall’altare a carezzare quel volto d’angelo e quelle manine congiunte.

Finita la messa, fece segno alla vecchia di condurre il bimbo in sagrestia; e lí se lo prese in braccio, lo baciò in fronte e sui capelli, gli mostrò a uno a uno tutti gli arredi e i paramenti sacri, le pianete coi ricami e le brusche d’oro e i càmici e le stole, le mitrie, i manipoli, tutti odorosi d’incenso e di cera; lo persuase poi dolcemente a confessare alla mamma di esser venuto in chiesa, quella mattina, per il richiamo della sua campana santa, e a pregarla che gli concedesse di ritornarci. Infine lo invitò – sempre col permesso della mamma – alla canonica, a vedere i fiori del giardinetto, le vignette colorate dei libri e i santini, e a sentire qualche suo raccontino.

Guiduccio andò ogni giorno alla canonica, avido dei racconti della storia sacra. E il padre beneficiale Fioríca, vedendosi davanti spalancati e intenti quegli occhioni fervidi nel visetto pallido e ardito, tremava di commozione per la grazia che Dio gli concedeva di bearsi di quel meraviglioso fiorire della fede in quella candida anima infantile; e quando, sul piú bello di quei racconti, Guiduccio, non riuscendo piú a contenere l’interna esaltazione, gli buttava le braccia al collo e gli si stringeva al petto, fremente, ne provava tale gaudio e insieme tale sgomento, che si sentiva quasi schiantar l’anima, e piangendo e premendo le mani sulle terga del bimbo, esclamava:

– Oh figlio mio! E che vorrà Dio da te?

 

Ma sí! Il diavolo stava intanto in agguato dietro il seggiolone su cui il padre beneficiale Fioríca sedeva con Guiduccio sulle ginocchia; e il padre beneficiale Fioríca, al solito, non se n’accorgeva.

Avrebbe potuto notare, santo Dio, una cert’ombra che di tratto in tratto passava sul volto del fanciullo e gli faceva corrugare un po’ le ciglia. Quell’ombra, quel corrugamento di ciglia erano provocati dalla bonaria indulgenza con cui egli velava e assolveva certi fatti della storia sacra; bonaria indulgenza che turbava profondamente l’anima risentita del fanciullo già forse messa in diffidenza a casa e fors’anche derisa dal padre e dalle sorelle.

Ed ecco allora in che modo il diavolo trasse partito da questi e tant’altri piccoli segni che sfuggivano all’accorgimento del padre Fioríca.

      

Nel mese di maggio, dedicato alla Vergine, nella chiesetta di San Pietro, dopo la predica e la recita del rosario, dopo impartita la benedizione e cantate a coro al suono dell’organo le canzoncine in lode di Maria, si faceva il sorteggio tra i divoti d’una Madonnina di cera custodita in una campana di cristallo.

Donne e fanciulli, cantando le canzoncine in ginocchio, tenevano fissi gli occhi a quella Madonnina sull’altare, tra i ceri accesi e le rose offerte in gran profusione; e ciascuno desiderava ardentemente che quella Madon-nina gli toccasse in sorte. Tuttavia, non poche donne, ammirando il fervore con cui Guiduccio pregava davanti a tutti, avrebbero voluto che la Madonnina anziché a qualcuna di loro, sortisse a lui. E piú di tutti, naturalmente, lo desiderava il padre beneficiale Fioríca.

Le polizzine della riffa costavano un soldo l’una. Il sagrestano aveva l’incarico della vendita durante la settimana, e su ogni polizzina segnava il nome dell’acquirente. Tutte le polizzine poi, la domenica, erano raccolte arrotolate in un’urna di cristallo; il padre beneficiale Fioríca vi affondava una mano, rimestava un po’ tra il silenzio ansioso di tutti i fedeli inginocchiati, ne estraeva una, la mostrava, la svolgeva e, attraverso le lenti insellate sulla punta del naso, ne leggeva il nome. La Madonnina era condotta in processione tra canti e suoni di tamburi alla casa del sorteggiato.

S’immaginava il padre Fioríca l’esultanza di Guiduccio, se dall’urna fosse sortito il suo nome, e vedendolo lí davanti all’altare inginocchiato, rimestando nell’urna avrebbe voluto che per un miracolo le sue dita indovinassero la polizzina che ne conteneva il nome. E quasi quasi era scontento della generosità del fanciullo, il quale, potendo prendere dieci polizze con la mezza lira che ogni domenica gli dava la mamma, si contentava d’una sola per non avere alcun vantaggio sugli altri ragazzi a cui anzi lui stesso con gli altri nove soldi comperava le polizzine.

E chi sa che quella Madonnina, entrando con tanta festa in casa Greli, non avesse poi il potere di conciliare con la chiesa tutta la famiglia!

Cosí il diavolo tentava il padre beneficiale Fioríca. Ma fece anche di piú. Quando fu l’ultima domenica, venuto il momento solenne del sorteggio, appena lo vide salire all’altare ove accanto all’urna di cristallo stava la Madonnina di cera, zitto zitto gli si mise dietro le spalle e, sissignori, gli suggerí di leggere nella polizzina estratta il nome di Guiduccio Greli. Allo scoppio d’esultanza di tutti i divoti, Guiduccio però, diventato in prima di bragia, si fece subito dopo pallido pallido, aggrottò le ciglia sugli occhioni intorbidati, cominciò a tremar tutto convulso, nascose il volto tra le braccia e, guizzando per divincolarsi dalla ressa delle donne che volevano baciarlo per congratularsi, scappò via dalla chiesa, via, via, e rifugiandosi in casa, si buttò tra le braccia della madre e proruppe in un pianto frenetico. Poco dopo, udendo per la viuzza il rullo del tamburo e il coro dei divoti che gli portavano in casa la Madonnina, cominciò a pestare i piedi, a contorcersi tra le braccia della madre e delle sorelle e a gridare:

– Non è vero! Non è vero! Non la voglio! Mandatela via! Non è vero! Non la voglio!

Era accaduto questo: che dei dieci soldi che la mamma gli dava ogni domenica, nove Guiduccio li aveva già dati al solito ai ragazzi poveri della parrocchia perché fossero iscritti anche loro al sorteggio; nel recarsi alla sagrestia con l’ultimo soldino rimastogli per sé, era stato avvicinato da un ragazzetto tutto arruffato e scalzo, il quale, da tre settimane ammalato, non aveva potuto prender parte alla festa e al sorteggio delle Madonnine precedenti, e vedendo ora Guiduccio con quell’ultimo soldino in mano, gli aveva chiesto se non era per lui. E Guiduccio gliel’aveva dato.

Troppe volte il signor Greli in casa, scherzando, aveva ammonito il figlio:

– Bada, Duccio! Ti vedo con la chierica! Duccio, bada: quel tuo prete ti vuole accalappiare!

E difatti, perché a lui quella Madonnina, se nessuna polizza recava il suo nome, quell’ultima domenica?

La signora Greli, per far cessare l’orgasmo del figlio, ordinò che subito la Madonnina fosse rimandata indietro, alla chiesa; e d’allora in poi il padre beneficiale Fioríca non vide piú Guiduccio Greli.

5. 6  La berretta di Padova

Berrette di Padova: belle berrette a lingua, di panno, a uso di quelle che si portano ancora in Sardegna, e che si portavano allora (cioè a dire nei primi cinquant’anni del secolo scorso) anche in Sicilia, non dalla gente di campagna che usava di quelle a calza di filo e con la nappina in punta, ma dai cittadini, anche mezzi signori; se è vera la storia che mi fu raccontata da un vecchio parente, il quale aveva conosciuto il berrettajo che le vendeva, zimbello di tutta Girgenti allora, perché dei tanti anni passati in quel commercio pare non avesse saputo ricavare altro guadagno che il nomignolo di Cirlinciò, che in Sicilia, per chi volesse saperlo, è il nome di un uccello sciocco. Si chiamava veramente don Marcuccio La Vela, e aveva bottega sulla strada maestra, prima della discesa di San Francesco.

Don Marcuccio La Vela sapeva di quel suo nomignolo e se ne stizziva molto; ma per quanto poi si sforzasse di fare il cattivo e di mostrarsi corrivo a riavere il suo, non solo non gli veniva mai fatto, ma ogni volta alla fine era una giunta al danno perché, impietosendosi alle finte lagrime dei debitori maltrattati, per compensarli dei maltrattamenti, oltre la berretta ci perdeva qualche pezzo di dodici tarí porto sottomano.

S’era ormai radicata in tutti l’idea che non avesse in fondo ragione di lagnarsi di niente né d’adirarsi con nessuno; giacché, se da un canto era vero che gli uomini lo avevano sempre gabbato, era innegabile dall’altro che Dio, in compenso, lo aveva sempre ajutato. Aveva difatti una cattiva moglie, indolente, malaticcia, sciupona, e se n’era presto liberato; un esercito di figliuoli, ed era riuscito in breve ad accasarli bene tutti quanti. Ora provvedeva sí gratuitamente di berrette tutto il cresciuto parentado, ma poteva esser certo che esso, all’occorrenza, non lo avrebbe lasciato morir di fame. Che voleva dunque di piú?

Le berrette intanto volavano da quella bottega come se avessero le ali. Gliene portavano via figli, generi, nipoti, amici e conoscenti. Per alcuni giorni egli s’ostinava a correre ora dietro a questo, ora dietro a quello, per riavere almeno, tra tante, il costo di una sola. Niente! E giurava e spergiurava di non voler piú dare a credenza: – Neanche a Gesú Cristo, se n’avesse bisogno!

Ma ci ricascava sempre.

Ora, alla fine, aveva deciso di chiuder bottega, non appena esaurita la poca mercanzia che gli restava, della quale non avrebbe dato via neppure un filo, se non gli fosse pagato avanti.

Ma ecco venire un giorno alla sua bottega un tal Lizio Gallo, ch’era suo compare.

Per le sue berrette Cirlinciò non temeva del compare. Ben altro il Gallo, in grazia del comparàtico, pretendeva da lui. Uomo sodo, denari voleva. E già gli doveva una buona sommetta. Ora dunque basta, eh?

– Che buon vento, compare?

Lizio Gallo aveva in vezzo passarsi e ripassarsi continuamente una mano su i radi e lunghi baffi spioventi e sotto quella mano, serio serio, con gli occhi bassi, sballarne di quelle, ma di quelle! Caro a tutti per il suo buon umore, non pure da Cirlinciò ch’era molto facile, ma dai piú scaltri mercanti del paese riusciva sempre a ottenere quanto gli bisognasse ed era indebitato fino agli occhi, e sempre abbruciato di denari. Ma quel giorno si presentò con un’altr’aria.

– Male, compare! – sbuffò, lasciandosi cadere su una seggiola. – Mi sento stanco, ecco, stanco e nauseato.

E col volto atteggiato di tedio e di disgusto, disse seguitando, che non gli reggeva piú l’animo a vivere cosí d’espedienti e ch’era troppo il supplizio che gli davano i raffacci aperti o le mute guardatacce dei suoi creditori.

 

Cirlinciò abbassò subito gli occhi e mise un sospiro.

– E pure voi sospirate, compare; vi vedo! – soggiunse il Gallo, tentennando il capo. – Ma avete ragione! Non posso piú accostarmi a un amico, lo so. Mi sfuggono tutti! E intanto, piú che per me, credetemi, soffro per gli altri, a cui debbo cagionare la pena della mia vista. Ah, vi giuro che se non fosse per Giacomina mia moglie, a quest’ora…

– Che dite! – gli diede sulla voce Cirlinciò.

– E sapete che altro mi tiene? – riprese Lizio Gallo. – Quel poderetto che mi recò in dote mia moglie, pur cosí gravato com’è d’ipoteche. Ho speranza, compare, che debba essere la mia salvezza, per via di non so che scavi che ci vuol fare il Governo. Dicono che là sotto ci sono le antichità di Camíco. Uhm! Rottami… Che saranno? Ma, se è vero questo, sono a cavallo. E non dubitate, compare: prima di tutti, penserei a voi. Già il Governatore m’ha fatto sapere che vuol parlare con me. Dovrei andarci domattina. Ma come ci vado?

– Perché? – domandò, stordito, Cirlinciò.

– Con questi stracci? Non mi vedete? Per l’abito, forse, potrei rimediare. Mio cognato, che ha sú per giú la mia stessa statura, se n’è fatto uno nuovo da pochi giorni e me lo presterebbe. Ma la berretta? Ha un testone cosí!

– Ah! Anche voi! – esclamò allora Cirlinciò spalancando tanto d’occhi.

– Come, anch’io? – disse con la faccia piú fresca del mondo il Gallo. – Che son forse solito di andare per via a capo scoperto? Ora questa berretta, vedete? non ne vuol piú sapere.

– E venite da me? – riprese Cirlinciò, col volto avvampato di stizza. – Scusatemi, compare: gnornò! non ve la do! non ve la posso dare!

– Ma io non dico dare. Ve la pagherò.

– Avete i denari?

– Li avrò.

– Niente, allora! Quando li avrete.

– È la prima volta – gli fece notare, dolente e con calma, il Gallo – è la prima volta che vengo da voi per una padovana.

– Ma io ho giurato, lo sapete! Ho giurato! ho giurato!

– Lo so. Ma vedete perché mi serve?

– Non sento ragione! Piuttosto, guardate, piuttosto vi do tre tarí e vi dico di andarvela a comprare in un’altra bottega.

Lizio Gallo sorrise mestamente, e disse:

– Caro compare, se voi mi date tre tarí, lo sapete, io me li mangio, e berretta non me ne compro. Dunque, datemi la berretta.

– Dunque, né questa né quelli! – concluse Cirlinciò, duro.

 

Lizio Gallo si levò pian piano da sedere, sospirando:

– E va bene! Avete ragione. Cerco la via per uscire da questi guaj e vedo che l’unica, per me, sarebbe di morire, lo so.

– Morire… – masticò Cirlinciò. – C’è bisogno di morire? Tanto, la berretta dovete levarvela in presenza del Governatore.

– Eh già! – esclamò il Gallo. – Bella figura ci farei per istrada con l’abito nuovo e la berretta vecchia! Ma dite piuttosto che non volete darmela.

E si mosse per uscire. Cirlinciò allora, al solito, pentito, lo acchiappò per un braccio e gli disse all’orecchio:

– Vi do tre giorni di tempo per il pagamento. Ma non lo dite a nessuno! Fra tre giorni… badate! sono capace di levarvela dal capo, per istrada, appena vi vedo passare. Sono porco io, se mi ci metto!

Aprí lo scaffale e ne trasse una bellissima berretta di Padova. Lizio Gallo se la provò. Gli andava bene.

– Quanto mi pesa! – disse, scotendo il capo. – Mi sentivo male, venendo qua; voi mi avete dato il colpo di grazia, compare!

E se ne andò.

Tutto poteva aspettarsi il povero Cirlinciò, tranne che Lizio Gallo, dopo due giorni, dovesse davvero morire!

Si mise a piangere come un vitello, dal rimorso, ripensando – ah! – alle ultime parole del compare – ah! – gli pareva di vederselo ancora lí, nella bottega, nell’atto di tentennare amaramente il capo – ah! – ah! – ah!

E corse alla casa del morto, per condolersi con la vedova donna Giacomina.

Per via, tanta gente pareva si divertisse a fermarlo:

– È morto Lizio Gallo, sapete?

– E non vedete che piango?

 

Tutti in paese ne facevano le lodi e ne commiseravano la fine immatura, pur sorridendo mestamente al ricordo delle sue tante baggianate. I molti creditori chiudevano gli occhi, sospirando, e alzavano la mano per rimettergli il debito.

Cirlinciò trovò donna Giacomina inconsolabile. Quattro torcetti ardevano agli angoli del letto, su cui il compare giaceva, coperto da un lenzuolo. Piangendo, la vedova narrò al compare com’era avvenuta la disgrazia.

– A tradimento, – diceva. – Ma già, volendola dire, da parecchio tempo, Lizio mio non pareva piú lui!

Cirlinciò piangendo annuiva e in prova narrò alla vedova l’ultima visita del compare alla bottega.

– Lo so! lo so! – gli disse donna Giacomina. – Ah, quanto se ne afflisse, povero Lizio mio! Le vostre parole, compare, gli rimasero confitte nel cuore come tante spade!

Cirlinciò pareva una fontana.

– E piú mi piange il cuore, – seguitò la vedova, – che ora me lo vedrò portar via sul cataletto dei poveri, sotto uno straccio nero…

Cirlinciò allora, con impeto di commozione, si profferse per le spese d’una pompa funebre. Ma donna Giacomina lo ringraziò; gli disse esser quella l’espressa volontà del marito, e che lei voleva rispettarla, e che anzi il marito non avrebbe neppur voluto l’accompagnamento funebre, e che infine aveva indicato la chiesa ove, da morto, voleva passare l’ultima notte, secondo l’uso: la chiesetta cioè di Santa Lucia, come la piú umile e la piú fuorimano, per chi se ne volesse andare quasi di nascosto, senza mortorio.

Cirlinciò insistette; ma alla fine si dovette arrendere alla volontà della vedova.

– Ma quanto all’accompagnamento – disse, licenziandosi, – siate pur certa che tutto il paese oggi sarà dietro al povero compare!

E non s’ingannò.

Ora, andando il mortorio per la strada che conduce alla chiesetta di Santa Lucia, avvenne a Cirlinciò, il quale si trovava proprio in testa dietro al cataletto che quattro portantini, due di qua, due di là, sorreggevano per le stanghe, di fissare gli occhi lagrimosi su quella sua fiammante berretta di Padova, che il morto teneva in capo e che spenzolava e dondolava fuori della testata del cataletto. La berretta che il compare non gli aveva pagata. Tentazione!

Cercò piú volte il povero Cirlinciò di distrarne lo sguardo; ma poco dopo gli occhi tornavano a guardarla, attirati da quel dondolío che seguiva il passo cadenzato dei portantini. Avrebbe voluto consigliare a uno di questi di ripiegare sul capo al morto la berretta e porvi sopra la coltre per fermarla.

«Ma sí! Non ci mancherebbe altro, – rifletteva, poi, – che io, proprio io vi richiamassi l’attenzione della gente. Già forse, vedendomi qua e guardando questa berretta, tutti ridono di me, sotto i baffi.»

Morso da questo sospetto, lanciò due occhiatacce oblique ai vicini, sicuro di legger loro negli occhi il temuto dileggio; poi si rivolse con rabbioso rammarico alla berretta dondo-lante. – Com’era bella! com’era fina! E ora, – peccato! – o sarebbe andata a finire sul capo a un becchino, o sottoterra, inutilmente, col compare.

Questi due casi, e maggiormente il primo ch’era il piú probabile, cominciarono a esagitarlo cosí, che, senza quasi volerlo, si diede a pensare se ci fosse modo di riavere quella berretta. Lanciò di nuovo qualche occhiata intorno e s’accorse che molti, procedendo, seguivano quel dondolar cadenzato, che a lui cagionava tante smanie, anzi un vero supplizio. Gli parve perfino che, prendendo quasi a materia il rumore dei passi dei portantini, quel dondolío ripetesse forte, a tutti, senza posa:

È stato – gabbato,
È stato – gabbato…

No, perdio, no! Anche a costo di passare l’intera nottata nascosto nella chiesetta di Santa Lucia, egli doveva, doveva riavere quella berretta ch’era sua! Tanto, che se ne faceva piú il compare, morto? Era nuova fiammante! ed egli avrebbe potuto rimetterla, senz’altro, dentro lo scaffale. Poiché, perdio, non si trattava soltanto di mantenere un proposito deliberato, ma anche di non venir meno a un giuramento fatto, ecco, a un giuramento! a un giuramento!

Cosí, quando il mortorio giunse (ch’era già sera chiusa) alla chiesetta fuorimano dove lo scaccino aveva preparato i due cavalletti su cui il misero feretro doveva esser deposto, mentre la gente assisteva alla benedizione del cadavere, andò a nascondersi quatto quatto dietro un confessionale.

Come la chiesa fu sgombra, lo scaccino con la lanterna in mano si recò a chiudere il portone, poi entrò in sagrestia a prender l’olio per rifornire un lampadino votivo davanti a un altare.

Nel silenzio della chiesa, quei passi strascicati rintronarono cupamente.

Della solenne vacuità dell’interno sacro, nel bujo, Cirlinciò ebbe in prima tale sgomento, che fu lí lí per farsi avanti e pregare il sagrestano, che lo facesse andar via. Ma riuscí a trattenersi.

 

Rifornito d’olio il lampadino, quegli si accostò pian piano al feretro; si chinò; poi, senza volerlo, volse in giro uno sguardo e, prima di ritirarsi nella sua cameruccia sopra la sagrestia a dormire, tolse pulitamente con due dita la berretta al morto, e se la filò zitto zitto.

Cirlinciò non se n’accorse. Quando sentí chiudere e sprangare la porta della sagrestia, gli parve che la chiesa sprofondasse nel vuoto. Poi, nella tenebra, si avvisò a mala pena quel lumicino davanti all’altare lontano; a poco a poco quel barlume si allargò, si diffuse, tenuissimo, intorno. Gli occhi di Cirlinciò cominciarono a intravedere a stento, in confuso, qualche cosa. E allora, cauto, trattenendo il fiato, si provò a uscire dal nascondiglio.

Ma, contemporaneamente, altri due che si erano nascosti nella chiesetta con lo stesso intento, s’avanzarono cheti e chinati come lui, e con le mani protese, verso il feretro, ciascuno senza accorgersi dell’altro.

A un tratto però tre gridi di terrore echeggiarono nella chiesetta buja.

