Página dedicada a mi madre, julio de 2020

Original

5.11  Tra due ombre

Stridore di catene e scambio di saluti e d’augurii, ultime raccomandazioni e grida di richiamo tra i passeggeri di terza classe e la gente che s’affollava su lo scalo dell’Imma-colatella o sulle barchette ballanti attorno al piroscafo in partenza.

– De vení cu tte! de vení cu tte!

– No! no! t’ ‘o ddico!

– E nun avé paura!

– Core mio, core ‘e mamma, stenne ‘e mmane!

– Addò sta? addò sta?

– Mo sta cca!

– Allegramente!

E tra tanta confusione, per accrescere l’agitazione di chi partiva, il suono titillante dei mandolini d’una banda di musici girovaghi.

– Faustino! Dio mio, guarda Niní… guarda Bicetta… – gridava al Sangelli la moglie che non si moveva per timore del mal di mare, prima ancora che il piroscafo si mettesse in movimento.

Non c’era stato verso d’indurla ad andare a sedere sul piano di coperta destinato alla prima classe, a pruavía. S’era buttata come una balla sul sedile del lucernario della camera di poppa; e cosí grassa come s’era fatta pochi anni dopo il matrimonio, bionda e pallida, con gli occhi azzurri ovati, non si curava nemmeno dello spettacolo che dava con quel suo ridicolo sgomento, aggrappata con la mano tozza piena d’anelli al bracciuolo di legno del sedile, quasi che, tenendolo cosí, volesse impedire lo scotimento fitto fitto e continuo della macchina già sotto pressione.

Strillava lamentosamente per Bicetta, per Niní, per Carluccio, ma non osava neppure girare un po’ la testa per vedere dove fossero. L’ampio velo turchino attorno al cappello di paglia, col vento, le sbatteva in faccia; lo lasciava sbattere, pur di non muoversi; e teneva fissi gli occhi spaventati a una manica a vento lí presso, suo incubo forse, ma anche riparo e protezione.

– Carluccio, Dio mio, dov’è? Faustino! Faustino! E Bicetta?

Con l’aria che batteva viva, da terra là sopra coperta e che si portava via il fumo della ciminiera tra il cordame dell’alberatura, nel chiarore aperto e fresco, tutto lampeggiante dei riflessi del sole al tramonto sul mare un po’ mosso a ogni sollevarsi dei parasoli, quei tre benedetti ragazzi, che non erano stati mai su un piroscafo, parevano impazziti; si ficcavano tra la gente, da per tutto, tra le scale sul passavanti, le lapazze, i ponti di sbarco, sotto le lance; volevano veder tutto, e correvano davvero il rischio anche di precipitar giú in mare.

 

Faustino Sangelli, andando loro dietro, si sentiva intanto finir lo stomaco a quelle raccomandazioni della moglie. Non gli era parso mai tanto ridicolo il suo nome in diminutivo sulle labbra di quella donna cosí grassa, né mai tanto sgradevole la voce di lei.

Avrebbe voluto gridarle:

– E sta’ zitta! Non vedi che sto badando a loro?

Ma aveva sulle labbra, rassegato, un sorriso freddo e fatuo, come di chi si presti a far cosa che a lui veramente non appartenga o non prema molto.

Oh Dio, come? I figliuoli? Non gli premevano i figliuoli? Sí, gli premevano. Ma in quel momento, Faustino Sangelli – il quale aveva già trentasei anni e qualche pelo bianco, piú d’uno, nella barba e alle tempie – si sentiva proprio costretto a sorridere in quel modo, di quel mezzo sorriso freddo e fatuo, tra di compiacenza e di rassegnazione. Non poteva farne a meno. Avrebbe seguitato a sorridere cosí, anche se Carluccio o Niní o Bicetta fossero caduti – non in mare, no, Dio liberi! – ma lí sopra coperta e si fossero messi a piangere. Perché non sorrideva lui cosí, propriamente; ma un altro Faustino Sangelli, di circa diciott’anni, e dunque senza quella barba, e dunque senza né quella moglie né quei figliuoli.

Questo gli avveniva per il fatto che, tra la gente che quella sera partiva da Napoli col piroscafo per la Sicilia, aveva intraveduto e riconosciuto subito un suo lontano parente, un tal Silvestro Crispo, già tutto grigio e piú ispido e piú cupo di quando, tanti e tanti anni addietro, lui, Faustino Sangelli, allor quasi ragazzo imberbe, studentello matricolino di lettere all’Università di Palermo, gli aveva tolto l’amore di Lillí, loro comune cugina, di cui tutti e due allora erano perdutamente innamorati e quel poveretto aveva tentato di uccidersi, chiudendosi in camera una notte col braciere acceso. Ora Lillí da otto anni era moglie di colui; e Faustino Sangelli sapeva che, nonostante l’età, si conservava ancora bellissima e fresca.

Tutti i ricordi scottanti, gli errori, i rimorsi della prima gioventú, improvvisamente, alla vista di quell’uomo, gli avevano fatto un tale impeto dentro, che n’era come stordito. Al solo pensiero che quel Silvestro Crispo potesse vederlo, invecchiato e cosí dietro a quei tre ragazzi mal vestiti, e con quella moglie grassa e ridicola che strillava di là, si sentiva vaneggiare in un avvilimento di vergogna, acre e insopportabile, al quale reagiva seguitando a sorridere a quel modo, mentre avvertiva con una lucidità che gl’incuteva quasi ribrezzo, che non soltanto lui qual era adesso, ma lui anche qual era stato tant’anni addietro, sedici anni addietro, viveva tuttora e sentiva e ragionava con quegli stessi pensieri, con quegli stessi sentimenti, che già da tanto tempo credeva spenti o cancellati in sé; ma cosí vivo, cosí «presentemente» vivo che, quasi non parendogli piú vero in quel momento tutto ciò che lo circondava, e pur non potendo negarne a se stesso la realtà, non potendo negare per esempio che quei tre ragazzi là fossero suoi; ecco qua, sorrideva, proprio come se non fossero; proprio come se lui non fosse questo Faustino d’adesso, ma quello: diviso in due vite distanti e contemporanee; vere tutt’e due, e vane tutte e due nello stesso tempo; e di là quella biondona pallida, di cui gli arrivava la voce sgraziata: «Faustino! Faustino!» – e qua, fuggente e ammiccante tra il rimescolío dei passeggeri sopra coperta, Lillí, Lillí di ventidue anni, bella come quando di nascosto, da lontano, per tentarlo, tenendo socchiuso l’uscio della sua cameretta si scopriva il seno tra il candor delle trine e con la mano faceva appena appena l’atto d’offrirglielo e subito con la stessa mano se lo nascondeva.

Aveva quattr’anni piú di lui, Lillí. E che passione, che frenesie, prima ch’ella accondiscendesse a fidanzarsi con lui, corteggiata da tanti, anche da quel povero Silvestro Crispo, che s’affannava in tutti i modi a lavorare per farsi uno stato e ottener subito la mano di lei! Ma allora Lillí non si curava di nessuno dei due: di Silvestro Crispo, perché troppo rozzo, ispido e brutto; di lui, perché troppo ragazzo; e s’univa perfidamente a tutti i parenti che se lo prendevano a godere per lo spettacolo che dava loro con quella sua passione precoce e della gelosia che lo assaliva appena vedeva qualcuno ottenere i sorrisi di lei. Finché, all’improvviso, chi sa perché, forse per qualche dispetto o per qualche disinganno inatteso o per prendersi una subita rivincita su qualcuno, ella gli s’era accostata amorosa, gli s’era promessa, ma a patto che subito egli si fosse apertamente fidanzato con lei. Lí per lí, gli era parso di toccare il cielo col dito. Per piú d’un mese aveva dovuto combattere per strappare il consenso al padre, il quale saggiamente gli aveva fatto osservare ch’era troppo intempes-tivo per lui un impegno di quel genere; che la cugina aveva quattr’anni piú di lui, e che egli, ancora studente, avrebbe dovuto aspettare per lo meno altri sei anni per farla sua. Ostinato, dopo molte promesse e giuramenti, era riuscito a spuntarla. Se non che, subito dopo, nel vedersi presentare a tutti, cosí ancor quasi ragazzo, senza uno stato, come promesso sposo di Lillí, s’era sentito ridicolo agli occhi di tutti e specialmente di quegli altri giovanotti che, corrisposti, avevano per qualche tempo amoreggiato con la sua fidanzata. La passione, cosí cocente quand’era nascosta, contrariata e derisa, aveva perduto a un tratto il fervore, tutta la poesia; e poco dopo egli se n’era scappato dalla Sicilia per troncare quel fidanzamento, ch’era stato intanto il colpo di grazia per quel Silvestro Crispo. Nel vedersi posposto a un giovanottino ancor imberbe, senza né arte né parte, lui che già lavorava, lui che era già uomo; sdegnato, disperato, aveva voluto uccidersi; ed era stato salvato per miracolo.

Ora eccolo là! Marito di Lillí. Padre (sapeva anche questo, Faustino Sangelli), padre d’un bambino, di cui gli avevano tanto vantato la bellezza. Bello come mamma. Dunque, forse felice, quell’uomo lí. Mentre lui… Ecco, perché, correndo appresso a quei bambini non belli e mal vestiti, aveva bisogno di sorridere a quel modo Faustino Sangelli in quel momento; bisogno, proprio bisogno di veder viva, di ventidue anni, là, fuggente e ammiccante, tra il rimescolío dei passeggeri Lillí, Lillí che accennava, cosí fuggendo e riparandosi dietro le spalle dei passeggeri, di scoprirsi ancora il seno e far con la mano appena appena l’atto d’offrirglielo e subito con la stessa mano l’atto di nasconderselo. Ah, tante volte, tante volte, ebbro d’amore, gliel’aveva baciato, lui, quel piccolo seno! E ora voleva che quell’uomo lí lo sapesse. Sí, sí. Sorrideva a quel modo per farglielo sapere. E con tal rabbia, con tal livore – pur con quel sorriso sulle labbra – pensava, sentiva, vedeva tutto questo, che a un certo punto costretto a correre fin quasi ai piedi di Silvestro Crispo per acchiappare a tempo uno dei bambini che stava per cadere, acchiappatolo, si rizzò tutto fremente davanti a lui, quasi a petto, come se si aspettasse che quello dovesse saltargli al collo per strozzarlo.

Silvestro Crispo, invece, lo guardò appena con la coda dell’occhio; evidentemente senza riconoscerlo. E s’allontanò pian piano.

Faustino Sangelli restò di gelo a quello sguardo d’assoluta indifferenza. Da che rideva, da che baciava vivo, con labbra ardenti, il tepido, piccolo seno bianco di Lillí, e costringeva quell’uomo a chiudersi in camera con un braciere acceso per asfissiarsi, ecco che d’un tratto spariva in lui l’immagine di ciò ch’era stato, come un’ombra; e un’altra ombra d’improvviso sottentrava, l’ombra miserabile di se stesso, ombra irriconoscibile, se colui non lo aveva riconosciuto, dopo sedici anni: i sedici anni di tutti i suoi sogni svaniti, e di tante noje e di tante amarezze; i sedici anni che lo avevano invecchiato precocemente; che gli avevano portato la sciagura di quella moglie, il tormento di quei figliuoli.

 

Di furia, inferocito, con la scusa della caduta di quel piccino riparata a tempo, mentre tra il cresciuto clamore la sirena della ciminiera avventava il rauco fischio formidabile, acchiappò gli altri due, andò a prendere la moglie, e giú, a cuccia! a cuccia!

– Andiamo a dormire!

Ma Niní voleva il biscotto; l’acqua, Bicetta; Carluccio, la tromba.

– A dormire! a dormire! Avete sentito il babau?

– Oh Dio, Faustino, e non è presto?

– Che presto! che presto! Meglio che ti trovi accucciata, prima che si esca dal porto! Giú! giú!

– La tromba, papà!

– Oh Dio, Faustino, mi gira la testa…

– Ma se siamo ancora fermi! Se ancora non si muove!

– Biccotto, papà!

– Papà, quando bevo?

– Giú! giú! Berrai giú! Andiamo!

– Oh Dio, Faustino…

– Corpo di… Giusto qua?… Cameriere! cameriere!

Tutta la nottata, quella delizia lí. E fosse stato cattivo il mare! Ma che! Un olio. E che strilli, che strilli!

– Sta’ zitta! Pare che ti scànnino!

– Oh Dio, muojo! Reggimi, Faustino! Ah, non arrivo… non arrivo… Voglio scendere!