Lizio Gallo, credendosi solo ormai, s’era levato a sedere sul cataletto, imprecando al sagrestano e tastandosi la testa nuda. A quei tre gridi, urlò, anche lui, spaventato:

– Chi è là?

E, istintivamente, si ridistese sul cataletto, tirandosi di nuovo addosso la coltre.

– Compare… – gemette una voce soffocata dall’angoscia.

– Chi è?

– Cirlinciò?

– Quanti siamo?

– Porco paese! – sbuffò allora Lizio Gallo buttando all’aria la coltre e levandosi in piedi. – Per una berrettaccia di Padova! Quanti siete? Tre? Quattro? E voi, compare?

– Ma come! – balbettò Cirlinciò, appressandosi tutto tremante. – Non siete morto?

– Morto? Vorrei esserlo, per non vedere la vostra spilorceria! – gli gridò il Gallo, indignato, sul muso. – Come! non vi vergognate? Venire a spogliare un morto, come quel mascalzone del sagrestano! Ebbene, non la ho piú, vedete? se l’è presa! E dire che l’avevo promessa a uno dei portantini… Non si può piú neanche da morti esser lasciati in pace, al giorno d’oggi, in questo porco paese! Speravo di farmi rimettere i debiti… Ma sí! Quanti siete? tre, quattro, dieci, venti? Avreste la forza di tenere il segreto? No! E dunque facciamola finita!

Li piantò lí, allocchiti, intontiti come tre ceppi d’incudine, e andò a tempestare di calci e di pugni la porta della sagrestia.

– Ohé! ohé! Mascalzone! Sagrestano!

Questi accorse, poco dopo, in mutande e camicia, con la lanterna in mano, tutto stravolto.

Lizio Gallo lo agguantò per il petto.

– Va’ a ripigliarmi subito la berretta, pezzo di ladro!

– Don Lizio! – gridò quello, e fu per cadere in deliquio.

Il Gallo lo sostenne in piedi, scrollandolo furiosamente.

– La berretta, ti dico, sporcaccione! E vieni ad aprirmi la porta. Non faccio piú il morto.

5. 7  Lo scaldino

Quei lecci neri piantati in doppia fila intorno alla vasta piazza rettangolare, se d’estate per far ombra, d’inverno perché servivano? Per rovesciare addosso ai passanti, dopo la pioggia, l’acqua rimasta tra le fronde, a ogni scosserella di vento. E anche per imporrire di piú il povero chiosco di Papa-re, servivano.

Ma senza questo male, del resto riparabile, ch’essi cagionavano d’inverno, sarebbero stati poi un bene, un refrigerio d’estate? No. E dunque? Dunque l’uomo, se qualche cosa gli va bene, se la prende senza ringraziar nessuno, come se ci avesse diritto; poco poco, invece, che gli vada male, s’inquieta e strilla. Bestia irritabile e irriconoscente, l’uomo. Gli basterebbe, santo Dio, non passare sotto i lecci della piazza, quand’è piovuto da poco.

È vero però che, d’estate, Papa-re non poteva goder dell’ombra di quei lecci là, dentro il suo chiosco. Non poteva goderne perché non vi stava mai durante il giorno, né d’estate né d’inverno. Che cosa facesse di giorno e dove se ne stesse, era un mistero per tutti. Tornava ogni volta da via San Lorenzo, e veniva da lontano e con la faccia scura. Il chiosco era sempre chiuso, e Papa-re, quasi senza goderselo, ne pagava la tassa che grava su tutti i beni immobili.

Poteva parere un’irrisione considerar come «immobile» anche questo chiosco di Papa-re, che a momenti camminava da solo, dai tanti tarli che lo abitavano, in luogo del proprietario sempre assente. Ma il fisco non bada ai tarli. Anche se il chiosco si fosse messo a passeggiare da sé per la piazza e per le strade, avrebbe pagato sempre la tassa, come un qualunque altro bene immobile davvero.

Dietro il chiosco, un po’ piú là, sorgeva un caffè posticcio, di legname, o – piú propria-mente, con licenza del proprietario – una baracca dipinta con cotal pretensione di stil floreale, dove fino a tarda notte certe cosí dette canzonettiste, con l’accompagnamento d’un pianofortino scordato, dai tasti ingialliti come i denti d’un pover’uomo che digiuni per professione, strillavano… ma no, che strillavano, poverette, se non avevano neanche fiato per dire: «Ho fame»?

Eppure, quel caffè-concerto era ogni sera pieno zeppo d’avventori che, con la gola strozzata dal fumo e dal puzzo del tabacco, si spassavano come a un carnevale alle smorfie sguajate e compassionevoli, ai lezii da scimmie tisiche, di quelle femmine disgraziate, le quali, non potendo la voce, mandavano le braccia e piú spesso le gambe ai sette cieli («Benee! Bravaa! Biiis!»), e parteggiavano anche per questa o per quella, mettendo negli applausi e nelle disapprovazioni tanto calore e tanto accanimento, che piú volte la questura era dovuta intervenire a sedarne la violenza rissosa.

 

Per questi egregi avventori Papa-re stava, d’inverno, ogni notte fin dopo il tocco, a morirsi di freddo nel chiosco, pisolando, con la sua mercanzia davanti: sigari, candele steariche, scatole di fiammiferi, cerini per le scale, e i pochi giornali della sera, che gli restavano dal giro per le strade consuete.

Sul far della sera, veniva al chiosco e aspettava che una ragazzetta, sua nipotina, gli recasse un grosso scaldino di terracotta; lo prendeva per il manico e, col braccio teso, lo mandava un pezzo avanti e dietro per ravvivarne il fuoco; poi lo ricopriva con un po’ di cenere che teneva in serbo nel chiosco e lo lasciava lí, a covare, senza neanche curarsi di chiudere a chiave lo sportello.

Non avrebbe potuto resistere al freddo della notte per tante ore, senza quello scaldino, Papa-re, vecchio com’era ormai e cadente.

Ah, senza un pajo di buone gambe, senza una voce squillante, come far piú il giornalajo? Ma non gli anni soltanto lo avevano debellato cosí, né soltanto le membra aveva imbecillite dall’età: anche l’anima, per le tante disgrazie, povero Papa-re. Prima disgrazia, si sa, la scoronazione del Santo Padre; poi la morte della moglie; poi quella dell’unica figliuola; morte atroce, in un ospedale infame, dopo il disonore e la vergogna, dond’era venuta al mondo quella ragazzetta, per cui egli, ora, seguitava a vivere e a tribolare. Se non avesse avuto quella povera innocente da mantenere…

L’immagine del destino che opprimeva e affogava, nella vecchiaja, Papa-re, si poteva intravedere in quel suo gran cappellaccio roccioso e sbertucciato, che, troppo largo di giro, gli sprofondava fin sotto la nuca e fin sopra gli occhi. Chi gliel’aveva regalato? dove lo aveva ripescato? Quando, sott’esso, Papa-re fermo in mezzo alla piazza socchiudeva gli occhi, pareva dicesse: «Eccomi qua. Vedete? Se voglio vivere, devo stare per forza sotto questo cappello qua, che mi pesa e mi toglie il respiro!»

 

Se voglio vivere! Ma non avrebbe voluto vivere per nientissimo affatto, lui: s’era tremendamente seccato; non guadagnava quasi piú nulla. Prima, i giornali glieli davano a dozzine; ora il distributore gliene affidava sí e no poche copie, per carità, quelle che gli restavano dopo aver fornito tutti gli altri rivenditori che s’avventavano vociando per aver prima le loro dozzine e far piú presto la corsa. Papa-re, per non farsi schiacciare tra la ressa, se ne stava indietro ad aspettare che anche le donne fossero provviste prima di lui; qualche malcreato, spesso, gli lasciava andare un lattone, e lui se lo pigliava in santa pace e si tirava da canto per non essere investito a mano a mano da quelli che, ottenute le copie, si scagliavano a testa bassa, con cieca furia, in tutte le direzioni. Egli li vedeva scappar via come razzi, e sospirava, tentennando sulle povere gambe piegate.

– A te, Papa-re: sciala, due dozzine, stasera! C’è la rivoluzione in Russia.

Papa-re alzava le spalle, socchiudeva gli occhi, pigliava il suo pacco, e via dopo tutti gli altri, adoperandosi anche lui a correre con quelle gambe e forzando la voce chioccia a strillare:

La Tribúuuna!

Poi, con altro tono:

La rivoluzione in Russiaaa!

E infine, quasi tra sé:

Importante stasera la Tribuna.

Manco male che due portinaj in via Volturno, uno in via Gaeta, un altro in via Palestro gli eran rimasti fedeli e lo aspettavano. Le altre copie doveva venderle cosí, alla ventura, girando per tutto il quartiere del Macao. Verso le dieci, stanco, affannato, andava a rintanarsi nel chiosco, ove aspettava, dormendo, che gli avventori uscissero dal caffè. Ne aveva fino alla gola, di quel mestieraccio! Ma, quando si è vecchi, che rimedio c’è? Vuòtati pure il capo, non ne trovi nessuno. Là, il muraglione del Pincio.

 

Vedendo, sul tramonto, apparire la nipotina quasi scalza, con la vesticciuola sbrendolata, e infagottata, povera creatura, in un vecchio scialle di lana che una vicina le aveva regalato, Papa-re si pentiva ogni volta anche della poca spesa di quel fuoco che pur gli era indispensabile. Non gli restava piú altro di bene nella vita, che quella bambina e quello scaldino. Vedendoli arrivare entrambi, sorride-va loro da lontano, stropicciandosi le mani. Baciava in fronte la nipotina e si metteva ad agitar lo scaldino per ravvivarne la brace.

L’altra sera, intanto, o che avesse l’anima piú imbecillita del solito, o che si sentisse piú stanco, nel mandare avanti e dietro lo scaldino, tutt’a un tratto, ecco che gli sfugge di mano, e va a schizzar là, in mezzo alla piazza, in frantumi. «Paf!» Una gran risata della gente, che si trovava a passare, accolse quel volo e quello scoppio, per la faccia che fece Papa-re nel vedersi scappar di mano il fido compagno delle sue fredde notti e per l’ingenuità della bimba che gli era corsa dietro, istintivamente, come se avesse voluto acchiapparlo per aria.

Nonno e nipotina si guardarono negli occhi, rimminchioniti. Papa-re, ancora col braccio proteso, nell’atto di mandare avanti lo scaldino. Eh, troppo avanti lo aveva mandato! E il carbone acceso, ecco, friggeva là, tra i cocci, in una pozza d’acqua piovana.

– Viva l’allegria! – diss’egli alla fine, riscotendosi e tentennando il capo. – Ridete, ridete. Starò allegro anch’io, stanotte. Va’, Nena mia, va’. Alla fin fine, forse è meglio cosí.

E s’avviò per i giornali.

Quella sera, invece di venire a rintanarsi verso le dieci nel chiosco, prese un giro piú alla lontana per le vie del Macao. Avrebbe trovato freddo il suo covo notturno, e piú freddo avrebbe sentito a star lí fermo, seduto. Ma, alla fine, si stancò. Prima d’entrare nel chiosco volle guardare il punto della piazza, ove lo scaldino era schizzato, come se gli potesse venire di là un po’ di caldo. Dal caffè posticcio venivano le stridule note del pianofortino e, a quando a quando, gli scrosci d’applausi e i fischi degli avventori. Papa-re col bavero del pastrano logoro tirato fin sopra gli orecchi, le mani gronchie dal freddo, strette sul petto con le poche copie del giornale che gli erano rimaste, si fermò un pezzo a guardare dietro il vetro appannato della porta. Si doveva star bene, lí dentro, con un poncino caldo in corpo. Brrr! s’era rimessa la tramontana, che tagliava la faccia e sbiancava finanche il selciato della piazza. Non c’era una nuvola in cielo e pareva che anche le stelle lassú tremassero tutte di freddo. Papa-re guardò, sospirando, il chiosco nero sotto i lecci neri, si cacciò i giornali sotto l’ascella e s’appressò per sfilare la sola banda davanti.

– Papa-re – chiamò allora qualcuno, con voce rôca, dall’interno del chiosco.

Il vecchio giornalajo ebbe un sobbalzo e si sporse a guardare.

– Chi è là?

– Io, Rosalba. E lo scaldino?

– Rosalba?

– Vignas. Non ti ricordi piú? Rosalba Vignas.

– Ah, – fece Papa-re, che riteneva in confuso i nomi strambi di tutte le canzonettiste passate e presenti del caffè.

– E perché non te ne vai al caldo? Che stai a far lí?

– Aspettavo te. Non entri?

– E che vuoi da me? Fatti vedere.

– Non voglio farmi vedere. Sto qua accoccolata, sotto la tavoletta. Entra. Ci staremo bene.

Papa-re girò il chiosco, con la banda in mano, ed entrò, curvandosi, per lo sportello.

– Dove sei?

– Qua, – disse la donna.

 

Non si vedeva, nascosta com’era sotto la tavoletta su cui Papa-re posava i giornali, i sigari, le scatole di fiammiferi e le candele. Stava seduta dove di solito il vecchio appoggiava i piedi, quando si metteva a sedere sul sediolino alto.

– E lo scaldino? – domandò quella di nuovo, da lí sotto. – L’hai smesso?

– Sta’ zitta, mi s’è rotto, oggi. M’è scappato di mano, nel dimenarlo.

– Oh guarda! E ti muori di freddo? Ci contavo io, sullo scaldino. Sú, siedi. Ti riscaldo io, Papa-re.

– Tu? Che vuoi piú riscaldarmi, tu, ormai. Sono vecchio, figlia. Va’, va’. Che vuoi da me?

La donna scoppiò in una stridula risata e gli afferrò una gamba.

– Va’, sta’ quieta! – disse Papa-re, schermen-dosi. – Che tanfo di zozza. Hai bevuto?

– Un pochino. Mettiti a sedere. Vedrai che c’entriamo. Sú, cosí… monta sú. Ora ti riscaldo le gambe. O vuoi un altro scaldino? Eccotelo.

E gli posò sú le gambe come un involto, caldo, caldo.

– Che roba è? – domandò il vecchio.

– Mia figlia.

– Tua figlia? Ti sei portata appresso anche la bimba?

– M’hanno cacciata di casa, Papa-re. Mi ha abbandonata.

– Chi?

– Lui, Cesare. Sono in mezzo alla strada. Con la pupa in braccio.

Papa-re scese dal seggiolino, si curvò nel bujo verso la donna accoccolata e le porse la bimba.

– Tieni qua, figlia, tieni qua, e vattene. Ho i miei guaj; lasciami in pace!

– Fa freddo, – disse la donna con voce ancor piú rauca. – Mi cacci via anche tu?

– Ti vorresti domiciliare qua dentro? – le domandò, aspro, Papa-re. – Sei matta o ubbriaca davvero?

La donna non rispose, né si mosse. Forse piangeva. Come una sfumatura di suono, titillante, dal fondo di via Volturno s’intese nel silenzio una mandolinata, che s’avvicinava di punto in punto, ma che poi, a un tratto, tornò a perdersi man mano, smorendo, in lontananza.

– Lasciamelo aspettare qua, ti prego, – riprese, poco dopo, la donna, cupamente.

– Ma aspettare, chi? – domandò di nuovo Papa-re.

– Lui, te l’ho detto: Cesare. È là, nel caffè. L’ho veduto dalla vetrata.

– E tu va’ a raggiungerlo, se sai che è là! Che vuoi da me?

– Non posso, con la pupa. Mi ha abbandonata! È là con un’altra. E sai con chi? Con Mignon, già! con la celebre Mign… già, che comincerà a cantare domani sera. La presenta lui, figúrati! Le ha fatto insegnare le canzonette dal maestro, a un tanto all’ora. Sono venuta per dirgli due paroline, appena esce. A lui e a lei. Lasciami star qua. Che male ti faccio? Ti tengo anzi piú caldo, Papa-re. Fuori, con questo freddo, la povera creatura mia… Tanto, ci vorrà poco: una mezz’oretta sí e no. Via, sii buono, Papa-re! Rimettiti a sedere e riprenditi la bimba su le ginocchia. Qua sotto non la posso tenere. Starete piú caldi tutti e due. Dorme, povera creatura, e non dà fastidio.

Papa-re si rimise a sedere e si riprese la bimba sulle ginocchia, borbottando:

– Oh guarda un po’ che altro scaldino son venuto a trovare io qua, stanotte. Ma che gli vuoi dire?

– Niente. Due parole, – ripeté quella.

Tacquero per un buon pezzo. Dalla prossima stazione giungeva il fischio lamentoso di qualche treno in arrivo o in partenza. Passava per la vasta piazza deserta qualche cane randagio. Laggiú, imbacuccate, due guardie notturne. Nel silenzio, si sentivano perfino ronzare le lampade elettriche.

– Tu hai una nipotina, è vero, Papa-re? – domandò la donna, riscotendosi con un sospiro.

– Nena, sí.

– Senza mamma?

– Senza.

– Guarda la mia figliuola. Non è bella?

Papa-re non rispose.

– Non è bella? – insistette la donna. – Ora che ne sarà di lei, povera creatura mia? Ma cosí… cosí non posso piú stare. Qualcuno dovrà pure averne pietà. Tu capisci che non trovo da lavorare, con lei in braccio. Dove la lascio? E poi, sí! chi mi prende? Neanche per serva mi vogliono.

– Sta’ zitta! – la interruppe il vecchio, scrollandosi convulso; e si mise a tossire.

 

Ricordava la figlia, che gli aveva lasciato cosí, sulle ginocchia, una creaturina come quella. La strinse piano piano a sé, teneramente. La carezza però non era per lei, era per la nipotina, ch’egli in quel punto ricordava cosí piccola, e quieta e buona come questa.

Venne dal caffè un piú forte scoppio d’applausi e di grida scomposte.

– Infame! – esclamò a denti stretti la donna. – Se la spassa là, con quella brutta scimmia piú secca della morte. Di’, viene qua ogni sera al solito, è vero? a comprare il sigaro, appena esce.

– Non so, – disse Papa-re, alzando le spalle.

– Cesare, il Milanese, come non sai? Quel biondo, alto, grosso, con la barba spartita sul mento, sanguigno. Ah, è bello! E lui lo sa, canaglia, e se n’approfitta. Non ti ricordi che mi prese con sé, l’anno scorso?

– No, – le rispose il vecchio, seccato. – Come vuoi che mi ricordi, se non ti lasci vedere?

La donna emise un ghigno, come un singulto, e disse cupamente:

– Non mi riconosceresti piú. Sono quella che cantava i duettini con quello scimunito di Peppot. Peppot, sai? Monte Bisbin? Sí, quello. Ma non fa nulla, se non ti ricordi. Non sono piú quella. M’ha finita, mi ha distrutta, in un anno. E sai? In principio, diceva anche che mi voleva sposare. Roba da ridere, figúrati!

– Figúrati! – ripeté Papa-re, già mezzo appisolato.

– Non ci credetti mai, – seguitò la donna. – Dicevo tra me: Purché mi tenga, ora. E lo dicevo per via di codesta creatura che, non so come, forse perché mi presi troppo di lui, avevo concepito. Dio mi volle castigare cosí. Poi, che ne sapevo io? poi fu peggio. Avere una figlia! pare niente! Gilda Boa… ti ricordi di Gilda Boa? mi diceva: «Buttala!». Come si butta? Lui, sí, la voleva buttare davvero. Ebbe il coraggio di dirmi che non gli somigliava. Ma guardala, Papa-re, se non è tutta lui! Ah, infame! Lo sa bene che è sua, che io non potevo farla con altri, perché per lui io… non ci vedevo piú dagli occhi, tanto mi piaceva! E gli sono stata peggio d’una schiava, sai? M’ha bastonata, ed io zitta; m’ha lasciata morta di fame, ed io zitta. Ci ho sofferto, ti giuro, non per me, ma per codesta creatura, a cui, digiuna, non potevo dar latte. Ora, poi…

Seguitò cosí per un pezzo; ma Papa-re non la sentiva piú: stanco, confortato dal calore di quella piccina trovata lí in luogo del suo scaldino, s’era al suo solito addormentato. Si destò di soprassalto, quando, aperta la vetrata del caffè, gli avventori cominciarono a uscire rumorosamente, mentre gli ultimi applausi risonavano nella sala. Ma, ov’era la donna?

– Ohé! Che fai? – le domandò Papa-re, insonnolito.

Ella s’era cacciata carponi, ansimante, tra i piedi della sedia alta, su cui Papa-re stava seduto; aveva schiuso con una mano lo sportello; e rimaneva lí, come una belva, in agguato.

– Che fai? – ripeté Papa-re.

Una pistolettata rintronò in quel punto fuori del chiosco.

– Zitto, o arrestano anche te! – gridò la donna al vecchio, precipitandosi fuori e richiudendo di furia lo sportello.

Papa-re, atterrito dagli urli, dalle imprecazioni, dal tremendo scompiglio dietro il chiosco, si curvò sulla piccina che aveva dato un balzo allo sparo, e si restrinse tutto in sé, tremando. Accorse di furia una vettura, che, poco dopo, scappò via di galoppo, verso l’ospedale di Sant’Antonio. E un groviglio di gente furibonda passò vociando davanti al chiosco e si allontanò verso Piazza delle Terme. Altra gente però era rimasta lí, sul posto, a commentare animatamente il fatto, e Papa-re, con gli orecchi tesi, non si moveva, temendo che la bimba mettesse qualche strillo. Poco dopo, uno dei camerieri del caffè venne a comperare un sigaro al chiosco.

– Eh, Papa-re, hai visto che straccio di tragedia?

– Ho… inteso… – balbettò. 