– Scendiamo, papà.

– A casa, andiamo a casa, papà!

– Mammà, oh Dio! ho paura, papà!

– Fermi, perdio! E tu stenditi giú, supina, o vado a buttarmi a mare!

 

Di solito tanto paziente con la moglie e coi figliuoli, era diventato una belva, Faustino Sangelli, quella notte, per mare. Ma come Dio volle, verso il tocco, la moglie s’assopí; i bambini s’addormentarono.

Egli rimase un pezzo nella cuccetta, seduto, coi gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. E stando cosí seduto, si vide, a un certo punto, sotto gli occhi emergere il pancino, che da alcuni anni gli era cresciuto; e vide quasi per ischerno ciondolare dalla catena dell’orologio una medaglina d’oro, premio volgare d’un misero concorso vinto. A diciott’anni, innamorato di Lillí, aveva sognato la gloria. Era finito professor di liceo, non tanto miserabile perché la moglie gli aveva recato una buona dote. Ah Dio, un po’ d’aria, un po’ d’aria! Si sentiva soffocare!

Spense la lampadina elettrica; uscí dalla cuccetta; attraversò un po’ barcollando e reggendosi alle pareti di legno del corridojo, e salí in coperta.

La notte era scurissima, polverata di stelle. Gli alberi del piroscafo vibravano allo scotimento della macchina e dalla ciminiera sboccava continuo un pennacchio di fumo denso, rossastro. Il mare, tutto nero, rotto dalla prua, s’apriva spumeggiando un poco lungo i fianchi del piroscafo. Tutti i passeggeri s’erano ritirati nelle loro cuccette.

Faustino Sangelli tirò sú il bavero del pastrano; si diede una rincalcata al berretto da viaggio; passeggiò un tratto sul ponte riservato alla prima classe; guardò i passeggeri di terza buttati come bestie a dormire su la coperta, con le teste sui fagotti, attorno alla bocca della stiva: poi, alzando il capo, vide dall’altra parte, sul ponte di poppa riservato ai passeggeri di seconda, uno – lui? – presso il parapetto, appoggiato a una delle bacchette di ferro che sorreggevano la tenda.

Al bujo non discerneva bene. Ma pareva lui, Silvestro Crispo. Doveva esser lui. Forse, anche prima che egli lo scorgesse tra i passeggeri in partenza quella sera da Napoli, era stato scorto da lui. E forse, quand’egli sorreggendo il bambino che stava per cadere, s’era rizzato a guardarlo, lo sguardo che colui gli aveva rivolto con la coda dell’occhio nell’allontanarsi non era d’indifferenza, ma di sdegno, e forse d’odio. Ora là, fermo, insaccato nelle spalle, anch’esso col bavero del pastrano tirato sú e il berretto rincalcato, guardava il mare. Da guardare però non c’era nulla, in quella tenebra. Dunque pensava. Anche lui, dunque, sapendo che l’antico rivale viaggiava sullo stesso piroscafo, non poteva dormire, quella notte. Che pensava?

Faustino Sangelli stette a spiarlo un pezzo con una pena, con una pena che, a mano a mano crescendo, gli si faceva piú amara e piú angosciosa: pena della vita che è cosí; pena delle memorie che dolgono, come se i dolori presenti non bastassero al cuore degli uomini. Ma a poco a poco, cominciò quasi a svaporargli, quella pena, nella vastità sconfinata, tenebrosa, sotto quella polvere di stelle, e si vide, si sentí piccolissimo, e piccolissimo vide il rivale; piccolissima, la sua miseria annegarsi nel sentimento che gli s’allargava smisurato, della vanità di tutte le cose. Allora, con amaro dileggio, si persuase a profittar del mare tranquillo e del sonno della moglie e dei figliuoli per farsi una dormitina anche lui, fino all’approdo in Sicilia a giorno chiaro.

Cosí fece. Ma la bella filosofia gli venne meno di nuovo, come il piroscafo fu per doppiare Monte Pellegrino e imboccare il golfo di Palermo. Ora la moglie era diventata coraggiosissima: una leonessa; e anche i figliuoli, tre leoncini. Volevano andare sul ponte subito subito a godere della magnifica vista dell’entrata a Palermo.

– Nossignori! Non permetto! Prima aspettate che il vapore si fermi!

– Oh Dio, Faustino, ma se tutti gli altri passeggeri sono già sú!

– Va bene. E voi state giú.

– Ma perché?

– Perché voglio cosí!

Figurarsi se si voleva far vedere da quello alla luce del giorno, con quella moglie accanto tutta ammaccata e spettinata, con quei tre piccini con gli abitucci sporchi e tutti raggrinziti!

Ma quando, alla fine, il vapore s’ormeggiò e dalla banchina dello scalo fu buttato il pontile sul barcarizzo – via! via di furia! il facchino avanti, con le valige, lui Faustino dietro, coi due maschietti uno per mano; la moglie appresso, con la Bicetta. Se non che, giunto a mezzo del pontile, gettando per caso uno sguardo sotto la tettoja della banchina alla gente venuta ad assistere allo sbarco dei passeggeri, Faustino Sangelli non vide e non capí piú nulla.

 

Lí, sulla banchina, sotto la tettoja, c’era Lillí, Lillí venuta col suo bambino ad accogliere il marito, Lillí che lo guardava, sbalordita, con tanto d’occhi; piú che sbalordita, quasi oppressa di stupore.

La intravide appena. Lo stesso viso; lo stesso corpo, saldo, svelto, formoso; solo gli parve che avesse i capelli ritinti, dorati. Il pontile, la folla, le valige, lo scalo, la tettoja, tutto gli girò attorno. Avrebbe voluto sprofondare, sparire. Dov’era il facchino? Chi aveva per mano? Si cacciò nell’ufficio della dogana; ma, in tempo che faceva visitare le valige ai doganieri, vide Silvestro Crispo attraversar l’ufficio, fosco e solo.

E come? Lillí dunque non s’era accorta del marito? Se l’era lasciato passar davanti senz’accorgersene? Ed era venuta apposta cosí di buon mattino allo scalo, per accoglierlo all’arrivo. Tanta impressione dunque le aveva fatto la vista inattesa di lui, dopo tanti anni? E chi sa che scena tra poco sarebbe accaduta a casa, quand’ella, ritornando col bambino, vi avrebbe trovato il marito, già arrivato; il marito che avrebbe indovinato subito la ragione per cui ella non s’era accorta di lui, là sulla banchina dello scalo!

Fu per goderne malignamente, Faustino Sangelli; ma ecco che sballottato con la moglie e i tre figliuoli dentro un enorme e sgangherato omnibus d’albergo, tutto fragoroso di vetri, là per il viale dei Quattro Venti si vide raggiungere da una carrozzella, la quale si mise lenta lenta a seguire il lentissimo enorme omnibus fragoroso.

Nella carrozzella c’era Lillí col suo bambino.

 

Faustino Sangelli si sentí strappare le viscere, tirare il respiro e non seppe piú da che parte voltarsi a guardare per non veder l’antica fidanzata che gli veniva appresso, appresso, e che lo guardava sbalordita con tanto d’occhi. Patì morte e passione. Quegli occhi, cosí stupiti, gli dicevano quant’era cambiato; lo guardavano come di là da un abisso, ove adesso anche il ricordo della sua lontana immagine precipitava e ogni rimpianto, tutto. E di qua dall’abisso, sul carrozzone traballante e fragoroso, ecco, c’era lui, lui quale s’era ridotto, fra quei tre figliuoli non belli e quella stupida moglie. Ah, fare un salto da quel carrozzone a quella carrozzella, mettere a terra il bambino di lei, e attaccarsi con la bocca a quella bocca che era stata sua tant’anni fa; commettere l’ultima pazzia, fuggire, fuggire… – Perché lo guardava ella cosí? Che pensava? Che voleva? Ecco, si chinava verso il bambino che le sedeva accanto, poi rialzava la testa e sorrideva, sorrideva guardando verso lui, tentennando lievemente il capo. Lo derideva? Su le spine, temendo che la moglie guardando a quella carrozzella s’accorgesse della sua agitazione, si prese sulle ginocchia uno dei figliuoli, gli grattò con una mano la pancina e si mise a ridere, a ridere anche lui, a ridere per fare a sua volta un ultimo dispetto a lei che seguitava a venirgli appresso senz’essersi accorta del marito arrivato con lui.

– Ti sei smattinata, e adesso a casa sentirai, cara, sentirai!

Pensava, e rideva, rideva. Ma come una lumaca sul fuoco.

5. 12  Niente

La botticella che corre fragorosa nella notte per la vasta piazza deserta, si ferma davanti al freddo chiarore d’una vetrata opaca di farmacia all’angolo di via San Lorenzo. Un signore impellicciato si lancia sulla maniglia di quella vetrata per aprirla. Piega di qua, piega di là – che diavolo? – non s’apre.

– Provi a sonare, – suggerisce il vetturino.

– Dove, come si suona?

– Guardi, c’è lí il pallino. Tiri.

Quel signore tira con furia rabbiosa.

– Bell’assistenza notturna!

E le parole, sotto il lume della lanterna rossa, vaporano nel gelo della notte, quasi andan-dosene in fumo.

Si leva lamentoso dalla prossima stazione il fischio d’un treno in partenza. Il vetturino cava l’orologio; si china verso uno dei fanaletti; dice:

– Eh, vicino le tre…

Alla fine il giovine di farmacia, tutto irto di sonno, col bavero della giacca tirato fin sopra gli orecchi, viene ad aprire.

E subito il signore:

– C’è un medico?

Ma quegli, avvertendo sulla faccia e sulle mani il gelo di fuori, dà indietro, alza le braccia, stringe le pugna e comincia a stropicciarsi gli occhi, sbadigliando:

– A quest’ora?

Poi, per interrompere le proteste dell’avventore, il quale – ma sí, Dio mio, sí – tutta quella furia, sí, con ragione: chi dice di no? – ma dovrebbe pure compatire chi a quell’ora ha anche ragione d’aver sonno – ecco, ecco, si toglie le mani dagli occhi e prima di tutto gli fa cenno d’aspettare; poi, di seguirlo dietro il banco, nel laboratorio della farmacia.

Il vetturino intanto, rimasto fuori, smonta da cassetta e vuole prendersi la soddisfazione di sbottonarsi i calzoni per far lí apertamente, al cospetto della vasta piazza deserta tutta intersecata dai lucidi binarii delle tramvie, quel che di giorno non è lecito senza i debiti ripari.

Perché è pure un piacere, mentre qualcuno si dibatte in preda a qualche briga per cui deve chiedere agli altri soccorso e assistenza, attendere tranquillamente, cosí, alla soddis-fazione d’un piccolo bisogno naturale, e veder che tutto rimane al suo posto: là, quei lecci neri in fila che costeggiano la piazza, gli alti tubi di ghisa che sorreggono la trama dei fili tramviarii, tutte quelle lune vane in cima ai lampioni, e qua gli uffici della dogana accanto alla stazione.

Il laboratorio della farmacia, dal tetto basso, tutto scaffalato, è quasi al bujo e appestato dal tanfo dei medicinali. Un sudicio lumino a olio, acceso davanti a un’immagine sacra sulla cornice dello scaffale dirimpetto all’entrata, pare non abbia voglia di far lume neanche a se stesso. La tavola in mezzo, ingombra di bocce, vasetti, bilance, mortaj e imbuti, impedisce di vedere in prima se sul logoro divanuccio di cuojo, là sotto a quello scaffale dirimpetto all’entrata, sia rimasto a dormire il medico di guardia.

– Eccolo, c’è – dice il giovine di farmacia, indicando un pezzo d’omone che dorme penosamente, tutto aggruppato e raffagottato, con la faccia schiacciata contro la spalliera.

– E lo chiami, perdio!

– Eh, una parola! Capace di tirarmi un calcio, sa?

– Ma è medico?

– Medico, medico. Il dottor Mangoni.

– E tira calci?

– Capirà, svegliarlo a quest’ora…

– Lo chiamo io!

E il signore, risolutamente, si china sul divanuccio e scuote il dormente.

– Dottore! dottore!

 

Il dottor Mangoni muggisce dentro la barbaccia arruffata che gl’invade quasi fin sotto gli occhi le guance; poi stringe le pugna sul petto e alza i gomiti per stirarsi; infine si pone a sedere, curvo, con gli occhi ancora chiusi sotto le sopracciglia spioventi. Uno dei calzoni gli è rimasto tirato sul grosso polpaccio della gamba e scopre le mutande di tela legate all’antica con una cordellina sulla rozza calza nera di cotone.