– E non ti sei mosso? – esclamò ridendo il cameriere. – Sempre col tuo scaldino, eh? 

– Col mio scaldino, già… – disse Papa-re, curvo, aprendo la bocca sdentata a uno squallido sorriso.

5. 8  Lontano

I

Dopo aver cercato inutilmente dappertutto questo e quel capo di vestiario e avere imprecato: – Porco diavolo! – non si sa quante volte, tra sbuffi e grugniti e ogni sorta di gesti irosi, alla fine Pietro Mílio (o Don Paranza come lo chiamavano in paese) sentí il bisogno d’offrirsi uno sfogo andando a gridare alla parete che divideva la sua camera da quella della nipote Venerina:

– Dormi, sai! fino a mezzogiorno, cara. Ti avverto però che oggi non c’è lo sciocco che piglia pesci per te.

E veramente quella mattina don Paranza non poteva andare alla pesca, come da tanti anni era solito. Gli toccava invece (porco diavolo!) vestirsi di gala, o impuparsi secondo il suo modo di dire. Già! perché era viceconsole, lui, di Svezia e Norvegia. E Venerina, che dalla sera avanti sapeva del prossimo arrivo del nuovo piroscafo norvegese – ecco qua – non gli aveva preparato né la camicia inamidata, né la cravatta, né i bottoni, né la finanziera: nulla, insomma.

In due cassetti del canterano, in luogo delle camíce, aveva intravisto una fuga di spaventatissimi scarafaggi.

– Comodi! Comodi! Scusate del disturbo!

Nel terzo, una sola camicia, chi sa da quanto tempo inamidata, ingiallita. Don Paranza l’aveva tratta fuori con due dita, cautamente, come se anche quella avesse temuto abitata dai prolifici animaletti dei due piani superiori; poi, osservando il collo, lo sparato e i polsini sfilacciati:

– Bravi! – aveva aggiunto. – Avete messo barba?

E s’era dato a stropicciare sulle sfilàcciche un mozzicone di candela stearica.

Era chiaro che tutte le altre camíce (che non dovevano poi esser molte) stavano ad aspettare da mesi dentro la cesta della biancheria da mandare al bucato i vapori mercantili di Svezia e Norvegia.

Viceconsole della Scandinavia a Porto Empedocle, don Paranza faceva nello stesso tempo anche da interprete su i rari piroscafi che di là venivano a imbarcar zolfo. A ogni vapore, una camicia inamidata: non piú di due o tre l’anno. Per amido, poca spesa. Certo non avrebbe potuto vivere con gli scarsi proventi di questa saltuaria professione, senza l’ajuto della pesca giornaliera e di una misera pensioncina di danneggiato politico. Perché, sissignori, bestia non era soltanto da jeri – come egli stesso soleva dire: – bestione era sempre stato: aveva combattuto per questa cara patria, e s’era rovinato.

Cara-patria perciò era anche il nome con cui chiamava qualche volta la sua miserabile finanziera.

Venuto da Girgenti ad abitare alla Marina, come allora si chiamavano quelle quattro casucce sulla spiaggia, alle cui mura, spirando lo scirocco, venivano a rompersi furibondi i cavalloni, si ricordava di quando Porto Empedocle non aveva che quel piccolo molo, detto ora Molo Vecchio, e quella torre alta, fosca, quadrata, edificata forse per presidio dagli Aragonesi, al loro tempo, e dove si tenevano ai lavori forzati i galeotti: i soli galantuomini del paese, poveretti!

Allora sí Pietro Mílio faceva denari a palate! Di interpreti, per tutti i vapori mercantili che approdavano nel porto, non c’era altri che lui e quella pertica sbilenca di Agostino Di Nica, che gli veniva appresso, allora, come un cagnolino affamato per raccattar le briciole ch’egli lasciava cadere. I capitani, di qualunque nazione fossero, dovevano contentarsi di quelle quattro parole di francese che scaraventava loro in faccia, imperterrito, con pretto accento siciliano: – mossiurre, sciosse, ecc.

– Ma la cara patria! la cara patria!

Una sola, veramente, era stata la bestialità di don Paranza: quella di aver avuto vent’anni, al Quarantotto. Se ne avesse avuti dieci o cinquanta, non si sarebbe rovinato. Colpa involontaria, dunque. Nel bel meglio degli affari, compromesso nelle congiure politiche, aveva dovuto esulare a Malta. La bestialità d’averne ancora trentadue al Sessanta era stata, si sa! conseguenza naturale della prima. Già a Malta, a La Valletta, in quei dodici anni, s’era fatto un po’ di largo, ajutato dagli altri fuorusciti. Ma il Sessanta! Ci pensava e fremeva ancora. A Milazzo, una palla in petto: e di quel regalo d’un soldato borbonico misericordioso non aveva saputo approfittare: – era rimasto vivo!

 

Tornato a Porto Empedocle, aveva trovato il paese cresciuto quasi per prodigio, a spese della vecchia Girgenti che, sdrajata su l’alto colle a circa quattro miglia dal mare, si rassegnava a morir di lenta morte, per la quarta o la quinta volta, guardando da una parte le rovine dell’antica Acragante, dall’altra il porto del nascente paese. E al suo posto il Mílio aveva trovato tant’altri interpreti, uno piú dotto dell’altro, in concorrenza fra loro.

Agostino Di Nica, dopo la partenza di lui per l’esilio, rimasto solo, s’era fatto d’oro e aveva smesso di far l’interprete per darsi al commercio con un vaporetto di sua proprietà, che andava e veniva come una spola tra Porto Empedocle e le due vicine isolette di Lampedusa e di Pantelleria.

– Agostino, e la patria?

Il Di Nica, serio serio, picchiava con una mano su i dindi nel taschino del panciotto:

– Eccola qua!

 

Era rimasto però tal quale, bisognava dirlo, senza superbia. Madre natura, nel farlo, non s’era dimenticata del naso. Che naso! Una vela! In capo, quella stessa berrettina di tela, dalla visiera di cuojo; e a tutti coloro che gli domandavano perché, con tanti bei denari, non si concedesse il lusso di portare il cappello:

– Non per il cappello, signori miei, – rispondeva invariabilmente, – ma per le conseguenze del cappello.

Beato lui! – «A me, invece, – pensava don Paranza, – con tutta la mia miseria, mi tocca d’indossare la finanziera e d’impiccarmi in un colletto inamidato. Sono viceconsole, io!»

Sí, e se qualche giorno non gli riusciva di pigliar pesci, correva il rischio d’andare a letto digiuno, lui e la nipote, quella povera orfana lasciatagli dal fratello, anche lui cosí sfortunato che appena sbarcato in America vi era morto di febbre gialla. Ma don Paranza aveva in compenso le medaglie del Quarantotto e del Sessanta.

Con la canna della lenza in mano e gli occhi fissi al sughero galleggiante, assorto nei ricordi della sua lunga vita, gli avveniva spesso di tentennare amaramente il capo. Guardava le due scogliere del nuovo porto, ora tese al mare come due lunghe braccia per accogliere in mezzo il piccolo Molo Vecchio, al quale, in grazia della banchina, era stato serbato l’onore di tener la sede della Capitaneria e la bianca torre del faro principale; guardava il paese che gli si stendeva davanti agli occhi, da quella torre detta il Rastiglio a piè del Molo fino alla stazione ferroviaria laggiú e gli pareva che, come su lui gli anni e i malanni, cosí fossero cresciute tutte quelle case là, quasi l’una su l’altra, fino ad arrampicarsi all’orlo dell’altipiano marnoso che incombeva sulla spiaggia col suo piccolo e bianco cimitero lassú, col mare davanti, e dietro la campagna. La marna infocata, colpita dal sole cadente, splendeva bianchissima mentre il mare, d’un verde cupo, di vetro, presso la riva, s’indorava tutto nella vastità tremula dell’ampio orizzonte chiuso da Punta Bianca a levante, da Capo Rossello a ponente.

 

Quell’odore del mare tra le scogliere, l’odore del vento salmastro che certe mattine nel recarsi alla pesca lo investiva cosí forte da impedirgli il respiro o il passo facendogli garrire addosso la giacca e i calzoni, l’odore speciale che la polvere dello zolfo sparsa dappertutto dava al sudore degli uomini affaccendati, l’odore del catrame, l’odore dei salati, l’afrore che esalava sulla spiaggia dalla fermentazione di tutto quel pacciame d’alghe secche misto alla rena bagnata, tutti gli odori di quel paese cresciuto quasi con lui erano cosí pregni di ricordi per don Paranza che, non ostante la miseria della sua vita, era per lui un rammarico pensare che gli anni che facevano lui vecchio erano invece la prima infanzia del paese; tanto vero che il paese prendeva sempre piú, di giorno in giorno, vita coi giovani, e lui vecchio era lasciato indietro, da parte e non curato. Ogni mattina, all’alba, dalla scalinata di Montoro, il grido tre volte ripetuto d’un banditore dalla voce formidabile chiamava tutti al lavoro sulla spiaggia:

– Uomini di mare, alla fatica!

Don Paranza li udiva dal letto, ogni alba, quei tre appelli e si levava anche lui, ma per andarsene alla pesca, brontolando. Mentre si vestiva, sentiva giú stridere i carri carichi di zolfo, carri senza molle, ferrati, traballanti sul brecciale fradicio dello stradone polveroso popolato di magri asinelli bardati, che arrivavano a frotte, anch’essi con due pani di zolfo a contrappeso. Scendendo alla spiaggia, vedeva le spigonare, dalla vela triangolare ammainata a metà su l’albero, in attesa del carico, oltre il braccio di levante, lungo la riva, sulla quale si allineava la maggior parte dei depositi di zolfo. Sotto alle cataste s’impian-tavano le stadere, sulle quali lo zolfo era pesato e quindi caricato sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte Scalzi, in calzoni di tela, gli uomini di mare recavano il carico alle spigonare, immergendosi nell’acqua fino all’anca, e le spigonare, appena cariche, sciolta la vela, andavano a scaricare lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto o fuori. Cosí, fino al tramonto del sole, quando lo scirocco non impediva l’imbarco.

E lui? Lui lí, con la canna della lenza in mano. E non di rado, scotendo rabbiosamente quella canna, gli avveniva di borbottare nella barba lanosa che contrastava col bruno della pelle cotta dal sole e con gli occhi verdastri e acquosi:

– Porco diavolo! Non m’hanno lasciato neanche pesci nel mare!

 

II

Seduta sul letto, coi capelli neri tutti arruffati e gli occhi gonfi dal sonno, Venerina non si risolveva ancora a uscire dalla sua cameretta, quando udí per la scala uno scalpiccío confuso tra ànsiti affannosi e la voce dello zio che gridava:

– Piano, piano! Eccoci arrivati.

Corse ad aprire la porta; s’arrestò sgomenta, stupita, esclamando:

– Oh Dio! Che è?

Davanti alla porta, per l’angusta scala, una specie di barella sorretta penosamente da un gruppo di marinaj ansanti, costernati. Sotto un’ampia coperta d’albagio qualcuno stava a giacere su quella barella.

– Zio! Zio! – gridò Venerina.

Ma la voce dello zio le rispose dietro quel gruppo d’uomini che s’affannava a salire gli ultimi gradini.

– Niente; non ti spaventare! Ho fatto pesca anche stamattina! La grazia di Dio non ci abbandona. Piano, piano, figliuoli: siamo arrivati. Qua, entrate. Ora lo adageremo sul mio letto.

Venerina vide accanto allo zio un giovine di statura gigantesca, straniero all’aspetto, biondo, e dal volto un po’ affumicato, che reggeva sotto il braccio una cassetta; poi chinò gli occhi su la barella, che i marinaj, per riprender fiato, avevano deposta presso l’entrata, e domandò:

– Chi è? Che è avvenuto?

– Pesce di nuovo genere, non ti confondere! – le rispose don Pietro, promovendo il sorriso dei marinaj che s’asciugavano la fronte. – Vera grazia di Dio! Sú, figliuoli: sbrighiamoci. Di qua, sul mio letto.

E condusse i marinaj col triste carico nella sua camera ancora sossopra.

Lo straniero, scostando tutti, si chinò su la barella; ne tolse via cautamente la coperta, e sotto gli occhi di Venerina raccapricciata scoprí un povero infermo quasi ischeletrito, che sbarrava nello sgomento certi occhi enormi d’un cosí limpido azzurro, che parevano quasi di vetro, tra la squallida magrezza del volto su cui la barba era rispuntata; poi, con materna cura, lo sollevò come un bambino e lo pose a giacere sul letto.

– Via tutti, via tutti! – ordinò don Pietro. – Lasciamoli soli, adesso. Per voi, figliuoli, penserà il capitano dell’Hammerfest. – E, richiuso l’uscio, aggiunse, rivolto alla nipote: – Vedi? Poi dici che non siamo fortunati. Un vapore a ogni morte di papa; ma quell’uno che arriva, è la manna! Ringraziamo Dio.

– Ma chi è? Si può sapere che è avvenuto? – domandò di nuovo Venerina.

E don Paranza:

– Niente! Un marinajo malato di tifo, agli estremi. Il capitano m’ha visto questa bella faccia di minchione e ha detto: «Guarda, voglio farti un regaluccio, brav’uomo». Se quel poveraccio moriva in viaggio, finiva in bocca a un pesce-cane; invece è voluto arrivare fino a Porto Empedocle, perché sapeva che c’era Pietro Mílio, pesce-somaro. Basta. Andrò oggi stesso a Girgenti per trovargli posto all’ospe-dale. Passo prima da tua zia donna Rosolina! Voglio sperare che mi farà la grazia di tenerti compagnia finché io non ritornerò da Girgenti. Speriamo che, per questa sera, sia tutto finito. Aspetta oh… debbo dire…

Riaprí l’uscio e rivolse qualche frase in francese a quel giovane straniero, che chinò piú volte il capo in risposta; poi, uscendo, soggiunse alla nipote:

– Mi raccomando: te ne starai di là, in camera tua. Vado e torno con tua zia.

Per istrada, alla gente che gli domandava notizie, seguitò a rispondere senza nemmeno voltarsi:

– Pesca, pesca: tricheco!

 

Forzando la consegna della serva, s’introdusse in casa di donna Rosolina. La trovò in gonnella e camicia, con le magre braccia nude e un asciugamani su le spallucce ossute, che s’apparecchiava il latte di crusca per lavarsi la faccia.

– Maledizione! – strillò la zitellona cinquantaquattrenne, riparandosi d’un balzo dietro una cortina. – Chi entra? Che modo!

– Ho gli occhi chiusi, ho gli occhi chiusi! – protestò Pietro Mílio. – Non guardo le vostre bellezze!

– Subito, voltatevi! – ordinò donna Rosolina.

Don Pietro obbedí e, poco dopo, udí l’uscio della camera sbatacchiare furiosamente. Attraverso quell’uscio, allora, egli le narrò ciò che gli era accaduto, pregandola di far presto.

Impossibile! Lei, donna Rosolina, uscir di casa a quell’ora? Impossibile! Caso eccezionale, sí. Ma quel malato, era vecchio o giovane?

– Santo nome di Dio! – gemette don Pietro. – Alla vostra età, dite sul serio? Né vecchio, né giovane: è moribondo. Sbrigatevi!

 

Ah sí! prima che donna Rosolina si risolvesse a licenziarsi dalla propria immagine nello specchio, dovette passare piú di un’ora. Si presentò alla fine tutta aggeggiata, come una bertuccia vestita, l’ampio scialle indiano con la frangia fino a terra, tenuto sul seno da un gran fermaglio d’oro smaltato con pendagli a lagrimoni, grossi orecchini agli orecchi, la fronte simmetricamente virgolata da certi mezzi riccetti unti non si sa di qual manteca, e tinte le guance e le labbra.

– Eccomi, eccomi…

E gli occhietti lupigni, guarniti di lunghissime ciglia, lappoleggiando, chiesero a don Pietro ammirazione e gratitudine per quell’abbigliamento straordinariamente solleci-to. (Ben altro un tempo quegli occhi avevano chiesto a don Pietro: ma questi, Pietro di nome, pietra di fatto.)

Trovarono Venerina su tutte le furie. Quel giovine straniero s’era arrischiato a picchiare all’uscio della camera, dove ella s’era chiusa, e chi sa che cosa le aveva bestemmiato nella sua lingua; poi se n’era andato.

– Pazienza, pazienza fino a questa sera! – sbuffò don Paranza. – Ora scappo a Girgenti. Di’, un po’: lui, il malato, s’è sentito?

Tutti e tre entrarono pian pianino per vederlo. Restarono, trattenendo il fiato, presso la soglia. Pareva morto.

– Oh Dio! – gemette donna Rosolina. – Io ho paura! Non ci resisto.

– Ve ne starete di là, tutt’e due, – disse don Pietro. – Di tanto in tanto vi affaccerete qua all’uscio, per vedere come sta. Tirasse almeno avanti ancora un pajo di giorni! Ma mi par proprio ch’accenni d’andarsene e non mi mancherebbe altro! Ah che bei guadagni, che bei guadagni mi dà la Norvegia! Basta: lasciatemi scappare.

Donna Rosolina lo acchiappò per un braccio.

– Dite un po’: è turco o cristiano?

– Turco, turco: non si confessa! – rispose in fretta don Pietro.

– Mamma mia! Scomunicato! – esclamò la zitellona, segnandosi con una mano e tendendo l’altra per portarsi via Venerina fuori di quella camera. – Sempre cosí! – sospirò poi, nella camera della nipote, alludendo a don Pietro che già se n’era andato. – Sempre con la testa tra le nuvole! Ah, se avesse avuto giudizio…

E qui donna Rosolina, che toglieva ogni volta pretesto dalle continue disgrazie di don Paranza per parlare con mille reticenze e sospiri del suo mancato matrimonio, anche in quest’ultima volle vedere la mano di Dio, il castigo, il castigo d’una colpa remota di lui: quella di non aver preso lei in moglie.

Venerina pareva attentissima alle parole della zia; pensava invece, assorta, con un senso di pauroso smarrimento, a quell’infelice che moriva di là, solo, abbandonato, lontano dal suo paese, dove forse moglie e figliuoli lo aspettavano. E a un certo punto propose alla zia d’andare a vedere come stesse.

Andarono strette l’una all’altra, in punta di piedi, e si fermarono poco oltre la soglia della camera, sporgendo il capo a guardare sul letto.

L’infermo teneva gli occhi chiusi: pareva un Cristo di cera, deposto dalla croce. Dormiva o era morto? Si fecero un po’ piú avanti; ma al lieve rumore, l’infermo schiuse gli occhi, quei grandi occhi celesti, attoniti. Le due donne si strinsero vieppiú tra loro; poi, vedendogli sollevare una mano e far cenno di parlare, scapparono via con un grido, a richiudersi in cucina.

 

Sul tardi, sentendo il campanello della porta, corsero ad aprire; ma, invece di don Pietro, si videro davanti quel giovine straniero della mattina. La zitellona corse ranca ranca a rintanarsi di nuovo; ma Venerina, coraggio-samente, lo accompagnò nella camera dell’infermo già quasi al bujo, accese una candela e la porse allo straniero, che la ringraziò chinando il capo con un mesto sorriso; poi stette a guardare, afflitta: vide che egli si chinava su quel letto e posava lieve una mano su la fronte dell’infermo, sentí che lo chiamava con dolcezza:

Cleen… Cleen.

Ma era il nome, quello, o una parola affettuosa?

L’infermo guardava negli occhi il compagno, come se non lo riconoscesse; e allora ella vide il corpo gigantesco di quel giovine marinajo sussultare, lo sentí piangere, curvo sul letto, e parlare angosciosamente, tra il pianto, in una lingua ignota. Vennero anche a lei le lagrime agli occhi. Poi lo straniero, voltandosi, le fece segno che voleva scrivere qualcosa. Ella chinò il capo per significargli che aveva compreso e corse a prendergli l’occorrente. Quando egli ebbe finito, le consegnò la lettera e una borsetta.

Venerina non comprese le parole ch’egli le disse, ma comprese bene dai gesti e dall’espres-sione del volto, che le raccomandava il povero compagno. Lo vide poi chinarsi di nuovo sul letto a baciare piú volte in fronte l’infermo, poi andar via in fretta con un fazzoletto su la bocca per soffocare i singhiozzi irrompenti.

Donna Rosolina poco dopo, tutta impaurita, sporse il capo dall’uscio e vide Venerina che se ne stava seduta, lí, come se nulla fosse, assorta, e con gli occhi lagrimosi.

– Ps, ps! – la chiamò, e col gesto le disse: – che fai? sei matta?

Venerina le mostrò la lettera e la borsetta, che teneva ancora in mano e le accennò d’entrare. Non c’era piú da aver paura. Le narrò a bassa voce la scena commovente tra i due compagni, e la pregò che sedesse anche lei a vegliare quel poveretto che moriva abbandonato.

Nel silenzio della sera sopravvenuta sonò a un tratto, acuto, lungo, straziante, il fischio d’una sirena, come un grido umano.

Venerina guardò la zia, poi l’infermo sul letto, avvolto nell’ombra, e disse piano:

– Se ne vanno. Lo salutano.

 

III

– Zio, come si dice bestia in francese?

Pietro Mílio, che stava a lavarsi in cucina, si voltò con la faccia grondante a guardare la nipote:

– Perché? Vorresti chiamarmi in francese? Si dice bête, figlia mia: bête bête! E dimmelo forte, sai!

Altro che bestia si meritava d’esser chiamato. Da circa due mesi teneva in casa e cibava come un pollastro quel marinaio piovutogli dal cielo. A Girgenti – manco a dirlo! – non aveva potuto trovargli posto all’ospedale. Poteva buttarlo in mezzo alla strada? Aveva scritto al Console di Palermo – ma sí! – Il Console gli aveva risposto che desse ricetto e cura al marinajo dell’Hammerfest, fin tanto che esso non fosse guarito, o – nel caso che fosse morto – gli desse sepoltura per bene, che delle spese poi avrebbe avuto il rimborso.

Che genio, quel Console! Come se lui, Pietro Mílio, potesse anticipare spese e dare alloggio ai malati. Come? dove? Per l’alloggio, sí: aveva ceduto all’infermo il suo letto, e lui a rompersi le ossa sul divanaccio sgangherato che gli cacciava tra le costole le molle sconnesse, cosí che ogni notte sognava di giacer lungo disteso sulle vette di una giogaja di monti. Ma per la cura, poteva andare dal farmacista, dal droghiere, dal macellajo a prender roba a credito, dicendo che la Norvegia avrebbe poi pagato? – Lí, boghe e cefaletti, il giorno, e gronghi la sera, quando ne pescava; e se no, niente!

Eppure quel povero diavolo era riuscito a non morire! Doveva essere a prova di bomba, se non ci aveva potuto neanche il medico del paese, che aveva tanto buon cuore e tanta carità di prossimo da ammazzare almeno un concitta-dino al giorno. Non diceva cosí, perché in fondo volesse male a quel povero straniero; no, ma – porco diavolo! – esclamava don Pietro – chi piú poveretto di me?

Manco male che, fra pochi giorni, si sarebbe liberato. Il Norvegese, ch’egli chiamava L’arso (si chiamava Lars Cleen), era già entrato in convalescenza, e di lí a una, a due settimane al piú, si sarebbe potuto mettere in viaggio.

Ne era tempo, perché donna Rosolina non voleva piú saperne di far la guardia alla nipote: protestava d’esser nubile anche lei e che non le pareva ben fatto che due donne stessero a tener compagnia a quell’uomo ch’ella credeva veramente turco, e perciò fuori della grazia di Dio. Già si era levato di letto, poteva muoversi e… e… non si sa mai!

Donna Rosolina non aggiungeva, in queste rimostranze a don Pietro, che il contegno di Venerina, verso il convalescente, da un pezzo non le garbava piú.

Il convalescente pareva uscito dalla malattia mortale quasi di nuovo bambino. Il sorriso, lo sguardo degli occhi limpidi avevano proprio una espressione infantile. Era ancora magrissimo; ma il volto gli s’era rasserenato, la pelle gli si ricoloriva leggermente; e gli rispuntavano piú biondi, lievi, aerei, i capelli che gli erano caduti durante la malattia.

Venerina, nel vederlo cosí timido, smarrito nella beatitudine di quel suo rinascere in un paese ignoto, tra gente estranea, provava per lui una tenerezza quasi materna. Ma tutta la loro conversazione si riduceva, per Venerina che non intendeva il francese e tanto meno il norvegese, a una variazione di tono nel pronunziare il nome di lui, Cleen. Cosí, se egli si ricusava, arricciando il naso, scotendo la testa, di prendere qualche medicina o qualche cibo, ella pronunziava quel Cleen con voce cupa, d’impero, aggrottando le ciglia su gli occhi fermi, severi, come per dire: «Obbedisci: non ammetto capricci!». – Se poi egli, in uno scatto di gioconda tenerezza, vedendosela passar da presso, le tirava un po’ la veste, col volto illuminato da un sorriso di gratitudine e di simpatia, Venerina strascicava quel Cleen in una esclamazione di stupore e di rimprovero, come se volesse dirgli: «Sei matto?».

Ma lo stupore era finto, il rimprovero dolce: espressi l’uno e l’altro per ammansare gli scrupoli di donna Rosolina che, assistendo a quelle scene, sarebbe diventata di centomila colori, se non avesse avuto sulle magre gote quella patina di rossetto.

Anche lei, Venerina, si sentiva quasi rinata. Avvezza a star sempre sola, in quella casa povera e nuda, senza cure intime, senza affetti vivi, da un pezzo s’era abbandonata a un’uggia invincibile, a un tedio smanioso: il cuore le si era come isterilito, e la sterilità del sentimento si disfaceva in lei nella pigrizia piú accidiosa. Lei stessa, ora, non avrebbe saputo spiegarsi perché le andasse tanto di sfaccendare per casa, lietamente, di levarsi per tempo e d’acconciarsi.

– Miracoli! Miracoli! – esclamava don Paranza, rincasando la sera, con gli attrezzi da pesca, tutto fragrante di mare. Trovava ogni cosa in ordine: la tavola apparecchiata, pronta la cena.

– Miracoli!

Entrava nella camera dell’infermo, fregan-dosi le mani:

Bon suarre, mossiur Cleen, bon suarre!

– Buona sera, – rispondeva in italiano il convalescente, sorridendo, staccando e quasi incidendo con la pronunzia le due parole.

– Come come? – esclamava allora don Pietro stupito, guardando Venerina che rideva, e poi donna Rosolina che stava seria, seduta, intozzata su di sé, con le labbra strette e le palpebre gravi, semichiuse.

A poco a poco Venerina era riuscita a insegnare allo straniero qualche frase italiana e un po’ di nomenclatura elementare, con un mezzo semplicissimo. Gl’indicava un oggetto nella camera e lo costringeva a ripeterne piú e piú volte il nome, finché non lo pronunziasse correttamente: – bicchiere, letto, seggiola, finestra… – E che risate quando egli sbagliava, risate che diventavano fragorose se s’accorgeva che la zia zitellona, legnosa nella sua pudibonda severità, per non cedere al contagio del riso si torturava le labbra, massime quando l’infermo accompagnava con gesti comicissimi quelle parole staccate, telegrafando cosí a segni le parti sostanziali del discorso che gli mancavano. Ma presto egli poté anche dire: aprire, chiudere finestra, prendere bicchiere, e anche voglio andare letto. Se non che, imparato quel voglio, cominciò a farne frequentissimo uso, e l’impegno che metteva nel superare lo stento della pronunzia, dava un piú reciso tono di comando alla parola. Venerina ne rideva, ma pensò d’attenuare quel tono insegnando all’infermo di premettere ogni volta a quel voglio un prego. Prego, sí, ma poiché egli non riusciva a pronunziare correttamente questa nuova parola, quando voleva qualche cosa, aspettava che Venerina si voltasse a guardarlo, e allora congiungeva le mani in segno di preghiera e quindi spiccicava piú che mai imperioso e reciso il suo voglio.

La premessa di quel segno di preghiera era assolutamente necessaria ogni qual volta egli voleva presso di sé lo stipetto che il compagno gli aveva portato dal piroscafo, il giorno in cui ne era sceso moribondo. Venerina glielo porgeva ogni volta di malanimo e senza il garbo consueto. Quella cassetta rappresentava per lui la patria lontana: c’erano tutti i suoi ricordi e tante lettere e alcuni ritratti. Guardandolo obliquamente, mentr’egli rileggeva qualcuna di quelle lettere, o se ne stava astratto, con gli occhi invagati, Venerina lo vedeva quasi sotto un altro aspetto, come se fosse avvolto in un’altra aria che lo allontanasse da lei all’improvviso, e notava tante particolarità della diversa natura di lui, non mai prima notate. Quella cassetta, in cui egli frugava con tanta insistenza, le richiamava davanti agli occhi l’immagine di quell´altro marinaio che lo aveva sollevato dalla barella come un bambino per deporlo sul letto, lí, e poi se n’era andato, piangendo. Ed ella si era presa tanta cura di quell’abbandonato! Chi era egli? Donde veniva? Quali ricordi custodiva con tanto amore in quella cassetta? Venerina scrollava a un tratto le spalle con un moto di dispetto, dicendo a se stessa: – Che me n’importa? – e lo lasciava lí solo nella camera, a pascersi di quei suoi segreti ricordi, e si tirava con sé la zia, che la seguiva stordita di quella risoluzione repentina:

– Che facciamo?

– Nulla. Ce n’andiamo!

Venerina ricadeva d’un tratto, in quei momenti, nel suo tedio neghittoso, inasprito da una sorda stizza o aggravato da una pena d’indefiniti desiderii: la casa le appariva vuota di nuovo, vuota la vita, e sbuffava: non voleva far nulla, piú nulla!

IV

Lars Cleen, appena solo, si sentiva come caduto in un altro mondo, piú luminoso, di cui non conosceva che tre abitanti soli e una casa, anzi una camera. Non si rendeva ragione di quei dispettucci di Venerina. Non si rendeva ragione di nulla. Tendeva l’orecchio ai rumori della via, si sforzava d’intendere; ma nessuna sensazione della vita di fuori riusciva a destare in lui un’immagine precisa. La campana… sí, ma egli vedeva col pensiero una chiesa del suo remoto paese! Un fischio di sirena, ed egli vedeva l’Hammerfest perduto nei mari lontani. E com’era restato una sera, nel silenzio, alla vista della luna, nel vano della finestra! Era pure, era pure la stessa luna ch’egli tante volte in patria, per mare, aveva veduta; ma gli era parso che lí, in quel paese ignoto, ella parlasse ai tetti di quelle case, al campanile di quella chiesa, quasi un altro linguaggio di luce, e l’aveva guardata a lungo, con un senso di sgomento angoscioso, sentendo piú acuta che mai la pena dell’abbandono, il proprio isolamento.

Viveva nel vago, nell’indefinito, come in una sfera vaporosa di sogni. Un giorno, finalmente, s’accorse che sul coperchio della cassetta erano scritte col gesso tre parole: – bet! bet! bet! – cosí. Domandò col gesto a Venerina che cosa volessero significare, e Venerina, pronta:

– Tu, bet!

Lars Cleen restò a guardarla con gli occhi chiari ridenti e smarriti. Non comprendeva, o meglio non sapeva credere che… No, no – e con le mani le fece segno che avesse pietà di lui che tra poco doveva partire. Venerina scrollò le spalle e lo salutò con la mano.

– Buon viaggio!

– No, no, – fece di nuovo il Cleen col capo, e la chiamò a sé col gesto: aprí la cassetta e ne trasse una veduta fotografica di Trondhjem. Vi si vedeva, tra gli alberi, la maestosa cattedrale marmorea sovrastante tutti gli altri edifici, col camposanto prossimo, ove i fedeli superstiti si recano ogni sabato a ornare di fiori le tombe dei loro morti.

Ella non riuscí a comprendere perché le mostrasse quella veduta.

Ma mère, ici, – s’affannava a dirle il Cleen, indicandole col dito il cimitero, lí, all’ombra del magnifico tempio. Anche lui, come don Pietro, non era molto padrone della lingua francese, che del resto non serviva affatto con Venerina. Trasse allora dalla cassetta un’altra fotografia: il ritratto d’una giovine. Subito Venerina vi fissò gli occhi, impallidendo. Ma il Cleen si pose accanto al volto il ritratto, per farle vedere che quella giovine gli somigliava.

Ma soeur, – aggiunse.

Questa volta Venerina comprese e s’ilarò tutta. Se poi quella sorella fosse fidanzata o già moglie del giovane marinajo che aveva recato la cassetta, Venerina non si curò piú che tanto d’indovinare. Le bastò sapere che L’arso era celibe. Sí: ma non doveva ripartire fra pochi giorni? Era già in grado di uscir di casa e di recarsi a piedi, sul tramonto, al Molo Vecchio.

Una frotta di monellacci scalzi, stracciati, alcuni ignudi nati, abbrustiti dal sole, seguiva ogni volta Lars Cleen in quelle sue passeggiate: lo spiavano, scambiandosi ad alta voce osservazioni e commenti che presto si mutavano in lazzi. Egli, stordito, abbagliato nell’aria che grillava di luce, si voltava ora verso l’uno ora verso l’altro, sorridendo; talora gli toccava di minacciare col bastone i piú insolenti; poi sedeva sul muricciuolo della banchina a guardare i bastimenti ormeggiati e il mare infiammato dal riflesso delle nuvole vespertine. La gente si fermava a osservarlo, mentre egli se ne stava in quell’atteggiamento, tra smarrito ed estatico: lo guardava, come si guarda una gru o una cicogna stanca e sperduta, discesa dall’alto dei cieli. Il berretto di pelo, il pallore del volto e l’estrema biondezza della barba e dei capelli attiravano specialmente la curiosità. Egli alla fine se ne stancava e piano piano rincasava, triste.

Dalla lettera lasciatagli dal compagno, insieme col denaro, sapeva che l’Hammerfest dopo il viaggio in America, sarebbe ritornato a Porto Empedocle, fra sei mesi. Ne erano trascorsi già tre. Volentieri si sarebbe rimbarcato sul suo piroscafo di ritorno, volentieri si sarebbe riunito ai compagni; ma come trattenersi tre altri mesi, cosí, senza piú alcuna ragione, nella casa che l’ospitava? Il Mílio aveva già scritto al console in Palermo per fargli ottenere gratuitamente il rimpatrio. Che fare? partire o attendere? – Decise di consigliarsi col Mílio stesso, una di quelle sere, al ritorno dalla pesca dei gronghi.

Venerina assistette, dopo cena, a quel dialogo che voleva essere in francese tra lo zio e lo straniero. Dialogo? Si sarebbe detto diverbio piuttosto, a giudicare dalla violenza dei gesti ripetuti con esasperazione dall’uno e dall’altro. Venerina, sospesa, costernata, a un certo punto, nel vedersi additata rabbiosamente dallo zio, diventò di bragia. Eh che! Parlavano dunque di lei? a quel modo? Vergogna, ansia, dispetto le fecero a un tratto tale impeto dentro, che appena il Cleen si ritirò, saltò sú a domandare allo zio:

– Che c’entro io? Che avete detto di me?

– Di te? Niente, – rispose don Pietro, rosso e sbuffante, dopo quella terribile fatica.

– Non è vero! Avete parlato di me. Ho capito benissimo. E tu ti sei arrabbiato!

Don Pietro non si raccapezzava ancora.

– Che t’ha detto? Che t’ha inventato? – incalzò Venerina, tutta accesa. – Vuole andarsene? E tu lascialo andare! Non me n’importa nulla, sai, proprio nulla.

Don Paranza restò a guardare ancora un pezzo la nipote, stordito, con la bocca aperta.

– Sei matta? O io…

All’improvviso si diede a girare per la stanza come se cercasse la via per scappare e, agitando per aria le manacce spalmate:

– Che asino! – gridò. – Che imbecille! Oh somarone! A settantotto anni! Mamma mia! Mamma mia!

Si voltò di scatto a guardare Venerina, mettendosi le mani tra i capelli.

– Dimmi un po’, per questo m’hai doman-dato… per dirlo a lui in francese, ch’ero bestia?

– No, non per te… Che hai capito?

Di nuovo don Pietro, con la testa tra le mani, si mise ad andare in qua e in là per la stanza.

– Bestione, somarone, e dico poco! Ma quella bertuccia di tua zia che ha fatto qui? ha dormito? Porco diavolo! E tu? e questo pezzo di… Aspetta, aspetta che te l’aggiusto io, ora stesso!

E in cosí dire si lanciò verso l’uscio della camera, dove s’era chiuso il Cleen. Venerina gli si parò subito davanti.

– No! Che fai, zio? Ti giuro che egli non sa nulla! Ti giuro che tra me e lui non c’è stato mai nulla! Non hai inteso che se ne vuole andare?

Don Pietro restò come sospeso. Non capiva piú nulla!

– Chi? lui? Se ne vuole andare? Chi te l’ha detto? Ma al contrario! al contrario! Non se ne vuole andare! M’hai preso per bestia sul serio? Io, io te lo caccio via però, ora stesso!

Venerina lo trattenne di nuovo, scoppiando questa volta in singhiozzi e buttandoglisi sul petto. Don Paranza sentí mancarsi le gambe. Con la mano rimasta libera accennò il segno della croce.

– In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, – sospirò. – Vieni qua, vieni qua, figlia mia! Andiamocene nella tua camera e ragioniamo con calma. Ci perdo la testa!

La trasse con sé nell’altra camera, la fece sedere, le porse il fazzoletto perché si asciugasse gli occhi e cominciò a interrogarla paternamente.

Frattanto Lars Cleen, che aveva udito dalla sua camera il diverbio tra lo zio e la nipote senza comprenderne nulla, apriva pian piano l’uscio e sporgeva il capo a guardare, col lume in mano, nella saletta buja. Che era avvenuto? Intese solo i singhiozzi di Venerina, di là, e se ne turbò profondamente. Perché quella lite? E perché piangeva ella cosí? Il Mílio gli aveva detto che non era possibile che egli stesse nella casa piú oltre: non c’era posto per lui; e poi quella vecchia matta della zia s’era stancata; e la nipote non poteva restar sola con un estraneo in casa. Difficoltà, ch’egli non riusciva a penetrare. Mah! tant’altre cose, da che usciva di casa, gli sembravano strane in quel paese. Bisognava partire, senz’aspettare il piroscafo: questo era certo. E avrebbe perduto il posto di nostromo. Partire! Piangeva per questo la sua giovane amica infermiera?

Fino a notte avanzata Lars Cleen stette lí, seduto sul letto, a pensare, a fantasticare. Gli pareva di vedere la sorella lontana; la vedeva. Ah, lei sola al mondo gli voleva bene ormai. E anche quest’altra fanciulla qua, possibile?

– Questa? E tu vorresti?

 

Chi sa! Ogni qual volta ritornava in patria, la sorella gli ripeteva che volentieri avrebbe preferito di non rivederlo mai piú, mai piú in vita, se egli, in uno di quei suoi viaggi lontani, si fosse innamorato di una buona ragazza e la avesse sposata. Tanto strazio le dava il vederlo cosí, svogliato della vita e rimesso, anzi abbandonato alla discrezione della sorte, esposto a tutte le vicende, pronto alle piú rischiose, senz’alcun ritegno d’affetto per sé, come quella volta che, traversando l’Oceano in tempesta, s’era buttato dall’Hammerfest per salvare un compagno! Sí, era vero; e senza alcun merito; perché la sua vita, per lui, non aveva piú prezzo.

Ma lí, ora? possibile? Questo paesello di mare, in Sicilia, cosí lontano lontano, era dunque la meta segnata dalla sorte alla sua vita? era egli giunto, senz’alcun sospetto, al suo destino? Per questo s’era ammalato fino a toccare la soglia della morte? per riprendere lí la via d’una nuova esistenza? Chi sa!

– E tu gli vuoi bene? – concludeva intanto di là don Pietro, dopo avere strappato a Venerina, che non riusciva a quietarsi, le scarse, incerte notizie che ella aveva dello straniero e la confessione di quegli ingenui passatempi, donde era nato quell’amore fino a quel punto sospeso in aria, come un uccello sulle ali.

Venerina s’era nascosto il volto con le mani.

– Gli vuoi bene? – ripeté don Pietro. – Ci vuol tanto a dir di sí?

– Io non lo so, – rispose Venerina, tra due singhiozzi.

– E invece lo so io! – borbottò don Paranza, levandosi. – Va’, va’ a letto ora, e procura di dormire. Domani, se mai… Ma guarda un po’ che nuova professione mi tocca adesso d’esercitare!

E, scotendo il capo lanoso, andò a buttarsi sul divanaccio sgangherato.

Rimasta sola, Venerina, tutta infocata in volto, con gli occhi sfavillanti, sorrise; poi si nascose di nuovo il volto con le mani; se lo tenne stretto, stretto, cosí, e andò a buttarsi sul letto, vestita.

Non lo sapeva davvero, se lo amava. Ma, intanto, baciava e stringeva il guanciale del lettuccio. Stordita da quella scena imprevista, a cui s’era lasciata tirare, per un malinteso, dal suo amor proprio ferito, non riusciva ancor bene a veder chiaro in sé, in ciò che era avvenuto. Un senso scottante di vergogna le impediva di rallegrarsi di quella spiegazione con lo zio, forse desiderata inconsciamente dal suo cuore, dopo tanti mesi di sospensione su un pensiero, su un sentimento, che non riuscivano quasi a posarsi sulla realtà, ad affermarsi in qualche modo. Ora aveva detto di sí allo zio, e certo avrebbe sentito un gran dolore, se il Cleen se ne fosse andato; sentiva orrore del tedio mortale in cui sarebbe ricaduta, sola sola, nella casa vuota e silenziosa; era perciò contenta che lo zio fosse ora con lei, di là, a pensare, a escogitare il modo di vincere, se fosse possibile, tutte le difficoltà che avevano fino allora tenuto sospeso il suo sentimento.

 

Ma si potevano vincere quelle difficoltà? Il Cleen, pur lí presente, le pareva tanto, tanto lontano: parlava una lingua ch’ella non intendeva; aveva nel cuore, negli occhi, un mondo remoto, ch’ella non indovinava neppure. Come fermarlo lí? Era possibile? E poteva egli aver l’intenzione di fermarsi, per lei, tutta la vita, fuori di quel suo mondo? Voleva, sí, restare; ma fino all’arrivo del piroscafo dall’America. Intanto, certo, in patria nessun affetto vivo lo attirava; perché, altrimenti, scampato per miracolo dalla morte, avrebbe pensato subito a rimpatriare. Se voleva aspettare, era segno che anche lui doveva sentire… chi sa! forse lo stesso affetto per lei, cosí sospeso e come smarrito nell’incertezza della sorte.