– Ecco, dottore… Subito, la prego, – dice impaziente il signore. – Un caso d’asfissia…

– Col carbone? – domanda il dottore, volgendosi ma senza aprir gli occhi. Alza una mano a un gesto melodrammatico e, provan-dosi a tirar fuori la voce dalla gola ancora addormentata, accenna l’aria della «Gioconda»: Suicidio? In questi fieeeriii momenti…

Quel signore fa un atto di stupore e d’indignazione. Ma il dottor Mangoni, subito, arrovescia indietro il capo e incignando ad aprire un occhio solo:

– Scusi, – dice, – è un suo parente?

– Nossignore! Ma la prego, faccia presto! Le spiegherò strada facendo. Ho qui la vettura. Se ha da prendere qualche cosa…

– Sí, dammi… dammi… – comincia a dire il dottor Mangoni, tentando d’alzarsi, rivolto al giovine di farmacia.

– Penso io, penso io, signor dottore, – risponde quello, girando la chiavetta della luce elettrica e dandosi attorno tutt’a un tratto con una allegra fretta che impressiona l’avventore notturno.

Il dottor Mangoni storce il capo come un bue che si disponga a cozzare, per difendersi gli occhi dalla súbita luce.

– Sí, bravo figliuolo, – dice. – Ma mi hai accecato. Oh, e il mio elmo? dov’è?

L’elmo è il cappello. Lo ha, sí. Per averlo, lo ha: positivo. Ricorda d’averlo posato, prima d’addormentarsi, su lo sgabello accanto al divanuccio. Dov’è andato a finire?

Si mette a cercarlo. Ci si mette anche l’avventore; poi anche il vetturino, entrato a riconfortarsi al caldo della farmacia. E intanto il commesso farmacista ha tutto il tempo di preparare un bel paccone di rimedii urgenti.

– La siringa per le iniezioni, dottore, ce l’ha?

– Io? – si volta a rispondergli il dottor Mangoni con una maraviglia che provoca in quello uno scoppio di risa.

– Bene bene. Dunque, si dice, carte senapate. Otto, basteranno? Caffeina, stricnina. Una Pravaz. E l’ossigeno, dottore? Ci vorrà pure un sacco d’ossigeno, mi figuro.

– Il cappello ci vuole! il cappello! il cappello prima di tutto! – grida tra gli sbuffi il dottor Mangoni. E spiega che, tra l’altro, c’è affezionato lui a quel cappello, perché è un cappello storico: comperato circa undici anni addietro in occasione dei solenni funerali di Suor Maria dell’Udienza, Superiora del ricovero notturno al vicolo del Falco, in Trastevere, dove si reca spesso a mangiare ottime ciotole di minestra economica, e a dormire, quando non è di guardia nelle farmacie.

 

Finalmente il cappello è trovato, non lí nel laboratorio ma di là, sotto il banco della farmacia. Ci ha giocato il gattino.

L’avventore freme d’impazienza. Ma un’altra lunga discussione ha luogo, perché il dottor Mangoni, con la tuba tutta ammaccata tra le mani, vuole dimostrare che il gattino, sí, senza dubbio, ci ha giocato, ma che anche lui, il giovine di farmacia, le ha dovuto dare col piede, per giunta, una buona acciaccata sotto il banco. Basta. Un gran pugno allungato dentro la tuba, che per miracolo non la sfonda, e il dottor Mangoni se la butta in capo su le ventitré.

– Ai suoi ordini, pregiatissimo signore!

– Un povero giovine, – prende a dir subito il signore rimontando su la botticella e stendendo la coperta su le gambe del dottore e su le proprie.

– Ah, bravo! Grazie.

– Un povero giovine che m’era stato tanto raccomandato da un mio fratello, perché gli trovassi un collocamento. Eh già, capisce? come se fosse la cosa piú facile del mondo; t-o-to, fatto. La solita storia. Pare che stiano all’altro mondo, quelli della provincia: credono che basti venire a Roma per trovare un impiego: t-o-to, fatto. Anche mio fratello, sissignore! m’ha fatto questo bel regalo. Uno dei soliti spostati, sa: figlio d’un fattore di campagna, morto da due anni al servizio di questo mio fratello. Se ne viene a Roma, a far che? niente, il giornalista, dice. Mi presenta i titoli: la licenza liceale e uno zibaldone di versi. Dice: «Lei mi deve trovar posto in qualche giornale». Io? Roba da matti! Mi metto subito in giro per fargli ottenere il rimpatrio dalla questura. E intanto, potevo lasciarlo in mezzo alla strada, di notte? Quasi nudo, era; morto di freddo, con un abituccio di tela che gli sventolava addosso; e due o tre lire in tasca: non piú di tanto. Gli do alloggio in una mia casetta, qua, a San Lorenzo, affittata a certa gente… lasciamo andare! Gentuccia che subaffitta due camerette mobiliate. Non mi pagano la pigione da quattro mesi. Me n’approfitto; lo ficco lí a dormire. E va bene! Passano cinque giorni; non c’è verso d’ottenere il foglio di rimpatrio dalla questura. La meticolosità di questi impiegati: come gli uccelli, sa? cacano da per tutto, scusi! Per rilasciare quel foglio debbono far prima non so che pratiche là, al paese; poi qua alla questura. Basta: questa sera ero a teatro, al Nazionale. Viene, tutto spaventato, il figlio della mia inquilina a chiamarmi a mezzanotte e un quarto, perché quel disgraziato s’era chiuso in camera, dice, con un braciere acceso. Dalle sette di sera, capisce?

 

 

A questo punto il signore si china un poco a guardare nel fondo della vettura il dottore che, durante il racconto, non ha piú dato segno di vita. Temendo che si sia riaddormentato, ripete piú forte:

– Dalle sette di sera!

– Come trotta bene questo cavallino, – gli dice allora il dottore Mangoni, sdrajato voluttuosamente nella vettura.

Quel signore resta, come se al bujo abbia ricevuto un pugno sul naso.

– Ma scusi, dottore, ha sentito?

– Sissignore.

– Dalle sette di sera. Dalle sette a mezzanotte, cinque ore.

– Precise.

– Respira però, sa! Appena appena. È tutto rattrappito, e…

– Che bellezza! Saranno… sí, aspetti, tre… no, che dico tre? cinque anni saranno almeno, che non vado in carrozza. Come ci si va bene!

– Ma scusi, io le sto parlando…

– Sissignore. Ma abbia pazienza, che vuole che m’importi la storia di questo disgraziato?

– Per dirle che sono cinque ore…

– E va bene! Adesso vedremo. Crede lei che gli stia rendendo un bel servizio?

– Come?

– Ma sí, scusi! Un ferimento in rissa, una tegola sul capo, una disgrazia qualsiasi… prestare ajuto, chiamare il medico, lo capisco. Ma un pover’uomo, scusi, che zitto zitto si accuccia per morire?

– Come! – ripete, vieppiú trasecolato, quel signore.

 

E il dottor Mangoni, placidissimo:

– Abbia pazienza. Il piú l’aveva fatto, quel poverino. Invece del pane, s’era comperato il carbone. Mi figuro che avrà sprangato l’uscio, no? otturato tutti i buchi; si sarà magari alloppiato prima; erano passate cinque ore; e lei va a disturbarlo sul piú bello!

– Lei scherza! – grida il signore.

– No no; dico sul serio.

– Oh perdio! – scatta quello. – Ma sono stato disturbato io, mi sembra! Sono venuti a chiamarmi…

– Capisco, già, a teatro.

– Dovevo lasciarlo morire? E allora, altri impicci, è vero? come se fossero pochi quelli che m’ha dati. Queste cose non si fanno in casa d’altri, scusi!

– Ah, sí, sí; per questa parte, sí, ha ragione, – riconosce con un sospiro il dottor Mangoni. – Se ne poteva andare a morire fuori dai piedi, lei dice. Ha ragione. Ma il letto tenta, sa! Tenta, tenta. Morire per terra come un cane… Lo lasci dire a uno che non ne ha!

– Che cosa?

– Letto.

– Lei?

Il dottor Mangoni tarda a rispondere. Poi, lentamente, col tono di chi ripete una cosa già tant’altre volte detta:

– Dormo dove posso. Mangio quando posso. Vesto come posso.

E subito aggiunge:

– Ma non creda oh, che ne sia afflitto. Tutt’altro. Sono un grand’uomo, io, sa? Ma dimissionario.

Il signore s’incuriosisce di quel bel tipo di medico in cui gli è avvenuto cosí per caso d’imbattersi; e ride, domandando:

– Dimissionario? Come sarebbe a dire dimissionario?

– Che capii a tempo, caro signore, che non metteva conto di nulla. E che anzi, quanto piú ci s’affanna a divenir grandi, e piú si diventa piccoli. Per forza. Ha moglie lei, scusi?

– Io? Sissignore.

– Mi pare che abbia sospirato dicendo sissignore.

– Ma no, non ho sospirato affatto.

– E allora, basta. Se non ha sospirato, non ne parliamo piú.

E il dottor Mangoni torna a rannicchiarsi nel fondo della vettura, dando a vedere cosí che non gli pare piú il caso di seguitare la conversazione. Il signore ci resta male.

– Ma come c’entra mia moglie, scusi?

Il vetturino a questo punto, si volta da cassetta e domanda:

– Insomma, dov’è? A momenti siamo a Campoverano!

– Uh, già! – esclama il signore. – Volta! volta! La casa è passata da un pezzo.

– Peccato tornare indietro, – dice il dottor Mangoni, – quando s’è quasi arrivati alla mèta.

Il vetturino volta, bestemmiando.

Una scaletta buja, che pare un antro dirupato: tetra umida fetida.

– Ahi! Maledizione. Diòòòdiodio!

– Che cos’è? s’è fatto male?

– Il piede. Ahiahi. Ma non ci avrebbe un fiammifero, scusi?

– Mannaggia! Cerco la scatola. Non la trovo!

 

Alla fine, un barlume che viene da una porta aperta sul pianerottolo della terza branca.

La sventura, quando entra in una casa, ha questo di particolare: che lascia la porta aperta, cosí che ogni estraneo possa introdursi a curiosare.

Il dottor Mangoni segue zoppicando il signore che attraversa una squallida saletta con un lumino bianco a petrolio per terra presso l’entrata; poi, senza chieder permesso a nessuno, un corridojo bujo, con tre usci: due chiusi, l’altro, in fondo, aperto e debolmente illuminato. Nello spasimo di quella storta al piede, trovandosi col sacco dell’ossigeno in mano, gli viene la tentazione di scaraventarlo alle spalle di quel signore; ma lo posa per terra, si ferma, si appoggia con una mano al muro, e con l’altra, tirato sú il piede, se lo stringe forte alla noce, provandosi a muoverlo in qua e in là, col volto tutto strizzato.

Intanto, nella stanza in fondo al corridojo, è scoppiata, chi sa perché, una lite tra quel signore e gl’inquilini. Il dottor Mangoni lascia il piede e fa per muoversi, volendo sapere che cosa è accaduto, quando si vede venire addosso come una bufera quel signore che grida:

– Sí, sí, da stupidi! da stupidi! da stupidi!

Fa appena a tempo a scansàrlo; si volta, lo vede inciampare nel sacco d’ossigeno:

– Piano! piano, per carità!

Ma che piano! Quello allunga un calcio al sacco; se lo ritrova tra i piedi; è di nuovo per cadere e, bestemmiando, scappa via, mentre sulla soglia della stanza in fondo al corridojo appare un tozzo e goffo vecchio in pantofole e papalina, con una grossa sciarpa di lana verde al collo, da cui emerge un faccione tutto enfiato e paonazzo, illuminato dalla candela stearica, sorretta in una mano.

– Ma scusi… dico, o che era meglio allora, che lo lasciavamo morire qua, aspettando il medico?

Il dottor Mangoni crede che si rivolga a lui e gli risponde:

– Eccomi qua, sono io.

Ma quello alza e protende la mano con la stearica; lo osserva, e come imbalordito gli domanda:

– Lei? chi?

– Non diceva il medico?

– Ma che medico! ma che medico! – insorge, strillando, nella camera di là, una voce di donna.

E si precipita nel corridojo la moglie di quel degno vecchio in pantofole e papalina, tutta sussultante, con una nuvola di capelli grigi e ricci per aria, gli occhi affumicati ammaccati e piangenti, la bocca tagliata di traverso, oscenamente dipinta, che le freme convulsa. Sollevando il capo da un lato, per guardare, soggiunge imperiosa:

– Se ne può andare! se ne può andare! Non c’è piú bisogno di lei! L’abbiamo fatto trasportare al Policlinico, perché moriva!