Fra altri pensieri si dibatteva don Pietro sul divanaccio che strideva con tutte le molle sconnesse. Le molle stridevano e don Paranza sbuffava:

– Pazzi! Pazzi! Come hanno fatto a intendersi, se l’uno non sa una parola della lingua dell’altra? Eppure, sissignori, si sono intesi! Miracoli della pazzia! Si amano, si amano, senza pensare che i cefali, le boghe, i gronghi dello zio bestione non possono dal mare assumersi la responsabilità e l’incarico di fare le spese del matrimonio e di mantenere una nuova famiglia. Meno male, che io… Ma sí! Se padron Di Nica vorrà saperne! Domani, domani si vedrà… Dormiamo!

Faceva affaroni, col suo vaporetto, Agostino Di Nica. Tanto che aveva pensato di allargare il suo commercio fino a Tunisi e Malta e, a tale scopo, aveva ordinato all’Arsenale di Palermo la costruzione di un altro vaporetto, un po’ piú grande, che potesse servire anche al trasporto dei passeggeri.

– Forse, – seguitava a pensare don Pietro, – un uomo come L’arso potrà servirgli. Conosce il francese meglio di me e l’inglese benone. Lupo di mare, poi. O come interprete, o come marinajo, purché me lo imbarchi e gli dia da vivere e da mantenere onestamente la famiglia… Intanto Venerina gli insegnerà a parlare da cristiano. Pare che faccia miracoli, lei, con la sua scuola. Non posso lasciarli piú soli. Domani me lo porto con me da padron Di Nica e, se la proposta è accettata, egli aspetterà, se vuole, ma venendosene con me ogni giorno alla pesca; se non è accettata, bisogna che parta subito subito, senza remissione. Intanto, dormiamo.

Ma che dormire! Pareva che le punte delle molle sconnesse fossero diventate piú irte quella notte, compenetrate delle difficoltà, fra cui don Paranza si dibatteva.

 

V

Da circa quindici giorni Lars Cleen seguiva mattina e sera il Mílio alla pesca: usciva di casa con lui, vi ritornava con lui.

Padron Di Nica, con molti se, con molti ma, aveva accettato la proposta presentatagli dal Mílio come una vera fortuna per lui (e le conseguenze?). Il vaporetto nuovo sarebbe stato pronto fra un mese al piú, e lui, il Cleen, vi si sarebbe imbarcato in qualità di interprete – a prova, per il primo mese.

Venerina aveva fatto intender bene allo zio che il Cleen non s’era ancora spiegato con lei chiaramente, e gli aveva perciò raccomandato di comportarsi con la massima delicatezza, tirandolo prima con ogni circospezione a parlare, a spiegarsi. Il povero don Paranza, sbuffando piú che mai, nel cresciuto impiccio, si era recato dapprima solo dal Di Nica e, ottenuto il posto, era ritornato a casa a offrirlo al Cleen, soggiungendogli nel suo barbaro francese che, se voleva restare, come gliene aveva espresso il desiderio, se voleva trattenersi fino al ritorno dell’Hammerfest, doveva essere a questo patto: che lavorasse; il posto, ecco, glielo aveva procurato lui: quando poi il piroscafo sarebbe arrivato dall’America, ne avrebbe avuti due, di posti; e allora, a sua scelta: o questo o quello, quale gli sarebbe convenuto di piú. Intanto, nell’attesa, bisognava che andasse con lui ogni giorno alla pesca.

Alla proposta, il Cleen era rimasto perplesso. Gli era apparso chiaro che la scena di quella sera tra zio e nipote era avvenuta proprio per la sua prossima partenza, e che era stato lui perciò la cagione del pianto della sua cara infermiera. Accettare, dunque, e comprometter-si sarebbe stato tutt’uno. Ma come rifiutare quel benefizio, dopo le tante cure e le premure affettuose di lei? quel benefizio offerto in quel modo, che non lo legava ancora per nulla, che lo lasciava libero di scegliere, libero di mostrarsi, o no, grato di quanto gli era stato fatto?

Ora, ogni mattina, levandosi dal divanaccio con le ossa indolenzite, don Pietro si esortava cosí:

– Coraggio, don Paranza! alla doppia pesca!

E preparava gli attrezzi: le due canne con le lenze, una per sé, l’altra per L’arso, i barattoli dell’esca, gli ami di ricambio: ecco, sí, per i pesci era ben munito; ma dove trovare l’occorrente per l’altra pesca: quella al marito per la nipote? chi glielo dava l’amo per tirarlo a parlare?

Si fermava in mezzo alla stanza, con le labbra strette, gli occhi sbarrati; poi scoteva in aria le mani ed esclamava:

– L’amo francese!

Eh già! Perché gli toccava per giunta di muovergliene il discorso in francese, quando non avrebbe saputo dirglielo neppure in siciliano.

Monsiurre, ma nièsse

E poi? Poteva spiattellargli chiaro e tondo che quella scioccona s’era innamorata o incapricciata di lui?

Dalla Norvegia o dal console di Palermo avrebbe avuto il rimborso delle spese, probabilmente; ma di quest’altro guajo qui chi lo avrebbe ricompensato?

– Lui, lui stesso, porco diavolo! M’ha attizzato il fuoco in casa? Si scotti, si bruci!

Quell’aria da mammalucco, da innocente piovuto dal cielo, gliel’avrebbe fatta smettere lui. E lí, su la scogliera del porto, mentre riforniva gli ami di nuova esca, si voltava a guardare L’arso, che se ne stava seduto su un masso poco discosto, diritto su la vita, con gli occhi chiari fissi al sughero della lenza che galleggiava su l’aspro azzurro dell’acqua luccicante d’aguzzi tremolii.

– Ohé, Mossiur Cleen, ohé!

Guardare, sí, lo guardava; ma lo vedeva poi davvero quel sughero? Pareva allocchito.

Il Cleen, all’esclamazione, si riscoteva come da un sogno, e gli sorrideva; poi tirava pian piano dall’acqua la lenza, credendo che il Mílio lo avesse richiamato per questo, e riforniva anche lui gli ami chi sa da quanto tempo disarmati.

Ah, cosí, la pesca andava benone! Anch’egli, don Paranza, pensando, escogitando il modo e la maniera d’entrare a parlargli di quella faccenda cosí difficile e delicata, si lasciava intanto mangiar l’esca dai pesci: si distraeva, non vedeva piú il sughero, non vedeva piú il mare, e solo rientrava in sé, quando l’acqua tra gli scogli vicini dava un piú forte risucchio. Stizzito, tirava allora la lenza, e gli veniva la tentazione di sbatterla in faccia a quell’ingrato. Ma piú ira gli suscitava l’esclamazione che il Cleen aveva imparata da lui e ripeteva spesso, sorridendo, nel sollevare a sua volta la canna.

– Porco diavolo!

Don Paranza, dimenticandosi in quei momenti di parlargli in francese, prorompeva:

– Ma porco diavolo lo dico sul serio, io! Tu ridi, minchione! Che te n’importa?

No, no, cosí non poteva durare: non conchiudeva nulla, non solo, ma si guastava anche il fegato.

– Se la sbrighino loro, se vogliono!

E lo disse una di quelle sere alla nipote, rincasando dalla pesca.

Non s’aspettava che Venerina dovesse accogliere l’irosa dichiarazione della insipienza di lui con uno scoppio di risa, tutta rossa e raggiante in viso.

– Povero zio!

– Ridi?

– Ma sí!

– Fatto?

Venerina si nascose il volto con le mani, accennando piú volte di sí col capo, vivacemente. Don Paranza, pur contento in cuor suo, alleggerito da quel peso quando meno se l’aspettava, montò su le furie.

– Come! E non me ne dici niente? E mi tieni lí per tanti giorni alla tortura? E lui, anche lui, muto come un pesce!

Venerina sollevò la faccia dalle mani:

– Non t’ha saputo dir nulla, neanche oggi?

– Pesce, ti dico! Baccalà! – gridò don Paranza al colmo della stizza. – Ho il fegato grosso cosí, dalla bile di tutti questi giorni!

– Si sarà vergognato – disse Venerina, cercando di scusarlo.

– Vergognato! Un uomo! – esclamò don Pietro. – Ha fatto ridere alle mie spalle tutti i pesci del mare, ha fatto ridere! Dov’è? Chiamalo; fammelo dire questa sera stessa: non basta che l’abbia detto a te!

– Ma senza codesti occhiacci, – gli raccomandò Venerina, sorridendo.

Don Paranza si placò, scosse il testone lanoso e borbottò nella barba:

– Sono proprio… già tu lo sai, meglio di me. Di’ un po’, come hai fatto, senza francese?

 

Venerina arrossí, sollevò appena le spalle, e i neri occhioni le sfavillarono.

– Cosí, – disse, con ingenua malizia.

– E quando?

– Oggi stesso, quando siete tornati a mezzogiorno, dopo il desinare. Egli mi prese una mano… io…

– Basta, basta! – brontolò don Paranza, che in vita sua non aveva mai fatto all’amore. – È pronta la cena? Ora gli parlo io.

Venerina gli si raccomandò di nuovo con gli occhi, e scappò via. Don Pietro entrò nella camera del Cleen.

Questi se ne stava con la fronte appoggiata ai vetri del balcone, a guardar fuori; ma non vedeva nulla. La piazzetta lí davanti, a quell’ora, era deserta e buja. I lampioncini a petrolio quella sera riposavano, perché della illuminazione del borgo era incaricata la luna. Sentendo aprir l’uscio, il Cleen si voltò di scatto. Chi sa a che cosa stava pensando. Don Paranza si piantò in mezzo alla camera con le gambe aperte, tentennando il capo: avrebbe voluto fargli un predicozzo da vecchio zio brontolone; ma sentí subito la difficoltà d’un discorso in francese consentaneo all’aria burbera a cui già aveva composta la faccia e l’atteggiamento preso. Frenò a stento un solennissimo sbuffo d’impazienza e cominciò:

Mossiur Cleen, ma nièsse m’a dit

Il Cleen, sorrise, timido, smarrito, e chinò leggermente il capo piú volte.

Oui? – riprese don Paranza. – E va bene!

Tese gl’indici delle mani e li accostò ripetutamente l’uno all’altro, per significare: «Marito e moglie, uniti…»

Vous et ma nièsse… mariage… oui?

Si vous voulez, – rispose il Cleen aprendo le mani, come se non fosse ben certo del consenso.

– Oh, per me! – scappò a don Pietro. Si riprese subito. – Très-heureux, mossiur Cleen, très-heureux. C’est fait! Donnez-moi la main…

Si strinsero la mano. E cosí il matrimonio fu concluso. Ma il Cleen rimase stordito. Sorrideva, sí, d’un timido sorriso, nell’impaccio della strana situazione in cui s’era cacciato senza una volontà ben definita. Gli piaceva, sí, quella bruna siciliana, cosí vivace, con quegli occhi di sole; le era gratissimo dell’amorosa assistenza: le doveva la vita, sí… ma, sua moglie, davvero? già concluso?

Maintenant, – riprese don Paranza, nel suo francese, – je vous prie, mossiur Cleen: cherchez, cherchez d’apprendre notre langue… je vous prie…

Venerina venne a picchiare all’uscio con le nocche delle dita.

– A cena!

Quella prima sera, a tavola, provarono tutti e tre un grandissimo imbarazzo. Il Cleen pareva caduto dalle nuvole; Venerina, col volto in fiamme, confusa, non riusciva a guardare né il fidanzato né lo zio. Gli occhi le si intorbidivano, incontrando quelli del Cleen e s’abbassavano subito. Sorrideva, per rispondere al sorriso di lui non meno impacciato, ma volentieri sarebbe scappata a chiudersi sola sola in camera, a buttarsi sul letto, per piangere… Sí. Senza saper perché.

«Se non è pazzia questa, non c’è piú pazzi al mondo!» pensava tra sé dal canto suo don Paranza, aggrondato, tra le spine anche lui, ingozzando a stento la magra cena.

Ma poi, prima il Cleen, con qualche ritegno, lo pregò di tradurre per Venerina un pensiero gentile che egli non avrebbe saputo manifestarle; quindi Venerina, timida e accesa, lo pregò di ringraziarlo e di dirgli…

– Che cosa? – domandò don Paranza, sbarrando tanto d’occhi.

E poiché, dopo quel primo scambio di frasi, la conversazione tra i due fidanzati avrebbe voluto continuare attraverso a lui, egli battendo le pugna su la tavola:

– Oh insomma! – esclamò. – Che figura ci faccio io? Ingegnatevi tra voi.

Si alzò, fra le risa dei due giovani, e andò a fumarsi la pipa sul divanaccio, brontolando il suo porco diavolo nel barbone lanoso.

 

VI

Il vaporetto del Di Nica compiva, l’ultima notte di maggio, il suo terzo viaggio da Tunisi. Fra un’ora, verso l’alba, il vaporetto sarebbe approdato al Molo Vecchio. A bordo dormivano tutti, tranne il timoniere a poppa e il secondo di guardia sul ponte di comando.

Il Cleen aveva lasciato la sua cuccetta, e da un pezzo, sul cassero, se ne stava a mirare la luna declinante di tra le griselle del sartiame, che vibrava tutto alle scosse cadenzate della macchina. Provava un senso d’opprimente angustia, lí, su quel guscio di noce, in quel mare chiuso, e anche… sí, anche la luna gli pareva piú piccola, come se egli la guardasse dalla lontananza di quel suo esilio, mentr’ella appariva grande là, su l’oceano, di tra le sartie dell’Hammerfest donde qualcuno dei suoi compagni forse in quel punto la guardava. Lí egli con tutto il cuore era vicino. Chi era di guardia, a quell’ora, su l’Hammerfest? Chiudeva gli occhi e li rivedeva a uno a uno, i suoi compagni: li vedeva salire dai boccaporti; vedeva, vedeva col pensiero il suo piroscafo, come se egli proprio vi fosse; bianco di salsedine, maestoso e tutto sonante. Udiva lo squillo della campana di bordo; respirava l’odore particolare della sua antica cuccetta; vi si chiudeva a pensare, a fantasticare. Poi riapriva gli occhi, e allora, non già quello che aveva veduto ricordando e fantasticando gli sembrava un sogno, ma quel mare lí, quel cielo, quel vaporetto, e la sua presente vita. E una tristezza profonda lo invadeva, uno smanioso avvilimento. I suoi nuovi compagni non lo amavano, non lo comprendevano, né volevano comprenderlo; lo deridevano per il suo modo di pronunziare quelle poche parole d’italiano che già era riuscito a imparare; e lui, per non far peggio, doveva costringere la sua stizza segreta a sorridere di quel volgare e stupido dileggio. Mah! Pazienza L’avrebbero smesso, col tempo. A poco a poco, egli, con l’uso continuo e l’ajuto di Venerina, avrebbe imparato a parlare correttamente. Ormai, era detto: lí, in quel borgo, lí, su quel guscio e per quel mare, tutta la vita.

Incerto come si sentiva ancora, nella nuova esistenza, non riusciva a immaginare nulla di preciso per l’avvenire. Può crescere l’albero nell’aria, se ancora scarse e non ben ferme ha le radici nella terra? Ma questo era certo, che lí ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato.

L’Hammerfest, che doveva ritornare dall’America tra sei mesi, non era piú ritornato. La sorella, a cui egli aveva scritto per darle notizia della sua malattia mortale e annunziarle il fidanzamento, gli aveva risposto da Trondhjem con una lunga lettera piena d’angoscia e di lieta meraviglia, e annunziato che l’Hammerfest a New York aveva ricevuto un contr’ordine ed era stato noleggiato per un viaggio nell’India, come le aveva scritto il marito. Chi sa, dunque, se egli lo avrebbe piú riveduto. E la sorella?

Si alzò, per sottrarsi all’oppressione di quei pensieri. Aggiornava. Le stelle erano morte nel cielo crepuscolare; la luna smoriva a poco a poco. Ecco laggiú, ancora accesa, la lanterna verde del Molo.

Don Paranza e Venerina aspettavano l’arrivo del vaporetto, dalla banchina. Nei due giorni che il Cleen stava a Porto Empedocle, don Pietro non si recava alla pesca; gli toccava di far la guardia ai fidanzati, poiché quella scimunita di donna Rosolina non s’era voluta prestare neanche a questo: prima perché nubile (e il suo pudore si sarebbe scottato al fuoco dell’amore di quei due), poi perché quel forestiere le incuteva soggezione.

– Avete paura che vi mangi? – le gridava don Paranza. – Siete un mucchio d’ossa, volete capirlo?

Non voleva capirlo, donna Rosolina. E non s’era voluta disfare di nulla, in quella occasione, neppur d’un anellino, fra tanti che ne aveva, per dimostrare in qualche modo il suo compiacimento alla nipote.

– Poi, poi, – diceva.

Giacché pure, per forza, un giorno o l’altro, Venerina sarebbe stata l’erede di tutto quanto ella possedeva: della casa, del poderetto lassú, sotto il Monte Cioccafa, degli ori e della mobilia e anche di quelle otto coperte di lana che ella aveva intrecciate con le sue proprie mani, nella speranza non ancora svanita di schiacciarvi sotto un povero marito.

Don Paranza era indignato di quella tirchieria; ma non voleva che Venerina mancasse di rispetto alla zia.

– È sorella di tua madre! Io poi me ne debbo andare prima di lei, per legge di natura, e da me non hai nulla da sperare. Lei ti resterà, e bisogna che te la tenga cara. Le farai fare un po’ di corte da tuo marito, e vedrai che gioverà. Del resto, per quel poco che il Signore può badare a uno sciocco come me, stai sicura che ci ajuterà.

Erano venuti, infatti, dal consolato della Norvegia quei pochi quattrinucci per il mantenimento prestato al Cleen. Aveva potuto cosí comperare alcuni modesti mobili, i piú indispensabili, per metter sú, alla meglio, la casa degli sposi. Erano anche arrivate da Trondhjem le carte del Cleen.

Venerina era cosí lieta e impaziente, quella mattina, di mostrare al fidanzato la loro nuova casetta già messa in ordine! Ma, poco dopo, quando il vaporetto finalmente si fu ormeggiato nel Molo e il Cleen poté scenderne, quella sua gioja fu improvvisamente turbata dalla stizza, udendo il saluto che gli altri marinaj rivolgevano, quasi miagolando, al suo fidanzato:

Bon cion! Bon cion!

– Brutti imbecilli! – disse tra i denti, voltandosi a fulminarli con gli occhi.

Il Cleen sorrideva, e Venerina si stizzí allora maggiormente.

– Ma non sei buono da rompere il grugno a qualcuno, di’ un po’? Ti lasci canzonare cosí, sorridendo, da questi mascalzoni?

– Eh via! – disse don Paranza. – Non vedi che scherzano, tra compagni?

– E io non voglio! – rimbeccò Venerina, accesa di sdegno. – Scherzino tra loro, e non stupidamente, con un forestiere che non può loro rispondere per le rime.

 

Si sentiva, quasi quasi, messa in berlina anche lei. Il Cleen la guardava, e quegli sguardi fieri gli parevano vampate di passione per lui: gli piaceva quello sdegno; ma ogni qualvolta gli veniva di manifestarle ciò che sentiva o di confidarle qualcosa, gli pareva d’urtare contro un muro, e taceva e sorrideva, senza intendere che quella bontà sorridente, in certi casi, non poteva piacere a Venerina.

Era colpa sua, intanto, se gli altri erano maleducati? se egli ancora non poteva uscire per le strade, che subito una frotta di monellacci non lo attorniasse? Minacciava, e faceva peggio: quelli si sbandavano con grida e lazzi e rumori sguajati.

Venerina n’era furibonda.

– Storpiane qualcuno! Da’ una buona lezione! È possibile che tu debba diventare lo zimbello del paese?

– Bei consigli! – sbuffava don Pietro. – Invece di raccomandargli la prudenza!

– Con questi cani? Il bastone ci vuole, il bastone!

– Smetteranno, smetteranno, sta’ quieta, appena L’arso avrà imparato.

– Lars! – gridava Venerina, infuriandosi ora anche contro lo zio che chiamava a quel modo il fidanzato, come tutto il paese.

– Ma se è lo stesso! – sospirava, seccato, don Pietro, alzando le spalle.

– Càmbiati codesto nome! – ripigliava Venerina, esasperata, rivolta al Cleen. – Bel piacere sentirsi chiamare la moglie de L’arso!

– E non ti chiamano adesso la nipote di Don Paranza? che male c’è? Lui L’arso, e io, Paranza. Allegramente!

Non rideva piú, ora, Venerina nell’insegnare al fidanzato la propria lingua: certe bili anzi ci pigliava!

– Vedi? – gli diceva. – Si sa che ti burlano, se dici cosí! chiaro, chiaro! Ci vuol tanto, Maria Santissima?

 

Il povero Cleen – che poteva fare? – sorrideva, mansueto, e si provava a pronunziar meglio. Ma poi, dopo due giorni, doveva ripartire; e di quelle lezioni, cosí spesso interrotte, non riusciva a profittare quanto Venerina avrebbe desiderato.

– Sei come l’uovo, caro mio!

Questi dispettucci parevano puerili a don Pietro, condannato a far la guardia, e se ne infastidiva. La sua presenza intanto impacciava peggio il Cleen, che non arrivava ancora a comprendere perché ci fosse bisogno di lui: non era egli il fidanzato di Venerina? non poteva uscir solo con lei a passeggiare lassú, su l’altipiano, in campagna? Lo aveva proposto un giorno; ma dalla stessa Venerina si era sentito domandare:

– Sei pazzo?

– Perché?

– Qua i fidanzati non si lasciano soli, neppure per un momento.

– Ci vuole il lampione! – sbuffava don Pietro.

E il Cleen s’avviliva di tutte queste costrizioni, che gli ammiserivano lo spirito e lo intontivano. Cominciava a sentire una sorda irritazione, un segreto rodío, nel vedersi trattato, in quel paese, e considerato quasi come uno stupido, e temeva di istupidirsi davvero.

VII

Ma che non fosse stupido, lo sapeva bene padron Di Nica, dal modo con cui gli disimpegnava le commissioni e gli affari con quei ladri agenti di Tunisi e di Malta. Non voleva dirlo – al solito – non per negare il merito e la lode, ma per le conseguenze della lode, ecco.

Credette tuttavia di dimostrargli larga-mente quanto fosse contento di lui con l’accor-dargli dieci giorni di licenza, nell’occasione del matrimonio.

– Pochi, dieci giorni? Ma bastano, caro mio! – disse a don Pietro che se ne mostrava malcontento. – Vedrai, in dieci giorni, che bel figliuolo maschio ti mettono sú! Potrei al massimo concedere che, rimbarcandosi, si porti la sposa a Tunisi e a Malta; per un viaggetto di nozze. È giovane serio: mi fido. Ma non potrei di piú.

Spiritò alla proposta di don Pietro di far da testimonio nelle nozze.

– Non per quel buon giovine, capirai; ma se, Dio liberi, mi ci provassi una volta, non farei piú altro in vita mia. Niente, niente, caro Pietro! Manderò alla sposa un regaluccio, in considerazione della nostra antica amicizia, ma non lo dire a nessuno: mi raccomando!

Dal canto suo, la zia donna Rosolina si strizzò, si strizzò in petto il buon cuore che Dio le aveva dato e venne fuori con un altro regaluccio a Venerina: un pajo d’orecchini a pendaglio, del mille e cinque. Faceva però la finezza di offrire agli sposi, per quei dieci giorni di luna di miele, la sua campagna sotto il Monte Cioccafa.

– Purché, la mobilia, mi raccomando!

Camminavano sole quelle quattro seggiole sgangherate, a chiamarle col frullo delle dita, dai tanti tarli che le popolavano! E il tanfo di rinchiuso in quella decrepita stamberga, perduta tra gli alberi lassú, era insopportabile.

Subito Venerina, arrivata in carrozza con lo sposo, e i due zii, dopo la celebrazione del matrimonio, corse a spalancare tutti i balconi e le finestre.

– Le tende! I cortinaggi! – strillava donna Rosolina, provandosi a correr dietro l’impetuosa nipote.

– Lasci che prendano un po’ d’aria! Guardi guardi come respirano! Ah che delizia!

– Sí, ma, con la luce, perdono il colore.

– Non sono di broccato, zia!

 

Quell’oretta passata lassú con gli sposi fu un vero supplizio per donna Rosolina. Soffrí nel veder toccare questo o quell’oggetto, come se si fosse sentita strappare quei mezzi ricci unti di tintura che le virgolavano la fronte; soffrí nel vedere entrare coi pesanti scarponi ferrati la famiglia del garzone per porgere gli omaggi agli sposini.

Stava quel garzone a guardia del podere e abitava con la famiglia nel cortile acciottolato della villa, con la cisterna in mezzo, in una stanzaccia buja: casa e stalla insieme. Perplesso, se avesse fatto bene o male, recava in dono un paniere di frutta fresche.

Lars Cleen contemplava stupito quegli esseri umani che gli parevano d’un altro mondo, vestiti a quel modo, cosí anneriti dal sole. Gli parevano siffattamente strani e diversi da lui, che si meravigliava poi nel veder loro battere le pàlpebre, com’egli le batteva, e muovere le labbra, com’egli le moveva. Ma che dicevano?

Sorridendo, la moglie del garzone annunziava che uno dei cinque figliuoli, il secondo, aveva le febbri da due mesi e se ne stava lí, su lo strame, come un morticino.

– Non si riconosce piú, figlio mio!

Sorrideva, non perché non ne sentisse pena, ma per non mostrare la propria afflizione mentre i padroni erano in festa.

– Verrò a vederlo, – le promise Venerina.

Nonsi! Che dice, Voscenza? – esclamò angustiata la contadina. – Ci lasci stare, noi poveretti. Voscenza, goda. Che bello sposo! Ci crede che non ho il coraggio di guardarlo?

– E me? – domandò don Paranza. – Non sono bello io? E sono pure sposo, oh! di donna Rosolina. Due coppie!

– Zitto là! – gridò questa, sentendosi tutta rimescolare. – Non voglio che si dicano neppure per ischerzo, certe cose!

Venerina rideva come una matta.

– Sul serio! sul serio! – protestava don Pietro.

E insistette tanto su quel brutto scherzo, per far festa alla nipote, che la zitellona non volle tornarsene sola con lui, in carrozza, al paese. Ordinò al garzone che montasse in cassetta, accanto al cocchiere.

– Le male lingue… non si sa mai! con un mattaccio come voi.

– Ah, cara donna Rosolina! che ne volete piú di me, ormai? non posso farvi piú nulla io! – le disse don Pietro in carrozza, di ritorno, scotendo la testa e soffiando per il naso un gran sospiro, come se si sgonfiasse di tutta quell’allegria dimostrata alla nipote. – Vorrei aver fatto felice quella povera figliuola!

Gli pareva di aver raggiunto ormai lo scopo della sua lunga, travagliata, scombinata esistenza. Che gli restava piú da fare ormai? mettersi a disposizione della morte, con la coscienza tranquilla, sí, ma angosciata. Altri quattro giorni di noja… e poi, lí.

La carrozza passava vicino al camposanto, aereo su l’altipiano che rosseggiava nei fuochi del tramonto.

– Lí, e che ho concluso?

Donna Rosolina, accanto a lui, con le labbra appuntite e gli occhi fissi, acuti, si sforzava d’immaginare che cosa facessero in quel momento gli sposi, rimasti soli, e dominava le smanie da cui si sentiva prendere e che si traducevano in acre stizza contro quell’omaccio, ormai vecchio, che le stava a fianco. Si voltò a guardarlo, lo vide con gli occhi chiusi: credette che dormisse.

– Sú, sú, a momenti siamo arrivati.

Don Pietro riaprí gli occhi rossi di pianto contenuto, e brontolò:

– Lo so, sposina. Penso ai gronghi di questa sera. Chi me li cucina?

VIII

Superato il primo impaccio, vivissimo, della improvvisa intrinsechezza piú che ogni altra intima, con un uomo che le pareva ancora quasi piovuto dal cielo, Venerina prese a proteggere e a condurre per mano, come un bambino, il marito incantato dagli spettacoli che gli offriva la campagna, quella natura per lui cosí strana e quasi violenta.

Si fermava a contemplare a lungo certi tronchi enormi, stravolti, d’olivi, pieni di groppi, di sproni, di giunture storpie, nodose, e non rifiniva d’esclamare:

– Il sole! il sole! – come se in quei tronchi vedesse viva, impressa, tutta quella cocente rabbia solare, da cui si sentiva stordito e quasi ubriacato.

Lo vedeva da per tutto, il sole, e specialmente negli occhi e nelle labbra ardenti e succhiose di Venerina, che rideva di quelle sue meraviglie e lo trascinava via, per mostrargli altre cose che le parevano piú degne d’esser vedute: la grotta del Cioccafa, per esempio. Ma egli si arrestava, quando ella se l’aspettava meno, davanti a certe cose per lei cosí comuni.

– Ebbene, fichi d’India. Che stai a guardare?

Proprio un fanciullo le pareva, e gli scoppiava a ridere in faccia, dopo averlo guardato un po’, cosí allocchito per niente! e lo scoteva, gli soffiava sugli occhi, per rompere quello stupore che talvolta lo rendeva attonito.

– Svégliati! svégliati!

E allora egli sorrideva, l’abbracciava, e si lasciava condurre, abbandonato a lei, come un cieco.

Ricadeva sempre a parlarle, con le stesse frasi d’orrore, della famiglia del garzone, a cui entrambi avevano fatto la visita promessa. Non si poteva dar pace che quella gente abitasse lí, in quella stanzaccia, ch’era divenuta quasi una grotta fumida e fetida, e invano Venerina gli ripeteva:

– Ma se togli loro l’asino, il porcellino e le galline dalla camera, non vi possono piú dormire in pace. Devono star lí tutti insieme; fanno una famiglia sola.

– Orribile! orribile! – esclamava egli, agitando in aria le mani.

E quel povero ragazzo, lí, sul pagliericcio per terra, ingiallito dalle febbri continue e quasi ischeletrito? Lo curavano con certi loro decotti infallibili. Sarebbe guarito, come erano guariti gli altri. E, intanto, il poverino, che pena! se ne stava a rosicchiare, svogliato, un tozzo di pan nero.

– Non ci pensare! – gli diceva Venerina, che pur se ne affliggeva, ma non tanto, sapendo che la povera gente vive cosí. Credeva che dovesse saperlo anche lui, il marito, e perciò, nel vederlo cosí afflitto, sempre piú si raffermava nell’idea che egli fosse di una bontà non comune, quasi morbosa, e questo le dispiaceva.

Passarono presto quei dieci giorni in campagna. Ritornati in paese, Venerina accompagnò fino al vaporetto il marito, ma non volle imbarcarsi con lui per il viaggio di nozze concesso dal Di Nica.

Don Pietro ve la spingeva.

– Vedrai Tunisi, che quei cari nostri fratelli francesi, sempre aggraziati, ci hanno presa di furto. Vedrai Malta, dove tuo zio bestione andò a rovinarsi. Magari potessi venirci anch’io! Vedresti di che cuore mi schiaffeggerei, se m’incontrassi con me stesso per le vie de La Valletta, com’ero allora, giovane patriota imbecille.

No, no; Venerina non volle saperne: il mare le faceva paura, e poi si vergognava, in mezzo a tutti quegli uomini.

– E non sei con tuo marito? – insisteva don Pietro. -Tutte cosí, le nostre donne! Non debbono far mai piacere ai loro uomini. Tu che ne dici? – domandava al Cleen.

Non diceva nulla, lui: guardava Venerina col desiderio di averla con sé, ma non voleva che ella facesse un sacrifizio o che avesse veramente a soffrire del viaggio.

– Ho capito! – concluse don Paranza, – sei un gran babbalacchio!

 

Lars non comprese la parola siciliana dello zio, ma sorrise vedendo riderne tanto Venerina. E, poco dopo, partí solo.

Appena si fu allontanato dal porto, dopo gli ultimi saluti col fazzoletto alla sposa che agitava il suo dalla banchina del Molo e ormai quasi non si distingueva piú, egli provò istintivamente un gran sollievo, che pur lo rese piú triste, a pensarci. S’accorse ora, lí, solo davanti allo spettacolo del mare, d’aver sofferto in quei dieci giorni una grande oppressione nell’intimità pur tanto cara con la giovane sposa. Ora poteva pensare liberamente, espandere la propria anima, senza dover sforzare il cervello a indovinare, a intendere i pensieri, i sentimenti di quella creatura tanto diversa da lui e che tuttavia gli apparteneva cosí intimamente.

Si confortò sperando che col tempo si sarebbe adattato alle nuove condizioni d’esistenza, si sarebbe messo a pensare, a sentire come Venerina, o che questa, con l’affetto, con l’intimità sarebbe riuscita a trovar la via fino a lui per non lasciarlo piú solo, cosí, in quell’esilio angoscioso della mente e del cuore.

Venerina e lo zio, intanto, parlavano di lui nella nuova casetta, in cui anche don Pietro aveva preso stanza.

– Sí, – diceva lei, sorridendo, – è proprio come tu hai detto!

Babbalacchio? Minchione? – domandava don Balandra. – Va’ là, è buono, è buono…

– E buono che significa, zio? – osservava, sospirando, Venerina.

– Quest’è vero! – riconosceva don Pietro. – Infatti, i birbaccioni, oggi, si chiamano uomini accorti, e tuo zio per il primo li rispetta. Ma speriamo che l’aria del nostro mare, che dev’essere, sai, piú salato di quello del suo paese, gli giovi. Ho gran paura anch’io, però, che somigli troppo a me, quanto a giudizio.

Gli si era affezionato, lui, don Pietro, ma non si proponeva, neppure per curiosità, di cercar d’indovinare com’egli la pensasse, né gli veniva in mente di consigliarlo a Venerina.

– Vedrai, – anzi le diceva, – vedrai che a poco a poco prenderà gli usi del nostro paese. Testa, ne ha.

Prima di partire, il Cleen aveva suggerito a Venerina di non lasciar andar piú il vecchio zio alla pesca; ma don Pietro, non solo non volle saperne, ma anche s’arrabbiò:

– Non sapete piú che farvene adesso de’ miei gronghi? Bene, bene. Me li mangerò io solo.

– Non è per questo, zio! – esclamò Venerina.

– E allora volete farmi morire? – riprese don Paranza. – C’era ai miei tempi un povero contadino che aveva novantacinque anni, e ogni santa mattina saliva dalla campagna a Girgenti con una gran cesta d’erbaggi su le spalle, e andava tutto il giorno in giro per venderli. Lo videro cosí vecchio, ne sentirono pietà, pensarono di ricoverarlo all’ospedale e lo fecero morire dopo tre giorni. L’equilibrio, cara mia! Toltagli la cesta dalle spalle, quel poveretto perdette l’equilibrio e morí. Cosí io, se mi togliete la lenza. Gronghi han da essere: stasera e domani sera e fin che campo.

E se ne andava con gli attrezzi e col lanternino alla scogliera del porto.

Sola, Venerina, si metteva anche a pensare al marito lontano. Lo aspettava con ansia, sí, in quei primi giorni; ma non sapeva neppur desiderarlo altrimenti che cosí; due giorni in casa e il resto della settimana fuori; due giorni con lui, e il resto della settimana, sola, ad aspettare ogni sera che lo zio tornasse dalla pesca; e poi, la cena; e poi, a letto, sí, sola. Si contentava? No. Neppure lei, cosí. Troppo poco… E restava a lungo assorta in una segreta aspettazione, che pure le ispirava una certa ambascia, quasi di sgomento.

– Quando?

 

IX

– Ih, che prescia! – esclamò don Paranza, appena si accorse delle prime nausee, dei primi capogiri. – Lo previde quel boja d’Agostino! Di’ un po’, hai avuto paura che tuo zio non ci arrivasse a sentire la bella musica del gattino?

– Zio! – gli gridò Venerina, offesa e sorridente.

Era felice: le era venuto il da fare, in quelle lunghe sere nella casa sola: cuffiette, bavaglini, fasce, camicine… – e non le sere soltanto. Non ebbe piú tempo né voglia di curarsi di sé, tutta in pensiero già per l’angioletto che sarebbe venuto, – dal cielo, zia Rosolina! dal cielo! – gridava alla zitellona pudibonda, abbracciandola con furia e scombinandola tutta.

– E me lo terrà lei a battesimo, lei e zio Pietro!

Donna Rosolina apriva e chiudeva gli occhi, mandava giú saliva, con l’angoscia nel naso, fra le strette di quella santa figliuola che pareva impazzita e non aveva nessun riguardo per tutti i suoi cerotti.

– Piano piano, sí, volentieri. Purché gli mettiate un nome cristiano. Io non lo so ancora chiamare tuo marito.

– Lo chiami L’arso, come lo chiamano tutti! – le rispondeva ridendo Venerina. – Non me n’importa piú, adesso!

Non le importava piú di niente, ora: non s’acconciava neppure pochino, quand’egli doveva arrivare.

– Rifatti un po’ i capelli, almeno! – le consigliava donna Rosolina. – Non stai bene, cosí.

– Ormai! Chi n’ha avuto, n’ha avuto. Cosí, se mi vuole! E se non mi vuole, mi lasci in pace: tanto meglio!

Era cosí esclusiva la gioja di quella sua nuova attesa, che il Cleen non si sentiva chiamato a parteciparne, come di gioja anche sua: si sentiva lasciato da parte, e n’era lieto soltanto per lei, quasi che il figlio nascituro non dovesse appartenere anche a lui, nato lí in quel paese non suo, da quella madre che non si curava neppure di sapere quel che egli ne sentisse e ne pensasse.

Lei aveva già trovato il suo posto nella vita: aveva la sua casetta, il marito; tra breve avrebbe avuto anche il figlio desiderato; e non pensava che lui, straniero, era sul principio di quella sua nuova esistenza e aspettava che ella gli tendesse la mano per guidarlo. Noncurante, o ignara, lei lo lasciava lí, alla soglia, escluso, smarrito.

E ripartiva, e lontano, per quel mare, su quel guscio di noce, si sentiva sempre piú solo e piú angosciato. I compagni, nel vederlo cosí triste, non lo deridevano piú come prima, è vero, ma non si curavano di lui, proprio come se non ci fosse: nessuno gli domandava: – Che hai? – Era il forestiere. Chi sa com’era fatto e perché era cosí!

Non se ne sarebbe afflitto tanto, egli, se anche a casa sua, come lí sul vaporetto, non si fosse sentito estraneo. Casa sua? Questa, in quel borgo di Sicilia? No, no! Il cuore gli volava ancora lontano, lassú, al paese natale, alla casa antica, ove sua madre era morta, ove abitava la sorella, che forse in quel punto pensava a lui e forse lo credeva felice.

X

Una speranza ancora resisteva in lui, ultimo argine, ultimo riparo contro la malinconia che lo invadeva e lo soffocava: che si vedesse, che si riconoscesse nel suo bambino appena nato e si sentisse in lui, e con lui, lí, in quella terra d’esilio, meno solo, non piú solo.

Ma anche questa speranza gli venne subito meno, appena guardato il figlioletto, nato da due giorni, durante la sua assenza. Somigliava tutto alla madre.

– Nero, nero, povero ninno mio! Sicilianaccio – gli disse Venerina dal letto, mentre egli lo contemplava deluso, nella cuna. – Richiudi la cortina. Me lo farai svegliare. Non m’ha fatto dormire tutta la notte, poverino: ha le dogliette. Ora riposa, e io vorrei profittarne.

Il Cleen baciò in fronte, commosso, la moglie; riaccostò gli scuri e uscí dalla camera in punta di piedi. Appena solo, si premette le mani sul volto e soffocò il pianto irrompente.

Che sperava? Un segno, almeno un segno in quell’esseruccio, nel colore degli occhi, nella prima peluria del capo, che lo palesasse suo, straniero anche lui, e che gli richiamasse il suo paese lontano. Che sperava? Quand’anche, quand’anche, non sarebbe forse cresciuto lí, come tutti gli altri ragazzi del paese, sotto quel sole cocente, con quelle abitudini di vita, alle quali egli si sentiva estraneo, allevato quasi soltanto dalla madre e perciò con gli stessi pensieri, con gli stessi sentimenti di lei? Che sperava? Straniero, straniero anche per suo figlio.

Ora, nei due giorni che passava in casa, cercava di nascondere il suo animo; né gli riusciva difficile, poiché nessuno badava a lui: don Pietro se n’andava al solito alla pesca, e Venerina era tutta intenta al bambino, che non gli lasciava neppur toccare:

– Me lo fai piangere… Non sai tenerlo! Via, via, esci un po’ di casa. Che stai a guardarmi? Vedi come mi sono ridotta? Sú, va’ a fare una visita alla zia Rosolina, che non viene da tre giorni. Forse vuol fatta davvero la corte, come dice zio Pietro.

Ci andò una volta il Cleen, per far piacere alla moglie, ma ebbe dalla zitellona tale accoglienza, che giurò di non ritornarci piú, né solo né accompagnato.

– Solo, gnornò, – gli disse donna Rosolina, vergognosa e stizzita, con gli occhi bassi. – Mi dispiace, ma debbo dirvelo. Nipote, capisco; siete mio nipote, ma la gente vi sa forestiere, con certi costumi curiosi, e chi sa che cosa può sospettare. Solo, gnornò. Verrò io piú tardi a casa vostra, se non volete venire qua con Venerina.

Si vide, cosí, messo alla porta, e non seppe, né poté riderne, come Venerina, quand’egli le raccontò l’avventura. Ma se ella sapeva che quella vecchia era cosí fastidiosamente matta, perché spingerlo a fargli fare quella ridicola figura? voleva forse ridere anche lei alle sue spalle?

– Non hai trovato ancora un amico? – gli domandava Venerina.

– No.

– È difficile, lo so: siamo orsi, caro mio! Tu poi sei cosí, ancora come una mosca senza capo. Non ti vuoi svegliare? Va’ a trovare lo zio, almeno: sta al porto. Tra voi uomini, v’intenderete. Io sono donna, e non posso tenerti conversazione: ho tanto da fare!

Egli la guardava, la guardava, e gli veniva di domandarle: «Non mi ami piú?» – Venerina, sentendo che non si moveva, alzava gli occhi dal cucito, lo vedeva con quell’aria smarrita e rompeva in una gaja risata:

– Che vuoi da me? Un omaccione tanto, che se ne sta in casa come un ragazzino, Dio benedetto! Impara un po’ a vivere come i nostri uomini: piú fuori che dentro. Non posso vederti cosí. Mi fai rabbia e pena.

Fuori non lo vedeva. Ma dall’aria triste, con cui egli si disponeva a uscire, cacciato cosí di casa, come un cane caduto in disgrazia, avrebbe potuto argomentare come egli si trascinasse per le vie del paese, in cui la sorte lo aveva gettato, e che egli già odiava.

Non sapendo dove andare, si recava all’agenzia del Di Nica. Trovava ogni volta il vecchio dietro gli scritturali, col collo allungato e gli occhiali su la punta del naso, per vedere che cosa essi scrivessero nei registri. Non perché diffidasse, ma, chi sa! si fa presto, per una momentanea distrazione, a scrivere una cifra per un’altra, a sbagliare una somma; e poi, per osservare la calligrafia, ecco. La calligrafia era il suo debole: voleva i registri puliti. Intanto in quella stanzetta umida e buja, a pian terreno, certi giorni, alle quattro, ci si vedeva a mala pena: si dovevano accendere i lumi.