E cozzando in un braccio il marito violentemente:

– Fallo andar via!

Ma il marito dà uno strillo e un balzo perché, cosí cozzato nel braccio, ha avuto sulle dita la sgocciolatura calda della candela.

– Eh, piano, santo Dio!

Il dottor Mangoni protesta, ma senza troppo sdegno, che non è un ladro, né un assassino da esser mandato via a quel modo; che se è venuto, è perché sono andati a chiamarlo in farmacia; che per ora ci ha guadagnato soltanto una storta al piede, per cui chiede che lo lascino sedere almeno per un momento.

– Ma si figuri, qua, venga, s’accomodi, s’accomodi, signor dottore, – s’affretta a dirgli il vecchio, conducendolo nella stanza in fondo al corridojo; mentre la moglie, sempre col capo sollevato da un lato per guardare come una gallina stizzita, lo spia impressionata da tutta quella feroce barba fin sotto gli occhi.

– Bada, oh, se per aver fatto il bene, – dice ora, ammansata, a mo’ di scusa, – ci si deve anche prendere i rimproveri!

– Già, i rimproveri, – soggiunge il vecchio cacciando la candela accesa nel bocciuolo della bugia sul tavolino da notte accanto al lettino vuoto, disfatto, i cui guanciali serbano ancora l’impronta della testa del giovinetto suicida. Quietamente si toglie poi dalle dita le gocce rapprese, e seguita:

– Perché dice che nossignori, non si doveva portare all’ospedale, non si doveva.

– Tutto annerito era! – grida, scattando, la moglie. – Ah, quel visino. Pareva succhiato. E che occhi! E quelle labbra, nere, che scoprivan qua, qua, i denti, appena appena. Senza piú fiato…

E si copre il volto con le mani.

– Si doveva lasciarlo morire senza ajuto? – ridomanda placido il vecchio. – Ma sa perché s’è arrabbiato? Perché sospetta, dice, che quel povero ragazzo sia un figlio bastardo di suo fratello.

– E ce l’aveva buttato qua, – riprende la moglie balzando in piedi di nuovo, non si sa se per rabbia o per commozione. – Qua, per far nascere in casa mia questa tragedia, che non finirà per ora, perché la mia figliuola, la maggiore, se n’è innamorata, capisce? Come una pazza, vedendolo morire – ah, che spettacolo! – se l’è caricato in collo, io non so com’ha fatto! se l’è portato via, con l’ajuto del fratello, giú per le scale, sperando di trovare una carrozza per istrada. Forse l’hanno trovata. E mi guardi, mi guardi là quell’altra figliuola, come piange.

Il dottor Mangoni, entrando, ha già intrave-duto nell’attigua saletta da pranzo una figliolona bionda scarmigliata intenta a leggere, coi gomiti sulla tavola e la testa tra le mani. Legge e piange, sí; ma col corpetto sbottonato e le rosee esuberanti rotondità del seno quasi tutte scoperte sotto il lume giallo della lampada a sospensione.

Il vecchio padre, a cui il dottor Mangoni ora si volta come intronato, fa con le mani gesti di grande ammirazione. Sul seno della figliuola? No. Su ciò che la figliuola sta leggendo di là fra tante lagrime. Le poesie del giovinetto.

– Un poeta! – esclama. – Un poeta, che se lei sentisse… cose! Me ne intendo, perché professore di belle lettere a riposo. Cose grandi, cose grandi.

E si reca di là per prendere alcune di quelle poesie; ma la figliuola con rabbia se le difende, per paura che la sorella maggiore, ritornando col fratello dall’ospedale, non gliele lascerà piú leggere, perché vorrà tenersele per sé gelosamente, come un tesoro di cui lei sola dev’esser l’erede.

– Almeno qualcuna di queste che hai già lette, – insiste timidamente il padre.

Ma quella, curva con tutto il seno su le carte, pesta un piede e grida: – No! – Poi le raccoglie dalla tavola, se le ripreme con le mani sul seno scoperto e se le porta via in un’altra stanza di là.

Il dottor Mangoni si volta allora a guardar di nuovo quella tristezza di lettino vuoto, che rende vana la sua visita; poi guarda la finestra che, non ostante il gelo della notte, è rimasta aperta in quella lugubre stanza per farne svaporare il puzzo del carbone.

La luna rischiara il vano di quella finestra. Nella notte alta, la luna. Il dottor Mangoni se la immagina, come tante volte, errando per vie remote, l’ha veduta, quando gli uomini dormono e non la vedono piú, inabissata e come smarrita nella sommità dei cieli.

Lo squallore di quella stanza, di tutta quella casa, che è una delle tante case degli uomini, dove ballonchiano tentatrici, a perpetuare l’inconcludente miseria della vita, due mammelle di donna come quelle ch’egli ha or ora intravedute sotto il lume della lampada a sospensione nella stanza di là, gl’infonde un cosí frigido scoraggiamento e insieme una cosí acre irritazione, che non gli è piú possibile rimanere seduto.

Si alza, sbuffando, per andarsene. Infine, via, è uno dei tanti casi che gli sogliono capitare, stando di guardia nelle farmacie notturne. Forse un po’ piú triste degli altri, a pensare che probabilmente, chi sa! era un poeta davvero quel povero ragazzo. Ma, in questo caso, meglio cosí: che sia morto.

– Senta, – dice al vecchio che s’è alzato anche lui per riprendere in mano la candela. – Quel signore che li ha rimproverati e che è venuto a scomodarmi in farmacia, dev’essere veramente un imbecille. Aspetti: mi lasci dire. Non già perché li ha rimproverati, ma perché gli ho domandato se aveva moglie, e mi ha risposto di sí; ma senza sospirare. Ha capito?

Il vecchio lo guarda a bocca aperta. Evidentemente non capisce. Capisce la moglie, che salta sú a domandargli:

– Perché chi dice d’aver moglie, secondo lei, dovrebbe sospirare?

E il dottor Mangoni, pronto:

– Come m’immagino che sospira lei, cara signora, se qualcuno le domanda se ha marito.

E glielo addita. Poi riprende:

– Scusi, a quel giovinetto, se non si fosse ucciso, lei avrebbe dato in moglie la sua figliuola?

Quella lo guarda un pezzo, di traverso, e poi, come a sfida, gli risponde:

– E perché no?

– E se lo sarebbero preso qua con loro in questa casa? – torna a domandare il dottor Mangoni.

E quella, di nuovo:

– E perché no?

– E lei, – domanda ancora il dottor Mangoni, rivolto al vecchio marito, – lei che se n’intende, professore di belle lettere a riposo, gli avrebbe anche consigliato di stampare quelle sue poesie?

Per non esser da meno della moglie, il vecchio risponde anche lui:

– E perché no?

– E allora, – conclude il dottor Mangoni, – me ne dispiace, ma debbo dir loro, che sono per lo meno due volte piú imbecilli di quel signore.

E volta le spalle per andarsene.

– Si può sapere perché? – gli grida dietro la donna inviperita.

Il dottor Mangoni si ferma e le risponde pacatamente:

– Abbia pazienza. Mi ammetterà che quel povero ragazzo sognava forse la gloria, se faceva poesie. Ora pensi un po’ che cosa gli sarebbe diventata la gloria, facendo stampare quelle sue poesie. Un povero, inutile volumetto di versi. E l’amore? L’amore che è la cosa piú viva e piú santa che ci sia dato provare sulla terra? Che cosa gli sarebbe diventato? L’amore: una donna. Anzi, peggio, una moglie: la sua figliuola.

– Oh! oh! – minaccia quella, venendogli quasi con le mani in faccia. – Badi come parla della mia figliuola!

– Non dico niente, – s’affretta a protestare il dottor Mangoni. – Me l’immagino anzi bellissima e adorna di tutte le virtú. Ma sempre una donna, cara signora mia: che dopo un po’ santo Dio, lo sappiamo bene, con la miseria e i figliuoli, come si sarebbe ridotta. E il mondo, dica un po’? Il mondo, dove io adesso con questo piede che mi fa tanto male mi vado a perdere; il mondo veda lei, veda lei, signora cara, che cosa gli sarebbe diventato! Una casa. Questa casa. Ha capito?

E facendo scattar le mani in curiosi gesti di nausea e di sdegno, se ne va, zoppicando e borbottando:

– Che libri! Che donne! Che casa! Niente… niente… niente… Dimissionario! dimissionario! Niente.

5.1Mondo di carta

Un gridare, un accorrere di gente in capo a Via Nazionale, attorno a due che s’erano presi: un ragazzaccio sui quindici anni, e un signore ispido, dalla faccia gialliccia, quasi tagliata in un popone, su la quale luccicavano gli occhialacci da miope, grossi come due fondi di bottiglia.

Sforzando la vocetta fessa, quest’ultimo voleva darsi ragione e agitava di continuo le mani che brandivano l’una un bastoncino d’ebano dal pomo d’avorio, l’altra un libraccio di stampa antica.

 

Il ragazzaccio strepitava pestando i piedi sui cocci d’una volgarissima statuetta di terracotta misti a quelli di gesso abbronzato della colonnina che la sorreggeva.

Tutti attorno, chi scoppiava in clamorose risate, chi faceva un viso lungo lungo e chi pietoso: e i monelli, attaccati ai lampioni, chi abbajava, chi fischiava, chi strombettava sul palmo della mano.

– È la terza! è la terza! – urlava il signore. – Mentre passo leggendo, mi para davanti le sue schifose statuette, e me le fa rovesciare. È la terza! Mi dà la caccia! Si mette alle poste! Una volta al Corso Vittorio; un’altra a Via Volturno; adesso qua.

Tra molti giuramenti e proteste d’innocenza, il figurinajo cercava anch’esso di farsi ragione presso i piú vicini:

– Ma che! È lui! Non è vero che legge! Mi ci vien sopra! O che non veda, o che vada stordito, o che o come, fatto si è…

– Ma tre? Tre volte? – gli domandavano quelli tra le risa.

Alla fine, due guardie di città, sudate, sbuffanti, riuscirono tra tutta quella calca a farsi largo; e siccome l’uno e l’altro dei contendenti, alla loro presenza, riprendevano a gridare piú forte ciascuno le proprie ragioni, pensarono bene, per togliere quello spettacolo, di condurli in vettura al piú vicino posto di guardia.

Ma appena montato in vettura, quel signore occhialuto si drizzò lungo lungo sulla vita e si mise a voltare a scatti la testa, di qua, di là, in sú, in giú; infine s’accasciò, aprí il libraccio e vi tuffò la faccia fino a toccar col naso la pagina; la sollevò tutto sconvolto, si tirò sulla fronte gli occhialacci e rituffò la faccia nel libro per provarsi a leggere con gli occhi soltanto; dopo tutta questa mímica cominciò a dare in smanie furiose, a contrarre la faccia in smorfie orrende, di spavento, di disperazione:

– Oh Dio. Gli occhi. Non ci vedo piú. Non ci vedo piú!

Il vetturino si fermò di botto. Le guardie, il figurinajo, sbalorditi, non sapevano neppure se colui facesse sul serio o fosse impazzito; perplessi nello sbalordimento, avevano quasi un sorriso d’incredulità sulle bocche aperte.

C’era là una farmacia; e, tra la gente ch’era corsa dietro la vettura e l’altra che si fermò a curiosare, quel signore, tutto scompigliato, cadaverico in faccia, sorretto per le ascelle, vi fu fatto entrare.

Mugolava. Posto a sedere su una seggiola, si diede a dondolare la testa e a passarsi le mani sulle gambe che gli ballavano, senza badare al farmacista che voleva osservargli gli occhi, senza badare ai conforti, alle esortazioni, ai consigli che gli davano tutti: che si calmasse; che non era niente; disturbo passeggero; il bollore della collera che gli aveva dato agli occhi. A un tratto, cessò di dondolare il capo, levò le mani, cominciò ad aprire e chiudere le dita.

– Il libro! Il libro! Dov’è il libro?

 

Tutti si guardarono negli occhi, stupiti; poi risero. Ah, aveva un libro con sé? Aveva il coraggio, con quegli occhi, di andar leggendo per istrada? Come, tre statuette? Ah sí? e chi, chi, quello? Ah sí? Gliele metteva davanti apposta? Oh bella! oh bella!

– Lo denunzio! – gridò allora il signore, balzando in piedi, con le mani protese e strabuzzando gli occhi con scontorcimenti di tutto il volto ridicoli e pietosi a un tempo. – In presenza di tutti qua, lo denunzio! Mi pagherà gli occhi! Assassino! Ci sono due guardie qua; prendano i nomi, subito, il mio e il suo. Testimoni tutti! Guardia, scrivete: Balicci. Sí, Balicci; è il mio nome. Valeriano, sí, via Nomentana 112, ultimo piano. E il nome di questo manigoldo, dov’è? è qua? lo tengano! Tre volte, approfittando della mia debole vista, della mia distrazione, sissignori, tre schifose statuette. Ah, bravo, grazie, il libro, sí, obbligatissimo! Una vettura, per carità. A casa, a casa, voglio andare a casa! Resta denunziato.

E si mosse per uscire, con le mani avanti; barellò; fu sorretto, messo in vettura e accompagnato da due pietosi fino a casa.

Fu l’epilogo buffo e clamoroso d’una quieta sciagura che durava da lunghissimi anni. Infinite volte, per unica ricetta del male che inevitabilmente lo avrebbe condotto alla cecità, il medico oculista gli aveva detto di smettere la lettura. Ma il Balicci aveva accolto ogni volta questa ricetta con quel sorriso vano con cui si risponde a una celia troppo evidente.

– No? – gli aveva detto il medico. – E allora séguiti a leggere, e poi mi lodi la fine! Lei ci perde la vista, glielo dico io. Non dica poi, se me lo credevo! Io la ho avvertita!

Bell’avvertimento! Ma se vivere, per lui, voleva dir leggere! Non dovendo piú leggere, tanto valeva che morisse.

Fin da quando aveva imparato a compitare, era stato preso da quella manía furiosa. Affidato da anni e anni alle cure di una vecchia domestica che lo amava come un figliuolo, avrebbe potuto campare sul suo piú che discretamente, se per l’acquisto dei tanti e tanti libri che gl’ingombravano in gran disordine la casa, non si fosse perfino indebitato. Non potendo piú comprarne di nuovi, s’era dato già due volte a rileggersi i vecchi, a rimasticarseli a uno a uno tutti quanti dalla prima all’ultima pagina. E come quegli animali che per difesa naturale prendono colore e qualità dai luoghi, dalle piante in cui vivono, cosí a poco a poco era divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli. Discesa a grado a grado tutta la scala della miopia, ormai da alcuni anni pareva che i libri se li mangiasse davvero, anche materialmente, tanto se li accostava alla faccia per leggerli.

Condannato dal medico, dopo quella tremenda caldana, a stare per quaranta giorni al bujo, non s’illuse piú neanche lui che quel rimedio potesse giovare, e appena poté uscire di camera, si fece condurre allo studio, presso il primo scaffale. Cercò a tasto un libro, lo prese, lo aprí, vi affondò la faccia, prima con gli occhiali, poi senza, come aveva fatto quel giorno in vettura; e si mise a piangere dentro quel libro, silenziosamente. Piano piano poi andò in giro per l’ampia sala, tastando qua e là con le mani i palchetti degli scaffali. Eccolo lí, tutto il suo mondo! E non poterci piú vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe ajutato la memoria!

La vita, non l’aveva vissuta; poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto, per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco anche per quella rappresentata nei libri che non poteva piú leggere.

La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare. Tante volte s’era proposto di mettere un po’ d’ordine in quella babele, di disporre tutti quei libri per materie, e non l’aveva mai fatto, per non perder tempo. Se l’avesse fatto, ora, accostandosi all’uno o all’altro degli scaffali, si sarebbe sentito meno sperduto, con lo spirito meno confuso, meno sparpagliato.

Fece mettere un avviso nei giornali, per avere qualcuno pratico di biblioteche, che si incaricasse di quel lavoro d’ordinamento. In capo a due giorni gli si presentò un giovinotto saccente, il quale rimase molto meravigliato nel trovarsi davanti un cieco che voleva riordinata la libreria e che pretendeva per giunta di guidarlo. Ma non tardò a comprendere, quel giovanotto, che – via – doveva essere uscito di cervello quel pover’uomo, se per ogni libro che gli nominava, eccolo là, saltava di gioja, piangeva, se lo faceva dare, e allora, palpeggiamenti carezzevoli alle pagine e abbracci, come a un amico ritrovato.

– Professore, – sbuffava il giovanotto. – Ma cosí badi che non la finiamo piú!

– Sí, sí, ecco, ecco, – riconosceva subito il Balicci. – Ma lo metta qua, questo: aspetti, mi faccia toccare dove l’ha messo. Bene, bene qua, per sapermi raccapezzare.

Erano per la maggior parte libri di viaggi, d’usi e costumi dei varii popoli, libri di scienze naturali e d’amena letteratura, libri di storia e di filosofia.

 

Quando alla fine il lavoro fu compiuto, parve al Balicci che il bujo gli s’allargasse intorno in tenebre meno torbide, quasi avesse tratto dal caos il suo mondo. E per un pezzo rimase come rimbozzolito a covarlo.

Con la fronte appoggiata sul dorso dei libri allineati sui palchetti degli scaffali, passava ora le giornate quasi aspettando che, per via di quel contatto, la materia stampata gli si travasasse dentro.

Scene, episodii, brani di descrizioni gli si rappresentavano alla mente con minuta, spiccata evidenza; rivedeva, rivedeva proprio in quel suo mondo alcuni particolari che gli erano rimasti piú impressi, durante le sue riletture: quattro fanali rossi accesi ancora, alla punta dell’alba, in un porto di mare deserto, con una sola nave ormeggiata, la cui alberatura con tutte le sartie si stagliava scheletrica sullo squallore cinereo della prima luce; in capo a un erto viale, su lo sfondo di fiamma d’un crepuscolo autunnale, due grossi cavalli neri con le sacche del fieno alla testa.

Ma non poté reggere a lungo in quel silenzio angoscioso. Volle che il suo mondo riavesse voce, che si facesse risentire da lui e gli dicesse com’era veramente e non come lui in confuso se lo ricordava. Mise un altro avviso nei giornali, per un lettore o una lettrice; e gli capitò una certa signorinetta tutta fremente in una perpetua irrequietezza di perplessità. Aveva svolazzato per mezzo mondo, senza requie, e anche per il modo di parlare dava l’immagine d’una calandrella smarrita, che spiccasse di qua, di là il volo, indecisa, e s’arrestasse d’un subito, con furioso sbàttito d’ali, e saltellasse, rigirandosi per ogni verso.

Irruppe nello studio, gridando il suo nome:

– Tilde Pagliocchini. Lei? Ah già… me lo… sicuro, Balicci, c’era scritto sul giornale… anche su la porta… Oh Dio, per carità, no! guardi, professore, non faccia cosí con gli occhi. Mi spavento. Niente, niente, scusi, me ne vado.

Questa fu la prima entrata. Non se n’andò. La vecchia domestica, con le lagrime agli occhi, le dimostrò che quello era per lei un posticino proprio per la quale.

– Niente pericoli?

Ma che pericoli! Mai, che è mai? Solo, un po’ strano, per via di quei libri. Ah, per quei libracci maledetti, anche lei, povera vecchia, eccola là, non sapeva piú se fosse donna o strofinaccio.

– Purché lei glieli legga bene.

La signorina Tilde Pagliocchini la guardò, e appuntandosi l’indice d’una mano sul petto:

– Io?

Tirò fuori una voce, che neanche in paradiso.

Ma quando ne diede il primo saggio al Balicci con certe inflessioni e certe modulazioni, e volate e smorzamenti e arresti e scivoli, accompagnati da una mimica tanto impetuosa quanto superflua, il pover’uomo si prese la testa tra le mani e si restrinse e si contorse come per schermirsi da tanti cani che volessero addentarlo.

– No! Cosí no! Cosí no! per carità! – si mise a gridare.

E la signorina Pagliocchini, con l’aria piú ingenua del mondo:

– Non leggo bene?

– Ma no! Per carità, a bassa voce! Piú bassa che può! quasi senza voce! Capirà, io leggevo con gli occhi soltanto, signorina!

– Malissimo, professore! Leggere a voce alta fa bene. Meglio poi non leggere affatto! Ma scusi, che se ne fa? Senta (picchiava con le nocche delle dita sul libro). Non suona! Sordo. Ponga il caso, professore, che io ora le dia un bacio.

Il Balicci s’interiva pallido:

– Le proibisco!

– Ma no scusi! Teme che glielo dia davvero? Non glielo do! Dicevo per farle avvertir subito la differenza. Ecco, mi provo a leggere quasi senza voce. Badi però che, leggendo cosí io fischio l’esse, professore!

Alla nuova prova, il Balicci si contorse peggio di prima. Ma comprese che, sú per giú, sarebbe stato lo stesso con qualunque altra lettrice, con qualunque altro lettore. Ogni voce, che non fosse la sua, gli avrebbe fatto parere un altro il suo mondo.

– Signorina, guardi, mi faccia il favore, provi con gli occhi soltanto, senza voce.

La signorina Tilde Pagliocchini si voltò a guardarlo, con tanto d’occhi.

– Come dice? Senza voce? E allora, come? per me?

– Sí, ecco, per conto suo.

– Ma grazie tante! – scattò, balzando in piedi, la signorina. – Lei si burla di me? Che vuole che me ne faccia io, dei suoi libri, se lei non deve sentire?

– Ecco, le spiego, – rispose il Balicci, quieto, con un amarissimo sorriso. – Provo piacere che qualcuno legga qua, in vece mia. Lei forse non riesce a intenderlo, questo piacere. Ma gliel’ho già detto: questo è il mio mondo; mi conforta il sapere che non è deserto, che qualcuno ci vive dentro, ecco. Io le sentirò voltare le pagine, ascolterò il suo silenzio intento, le domanderò di tanto in tanto che cosa legge, e lei mi dirà… oh, basterà un cenno… e io la seguirò con la memoria. La sua voce, signorina, mi guasta tutto!

– Ma io la prego di credere, professore, che la mia voce è bellissima! – protestò, sulle furie, la signorina.

– Lo credo, lo so – disse subito il Balicci. – Non voglio farle offesa. Ma mi colora tutto diversamente, capisce? E io ho bisogno che nulla mi sia alterato; che ogni cosa mi rimanga tal quale. Legga, legga. Le dirò io che cosa deve leggere. Ci sta?

– Ebbene, ci sto, sí. Dia qua!

In punta di piedi, appena il Balicci le assegnava il libro da leggere, la signorina Tilde Pagliocchini volava via dallo studio e se n’andava a conversare di là con la vecchia domestica. Il Balicci intanto viveva nel libro che le aveva assegnato e godeva del godimento che si figurava ella dovesse prenderne. E di tratto in tratto le domandava: – Bello, eh? – oppure: – Ha voltato? – Non sentendola nemmeno fiatare, s’immaginava che fosse sprofondata nella lettura e che non gli rispondesse per non distrarsene.

– Sí, legga, legga… – la esortava allora, piano, quasi con voluttà.

Talvolta, rientrando nello studio, la signorina Pagliocchini trovava il Balicci coi gomiti su i bracciuoli della poltrona e la faccia nascosta tra le mani.

– Professore, a che pensa?

– Vedo… – le rispondeva lui, con una voce che pareva arrivasse da lontano lontano. Poi, riscotendosi con un sospiro: – Eppure ricordo che erano di pepe!

– Che cosa, di pepe, professore?

– Certi alberi, certi alberi in un viale… Là, veda, nella terza scansia, al secondo palchetto, forse il terz’ultimo libro.

– Lei vorrebbe che io le cercassi, ora, questi alberi di pepe? – gli domandava la signorina, spaventata e sbuffante.

– Se volesse farmi questo piacere.

Cercando, la signorina maltrattava le pagine, s’irritava alle raccomandazioni di far piano.

Cominciava a essere stufa, ecco. Era abituata a volare, lei, a correre, a correre, in treno, in automobile, in ferrovia, in bicicletta, su i piroscafi. Correre, vivere! Già si sentiva soffocare in quel mondo di carta. E un giorno che il Balicci le assegnò da leggere certi ricordi di Norvegia, non seppe piú tenersi. A una domanda di lui, se le piacesse il tratto che descriveva la cattedrale di Trondhjem, accanto alla quale, tra gli alberi, giace il cimitero, a cui ogni sabato sera i parenti superstiti recano le loro offerte di fiori freschi:

– Ma che! ma che! ma che! – proruppe su tutte le furie. – Io ci sono stata, sa? E le so dire che non è com’è detto qua!