– È una vergogna, padron Di Nica! Con tanti bei denari…

– Quali denari? – domandava il Di Nica. – Se me li date voi! E poi, niente! Qua ho cominciato! qua voglio finire.

Vedendo entrare il Cleen, si angustiava:

– E mo’? E mo’? E mo’?

Gli andava incontro, col capo reclinato indietro per poter guardare attraverso gli occhiali insellati su la punta del naso, e diceva:

– Che cosa volete, figlio mio? Niente? E allora, prendetevi una seggiola, e sedete là, fuori della porta.

Temeva che gli scritturali si distraessero davvero, e poi non voleva che colui sapesse gli affari dell’agenzia prima del viaggio.

Il Cleen sedeva un po’ lí, su la porta. Nessuno, dunque, lo voleva? Già egli non portava piú il berretto di pelo; era vestito come tutti gli altri; eppure, ecco, la gente si voltava a osservarlo, quasi che egli si tenesse esposto lí, davanti all’agenzia; e a un tratto si vedeva girar innanzi su le mani e sui piedi, a ruota, un monellaccio, che per quella bravura da pagliaccetto gli chiedeva poi un soldo; e tutti ridevano.

– Che c’è? che c’è? – gridava padron Di Nica, facendosi alla porta. – Teatrino? Marionette?

I monellacci si sbandavano urlando, fischiando.

– Caro mio, – diceva allora il Di Nica al Cleen, – voi lo capite, sono selvaggi. Andatevene; fatemi questo piacere.

 

E il Cleen se ne andava. Anche quel vecchio, con la sua tirchieria diffidente, gli era venuto in uggia. Si recava su la spiaggia, tutta ingombra di zolfo accatastato, e con un senso profondo d’amarezza e di disgusto assisteva alla fatica bestiale di tutta quella gente, sotto la vampa del sole. Perché, coi tesori che si ricavavano da quel traffico, non si pensava a far lavorare piú umanamente tutti quegli infelici ridotti peggio delle bestie da soma? Perché non si pensava a costruire le banchine su le due scogliere del nuovo porto, dove si ancoravano i vapori mercantili? Da quelle banchine non si sarebbe fatto piú presto l’imbarco dello zolfo, coi carri o coi vagoncini?

– Non ti scappi mai di bocca una parola su questo argomento! – gli raccomandò don Paranza, una sera, dopo cena. – Vuoi finire come Gesú Cristo? Tutti i ricchi del paese hanno interesse che le banchine non siano costruite, perché sono i proprietarii delle spigonare, che portano lo zolfo dalla spiaggia sui vapori. Bada, sai! Ti mettono in croce.

Sí, e intanto su la spiaggia nuda, tra i depositi di zolfo, correvano scoperte le fogne, che appestavano il paese; e tutti si lamentavano e nessuno badava a provveder d’acqua sufficiente il paese assetato. A che serviva tutto quel denaro con tanto accanimento guadagnato? Chi se ne giovava? Tutti ricchi e tutti poveri! Non un teatro, né un luogo o un mezzo di onesto svago, dopo tanto e cosí enorme lavoro. Appena sera, il paese pareva morto, vegliato da quei quattro lampioncini a petrolio. E pareva che gli uomini, tra le brighe continue e le diffidenze di quella guerra di lucro, non avessero neanche tempo di badare all’amore, se le donne si mostravano cosí svogliate, neghittose. Il marito era fatto per lavorare: la moglie per badare alla casa e far figliuoli.

– Qua? – pensava il Cleen, – qua, tutta la vita?

E si sentiva stringere la gola sempre piú da un nodo di pianto.

 

XI

– L’Hammerfest! arriva l’Hammerfest! – corse ad annunziare a Venerina don Paranza, tutto ansante. – Ho l’avviso, guarda: arriverà oggi! E L’arso è partito. Porco diavolo! Chi sa se farà a tempo a rivedere il cognato e gli amici!

Scappò dal Di Nica, con l’avviso in mano:

– Agostino, l’Hammerfest!

Il Di Nica lo guardò, come se lo credesse ammattito.

– Chi è? Non lo conosco!

– Il vapore di mio nipote.

– E che vuoi da me? Salutamelo!

Si mise a ridere, con gli occhi chiusi, d’una sua speciale risatina nel naso, sentendo le bestialità che scappavano a don Pietro nel tumultuoso dispiacere che gli cagionava quel contrattempo.

– Se si potesse…

– Eh già! – gli rispose il Di Nica. – Detto fatto. Ora telegrafo a Tunisi, e lo faccio tornare a rotta di collo. Non dubitare.

– Sempre grazioso sei stato! – gli gridò don Paranza, lasciandolo in asso. – Quanto ti voglio bene!

E tornò a casa, a pararsi, per la visita a bordo. Su l’Hammerfest, appena entrato in porto, fu accolto con gran festa da tutti i marinai compagni del Cleen. Egli, che per gli affari del vice-consolato se la sbrigava con quattro frasucce solite, dovette quella volta violentare orribilmente la sua immaginaria conoscenza della lingua francese, per rispondere a tutte le domande che gli venivano rivolte a tempesta sul Cleen; e ridusse in uno stato compassionevole la sua povera camicia inamidata, tanto sudò per lo stento di far comprendere a quei diavoli che egli propriamente non era il suocero de L’arso, perché la sposa di lui non era propriamente sua figlia, quantunque come figlia la avesse allevata fin da bambina.

Non lo capirono, o non vollero capirlo. – Beau-père! Beau-père!

– E va bene! – esclamava don Paranza. – Sono diventato beau-père!

Non sarebbe stato niente se, in qualità di beau-père, non avessero voluto ubriacarlo, nonostante le sue vivaci proteste:

Je ne bois pas de vin.

Non era vino. Chi sa che diavolo gli avevano messo in corpo. Si sentiva avvampare. E che enorme fatica per far entrare in testa a tutto l’equipaggio che voleva assolutamente conoscere la sposina, che non era possibile, cosí, tutti insieme!

– Il solo beau-frère! il solo beau-frère! Dov’è? Vous seulement! Venez! venez!

E se lo condusse in casa. Il cognato non sapeva ancora della nascita del bambino: aveva recato soltanto alla sposa alcuni doni, per incarico della moglie lontana. Era dispiacentissimo di non poter riabbracciare Lars. Fra tre giorni l’Hammerfest doveva ripartire per Marsiglia.

Venerina non poté scambiare una parola con quel giovine dalla statura gigantesca, che le richiamò vivissimo alla memoria il giorno che Lars era stato portato su la barella, moribondo, nell’altra casa dello zio. Sí, a lui ella aveva recato l’occorrente per scrivere quella lettera all’abbandonato; da lui aveva ricevuto la borsetta, e per averlo veduto piangere a quel modo ella s’era presa tanta cura del povero infermo. E ora, ora Lars era suo marito, e quel colosso biondo e sorridente, chino su la culla, suo parente, suo cognato. Volle che lo zio le ripetesse in siciliano ciò che egli diceva per il piccino.

– Dice che somiglia a te, – rispose don Paranza. – Ma non ci credere, sai: somiglia a me, invece.

Con quella porcheria che gli avevano cacciato nello stomaco, a bordo, se lo lasciò scappare, don Paranza. Non voleva mostrare il tenerissimo affetto che gli era nato per quel bimbo, ch’egli chiamava gattino. Venerina si mise a ridere.

– Zio, e che dice adesso? – gli domandò poco dopo, sentendo parlare lo straniero, suo cognato.

– Abbi pazienza, figlia mia! – sbuffò don Paranza. -Non posso attendere a tutt’e due… Ah, OuiL’arso, sí. Dommage! che rabbia, dice… Eh! certo, non sarà possibile vederlo… se il capitano, capisci?… Già! già! oui… Engagement… impegni commerciali, capisci! Il vapore non può aspettare.

Eppure quest’ultimo strazio non fu risparmiato al Cleen. Per un ritardo nell’arrivo delle polizze di carico, l’Hammerfest dovette rimandare d’un giorno la partenza. Si disponeva già a salpare da Porto Empedocle, quando il vaporetto del Di Nica entrò nel Molo.

Lars Cleen si precipitò su una lancia, e volò a bordo del suo piroscafo, col cuore in tumulto. Non ragionava piú! Ah, partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in patria, lí, sul suo piroscafo – eccolo! grande! bello! – fuggire da quell’esilio, da quella morte! – Si buttò tra le braccia del cognato, se lo strinse a sé fin quasi a soffocarlo, scoppiando irresistibilmente in un pianto dirotto.

Ma quando i compagni intorno gli chiesero, costernati, la cagione di quel pianto convulso, egli rientrò in sé, mentí, disse che piangeva soltanto per la gioja di rivederli.

Solo il cognato non gli chiese nulla: gli lesse negli occhi la disperazione, il violento proposito con cui era volato a bordo, e lo guardò per fargli intendere che egli aveva compreso. Non c’era tempo da perdere: sonava già la campana per dare il segno della partenza.

Poco dopo Lars Cleen dalla lancia vedeva uscire dal porto l’Hammerfest e lo salutava col fazzoletto bagnato di lagrime, mentre altre lagrime gli sgorgavano dagli occhi, senza fine. Comandò al barcajolo di remare fino all’uscita del porto per poter vedere liberamente il piroscafo allontanarsi man mano nel mare sconfinato, e allontanarsi con lui la sua patria, la sua anima, la sua vita. Eccolo, piú lontano… piú lontano ancora… spariva…

– Torniamo? – gli domandò, sbadigliando, il barcaiolo.

Egli accennò di sí, col capo.   

5. 9  La Fede

In quell’umile cameretta di prete piena di luce e di pace, coi vecchi mattoni di Valenza che qua e là avevano perduto lo smalto e sui quali si allungava quieto e vaporante in un pulviscolo d’oro il rettangolo di sole della finestra con l’ombra precisa delle tendine trapunte e lí come stampate e perfino quella della gabbiola verde che pendeva dal palchetto col canarino che vi saltellava dentro, un odore di pane tratto ora dal forno giú nel cortiletto era venuto ad alitare caldo e a fondersi con quello umido dell’incenso della chiesetta vicina e quello acuto dei mazzetti di spigo tra la biancheria dell’antico canterano.

Pareva che ormai non potesse avvenire piú nulla in quella cameretta. Immobile, quella luce di sole; immobile, quella pace; come, ad affacciarsi alla finestra, immobili giú tra i ciottoli grigi del cortiletto i fili di erba, i fili di paglia caduti dalla mangiatoja sotto il tettuccio in un angolo, dalle tegole sanguigne e coi tanti sassolini scivolati dalla ripa che si stendeva scabra lassú.

Dentro, le piccole antiche sedie verniciate di nero, pulite pulite, di qua e di là dal canterano, avevano tutte una crocettina argentata sulla spalliera, che dava loro un’aria di monacelle attempate, contente di starsene lí ben custodite, al riparo, non toccate mai da nessuno; e con piacere pareva stessero a guardare il modesto lettino di ferro del prete, che aveva a capezzale, su la parete imbiancata, una croce nera col vecchio Crocefisso d’avorio, gracile e ingiallito.

Ma soprattutto un grosso Bambino Gesú di cera in un cestello imbottito di seta celeste, sul canterano, riparato dalle mosche da un tenue velo anche esso celeste, pareva profittasse del silenzio, in quella luce di sole, per dormire con una manina sotto la guancia paffuta il suo roseo sonno tra quegli odori misti d’incenso, di spigo e di caldo pane di casa.

Dormiva anche, su la poltroncina di juta a piè del letto, col capo calvo, incartapecorito, reclinato indietro penosamente sulla spalliera, don Pietro. Ma era un sonno ben diverso, il suo. Sonno a bocca aperta, di vecchio stanco e malato. Le palpebre esili pareva non avessero piú forza neanche di chiudersi sui duri globi dolenti degli occhi appannati. Le narici s’affilavano nello stento sibilante del respiro irregolare che palesava l’infermità del cuore.

Il viso giallo, scavato, aguzzo, aveva assunto in quel sonno, e pareva a tradimento, un’espressione cattiva e sguajata, come se, nella momentanea assenza, il corpo volesse vendicarsi dello spirito che per tanti anni con l’austera volontà lo aveva martoriato e ridotto in servitú, cosí disperatamente estenuato e miserabile. Con quello sguajato abbandono, con quel filo di bava che pendeva dal labbro cadente, voleva dimostrare che non ne poteva piú. E quasi oscenamente rappresentava la sua sofferenza di bestia.

Don Angelino, entrato di furia nella cameretta, s’era subito arrestato e poi era venuto avanti in punta di piedi. Ora da una decina di minuti stava a contemplare il dormente, in silenzio, ma con un’angoscia che di punto in punto, esasperandosi, gli si cangiava in rabbia; per cui apriva e serrava le mani fino ad affondarsi le unghie nella carne. Avrebbe voluto gridare per svegliarlo:

– Ho deciso, don Pietro: mi spoglio!

Ma si sforzava di trattenere perfino il respiro per paura che, svegliandosi, quel santo vecchio se lo trovasse davanti all’improvviso con quell’angoscia rabbiosa che certo doveva trasparirgli dagli occhi e da tutto il viso disgustato; e anzi aveva la tentazione di far saltare con una manata fuori della finestra quella gabbiola che pendeva dal palchetto, tanta irritazione gli cagionava, nella paura che il vecchio si svegliasse, il raspío delle zampine di quel canarino su lo zinco del fondo.

Il giorno avanti, per piú di quattr’ore, andando sú e giú per quella cameretta, dimenandosi, storcendosi tutto, come per staccare e respingere dal contatto col suo corpicciuolo ribelle l’abito talare, e movendo sott’esso le gambe come se volesse prenderlo a calci, aveva discusso accanitamente con don Pietro sulla risoluzione d’abbandonare il sacerdozio, non perché avesse perduto la fede, no, ma perché con gli studii e la meditazione era sinceramente convinto d’averne acquistata un’altra piú viva e piú libera, per cui ormai non poteva accettare né sopportare i dommi, i vincoli, le mortificazioni che l’antica gli imponeva. La discussione s’era fatta, da parte sua soltanto, sempre piú violenta, non tanto per le risposte che gli aveva dato don Pietro, quanto per un dispetto man mano crescente contro se stesso, per il bisogno che aveva sentito, invincibile e assurdo, d’andarsi a confidare con quel santo vecchio, già suo primo precettore e poi confessore per tanti anni, pur riconoscendolo incapace d’intendere i suoi tormenti, la sua angoscia, la sua disperazione.

E infatti don Pietro lo aveva lasciato sfogare, socchiudendo ogni tanto gli occhi e accennando con le labbra bianche un lieve sorrisino, a cui non parevano neppure piú adatte quelle sue labbra, un sorrisino bonariamente ironico, o mormorando, senza sdegno, con indulgenza:

– Vanità… vanità..

Un’altra fede? Ma quale, se non ce n’è che una? Piú viva? piú libera? Ecco appunto dov’era la vanità; e se ne sarebbe accorto bene quando, caduto quell’impeto giovanile, spento quel fervore diabolico, intepidito il sangue nelle vene, non avrebbe piú avuto tutto quel fuoco negli occhietti arditi e, coi capelli canuti o calvo, non sarebbe stato piú cosí bellino e fiero. Insomma, lo aveva trattato come un ragazzo, ecco, un buon ragazzo che sicuramente non avrebbe fatto lo scandalo che minacciava, anche in considerazione del cordoglio che avrebbe cagionato alla sua vecchia mamma, che aveva fatto tanti sacrifizii per lui.

E veramente, al ricordo della mamma, di nuovo ora don Angelino si sentí salire le lagrime agli occhi. Ma intanto, proprio per lei, proprio per la sua vecchia mamma era venuto a quella risoluzione; per non ingannarla piú; e anche per lo strazio che gli dava il vedersi venerato da lei come un piccolo santo. Che crudeltà, che crudeltà di spettacolo, quel sonno di vecchio! Era pure nella miseria infinita di quel corpo stremato in abbandono la dimostrazione piú chiara delle verità nuove che gli s’erano rivelate.

Ma in quel punto si schiuse l’uscio della cameretta ed entrò la vecchia sorella di don Pietro, piccola, cerea, vestita di nero, con un fazzoletto nero di lana in capo, piú curva e piú tremula del fratello. Parve a don Angelino che – chiamata dalle sue lagrime – entrasse nella cameretta la sua mamma, piccola, cerea e vestita di nero come quella. E alzò gli occhi a guardarla, quasi con sgomento, senza comprendere in prima il cenno con cui gli domandava:

– Che fa, dorme?

Don Angelino fece di sí col capo.

– E tu perché piangi?

Ma ecco che il vecchio schiude gli occhi imbambolati e con la bocca ancora aperta solleva il capo dalla spalliera della poltroncina.

– Ah, tu Angelino? che c’è?

La sorella gli s’accostò e, curvandosi sulla poltrona, gli disse piano qualche parola all’orecchio. Allora don Pietro si alzò a stento e, strascicando i piedi, venne a posare una mano sulla spalla di don Angelino, e gli domandò:

– Vuoi farmi una grazia, figliuolo mio? È arrivata dalla campagna una povera vecchia, che chiede di me. Vedi che mi reggo appena in piedi. Vorresti andare in vece mia? È giú in sagrestia. Puoi scendere di qua, dalla scaletta interna. Va’, va’, che tu sei sempre il mio buon figliuolo. E Dio ti benedica!

Don Angelino, senza dir nulla, andò. Forse non aveva neanche compreso bene. Per la scaletta interna della cura, buja, angustissima, a chiocciola, si fermò; appoggiò il capo alla mano che, scendendo, faceva scorrere lungo il muro, e si rimise a piangere, come un bambino. Un pianto che gli bruciava gli occhi e lo strozzava. Pianto d’avvilimento, pianto di rabbia e di pietà insieme. Quando alla fine giunse alla sagrestia, si sentí improvvisamente come alienato da tutto. La sagrestia gli parve un’altra, come se vi entrasse per la prima volta. Frigida, squallida e luminosa. E trovandovi seduta la vecchia, quasi non comprese che cosa vi stesse ad aspettare, e quasi non gli parve vera.

Era una decrepita contadina, tutta infagottata e lercia, dalle pàlpebre sanguigne orribilmente arrovesciate. Biasciando, faceva di continuo balzare il mento aguzzo fin sotto il naso. Reggeva in una mano due galletti per le zampe, e mostrava nel palmo dell’altra mano tre lire d’argento, chi sa da quanto tempo conservate. Per terra, davanti ai piedi imbarcati in due logore enormi scarpacce da uomo, aveva una sudicia bisaccia piena di mandorle secche e di noci.

Don Angelino la guatò con ribrezzo.

– Che volete?

La vecchia, sforzandosi di sbirciarlo, barbugliò qualcosa con la lingua imbrogliata entro le gote flosce e cave, tra e gengive sdentate.

– Come dite? Non sento. Vi chiamate zia Croce?

Sí, zia Croce. Era la zia Croce. Don Pietro la conosceva bene. La zia Croce Scoma; che il marito le era morto tant’anni fa, nel fiume di Naro, annegato. Veniva a piedi, con quella bisaccia sulle spalle, dalle pianure del Cannatello. Piú di sette miglia di cammino. E con quell’offerta di due galletti e di quella bisaccia di mandorle e di noci e con le tre lire della messa doveva placare (don Pietro lo sapeva) San Calògero, il santo di tutte le grazie, che le aveva fatto guarire il figlio d’una malattia mortale. Appena guarito, però, quel figlio se n’era andato in America. Le aveva promesso che di là le avrebbe scritto e mandato ogni mese tanto da mantenersi. Erano passati sedici mesi; non ne aveva piú notizia; non sapeva neppure se fosse vivo o morto. Lo avesse almeno saputo vivo, pazienza per lei, se non le mandava niente. Neanche un rigo di lettera! Niente. Ma ora tutti in campagna le avevano detto che questo dipendeva perché lei, appena guarito il figlio, non aveva adempiuto il voto a San Calògero. E certo doveva essere cosí: lo riconosceva anche lei. Il voto però non lo aveva adempiuto (don Pietro lo sapeva) perché s’era spogliata di tutto per quella malattia del figlio e le erano rimasti appena gli occhi per piangere: piangere sangue! ecco, sangue! Poi, andato via il figlio, vecchia com’era e senz’ajuto di nessuno, come trovare da mettere insieme l’offerta e quelle tre lire della messa, se guadagnava appena tanto ogni giorno da non morire di fame? Sedici mesi le ci eran voluti, e con quali stenti, Dio solo lo sapeva! Ma ora, ecco qua i due galletti, ed ecco le tre lire e le mandorle e le noci. San Calògero misericordioso si sarebbe placato e tra poco, senza dubbio, le sarebbe arrivata dall’America la notizia che il figlio era vivo e prosperava.

Don Angelino, mentre la vecchia parlava cosí, andava sú e giú per la sagrestia, volgendo di qua e di là occhiate feroci e aprendo e chiudendo le mani, perché aveva la tentazione d’afferrare per le spalle quella vecchia e scrollarla furiosamente, urlandole in faccia:

– Questa è la tua fede?

Ma no: altri, altri, non quella povera vecchia; altri, i suoi colleghi sacerdoti avrebbe voluto afferrare per le spalle e scrollare, i suoi colleghi sacerdoti che tenevano in quell’abiezione di fede tanta povera gente, e su quell’abiezione facevano bottega. Ah Dio, come potevano prendersi per una messa le tre lire di quella vecchia, i galletti, le mandorle e le noci?

– Riprendete codesta bisaccia e andatevene! – le gridò, tutto fremente.

 

Quella lo guardò, sbalordita.

– Potete andarvene, ve lo dico io! – aggiunse don Angelino, infuriandosi vieppiú. – San Calògero non ha bisogno né di galletti né di fichi secchi! Se vostro figlio ha da scrivervi, state sicura che vi scriverà. Quanto alla messa, vi dico che don Pietro è malato. Andatevene! andatevene!

Come intronata da quelle parole furiose, la vecchia gli domandò:

– Ma che dice? Non ha capito che questo è un voto? È un voto!

E c’era nella parola, pur ferma, un tale sbalordimento per l’incomprensione di lui, quasi incredibile, che don Angelino fu costretto a fermarvi l’attenzione. Pensò ch’era lí in vece di don Pietro, e si frenò. Con parole meno furiose cercò di persuadere la vecchia a riportarsi i galletti e le mandorle e le noci, e le disse che, quanto alla messa, ecco, se proprio la voleva, magari gliel’avrebbe detta lui, invece di don Pietro, ma a patto che lei si tenesse le tre lire.

La vecchia tornò a guardarlo, quasi atterrita, e ripeté:

– Ma come! Che dice? E allora che voto è? Se non do quello che ho promesso, che vale? Ma scusi, a chi parlo? Non parlo forse a un sacerdote? E perché allora mi tratta cosí? O che forse crede che non do a San Calògero miracoloso con tutto il cuore quello che gli ho promesso? Oh Dio! oh Dio! Forse perché le ho parlato di quanto ho penato per raccoglierlo?

E cosí dicendo, si mise a piangere perdutamente, con quegli orribili occhi insanguati.

 

Commosso e pieno di rimorso per quel pianto, don Angelino si pentí della sua durezza, sopraffatto all’improvviso da un rispetto, che quasi lo avviliva di vergogna, per quella vecchia che piangeva innanzi a lui per la sua fede offesa. Le s’accostò, la confortò, le disse che non aveva pensato quello che lei sospettava, e che lasciasse lí tutto; anche le tre lire, sí; e intanto entrasse in chiesa, che or ora le avrebbe detto la messa.

Chiamò il sagrestano; corse al lavabo; e mentre quello lo ajutava a pararsi, pensò che avrebbe trovato modo di ridare alla vecchia, dopo la messa, le tre lire e i galletti e quell’altra offerta della bisaccia. Ma ecco, questa carità perché avesse il valore che potesse renderla accetta a quella povera vecchia, non richiedeva forse qualcosa ch’egli non sentiva piú d’avere in sé? Che carità sarebbe stata il prezzo d’una messa, se per tutti gli stenti e i sacrifizii durati da quella vecchia per adempiere il voto, egli non avesse celebrato quella messa col piú sincero e acceso fervore? Una finzione indegna, per una elemosina di tre lire?

E don Angelino, già parato, col calice in mano, si fermò un istante, incerto e oppresso d’angoscia, su la soglia della sagrestia a guardare nella chiesetta deserta; se gli conveniva, cosí senza fede, salire all’altare. Ma vide davanti a quell’altare prosternata con la fronte a terra la vecchia, e si sentí come da un respiro non suo sollevare tutto il petto, e fendere la schiena da un brivido nuovo. O perché se l’era immaginata bella e radiosa come un sole, finora, la fede? Eccola lí, eccola lí, nella miseria di quel dolore inginocchiato, nella squallida angustia di quella paura prosternata, la fede!

E don Angelino salí come sospinto all’altare, esaltato di tanta carità, che le mani gli tremavano e tutta l’anima gli tremava, come la prima volta che vi si era accostato.

E per quella fede pregò, a occhi chiusi, entrando nell’anima di quella vecchia come in un oscuro e angusto tempio, dov’essa ardeva; pregò il Dio di quel tempio, qual esso era, quale poteva essere: unico bene, comunque, conforto unico per quella miseria.

E finita la messa, si tenne l’offerta e le tre lire, per non scemare con una piccola carità la carità grande di quella fede.

5.10  Con altri occhi

Dall’ampia finestra, aperta sul giardinetto pensile della casa, si vedeva come posato sull’azzurro vivo della fresca mattina un ramo di mandorlo fiorito, e si udiva, misto al ròco quatto chioccolío della vaschetta in mezzo al giardino, lo scampanío festivo delle chiese lontane e il garrire delle rondini ebbre d’aria e di sole.

Nel ritirarsi dalla finestra sospirando, Anna s’accorse che il marito quella mattina s’era dimenticato di guastare il letto, come soleva ogni volta, perché i servi non s’avvedessero che non s’era coricato in camera sua. Poggiò allora i gomiti sul letto non toccato, poi vi si stese con tutto il busto, piegando il bel capo biondo su i guanciali e socchiudendo gli occhi, come per assaporare nella freschezza del lino i sonni che egli soleva dormirvi. Uno stormo di rondini sbalestrate guizzarono strillando davanti alla finestra.

– Meglio se ti fossi coricato qui, – mormorò tra sé, e si rialzò stanca.

 

Il marito doveva partire quella sera stessa, ed ella era entrata nella camera di lui per preparargli l’occorrente per il viaggio.

Nell’aprire l’armadio, sentí come uno squittío nel cassetto interno e subito si ritrasse, impaurita. Tolse da un angolo della camera un bastone dal manico ricurvo e, tenendosi stretta alle gambe la veste, prese il bastone per la punta e si provò ad aprire con esso, cosí discosta, il cassetto. Ma, nel tirare, invece del cassetto, venne fuori agevolmente dal bastone una lucida lama insidiosa. Non se l’aspettava; n’ebbe ribrezzo e si lasciò cadere di mano il fodero dello stocco.

In quel punto, un altro squittío la fece voltare di scatto, in dubbio se anche il primo fosse partito da qualche rondine sguizzante davanti la finestra.

Scostò con un piede l’arma sguainata e trasse in fuori tra i due sportelli aperti il cassetto pieno d’antichi abiti smessi del marito. Per improvvisa curiosità si mise allora a rovistare in esso e, nel riporre una giacca logora e stinta, le avvenne di tastare negli orli sotto il soppanno come un cartoncino, scivolato lí dalla tasca in petto sfondata; volle vedere che cosa fosse quella carta caduta lí chi sa da quanti anni e dimenticata; e cosí per caso Anna scoprí il ritratto della prima moglie del marito.

 

Impallidendo, con la vista intorbidata e il cuore sospeso, corse alla finestra, e vi rimase a lungo, attonita, a mirare l’immagine sconosciuta, quasi con un senso di sgomento.

La voluminosa acconciatura del capo e la veste d’antica foggia non le fecero notare in prima la bellezza di quel volto; ma appena poté coglierne le fattezze, astraendole dall’abbi-gliamento che ora, dopo tanti anni, appariva goffo, e fissarne specialmente gli occhi, se ne sentí quasi offesa e un impeto d’odio le balzò dal cuore al cervello: odio di postuma gelosia; l’odio misto di sprezzo che aveva provato per colei nell’innamorarsi dell’uomo ch’era adesso suo marito, dopo undici anni dalla tragedia coniugale che aveva distrutto d’un colpo la prima casa di lui.

Anna aveva odiato quella donna non sapendo intendere come avesse potuto tradire l’uomo ora da lei adorato e, in secondo luogo, perché i suoi parenti s’erano opposti al matrimonio suo col Brivio, come se questi fosse stato responsabile dell’infamia e della morte violenta della moglie infedele.

Era lei, sí, era lei, senza dubbio! la prima moglie di Vittore: colei che s’era uccisa!

Ne ebbe la conferma dalla dedica scritta sul dorso del ritratto: Al mio Vittore, Almira sua – 11 novembre 1873.

Anna aveva notizie molto vaghe della morta: sapeva soltanto che il marito, scoperto il tradimento, l’aveva costretta, con l’impassibilità di un giudice, a togliersi la vita.

Ora ella si richiamò con soddisfazione alla mente questa condanna del marito, irritata da quel «mio» e da quel «sua» della dedica, come se colei avesse voluto ostentare cosí la strettezza del legame che reciprocamente aveva unito lei e Vittore, unicamente per farle dispetto.

A quel primo lampo d’odio, guizzato dalla rivalità per lei sola ormai sussistente, seguí nell’anima di Anna la curiosità femminile di esaminare i lineamenti di quel volto, ma quasi trattenuta dalla strana costernazione che si prova alla vista di un oggetto appartenuto a qualcuno tragicamente morto; costernazione ora piú viva; ma a lei non ignota, poiché n’era compenetrato tutto il suo amore per il marito appartenuto a quell’altra donna.

 

Esaminandone il volto, Anna notò subito quanto dissomigliasse dal suo; e le sorse a un tempo dal cuore la domanda, come mai il marito che aveva amato quella donna, quella giovinetta certo bella per lui, si fosse poi potuto innamorare di lei cosí diversa.

Sembrava bello, molto piú bello del suo anche a lei quel volto che, dal ritratto, appariva bruno. Ecco: e quelle labbra si erano congiunte nel bacio alle labbra di lui; ma perché mai agli angoli della bocca quella piega dolorosa? e perché cosí mesto lo sguardo di quegli occhi intensi? Tutto il volto spirava un profondo cordoglio; e Anna ebbe quasi dispetto della bontà umile e vera che quei lineamenti esprimevano, e quindi un moto di repulsione e di ribrezzo, sembrandole a un tratto di scorgere nello sguardo di quegli occhi la medesima espressione degli occhi suoi allorché, pensando al marito, ella si guardava nello specchio, la mattina, dopo essersi acconciata.

Ebbe appena il tempo di cacciarsi in tasca il ritratto: il marito si presentò, sbuffando, sulla soglia della camera.

– Che hai fatto? Al solito? Hai rassettato? Oh povero me! Ora non trovo piú nulla!

Vedendo poi lo stocco sguainato per terra:

– Ah! Hai anche tirato di scherma con gli abiti dell’armadio?

E rise di quel suo riso che partiva soltanto dalla gola, quasi qualcuno gliel’avesse vellicata; e, ridendo cosí, guardò la moglie, come se domandasse a lei il perché del suo proprio riso. Guardando, batteva di continuo le pàlpebre celerissimamente su gli occhietti cauti, neri, irrequieti.

Vittore Brivio trattava la moglie come una bambina non d’altro capace che di quell’amore ingenuo e quasi puerile di cui si sentiva circondato, spesso con fastidio, e al quale si era proposto di prestar solo attenzione di tempo in tempo, mostrando anche allora una condiscen-denza quasi soffusa di lieve ironia, come se volesse dire: «Ebbene, via! per un po’ diventerò anch’io bambino con te: bisogna fare anche questo, ma non perdiamo troppo tempo!».

Anna s’era lasciata cadere ai piedi la vecchia giacca in cui aveva trovato il ritratto. Egli la raccattò infilzandola con la punta dello stocco, poi chiamò dalla finestra nel giardino il servotto che fungeva anche da cocchiere e che in quel momento attaccava al biroccio il cavallo. Appena il ragazzo si presentò in maniche di camicia nel giardino davanti alla finestra, il Brivio gli buttò in faccia sgarbatamente la giacca infilzata, accompagnando l’elemosina con un «Tieni, è per te!».

– Cosí avrai meno da spazzolare – aggiunse, rivolto alla moglie, – e da rassettare, speriamo!

E di nuovo emise quel suo riso stentato battendo piú e piú volte le pàlpebre.

Altre volte il marito s’era allontanato dalla città e non per pochi giorni soltanto, partendo anche di notte come quella volta; ma Anna, ancora sotto l’impressione della scoperta di quel ritratto, provò una strana paura di restar sola, e lo disse, piangendo, al marito.

Vittore Brivio, frettoloso nel timore di non fare a tempo e tutto assorto nel pensiero dei suoi affari, accolse con mal garbo quel pianto insolito della moglie.

– Come! Perché? Via, via, bambinate!

E andò via di furia, senza neppur salutarla.

Anna sussultò al rumore della porta ch’egli si chiuse dietro con impeto; rimase col lume in mano nella saletta e sentí raggelarsi le lagrime negli occhi. Poi si scosse e si ritirò in fretta nella sua camera, per andar subito a letto.

Nella camera già in ordine ardeva il lampadino da notte.

– Va’ pure a dormire – disse Anna alla cameriera che la attendeva. – Fo da me. Buona notte.

Spense il lume, ma invece di posarlo, come soleva, su la mensola, lo posò sul tavolino da notte, presentendo – pur contro la propria volontà – che forse ne avrebbe avuto bisogno piú tardi. Cominciò a svestirsi in fretta, tenendo gli occhi fissi a terra, innanzi a sé. Quando la veste le cadde attorno ai piedi, pensò che il ritratto era là e con viva stizza si sentí guardata e commiserata da quegli occhi dolenti, che tanta impressione le avevano fatto. Si chinò risolutamente a raccogliere dal tappeto la veste e la posò senza ripiegarla, su la poltrona a piè del letto, come se la tasca che nascondeva il ritratto e il viluppo della stoffa dovessero e potessero impedirle di ricostruirsi l’immagine di quella morta.

Appena coricata, chiuse gli occhi e s’impose di seguire col pensiero il marito per la via che conduceva alla stazione ferroviaria. Se l’impose per astiosa ribellione al sentimento che tutto quel giorno l’aveva tenuta vigile a osservare, a studiare il marito. Sapeva donde quel sentimento le era venuto e voleva scacciarlo da sé.

Nello sforzo della volontà, che le produceva una viva sovreccitazione nervosa, si rappresentò con straordinaria evidenza la via lunga, deserta nella notte, rischiarata dai fanali verberanti il lume tremulo sul lastrico che pareva ne palpitasse: a piè d’ogni fanale, un cerchio d’ombra; le botteghe, tutte chiuse; ed ecco la vettura che conduceva Vittore. Come se l’avesse aspettata al varco, si mise a seguirla fino alla stazione: vide il treno lugubre, sotto la tettoja a vetri; una gran confusione di gente in quell’interno vasto, fumido, mal rischiarato, cupamente sonoro: ecco, il treno partiva; e, come se veramente lo vedesse allontanare e sparire nelle tenebre, rientrò d’un subito in sé, aprí gli occhi nella camera silenziosa e provò un senso angoscioso di vuoto, come se qualcosa le mancasse dentro.

Sentí allora confusamente, smarrendosi, che da tre anni forse, dal momento in cui era partita dalla casa paterna, ella era in quel vuoto, di cui ora soltanto cominciava ad assumer coscienza. Non se n’era accorta prima, perché lo aveva riempito solo di sé, del suo amore, quel vuoto; se ne accorgeva ora, perché in tutto quel giorno aveva tenuto quasi sospeso il suo amore, per vedere, per osservare, per giudicare.

«Non mi ha neppure salutata!» pensò; e si mise a piangere di nuovo, quasi che questo pensiero fosse determinatamente la cagione del pianto.

 

Sorse a sedere sul letto: ma subito arrestò la mano tesa, nel levarsi, per prendere dalla veste il fazzoletto. Via, era ormai inutile vietarsi di rivedere, di riosservare quel ritratto! Lo prese. Riaccese il lume.

Come se la era raffigurata diversamente quella donna! Contemplandone ora la vera effigie, provava rimorso dei sentimenti che la immaginaria le aveva suggeriti. Si era raffigurata una donna, piuttosto grassa e rubiconda, con gli occhi lampeggianti e ridenti, inclinata al riso, agli spassi volgari. E invece, ora, eccola: una giovinetta che dalle pure fattezze spirava un’anima profonda e addolorata; diversa sí, da lei, ma non nel senso sguajato di prima: al contrario, anzi quella bocca pareva non avesse dovuto mai sorridere, mentre la sua tante volte e lietamente aveva riso; e certo, se bruno quel volto (come dal ritratto appariva), di un’aria men ridente del suo, biondo e roseo.

Perché, perché cosí triste?

Un pensiero odioso le balenò in mente, e subito staccò gli occhi dall’immagine di quella donna, scorgendovi d’improvviso un’insidia non solo alla sua pace, al suo amore che pure in quel giorno aveva ricevuto piú d’una ferita, ma anche alla sua orgogliosa dignità di donna onesta che non s’era mai permesso neppure il piú lontano pensiero contro il marito. Colei aveva avuto un amante! E per lui forse era cosí triste, per quell’amore adultero, e non per il marito!

Buttò il ritratto sul comodino e spense di nuovo il lume, sperando di addormentarsi, questa volta, senza pensare piú a quella donna, con la quale non poteva aver nulla di comune. Ma, chiudendo le pàlpebre, rivide subito, suo malgrado, gli occhi della morta, e invano cercò di scacciare quella vista.

– Non per lui, non per lui! – mormorò allora con smaniosa ostinazione, come se, ingiuriandola, sperasse di liberarsene.

 

E si sforzò di richiamare alla memoria quanto sapeva intorno a quell’altro, all’amante, costringendo quasi lo sguardo e la tristezza di quegli occhi a rivolgersi non piú a lei, ma all’antico amante, di cui ella conosceva soltanto il nome: Arturo Valli. Sapeva che costui aveva sposato qualche anno dopo, quasi a provare ch’era innocente della colpa che gli voleva addebitare il Brivio di cui aveva respinto energicamente la sfida, protestando che non si sarebbe mai battuto con un pazzo assassino. Dopo questo rifiuto, Vittore aveva minacciato di ucciderlo ovunque lo avesse incontrato, foss’anche in chiesa; e allora egli era andato via con la moglie dal paese, nel quale era poi ritornato, appena Vittore, riammogliatosi, se n’era partito.

Ma dalla tristezza di questi avvenimenti da lei rievocati, dalla viltà del Valli e, dopo tanti anni, dalla dimenticanza del marito, il quale, come se nulla fosse stato, s’era potuto rimettere nella vita e riammogliare, dalla gioja che ella stessa aveva provato nel divenir moglie di lui, da quei tre anni trascorsi da lei senza mai un pensiero per quell’altra, inaspettatamente un motivo di compassione per costei s’impose ad Anna spontaneo; ne rivide viva l’immagine, ma come da lontano lontano e le parve che con quegli occhi, intensi di tanta pena, colei le dicesse, tentennando lievemente il capo:

– Io sola però ne son morta! Voi tutti vivete!

Si vide, si sentí sola nella casa: ebbe paura. Viveva, sí, lei; ma da tre anni, dal giorno delle nozze, non aveva piú riveduto, neanche una volta, i suoi genitori, la sorella. Lei che li adorava, e ch’era stata sempre con loro docile e confidente, aveva potuto ribellarsi alla loro volontà, ai loro consigli per amore di quell’uomo; per amore di quell’uomo s’era mortalmente ammalata e sarebbe morta, se i medici non avessero indotto il padre a condiscendere alle nozze. Il padre aveva ceduto, non consentendo, però, anzi giurando che ella per lui, per la casa, dopo quelle nozze, non sarebbe piú esistita. Oltre alla differenza di età, ai diciotto anni che il marito aveva piú di lei, ostacolo piú grave per il padre era stata la posizione finanziaria di lui soggetta a rapidi cambiamenti per le imprese rischiose a cui soleva gettarsi con temeraria fiducia in sé stesso e nella fortuna.

In tre anni di matrimonio Anna, circondata da agi, aveva potuto ritenere ingiuste o dettate da prevenzione contraria le considerazioni della prudenza paterna, quanto alle sostanze del marito, nel quale del resto ella, ignara, riponeva la medesima fiducia che egli in se stesso; quanto poi alla differenza d’età, finora nessun argomento manifesto di delusione per lei o di meraviglia per gli altri, poiché dagli anni il Brivio non risentiva il minimo danno né nel corpo vivacissimo e nervoso, né tanto meno poi nell’animo dotato d’infaticabile energia, d’irrequieta alacrità.

Di ben altro Anna, ora per la prima volta, guardando (senza neppur sospettarlo) nella sua vita con gli occhi di quella morta, trovava da lagnarsi del marito. Sí, era vero: della noncuranza quasi sdegnosa di lui ella si era altre volte sentita ferire; ma non mai come quel giorno; e ora per la prima volta si sentiva cosí angosciosamente sola, divisa dai suoi parenti, i quali le pareva in quel momento la avessero abbandonata lí, quasi che, sposando il Brivio, avesse già qualcosa di comune con quella morta e non fosse piú degna d’altra compagnia. E il marito che avrebbe dovuto consolarla, il marito stesso pareva non volesse darle alcun merito del sacrifizio ch’ella gli aveva fatto del suo amore filiale e fraterno, come se a lei non fosse costato nulla, come se a quel sacrifizio egli avesse avuto diritto, e per ciò nessun dovere avesse ora di compensarnela. Diritto, sí, ma perché lei se ne era cosí perdutamente innamorata allora; dunque il dovere per lui adesso di compensarla. E invece…

Sempre cosí! – parve ad Anna di sentirsi sospirare dalle labbra dolenti della morta.

Riaccese il lume e di nuovo, contemplando l’immagine, fu attratta dall’espressione di quegli occhi. Anche lei dunque, davvero, aveva sofferto per lui? anche lei, anche lei, accorgendosi di non essere amata, aveva sentito quel vuoto angoscioso?

– Sí? sí? – domandò Anna, soffocata dal pianto, all’immagine.

E le parve allora che quegli occhi buoni, intensi di passione, la commiserassero a lor volta, la compiangessero di quell’abbandono, del sacrifizio non rimeritato, dell’amore che le restava chiuso in seno quasi tesoro in uno scrigno, di cui egli avesse le chiavi, ma per non servirsene mai, come l’avaro.

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