Il Balicci si levò in piedi, tutto vibrante d’ira e convulso:

– Io le proibisco di dire che non è com’è detto là! – le gridò, levando le braccia. – M’importa un corno che lei c’è stata! È com’è detto là, e basta! Dev’essere cosí, e basta! Lei mi vuole rovinare! Se ne vada! Se ne vada! Non può piú stare qua! Mi lasci solo! Se ne vada!

Rimasto solo, Valeriano Balicci, dopo aver raccattato a tentoni il libro che la signorina aveva scagliato a terra, cadde a sedere su la poltrona; aprí il libro, carezzò con le mani tremolanti le pagine gualcite; poi v’immerse la faccia e restò lí a lungo, assorto nella visione di Trondhjem con la sua cattedrale di marmo, col cimitero accanto, a cui i devoti ogni sabato sera recano offerte di fiori freschi – cosí, cosí com’era detto là. – Non si doveva toccare. Il freddo, la neve, quei fiori freschi, e l’ombra azzurra della cattedrale. – Niente lí si doveva toccare. Era cosí, e basta. Il suo mondo. Il suo mondo di carta. Tutto il suo mondo.

5. 14  Il sonno del vecchio

Mentre nel salotto della Venanzi ferveva la conversazione in varie lingue su i piú disparati argomenti, Vittorino Lamanna pensava alle due notizie che la padrona di casa gli aveva date, appena entrato. L’una buona, l’altra cattiva. La buona, che alla lettura della sua commedia avrebbe assistito, quel giorno, Alessandro De Marchis, il vecchio venerando che tanta luce di pensiero aveva diffuso nel mondo co’ suoi libri di scienza e di filosofia e che giustamente ora la patria considerava come una delle sue piú fulgide glorie. La cattiva, che Casimiro Luna, il «brillante» giornalista Luna, reduce da Londra, ove si era recato a «intervistare» un giovine scienziato italiano che aveva fatto or ora una grande scoperta scientifica, ne avrebbe parlato nella radunanza, prima che l'»intervista» fosse pubblicata sul giornale della sera.

Il Lamanna non invidiava al Luna tutte quelle doti appariscenti, che in pochi anni lo avevano reso il beniamino del pubblico, specialmente femminile; gl’invidiava la fortuna. Prevedeva che tra breve tutti gli sguardi si sarebbero rivolti con simpatia al giornalista effimero, elegantissimo, e che nessuno piú avrebbe badato a lui; e si lasciava vincere a poco a poco dal malumore, al quale, senza bisogno, pareva facesse da mantice un certo signore che la Venanzi gli aveva messo alle costole: un signore arguto, calvo, di cui non ricordava piú il nome, ma che gli ricordava invece quello di tutti gli altri lí presenti, dicendo male di ciascuno.

– Chi vuole, caro signore, che capisca un’acca della sua commedia, tra tutta questa gente qui? Non se ne curi, però. Basterà si sappia che lei l’ha letta nel salotto intellettuale della Venanzi. Ne parleranno i giornali. Il che, al giorno d’oggi, vuol dire tutto. La maggior parte, come vede, sono forestieri che spiccicano appena appena qualche parola d’italiano. Non sanno bene come si scriva la parola soldo, ma s’accorgono subito adesso se il soldo è falso, e sanno meglio di noi che vale cinque centesimi. L’industria dei forestieri? Idea sbagliata, caro signore! Perché…

Venne, per fortuna, la signora Alba Venanzi a liberarlo da quel tormento. Era entrata nel salotto la marchesa Landria-ni, a cui la Venanzi lo voleva presentare.

– Marchesa, eccole il nostro Vittorino Lamanna, futura gloria del teatro nazionale.

– Per carità! – disse Vittorino Lamanna, arrossendo, inchinandosi e sorridendo.

La vecchia e grassa marchesa Landriani, dall’aria perennemente stordita, stava a togliersi dal naso gli occhiali a staffa azzurri e, prima d’inforcarsi quelli chiari, rimase un pezzo con gli occhi chiusi e un sorriso freddo, rassegato sulle labbra pallide.

– Conosco, conosco… – disse, molle molle. – Mi ajuti a rammentare dove ho letto di recente roba sua.

– Mah, – fece il Lamanna, compiaciuto, cercando nella memoria. – Non saprei.

E citò una o due riviste, dove aveva di recente stampato qualche cosa.

– Ah, ecco, sí. Bravo! Non ricordavo bene. Leggo tanto, leggo tanto, che poi mi trovo imbarazzata. Sí sí, appunto. Bravo, bravo.

E lo guardò con le lenti chiare, e col sorriso freddo rassegato ancora sulle labbra.

– Quella lí? – diceva, poco dopo, all’orecchio del Lamanna il signore calvo, che evidentemente lo perseguitava. – Quella lí? Una talpa, caro signore! Non conosce neppure l’o. E non di meno, va ripetendo che conosce tutti, che ha letto roba di tutti. Lo avrà detto anche a lei, scusi, non è vero? Non ci creda, per carità! Una talpa di prima forza, le dico.

Entrò, in quel momento, Casimiro Luna. Vittorino Lamanna lo conosceva bene, fin da quand’era, come lui, un ignoto. Ragion per cui il Luna lo degnò appena d’un freddissimo saluto.

– Miro! Miro!

Lo chiamavano tutti per nome, cosí, di qua e di là, ed egli aveva un sorriso e una parola graziosa per ciascuno. Accennò di ghermire una rosa dal seno d’una signora e poi egli stesso fece un gesto di stupore e d’indignazione per la sua temerità, e la signora ne rise, felicissima. La padrona di casa non ebbe bisogno di presentarlo a nessuno. Lo conoscevano tutti.

Nel vederlo cosí vezzeggiato e incensato, Vittorino Lamanna pensava quanto facile dovesse riuscire a colui il far valere quel po’ d’ingegno di cui era dotato, quanto facile la vita. «Vita?» domandò tuttavia a se stesso. «E che vita è mai quella ch’egli vive? Una continua stomachevole finzione! Non uno sguardo, non un gesto, non una parola, sinceri. Non è piú un uomo: è una caricatura ambulante. E bisogna ridursi a quel modo per aver fortuna, oggi?» Sentiva, cosí pensando, un profondo disgusto anche di sé, vestito e pettinato alla moda, e si vergognava d’esser venuto a cercare la lode, la protezione, l’ajuto di quella gente che non gli badava.

A un tratto, nel salotto si fece silenzio e tutti si volsero verso l’uscio, in attesa. Entrava, a braccio della moglie, Alessandro De Marchis.

Ansava il grand’uomo, tozzo e corpulento, dal testone calvo, sotto la cui cute liscia giallastra spiccava la trama delle vene turgide. La moglie coi capelli fulvi, pomposamente acconciati, lo sorreggeva, diritta, tronfia, e guardava di qua e di là, sorridendo con le labbra dipinte.

Tutti si mossero a ossequiare.

 

Alessandro De Marchis, lasciandosi cadere pesantemente sul seggiolone preparato apposta per lui, sorrideva con la bocca sdentata, senza baffi né barba, ed emetteva, tra l’ànsito che gli davano la pinguedine e la vecchiaja, come un grugnito, e guardava con gli occhi quasi spenti, scialbi, acquosi.

Ma subito un vivissimo imbarazzo si diffuse nel salotto: tutti gli occhi, appena guardavano al grand’uomo, si voltavano altrove, schivan-dosi a vicenda.

La De Marchis, infocata in volto, contenendo a stento il dispetto, accorse presso il marito, gli si parò davanti, vicinissima, e gli disse piano, ma con voce vibrata:

– Alessandro, abbottonati! Vergogna!

Il povero vecchio si recò subito la grossa mano tremante, ove la moglie imperiosamente con gli occhi gl’indicava, e la guardò quasi impaurito, con un sorriso scemo sulle labbra.

Poco dopo, mentre Casimiro Luna riferiva «brillantemente» il suo colloquio col giovine inventore italiano sulla famosa scoperta, un’altra impressione piú penosa della prima dovettero provare i convenuti nel salotto della Venanzi, guardando il vecchio glorioso.

Alessandro De Marchis, che era pure un celebre fisico, i cui libri senza dubbio quel giovine inventore italiano aveva dovuto studiare e consultare, Alessandro De Marchis s’era messo a dormire, col testone reclinato sul petto.

Vittorino Lamanna fu tra i primi ad accorgersene, e si sentí gelare. Casimiro Luna seguitava a parlare; ma, a un certo punto, seguendo lo sguardo degli altri, e vedendo anche lui il De Marchis immerso nel sonno, atteggiò il volto di tal commiserazione che a piú d’uno scappò irresistibilmente un breve riso subito soffocato.

– Ma a ottantasei anni, scusi, – osservò piano, all’orecchio del Lamanna, quello stesso signore arguto, – a ottantasei anni, davanti alla soglia della morte, che può piú importare, caro signore, ad Alessandro De Marchis che Guglielmo Marconi abbia scoperto il telegrafo senza fili? Domani morrà. È già quasi morto. Lo guardi.

Vittorino Lamanna, pallido, alterato, si voltò per dirgli sgarbatamente che si stesse zitto; ma incontrò lo sguardo della Venanzi che gli fece un cenno, levandosi e uscendo dal salotto. Si alzò anche lui poco dopo, e la seguí nel salottino accanto.

La trovò, che accendeva una sigaretta, traendo con voluttà le prime boccate di fumo.

– Fumate, fumate, Lamanna, fumate anche voi, – gli disse, presentandogli una scatola di sigarette. – Non ne potevo piú! Se non fumo, muojo.

Arrivò dal salotto, attraverso la vetrata, un fragoroso scoppio di risa.

– Caro, caro, quel Luna! Sentite? Trova modo di far ridere anche parlando di una scoperta scientifica. Speriamo che si svegli! – sospirò poi, alludendo al De Marchis. – Chi sa come debe soffrirne quella povera Cristina!

– Cristina? – domandò, accigliato, Vittorino Lamanna.

– La moglie, – spiegò la Venanzi. – Non l’avete veduta? È tanto bella! Forse ora s’ajuta un po’ con la chimica. Ah, è stato un vero peccato sacrificare alla gloria di quel vecchio tanta bellezza! Calcolo sbagliato! Il vecchio glorioso se ne sta lí, come vedete, abbandonato dalla vita, dimenticato dalla morte. La povera Cristina, evidentemente, contò che, sí, il sacrifizio della sua bellezza alla gloria non sarebbe durato tanto, e che la luce di questa gloria avrebbe poi illuminato meglio la sua bellezza. Calcolo sbagliato! E ora, poverina, vuol cavare dalla gloria a cui s’è sacrificata tutte quelle magre soddisfazioni che può: si trascina il marito dappertutto; per miracolo non si appende al collo le innumerevoli decorazioni di lui, nazionali e forestiere. Il vecchio però, eh! il vecchio se ne vendica: dorme cosí dappertutto, sapete! Dorme, dorme. Ed è già molto che non ronfi!

Vittorino Lamanna sentí cascarsi le braccia. Pensò alla prossima lettura della sua commedia, mentre il vecchio dormiva; pensò al detto di un celebre commediografo francese: che durante la lettura o la rappresentazione d’un dramma, il sonno debba esser considerato come un’opinione, e si lasciò scappare dalle labbra:

– Oh Dio! E allora?

La Venanzi, a questo ingenuo sospiro, scoppiò a ridere, proprio di cuore.

– Non temete, non temete! – gli disse poi. – Procureremo di tenerlo sveglio. Ma già, vedrete che non ce ne sarà bisogno. L’arte vostra farà da sé il miracolo.

– Ma se mi dice che dorme sempre!

– No: sempre sempre poi no! Se mai, però, gli metteremo accanto il Gabrini: sapete? quello che vi tormenta. Me ne sono accorta. Ah, il Gabrini è terribile! Capacissimo d’allungargli sotto sotto qualche pizzicotto. Lasciate fare a me!

Entrò in quel momento Flora, la bellissima figliuola della Venanzi, a chiamare la madre.

Casimiro Luna aveva finito d’esporre la sua «intervista» ed era scappato via.

La Venanzi carezzò la splendida figliuola alla presenza del giovanotto, le ravviò i capelli, le rassettò sul seno ricolmo le pieghe della camicetta di seta. Flora la lasciò fare, sorridente, con gli occhi rivolti al giovine; poi disse alla madre:

– Sai che donna Cristina è andata via anche lei?

La madre allora s’adirò fieramente.

– Via? E mi lascia lí quel mausoleo addormentato? Ah! È un po’ troppo, mi pare! Dov’è andata?

– Mah! – sospirò la figlia. – Ha detto che ritornerà tra poco.

Poi si volse al Lamanna e aggiunse:

– Non dubiti: glielo sveglio io, or ora, con una tazza di tè.

Il Lamanna, già col sangue tutto rimescolato, avrebbe voluto pregare la Venanzi di mandare a monte la lettura della commedia e di permettergli d’andar via di nascosto. Ma la signora Alba s’era già levata e aveva schiuso la bussola per rientrare in salotto con la figlia.

Quando di lí a poco, questa con una tazza di tè in una mano e nell’altra il bricco del latte, pregò la signora inglese che sedeva accanto al De Marchis di scuoterlo per un braccio, Vittorino Lamanna, divenuto nervosissimo, avrebbe voluto gridarle: «Ma lo lasci dormire, perdio!». Cosí, quelli che non sapevano del continuo sonno del vecchio, avrebbero potuto attribuirne la causa alla relazione del Luna e non alla prossima lettura della sua commedia.

Destato, Alessandro De Marchis guardò Flora con gli occhi stralunati:

– Ah sí… Guglielmo… Guglielmo Marconi…

– No, scusi, senatore, – disse Flora, con un sorriso. – Col latte o senza?

– Col… col latte, sí, grazie.

 

Preso il tè, rimase sveglio. Vittorino Lamanna, che già si disponeva alla lettura, accolse in sé la lusinga che la sua commedia avrebbe veramente incatenato l’attenzione del vecchio, come la Venanzi gli aveva lasciato sperare, e lesse a voce alta il titolo: Conflitto.

Lesse i personaggi, lesse la descrizione della scena, e volse una rapida occhiata al De Marchis.

Questi se ne stava ancora con le ciglia corrugate e pareva attentissimo. Il Lamanna si raffermò in quella lusinga, e cominciò a leggere la prima scena, tutto rianimato.

S’era proposto di rappresentare un conflitto d’anime, diceva lui. Un vecchio benefattore, ancor valido, aveva sposato la sua beneficata; questa, presa poco dopo d’amore per un giovane, si dibatteva tra il sentimento del dovere e della gratitudine e il ribrezzo che provava nell’adempimento de’ suoi doveri di sposa, mentre il suo cuore era pieno di quell’altro. Tradire, no; ma mentire, mentire neppure!

Orbene, chi sa! il De Marchis forse avrebbe potuto intravedere in quella situazione drammatica un caso simile al suo, e avrebbe prestato attenzione fino all’ultimo. E il Lamanna seguitava a leggere con molto calore.

A un tratto però, dagli occhi degli ascoltatori comprese che il vecchio s’era rimesso a dormire.

Non ebbe il coraggio di guardare per accertarsene. Cercò invece gli occhi del Gabrini e li incontrò subito appuntati su lui, taglienti di ironia.

– A ottantasei anni, davanti alla soglia della morte… – gli parve di leggere in quello sguardo; e subito sentí tutto il sangue affluirgli alle guance, dalla stizza; si confuse, s’impappinò, perdette il tono, il colore, la misura; e, con un gran ronzío negli orecchi, in preda a una esasperazione crescente di punto in punto, strascinò miseramente la lettura del suo lavoro fino alla fine.

Fu un supplizio per lui e per gli altri, che parve durasse un secolo. Finito, non vide l’ora di trovarsi solo in casa per lacerare in mille minutissimi pezzi quel suo atto unico, ch’era stato per lui strumento d’indicibile tortura.

Mezz’ora dopo, nel salotto della Venanzi non c’era piú nessuno, tranne il vecchio che dormiva sul seggiolone, col capo rovesciato sul petto, le labbra flosce, da cui pendeva sul panciotto un filo di bava.

Madre e figlia, nel salottino accanto, parlavano della pessima figura fatta dal Lamanna e mangiucchiavano intanto qualche violetta inzuccherata.

– Oh! – esclamò a un tratto la madre. – Quella lí non torna. Bisogna svegliare il vecchio.

Si recarono nel salotto e stettero un po’ a contemplare con una certa pena mista di ribrezzo quel glorioso dormente, in cui ogni luce d’intelletto era estinta da un pezzo.

Lo scossero pian piano, poi piú forte. Stentò non poco Alessandro De Marchis a compren-dere che la moglie lo aveva abbandonato lí.

– Se vuole, – gli disse la Venanzi, – lo farò accompagnare fino a casa.

– No, – rispose il vecchio, provandosi piú volte a levarsi dal seggiolone. – Mi basta… mi basta fino a piè della scala. Poi mi metto in vettura.

Riuscí finalmente a tirarsi sú; guardò Flora; le accarezzò una guancia.

– Sei un po’ sciupatina, – le disse. – Bellina mia, che cos’è? facciamo forse all’amore?

Flora, senza arrossire, alzò una spalla e sorrise.

– Che dice mai, senatore!

– Male! – riprese allora il De Marchis. – A diciannove anni bisogna fare all’amore. E credi pure che non c’è niente di meglio, bellina mia.

Si accostò lentamente a una mensola, per tuffar la faccia in un gran mazzo di rose; poi, ritraendola, sospirò:

– Povero vecchio…

Scese pian piano, a gran fatica, la scala, appoggiato al cameriere; si mise in vettura e poco dopo si addormentò anche lí, senza il piú lontano sospetto che la sera, nelle «note mondane», tutti i giornali piú in vista avrebbero parlato di lui, del suo grande compiacimento per i trionfi di Guglielmo Marconi, della sua vivissima simpatia per Casimiro Luna e anche della sua paterna benevolenza per Vittorino Lamanna, giovane commediografo di belle speranze.

5.15 La distruzione dell’uomo

Vorrei sapere soltanto se il signor giudice istruttore ritiene in buona fede d’aver trovato una sola ragione che valga a spiegare in qualche modo questo ch’egli chiama assassinio premeditato (e sarebbe, se mai, doppio assassinio, perché la vittima stava per compire felicemente l’ultimo mese di gravidanza).

Si sa che Nicola Petix s’è barricato in un silenzio impenetrabile, prima davanti al commissario di polizia, appena arrestato, poi davanti a lui, voglio dire al signor giudice istruttore che inutilmente tante volte e in tutte le maniere s’è provato a interrogarlo, e infine anche davanti al giovane avvocato che gli hanno imposto d’ufficio, visto che fino all’ultimo non ha voluto incaricarne uno di sua fiducia per la difesa.

Di questo silenzio cosí ostinato si dovrebbe pur dare, mi sembra, una qualche interpretazione.

Dicono che in carcere Petix dimostra la smemorata indifferenza d’un gatto che, dopo aver fatto strazio d’un topo o d’un pulcino, si raccolga beato dentro un raggio di sole.

Ma è chiaro che questa voce, la quale vorrebbe dare a intendere che Petix consumò il delitto con l’incoscienza d’una bestia, non è stata accolta dal giudice istruttore, se egli ha creduto di dovere ammettere e sostenere la premeditazione nell’assassinio. Le bestie non premeditano. Se s’appostano, il loro agguato è parte istintiva e naturale della loro naturalissima caccia, che non le fa né ladre né assassine. La volpe è ladra per il padrone della gallina: ma per sé la volpe non è ladra: ha fame; e quand’ha fame, acchiappa la gallina e se la mangia. E dopo che se l’è mangiata, addio, non ci pensa piú.

Ora Petix non è una bestia. E bisogna vedere, prima di tutto, se questa indifferenza è vera. Perché, se vera, anche di questa indifferenza si dovrebbe tener conto, come di quel silenzio ostinato, di cui – a mio modo di vedere – sarebbe la conseguenza piú naturale; corroborati come sono l’una e l’altro dall’esplicito rifiuto d’un difensore.

Ma non voglio anticipar giudizii, né mettere avanti per ora la mia opinione.

Séguito a discutere col signor giudice istruttore.

Se il signor giudice istruttore crede che Petix sia da punire con tutti i rigori della legge, perché per lui non è uno scemo feroce da paragonare a una bestia, né un pazzo furioso che per nulla abbia ucciso una donna a poche settimane del parto; la ragione del delitto, di quest’assassinio premeditato, quale può essere stata?

Una passione segreta per quella donna, no. Basterebbe che il giovane avvocato d’ufficio mettesse sotto gli occhi ai signori giurati, per un momento, un ritratto della povera morta. La signora Porrella aveva quarantasette anni e a tutto ormai poteva somigliare tranne che a una donna.

Ricordo d’averla veduta pochi giorni prima del delitto, sulla fine d’ottobre, a braccetto del marito cinquantenne, un pochino piú piccolino di lei, ma col suo bravo pancino anche lui, il signor Porrella, per il viale Nomentano sul tramonto, non ostante il vento che sollevava in calde raffiche fragorose le foglie morte.

Posso assicurare sulla mia parola d’onore, ch’era una provocazione la vista di quei due, fuori a passeggio in una giornata come quella, con tutto quel vento, tra il turbine di tutte quelle foglie morte, piccoli sotto gli alti platani nudi che armeggiavano nel cielo tempestoso con l’ispido intrico dei rami.

Buttavano i piedi allo stesso modo, nello stesso tempo, gravi, come per un cómpito assegnato.

Forse credevano che di quella passeggiata non si potesse assolutamente fare a meno, ora che la gravidanza era agli ultimi giorni. Prescritta dal medico; consigliata da tutte le amiche del vicinato.

Seccante forse, sí, ma naturalissimo per loro che quel vento insorgesse cosí di tratto in tratto e sbattesse furiosamente di qua e di là tutte quelle foglie accartocciate senza mai riuscire a spazzarle via; e che quei platani là, poiché a tempo avevano rimesso le foglie, ora a tempo se ne spogliassero per rimaner come morti fino alla ventura primavera; e che là quel cane randagio fosse condannato da ogni fiuto nel naso a fermarsi quasi a tutti i tronchi di quei platani e ad alzare con esasperazione un’anca per non spremer che poche gocciole appena, dopo essersi rigirato piú e piú volte smaniosamente per cercarne il verso.

Giuro che non a me soltanto, ma a quanti passavano quel giorno per il viale Nomentano sembrava incredibile che quell’omino là potesse mostrarsi cosí soddisfatto di portarsi a spasso quella moglie in quello stato; e piú incredibile che quella moglie si lasciasse portare, con un’ostinazione che tanto piú appariva crudele contro se stessa, quanto piú lei sembrava rassegnata allo sforzo insopportabile che doveva costarle. Barellava, ansimava e aveva gli occhi come induriti nello spasimo, non già di quello sforzo disumano, ma dalla paura che non sarebbe riuscita a portare fino all’ultimo quel suo ingombro osceno nel ventre che le cascava. È vero che di tanto in tanto abbassava su quegli occhi le palpebre livide. Ma non tanto per vergogna le abbassava, quanto per il dispetto di vedersi obbligata a sentirla, quella vergogna, dagli occhi di chi la guardava e la vedeva in quello stato, alla sua età, vecchia ciabatta ancora in uso per una cosa che pareva tanto. Infatti, tenendo per il braccio il marito, avrebbe potuto con qualche strizzatina sotto sotto richiamarlo dalla soddisfazione a cui spesso e con troppa evidenza s’abbandonava, d’esser lui, pur cosí piccolino e calvo e cinquantenne, l’autore di tutto quel grosso guajo lí. Non lo richiamava, perché era anzi contenta che avesse il coraggio di mostrarla lui, quella soddisfazione, mentre a lei toccava di mostrarne vergogna. Mi pare di vederla ancora, quando, a qualche raffica piú violenta che la investiva da dietro, si fermava su le tozze gambe larghe, a cui s’attaccava la veste che gliele disegnava sconciamente, mentre davanti le faceva pallone. Allora ella non sapeva a qual riparo correr prima col braccio libero; se abbassare cioè quel pallone della veste, che rischiava di scoprirla tutta davanti, o se tener per la falda il vecchio cappello di velluto viola, alle cui malinconiche piume nere nasceva col vento una disperata velleità di volo.

Ma veniamo al fatto.

Vi prego (se avete un po’ di tempo) d’andar a visitare quel vecchio casone in Via Alessandria, dove abitavano i coniugi Porrella e anche, in due stanzette del piano di sotto, Nicola Petix.

È uno di quei tanti casoni, tutti brutti a un modo, come bollati col marchio della comune volgarità del tempo in cui furon levati in gran furia, nella previsione che poi si riconobbe errata d’un precipitoso e strabocchevole affluir di regnicoli a Roma subito dopo la proclamazione di essa a terza capitale del regno.

Tante private fortune, non solo di nuovi arricchiti, ma anche d’illustri casati, e tutti i sussidii prestati dalle banche di credito a quei costruttori, che parvero per piú anni in preda a una frenesia quasi fanatica, andarono allora travolti in un enorme fallimento, che ancor si ricorda.

E si videro, dov’erano antichi parchi patrizii, magnifiche ville e, di là dal fiume, orti e prati, sorger case e case e case, interi isolati, per vie eccentriche appena tracciate; e tante all’improvviso restare – ruderi nuovi – alzate fino ai quarti piani, a infracidar senza tetto, con tutti i vani delle finestre sguarniti, e fissato ancora in alto, ai buchi dei muri grezzi, qualche resto dell’impalcatura abbandonata, annerito e imporrito dalle piogge; e altri isolati, già compiuti, rimaner deserti lungo intere vie di quartieri nuovi, per cui non passava mai nessuno; e l’erba nel silenzio dei mesi rispuntare ai margini dei marciapiedi, rasente ai muri e poi, esile, tenerissima, abbrividente a ogni soffio d’aria, riprendersi tutto il battuto delle strade.

 

 

Parecchie di queste case poi, costruite con tutti i comodi per accogliere agiati inquilini, furono aperte, tanto per trarne qualche profitto, all’invasione della gente del popolo. La quale, come può bene immaginarsi, ne fece in poco tempo tale scempio, che quando alla fine, con l’andar degli anni, cominciò a Roma veramente la penuria degli alloggi, troppo presto temuta prima, troppo tardi rimediata poi per la paura che teneva tutti di far nuove costruzioni a causa di quella solenne scottatura, i nuovi proprietarii, che le avevano acquistate a poco prezzo dalle banche sussidiatrici degli antichi costruttori falliti, facendosi ora il conto di quanto avrebbero dovuto spendere a riattarle e rimetterle in uno stato di decenza per darle in affitto a inquilini disposti a pagare una piú alta pigione, stimarono piú conveniente non farne nulla e contentarsi di lasciar le scale con gli scalini smozzicati, i muri oscenamente imbrattati, le finestre dalle persiane cadenti e i vetri rotti imbandierate di cenci sporchi e rattoppati, stesi sui cordini ad asciugare.

Se non che, adesso, in qualcuna di queste grandi e miserabili case, pur tra cotali inquilini rimasti a compir l’opera di distruzione sulle pareti e sugli usci e sui pavimenti, qualche famiglia decaduta o di ceto medio, d’impiegati o di professori, ha cominciato a cercar ricovero, o per non averlo trovato altrove o per bisogno o amor di risparmio, vincendo il ribrezzo di tutto quel lerciume e piú della mescolanza con quello che sí, Dio mio, prossimo è, non si nega, ma che pur certamente, poco poco che si ami la pulizia e la buona creanza, dispiace aver troppo vicino; e non si può dire del resto che il dispiacere non sia contraccambiato; tanto vero che questi nuovi venuti sono stati in principio guardati in cagnesco, e poi, a poco a poco, se han voluto esser visti men male, han dovuto acconciarsi a certe confidenze piuttosto prese che accordate.

 

Ora in quel casone là di Via Alessandria, quando avvenne il delitto, i coniugi Porrella abitavano da circa quindici anni; Nicola Petix, da una diecina. Ma mentre quelli da un pezzo erano entrati nelle grazie di tutti i piú antichi casigliani, Petix s’era attirato al contrario sempre piú l’antipatia generale, per il disprezzo con cui guardava, a cominciar dal portinajo ciabattino, tutti; senza mai voler degnare non che d’una parola, ma neppur d’un lieve cenno di saluto, nessuno.

Ho detto, veniamo al fatto. Ma un fatto è come un sacco che, vuoto, non si regge.

Se n’accorgerà bene il signor giudice istruttore, se – come pare – vorrà provarsi a farlo reggere cosí, senza prima farci entrar dentro tutte quelle ragioni che certamente lo han determinato, e che lui forse non immagina neppure.

Petix ebbe per padre un ingegnere spatriato da gran tempo e morto in America, il quale tutta la fortuna raccolta in tanti anni laggiú con l’esercizio della professione lasciò in eredità a un altro figliuolo, maggiore di due anni di Petix e ingegnere anche lui, con l’obbligo di passare mensilmente al fratello minore, vita natural durante, un assegnino di poche centinaja di lire, quasi a titolo d’elemosina e non perché gli spettassero di diritto, essendosi già «mangiata», com’era detto nel testamento, «tutta la legittima a lui spettante in un ozio vergognoso».

Quest’ozio di Petix sarà bene intanto che non venga considerato solamente dal lato del padre, ma un po’ anche da quello di lui, perché Petix veramente frequentò per anni e anni le aule universitarie, passando da un ordine di studii all’altro, dalla medicina alla legge, dalla legge alle matematiche, da queste alle lettere e alla filosofia: non dando mai, è vero, nessun esame, perché non si sognò mai di fare il medico o l’avvocato, il matematico o il letterato o il filosofo: Petix non ha voluto fare in verità mai nulla; ma ciò non vuol dire che se ne sia stato in ozio, e che quest’ozio sia stato vergognoso. Ha meditato sempre, studiando a suo modo, sui casi della vita e sui costumi degli uomini.

 

Frutto di queste continue meditazioni, un tedio infinito, un tedio insopportabile tanto della vita quanto degli uomini.

Fare per fare una cosa? Bisognerebbe star dentro alla cosa da fare, come un cieco, senza vederla da fuori; o se no, assegnarle uno scopo. Che scopo? Soltanto quello di farla? Ma sí, Dio mio: come si fa. Oggi questa e domani un’altra. O anche la stessa cosa ogni giorno. Secondo le inclinazioni o le capacità, secondo le intenzioni, secondo i sentimenti o gl’istinti. Come si fa.

Il guajo viene, quando di quelle inclinazioni e capacità e intenzioni, di quei sentimenti e istinti, seguiti da dentro perché si hanno e si sentono, si vuol vedere da fuori lo scopo, che appunto perché cercato cosí da fuori non si trova piú, come non si trova piú nulla.

Nicola Petix arrivò presto a questo nulla, che dovrebbe essere la quintessenza d’ogni filosofia.

La vista quotidiana dei cento e piú inquilini di quel casone lercio e tetro, gente che viveva per vivere, senza saper di vivere se non per quel poco che ogni giorno pareva condannata a fare: sempre le stesse cose; cominciò presto a dargli un’uggia, un’insofferenza smaniosa; che si esasperava sempre piú di giorno in giorno.

Sopra tutto intollerabili gli erano la vista e il fracasso dei tanti ragazzini che brulicavano nel cortile e per le scale. Non poteva affacciarsi alla finestra su quel cortile, che non ne vedesse quattro o cinque in fila chinati a far lí i loro bisogni mentre addentavano qualche mela fradicia o un tozzo di pane; o sull’acciottolato sconnesso, ove stagnavano pozze di acqua putrida (seppure era acqua), tre maschietti buttati carponi a spiare donde e come faceva pipí una bambinuccia di tre anni che non se ne curava, grave, ignara e con un occhio fasciato. E gli sputi che si tiravano, i calci, gli sgraffii che si davano, le strappate di capelli, e gli strilli che ne seguivano, a cui partecipavano le mamme da tutte le finestre dei cinque piani; mentre, ecco, la signorina maestrina dalla faccetta sciupata e dai capelli cascanti attraversa il cortile con un grosso mazzo di fiori, dono del fidanzato che le sorride accanto.

Petix aveva la tentazione di correre al cassetto del comodino per tirare una rivoltellata a quella maestrina, tale e tanta furia d’indignazione gli provocavano quei fiori e quel sorriso del fidanzato, le lusinghe dell’amore in mezzo alla stomachevole oscenità di tutta quella sporca figliolanza, che tra poco quella maestrina si sarebbe anche lei adoperata ad accrescere.

Ora pensate che da dieci anni ogni giorno Nicola Petix assisteva in quel casone alle periodiche immancabili gravidanze di quella signora Porrella, la quale, arrivata fra nausee, trepidazioni e patimenti al settimo o l’ottavo mese, ogni volta rischiando di morire, abortiva. In diciannove anni di matrimonio quella carcassa di donna contava già quindici aborti.

La cosa piú spaventevole per Nicola Petix era questa: che non riusciva a vedere in quei due la ragione per cui, con un’ostinazione cosí cieca e feroce contro se stessi, volevano un figlio.

Forse perché diciott’anni addietro, al tempo della prima gravidanza, la donna aveva preparato di tutto punto il corredino del nascituro: fasce, cuffiette, camicine, bavaglini, vestine lunghe infiocchettate, pedalini di lana, che aspettavano ancora di essere usati ormai ingialliti e stecchiti nella loro insaldatura, come cadaverini.

Ormai da dieci anni tra tutte quelle donne del casamento che figliavano a piú non posso e Nicola Petix che a piú non posso odiava questa loro sporca figliolanza, s’era impegnata come una sfida: quelle a sostenere che la signora Porrella avrebbe questa volta fatto il figlio e lui a dir di no, che neanche questa volta l’avrebbe fatto. E quanto piú premurose, con infinite cure e consigli e attenzioni, quelle covavano il ventre della donna che di mese in mese ingrossava; tanto piú lui, vedendolo di mese in mese ingrossare, si sentiva crescere l’irritazione, la smania, il furore. Negli ultimi giorni d’ogni gravidanza, alla sua fantasia sovreccitata tutto quel casone si rappresentava come un ventre enorme travagliato disperatamente dalla gestazione dell’uomo che doveva nascere. Non si trattava piú per lui del parto imminente della signora Porrella, che doveva dargli una sconfitta; si trattava dell’uomo, dell’uomo che tutte quelle donne volevano che nascesse dal ventre di quella donna; dell’uomo quale può nascere dalla bruta necessità dei due sessi che si sono accoppiati.

Ebbene, l’uomo volle distruggere Petix quando fu certo che finalmente quella sedicesima gravidanza avrebbe avuto il suo compimento. L’uomo. Non uno dei tanti, ma tutti in quell’uomo; per fare in quell’uno la vendetta dei tanti che vedeva lí, piccoli bruti che vivevano per vivere, senza saper di vivere, se non per quel poco che ogni giorno parevano condannati a fare: sempre le stesse cose.

E avvenne pochi giorni dopo ch’io vidi i due coniugi Porrella per il viale Nomentano, tra il turbine di quelle foglie morte, buttare i piedi allo stesso modo, nello stesso tempo, gravi, compunti, come per un cómpito assegnato.

La meta della quotidiana passeggiata era un pietrone oltre la Barriera, dove il viale, svoltando ancora una volta dopo Sant’Agnese e restringendosi un poco, declina verso la vallata dell’Aniene. Ogni giorno, seduti su quel pietrone, si riposavano della lunga e lenta camminata per una mezz’oretta, il signor Porrella guardando il ponte fosco e certamente pensando che di là erano passati gli antichi romani; la signora Porrella seguendo con gli occhi qualche vecchia cercatrice d’insalata tra l’erba del declivio lungo il corso del fiume, che appare lí sotto per un breve tratto dopo il ponte; o guardandosi le mani e rigirandosi pian piano gli anelli attorno alle tozze dita.

Anche quel giorno vollero arrivare alla meta, non ostante che il fiume per le abbondanti piogge recenti fosse in piena e straripato minacciosamente sul declivio, quasi fin sotto a quel loro pietrone; e non ostante che, seduto su questo, come se stesse ad aspettarli, scorgessero da lontano il loro coinquilino Nicola Petix: tutto aggruppato e raccolto in sé come un grosso gufo.

Si fermarono, scorgendolo, contrariati e perplessi per un istante, se andare a sedere altrove o tornare indietro. Ma quello stesso avvertimento di contrarietà e di diffidenza li spinse appunto ad accostarsi, perché sembrò loro irragionevole ammettere che la presenza invisa di quell’uomo e anche l’intenzione che pareva in lui evidente d’esser venuto lí per essi potessero rappresentare qualcosa di cosí grave, da rinunziare a quella sosta consueta, di cui la pregnante specialmente aveva bisogno.

Petix non disse nulla; e tutto si svolse in un attimo, quasi quietamente. Come la donna s’accostò al pietrone per mettervisi a sedere egli la afferrò per un braccio e la trasse con uno strappo fino all’orlo delle acque straripate; là le diede uno spintone e la mandò ad annegare nel fiume.

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